La
dimensione culturale della fede
Qualche volta, quando si parla di fede, si
considera come un’inutile complicazione il molto pensiero che essa ha espresso
nei due millenni della sua storia. Si pensa che essa possa trasmettersi di
cuore in cuore, più che di mente in mente. Eppure gli esseri umani sono fatti
di cuore e di mente. Se la si vuole tramandare convincendo, non costringendo, è
necessario dialogare e per dialogare è necessario fare i conti con il pensiero.
E’ ciò che si dice rendere ragione della propria fede. Non è un lavoro solo per
gli specialisti, per i teologi. E’ una fatica che dobbiamo affrontare tutti, se
vogliamo distaccarci da tanti esempi negativi di vivere e diffondere la fede
che ci sono stati nel passato, e fin dalle origini. Ma è, appunto, una fatica,
un lavoro che richiede uno sforzo. Il mondo non cambierà senza di esso: ora et labora, il motto di Benedetto da
Norcia, lavora e fatica, esprime bene
ciò che la persona di fede è chiamata a fare. Noi non vi insistiamo abbastanza
nella formazione religiosa, fin da quella dei più piccoli, dei bambini. E
allora la fede rimane bambinesca, sempre con il bisogno e il terrore di figure
genitoriali, centrata sull’idea di non dispiacere ai grandi. Ed è proprio questo che, a volte, sbagliando molto,
promettiamo alle famiglie: di raddrizzare
i loro figli, che stanno sfuggendo
al controllo dei genitori. Quando parliamo ai bambini di oggi, che ci vengono
affidati per la formazione religiosa di primo livello, noi dobbiamo renderci
conto che il nostro compito, la nostra fatica, deve andare molto oltre quello
scopo di assistenza paragenitoriale, di riformatorio
religioso. Parliamo a quei bambini, ma dobbiamo capire che ci stiamo rivolgendo
agli adulti che saranno, al mondo che verrà dopo di noi. Sono anni decisivi,
quelli della prima formazione di fede, per determinare se quei bambini rimarranno
bambini per tutta la vita in religione o se cresceranno in umanità e sapienza,
come è scritto che avvenne al nostro primo Maestro nella sua vita infantile, e
sapranno rendere il mondo più umano e quindi
un posto accogliente anche per la vita di fede. Si parla in merito
di catechesi umanizzante.
Scrive
Ignazio Sanna, nell’ultimo numero di L’Arborense,
il settimanale della diocesi di Oristano, nell’articolo La fede rende il mondo più umano:
“Il compito principale dei catechisti,
ma anche dei cristiani in genere, in questa stagione culturale, è «evangelizzare l’umano». C’è un umano debole, promosso da ideologie,
progetti politici, modelli culturali, e c’è un umano forte, promosso dall’annuncio
d’una salvezza integrale. L’umano debole è precario, manipolabile dal pensiero
filosofico e da quello scientifico”.
I nativi nord-americani si lasciarono
spingere malvolentieri nelle riserve in cui gli immigrati europei
progressivamente li vollero confinare, nelle periferie della loro civiltà
sempre più industrializzata: a volte
pare invece che noi amiamo rinchiuderci in ambienti del genere,
rifiutando di confrontarci con l’era contemporanea, rifugiandoci in un mondo di
sogno, protetti ma sempre più marginali. Sembra allora che si possa essere
veramente persone di fede solo in quel tipo di riserve, di ambienti corazzati, dove però, più che protetti dagli influssi della società intorno a noi,
siamo prigionieri.
Eppure la nostra fede ha sempre accettato la
sfida delle culture sue contemporanee, esprimendo un pensiero di altissimo
livello. Niente di più falso, quindi, del ritenere che la fede viva meglio nell’ignoranza: questa, a volte, è la lezione che si vuole superficialmente ricavare dalla vita e dal
pensiero di Francesco d’Assisi. In realtà i frati suoi seguaci furono presto
all’avanguardia della vita di pensiero e lo sono tuttora.
Di seguito vi trascrivo nuovamente alcuni miei
antichi appunti sullo sviluppo delle principali correnti contemporanee di
pensiero della nostra fede. Possano servire a convincervi di quanto ho scritto
sopra.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Miei appunti sul ciclo
di lezioni su “Vangelo e Cultura” tenuto per la FUCI da don Giovanni Ferretti a
Camaldoli dal 26-7-1981 al 1-8-1981 (pres. Giorgio Tonini - Ilaria Vietina)
1.Divisione - mediazione
1.1.La divisione tra Chiesa e società
Il relatore ha dichiarato di
non voler trattare il tema astrattamente e atemporalmente, ma storicamente
e considerando i due termini -vangelo e cultura- sia nella loro autonoma
consistenza che nel loro reciproco rimando.
In Mancini-Ruggeri, Fede e cultura,
pag. 61 si afferma che non vi è un contrasto tra fede e ragione, ma deve
rilevarsi una divisione storicamente consumata tra Chiesa e società,
soprattutto tra la Chiesa dell’Occidente e la società strutturata sui rapporti
di produzione industriale. Da questa divisione sorge un disagio. Ci si
domanda: “la fede ha un significato per la vita o è una realtà marginale
(come un hobby, irrilevante per la vita sociale)?”.
1.2 Capire il senso della
divisione tra Chiesa e società e interrogarsi sulla sua radice. Un rimedio: la
mediazione
Bisogna capire in profondità il senso della
divisione e interrogarsi sulla sua radice. Come sostengono Mancini e
Ruggeri nell’opera citata la divisione non è necessaria di principio, come
non è necessaria l’identificazione. Il Cristo rifiutato non desidera la
separazione, la divisione non è legge della Chiesa.
L’età costantiniana accolse Cristo, ma la croce
divenne strumento di vittoria contro il nemico e quindi di divisione con gli altri (si considerino la lotta tra
latini e greci, le crociate contro l’Islam, le lotte tra cattolici e
protestanti).
Vi è stata un’incapacità della fede
cristiana di proporsi come punto di riferimento culturale. D’altra parte
ha perso il carattere di religione naturale, praticabile a prescindere dalla
ragione.
Vi è stata difficoltà ad accettare lo
spirito scientifico (che stava per diventare il cemento della nuova
società): Galileo, Eldorado di
Voltaire, Utopia di Moro sono
situati fuori del mondo cristiano.
Solo la ragione autonoma / legge a sé
stessa è stata ritenuta in grado di sostituire la religione nella funzione
di fondare la vita civile.
D’altra parte, se Cristo è Signore universale,
in cui tutto deve essere ricapitolato per la salvezza, bisogna liberare la
fede dal compito di dividere una unità culturale dalle altre e l’autonomia
della ragione non può essere ritenuto criterio ultimo della fede.
Il problema è il seguente: “Come prendere
atto di questa divisione (come osservato da Maritain: la storia non torna
indietro) senza rinunziare alla pretesa universale della fede?” Bisogna
collocarsi creativamente nella situazione venutasi a creare. Bisogna evitare
sia la cattura ideologica, sia l’estraneità insignificante, mantenere
l’autonomia della cultura senza elevare la cultura ad idolo autosufficiente.
E’ possibile pensare a una mediazione
tra i due termini “fede e cultura”?
Il termine “mediazione” può essere ambiguo e
va chiarito. Infatti possono concepirsi operazioni di mediazione in cui o la
fede colonizza la cultura o è la fede che si fa colonizzare.
1.2.1.Vicoli ciechi della
mediazione-la sintesi dialettica degli opposti
Nel pensiero dialettico
due realtà opposte vengono superate in una dimensione superiore che le contiene
entrambe. Operando in questo senso, la fede verrebbe a costituire un elemento
necessario della cultura, cioè un elemento della cultura: si otterrebbe una
riduzione della fede a cultura, a scapito dell’alterità irriducibile della
fede.
1.2.2.Vicoli ciechi della
mediazione-sincretismo
Nel sincretismo gli
elementi eterogenei si mediano in un quid tertium. Secondo questo
metodo, occorrerebbe provocare l’incontro tra due culture, e quindi
bisognerebbe prima ridurre l’eterogeneità ad omogeneità, nel caso di specie
intendendo “fede” come “cultura della fede” per poter poi mediare le due
culture sincreticamente; anche in questo caso si avrebbe una riduzione della
fede a cultura.
1.2.3.Vicoli ciechi della
mediazione-compromesso
Il compromesso deve essere
considerato una forma degenerata di sincretismo. Si cerca una mediazione
individuando un terreno comune. Tuttavia la fede è per sua natura radicale e
mal si presta al compromesso.
1.2.4.Vicoli ciechi della
mediazione-adeguamento rinunciatario
Vi può essere un adeguamento
rinunciatario dell’uno o dell’altro termine. O si produce una culturalizzazione
del cristianesimo o una teocrazia,
ottenendo poi in realtà o la fine della fede o la fine della cultura o di tutte
e due.
1.2.5.Vicoli ciechi della
mediazione-l’uso strumentale vicendevole.
Vi è una cultura della crisi,
apologeticamente usata per far prevalere la fede e una cultura sacrale che
viene usata con funzione legittimante-
2.Mediazione - confronto -
dialogo - incarnazione
Occorre cercare una mediazione tra fede e
cultura che operi creativamente un confronto tra i due termini salvaguardando
la reciproca autonomia, in modo che nessun territorio sia preda
dell’altro. Ma è sufficiente?
Secondo Ruggeri il cristiano offre come
dono la compagnia della fede. Ma è possibile un’autonomia che non si
sporchi le mani, una fede che si sottragga del tutto al lavoro culturale?
E’ necessario rendersi conto che la mediazione
è possibile, ma che sorgono diversi problemi. Bisogna chiarire fin dove debba
spingersi il metodo del dialogo e fin dove il concetto di mediazione sia
implicato in quello di incarnazione.
3.Chiarire i termini da
mediare-compiti della teologia contemporanea
3.1.Vangelo
Indicando come uno degli
elementi da mediare come il Vangelo
e non come fede si vuole significare la volontà di ritorno
all’essenziale, originario, autentico da annunciare e da vivere nella nuova
situazione (per non contrabbandare merce falsa o sottoprodotti).
Bisogna chiedersi se la società moderna ha
rifiutato il Vangelo o una Chiesa che annunciava per Vangelo ciò
che Vangelo non era o era una incarnazione del Vangelo legata a una
cultura ormai tramontata. Il distacco è frutto di cattiva volontà degli
uomini (sia intesi sia come annunciatori che come ascoltatori) o frutto di una crisi
della cultura in cui il Vangelo si era inculturato?
Se si vuole fare vivere il Vangelo nell’oggi
della cultura, occorre, prima di operare la mediazione culturale, riscoprire
l’essenziale del Vangelo. E’ però impossibile una ricerca ingenua,
come se si potesse scoprire un Vangelo non ancora mediato, inculturato.
3.2.Cultura
Bisogna considerare la cultura
dei nostri giorni nella sua consapevolezza critica, intesa come presa di
coscienza di ciò che si è. La cultura dei nostri giorni non è solo un insieme
di idee teoriche astratte,ma un insieme di modi storici di vivere, esprimersi pensare,
in senso sociologico globale.
La cultura dei nostri giorni
presenta le seguenti caratteristiche:
a)autonomia,
intessa come autonomia dalla fede;
b)criticità, sia
rispetto all’autorità che alle altrui opinioni, anzi con la pubblica
opinione;
c)immanenza: si
presenta come un progetto mondano di liberazione o promozione umano e
non riconosce come cultura ciò che evade da questo progetto;
d)totalità:
costituisce insieme un progetto radicale e totalizzante che, pur rivolto
alla storia, contempla la totalità dell’uomo, del futuro dell’uomo, e nello
stesso tempo critico di una criticità rigorosa e capace di una effettiva
prassi di lotta.
I rischi di una siffatta cultura sono
che:
a)l’autonomia secolare si
evolva in secolarismo;
b)l’immanenza si evolva nella
creazione di un idolo alternativo.
Vi sono due questioni aperte, in merito al
tema:
a)anche le culture cosiddette
“deboli” corrispondono a questo modello?
b)qual è oggi il vero “patner”
del discorso della fede con la cultura? L’intellettuale o l’uomo povero.
3.3.Compiti della teologia
contemporanea
Ad un primo livello di comprensione la
teologia può essere intesa come scienza di Dio non raggiunta solo con le
nostre forze intellettuali, che ha fonte nella Rivelazione e che
concerne verità che possiamo cogliere solo nella fede. La teologia è
indispensabile per la fede in ogni sua
fase, infatti non è possibile riflettere senza var coscienza di ciò che si fa:
la consapevolezza è un inizio di teologia.
Ad un secondo livello di comprensione la
teologia viene intesa come scienza vera e propria della fede, con un suo
metodo e con la possibilità di varie costruzioni concettuali che variano
ampiamente.
La teologia contemporanea sta mutando da
teologia del Magistero a teologia della Rivelazione.
Per la teologia del Magistero o teologia
dogmatica la fede è un insieme di dogmi, vale a dire di verità rivelate da
Dio e a noi insegnate dal magistero dei papi e dei vescovi. Lo scopo di questa
teologia e di fondare le verità insegnate dal magistero (produce manuali di
teologia formulati a temi del Magistero e prove delle tesi e conseguenze
per la vita).
A questa metodologia si può obiettare che gli
interventi del Magistero sono limitati ad alcuni argomenti ben circoscritti e
spesso sono determinati da intenti polemici verso alcuni errori. La Rivelazione
ha un contenuto molto più ampi degli interventi definitori del Magistero,
contenuto che deve essere accessibile dalle fonti e che deve essere
mediato perché parli ancora all’uomo, facendo un un’opera archeologica, ma
di attualizzazione per proporlo al nostro tempo. Questo significa anche
scoprire le mediazioni che hanno originato le stesse fonti e capire che la storia e necessaria per
interpretare le fonti.
Il merito della teologia contemporanea è stato
di rendere la teologia più vicina alla concreta vita di fede che inizia e
spesso si mantiene come fede ingenua, cioè tradizionalmente ricevuta.
Dalla teologia contemporanea partono provocazioni culturali che:
a)rendono consapevoli che non
è possibile mantenere quella fede tradizionale ricevuta se non a prezzo di una
divisione tra fede e vita;
b)invitano a verificare la
fede sulle fonti (per chiedersi “a che cosa è legata la mia fede?”, a
tutte le concezioni mitiche di supporto,
ad una certa ascesi o ad altro?).
Il problema della teologia contemporanea è di riscoprire
il Vangelo” e, poiché il Vangelo puro
non esiste più, di fornirne una attualizzazione vitale, inventando un modo per
esprimere oggi quel Vangelo. La teologia si fa quindi luogo di mediazione
tra fede e storia perché la fede possa sopravvivere. La teologia contemporanea
ha fatto di ciò il suo metodo e il suo statuto.
4.Teologia liberale e teologia
dialettica.
4.1.Rispondere alle esigenze
dei tempi
La teologia liberale e la teologia dialettica
sono accomunate dall’intento di rispondere alle esigenze dei tempi (inteso come
adeguamento alla filosofia delle scienze) e costituiscono tendenze di pensiero
sempre riaffioranti.
In campo cattolico il “modernismo” può essere
considerato una espressione della
teologia liberale.
La filosofia dialettica (Karl Barth) si
presenta come una reazione alla teologia liberale.
Le sfide con le quali queste concezioni
teologiche intendevano confrontarsi erano quelle poste dalla sintesi
idealista, dall’evoluzionismo positivistico, dalle scienze
storico critiche, dal liberalismo politico economico.
4.1.1.La sintesi idealista
La sintesi idealista aveva
posto in questione il rapporto tra trascendenza e immanenza, criticando il concetto di
trascendenza di Dio e proponendo una concezione forte della immanenza di Dio
nell’uomo; quindi non una pura e semplice negazione della trascendenza, ma la
sottolineatura di una realtà presente nella tradizione.
4.1.2.L’evoluzionismo
positivistico (Comte)
Nella concezione dell’evoluzionismo
positivistico la religione si presentava come un momento superabile e
superato della concezione del mondo.
4.1.3Le scienze
storico-critiche
Si volevano applicate anche ai
Vangeli (oltre che a fonti laiche, come ad es. i testi omerici) le concezioni
delle scienze storico critiche, evidenziando all’interno della Scrittura una evoluzione
analoga a quella che si riscontrava nel magistero e proponendo il cristianesimo
come fenomeno storico.
4.1.4Il liberalismo
politico economico
Il liberalismo politico
economico fondava la sua concezione di democrazia sulla base della negazione
dell’autorità, anche di quella rivelata.
4.2.Soluzioni della
teologia liberale
Sulla scia di Hegel e del neokantismo nella
teologia liberale la religione cristiana costituisce il completamento e
l’unificazione delle dimensioni culturali dell’uomo.
In Hegel la religione cristiana viene
considerata religione assoluta perché è la religione dello spirito, che
si trova nell’uomo. Tuttavia secondo Hegel anche la filosofia ha lo stesso
oggetto, sia pure procedendo per concetti e non per rappresentazioni, e quindi
la religione avrebbe lo stesso contenuto della filosofia. In Italia il filosofo
Gentile concepì, in quest’ottica, l’insegnamento della religione cattolica
nelle scuole elementari come mezzo per portare la filosofia ai discenti sotto
rappresentazioni mitiche.
Secondo il teologo Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher ( 1768-1834)
, la religione non sarebbe un insieme di verità concettuali, né un insieme di
norme etiche, ma un atto di intuizione del sentimento dell’unità di infinito
e finito (uno dei motivi del romanticismo).
Nella teologia liberale si utilizzano le
scienze storico critiche per distinguere un nucleo originario della
predicazione di Gesù dai successivi sviluppi dottrinali ed ecclesiali: questa essenza
costituirebbe il coronamento della cultura. Il sacro viene concepito
come culmine convergente delle categorie del vero, del bello
e del buono. Gesù viene ritenuto un maestro di una forma più genuina
della religiosità dell’uomo.
Espressione di questa tendenza è l’opera del
teologo Adolf von Harnack (1851-1930) L’essenza del cristianesimo, un
ciclo di lezioni universitarie tenute nel 1900 ad allievi di tutte le facoltà.
L’autore in quest’opera procede solo in modo storico critico e
non in modo dogmatico né apologetico. Va
quindi alla ricerca di un nucleo originario duraturo che permane
nelle varie forme transitorie che il cristianesimo ha assunto, di una essenza
da scoprire all’interno del Vangelo stesso, una sorta di evangelo
dell’evangelo. Anche il Vangelo si presenta come legato al tempo, ma
conterrebbe forme sempre valide sotto le quelle caduche, storiche,
mutevoli. Questo nucleo originario duraturo viene individuato nella predicazione
di Dio come Padre (“Dio è padre”). Poiché contiene questo nucleo originario
duraturo il cristianesimo non sarebbe una religione positiva come le altre,
sarebbe la religione per essenza. Il Regno di Dio è visto come realtà interiore
(religione dell’anima e del suo Dio).
Per quanto riguarda i problemi della cristologia, non è necessario credere
nella umanità-divinità di Cristo, ma basta guardare solo a ciò che Cristo ha
detto. Il centro non è Cristo, il figlio, ma soltanto il Padre. Cristo è
la via che porta al Padre, è un maestro di religiosità, è la forza
personificata dell’intimità con Dio, per questo le sue parole rimangono. Quanto alla questione delle due nature di
Cristo in una sola persona, essa sarebbe frutto dell’intellettualismo greco.
L’evangelo non è una dottrina teoretica, ma è dottrina in quanto insegna Dio
come Padre. In questa concezione l’etica è scissa dal culto esteriore, è
incentrata sull’amore e non è possibile trarne programmi di azione sociale.
4.2.1.Valutazioni sulla
teologia liberale
C’è molto di positivo e attuale nella teologia liberale, in
particolare l’impegno profondo nel dialogo con la cultura e il ritorno
al’esenziale (per evitare sacrifici inutili all’intelletto). Vi è anche un
apprezzamento del mondo contro l’ascetismo (contro il quale si era scagliato
Nietsche). Però l’esito di questa teologia è stato la perdita di elementi
essenziali quali la cristologia, la croce. Costituì un adeguamento
alla cultura del tempo, una sorta di religione borghese che proponeva una pace
di resa col mondo. La religione veniva appoggiata solo in quanto appoggiava
lo statu quo. Vi era un ottimismo circa le sorti della civiltà
ottocentesca, che invece risultò travolta dalla catastrofe della prima guerra
mondiale. E’ stato osservato che l’errore di questa concezione teologica è
stato quello di concedere al mondo il diritto di assegnare a Cristo un
posto nel mondo.
Va ricordato che nel 1914 von Harnack firmò un appello di intellettuali
tedeschi per l’entrata in guerra della Germania.
4.3.1.Karl Bart e la teologia
dialettica
Karl Barth fu un discepolo dei teologi
liberali. Entrò in crisi dopo la sua esperienza pastorale (1909-1921) a
contatto con i ceti operai ed a seguito dei problemi posti dalla “questione di
classe”. Propone ancora un approccio culturale: concepisce il centro del
messaggio cristiano nella predicazione della venuta del Regno di Dio, il
che porta a non rifugiarsi nella vita interiore. Il Regno viene inteso
come Signoria di Dio: vi è in merito una lunga riflessione del suo Commento
all’epistola ai Romani di San Paolo. Barth è all’origine di una vera e
propria rivoluzione teologica. Si pone il problema di come parlare all’uomo
di Dio lasciando parlare Dio e Dio soltanto: un vero capovolgimento
rispetto alla prospettiva della teologia liberale. Barth sente l’esigenza di lasciare
Dio nella sua alterità radicale e non compie nessun tentativo per mediare
filosofia e fede. Nella teologia di Barth è centrale l’escatologia come
annuncio del Regno, non nel senso di auspicare una trasformazione politica,
ma di annunciare la soppressione di questo mondo e l’instaurazione di un Regno
che non è di questo mondo. Si proclama una differenza qualitativa tra
Dio (inteso come Deus absconditus) e il mondo. In questa concezione la
potenza di Dio è la crisi di tutte le forze,è il totalmente altro,
inteso come contraddizione, il nuovo, l’inaudito, l’inatteso,
l’evangelo assolutamente incondizionato. Di conseguenza si critica e si
nega anche la religione, intesa come insieme di concetti, opere e riti che
consentono di possedere Dio: in tal modo si produce un insopportabile idolo in
cui l’uomo proietta sé stesso (cfr Feuerbach); il Dio della religione è un
idolo.
La teologia di Karl Barth è dialettica in
quanto il “No” di Dio al mondo non significa condanna senza salvezza; dal
radicale rifiuto scaturisce il “Si” di Dio, la sua accettazione dell’uomo. E’
infatti proprio del procedimento dialettico portare uno degli elementi
all’estremo per vederlo convertitonel suo opposto.
Nella teologia protestante c’era una doppia
predestinazione (per la condanna e per la salvezza). In Barth la doppia
predestinazione è contemporanea, poiché è nel mentre Dio condanna tutto l’umano
che lo accetta. La fede non può essere che salto nel vuoto, non può
avere alcun presupposto umano che deve essere adempiuto come preliminare alla
fede, non vi nessuna gradazione, la fede è l’inizio. La fede è per tutti lo
stesso salto nel vuoto, è per tutti possibile perché è per tutti impossibile.
Per quanto riguarda il rapporto fede-cultura,
nella concezione di Karl Barth la fede è il punto critico, non il
coronamento, della cultura. La fede non fonda la cultura, ma la cultura,
con la sua avversaria, l’incultura, viene messa in crisi nel modo più radicale.
L’accusa più grave contro questa concezione teologica è quella di irrazionalismo
(per altro non rifiutata da Barth) e di afasia, nel senso di
mantenere il silenzio su Dio. In proposito va osservato che secondo
Barth il compito della teologia è la Parola di Dio; egli fa le seguenti
affermazioni:
a)come teologi si deve parlare di Dio,
non tuttavia come di colui che è la risposta ultima ai problemi umani, ma come
colui che mette in crisi tutte le possibilità umane;
b)come uomini non possiamo
parlare di Dio; per nessuna via è infatti possibile dire l’incarnazione, la
Parola di Dio;
c)la teologia dogmatica
ortodossa presenta delle verità (intese come concetti), non Dio nel suo farsi
uomo;
d)la via mistica (percorsa da
Barth all’inizio) dice solo la negatività dell’uomo;
e)utilizzando la leva
dialettica si può raggiungere un equilibrio tra il “Si” della teologia
dogmatica e il “No” della teologia mistica, senza la pretesa di esporre la
verità di Dio, ma con la pretese di essere testimonianza di Dio.
f)dobbiamo essere coscienti di
entrambe le condizioni (teologi/uomini) e proprio per questo rendere onore a
Dio.
Anche nell’ultima
fase del pensiero di Barth non viene mutata la concezione che la Parola di
Dio non è quella del teologo ma quella a cui il teologo rende
testimonianza. La Parola di Dio è un avvenimento che non può essere
catturato.
4.3.2.Osservazioni sulla teologia dialettica
di Karl Barth
Nella teologia dialettica di Karl Barth vi è
la vigorosa affermazione della novità
positiva del cristianesimo, l’affermazione dell’autonomia di Dio e della
sua Parola. Vi è tuttavia il pericolo di cacciare il cristianesimo nel
vicolo cieco dell’antiumanesimo e nell’irrazionalismo, cioè nel fideismo. Vi è
infatti la possibilità di un fraintendimento: secondo il filosofo Bloch, il Dio
di Barth è la personificazione del filone teocratico della Bibbia; l’uomo,
nella concezione di Barth, sarebbe schiacciato dalla potenza di Dio e ciò che
doveva essere annuncio salvifico viene colto da Bloch come la schiavizzazione
dell’uomo perché il “No” di Dio all’uomo se detto da uomini non genera il “Si”
di Dio all’uomo.
La teologia dialettica ha la possibilità di un
proseguimento fecondo. Vi è l’affermazione dell’assoluta centralità dell’azione
divina, togliendo fondamento alla pretesa dell’uomo di divinizzare la storia,
di sacralizzare la storia; questa teologia conduce alla comprensione della
mondanità della storia. L’affermazione dell’alterità di fede e cultura può
evitare una sacralizzazione del mondo che produca ostacoli alla comprensione
del mondo. Rimane la questione se l’estraneità di Dio dal mondo, della fede
dalla cultura, sia proprio l’ultima parola di Dio nel Vangelo.
5.Le teologie di Paul Tillich
(1886-1965) e di Rudolf Bultmann (1884-1976)
Le teologie di Paul Tillich e
di Rudolf Bultmann si confrontano con la filosofia della crisi, riprendono
tematiche, ma non le soluzioni, della teologia liberale.
5.1.1.La teologia di Paul
Tillich
Per Tillich l’esperienza della guerra è una
svolta epocale-culturale. Determina il tramonto dell’idealismo ottimistico e
della teologia liberale. Dopo l’esperienza della guerra si apre un’epoca di
crisi. L’uomo del 20° secolo non ha solo dietro di sé una storia di
catastrofi, ma ha anche di fronte un destino di catastrofi: ha vissuto
la colpevolezza in dimensioni mai raggiunte, dubita del proprio giudizio,
sperimenta un abisso di assurdità.
L’affermazione di Nietsche “Dio è morto!” può assumere il significato
di una liberazione dall’idealismo. Si è
in condizione di dire Dio in modo
nuovo. Occorre far emergere la potenza della fede nascosta in ciascuno di
noi, contro l’abuso del nome di Dio. Tillich sostiene che occorre scoprire il
senso sconvolgente di questo nome: Dio. Addirittura nelle sue opere non uso il
termine stesso di “Dio”. Occorre dare una nuova espressione della dignità del
messaggio cristiano, adatta ai nuovi tempi. Per far questo occorre esercitare
il ministero della mediazione, inteso come opera di conciliazione e di pacificazione tra la fede e le esperienze
mutevoli dei singoli e dei gruppi, e superare anche il conflitto tra teologia
dialettica e teologia liberale. Occorre cercare ciò che divide e ciò che
unisce, sulle frontiere tra passato e presente (tra i tempi), tra Vecchio e
Nuovo Mondo, tra cultura e cristianesimo. Dopo la soluzione della teologia
dialettica basata sulla separazione e quella della teologia liberale basata sulla sintesi,
bisogna usare il metodo della correlazione per stabilire una sintesi
basata sulla relazione costante tra cristianesimo e cultura, tra domande
esistenziali e risposte teologiche.
Dio risponde agli interrogativi degli uomini
(dell’esistenza umana). Bisogna partire dalla situazione umana da cui procedono
gli interrogativi esistenziali e ricercare quali risposte la rivelazione può
dare a questi interrogativi. La correlazione va intesa come interdipendenza
di due fattori indipendenti. Domande e risposte sono indipendenti (vale a
dire che non è possibile trarre le risposte dalle domande e non è possibile
inserire la domanda nella risposta, perché la domanda ha una sua autonomia,
indipendenza e originalità).
Però ha torto Barth quando non vuole indagare
sulla natura delle domande umane, rifiutando la teologia naturale e l’esame
della situazione umana: si tratta di un autoinganno. Vi è infatti una reciproca
dipendenza tra la domanda e la risposta, all’interno dell’impegno
religioso. Infatti il senso della risposta è legato a ciò che ci riguarda
in modo definitivo, che riguarda la questione dell’essere/non essere della
salvezza/non salvezza. Analogamente, l’orizzonte religioso comprende anche la
domanda. Il teologo non può dare una risposta convincente, se non partecipa con
tutto il suo essere alla precarietà della domanda (non è solo un esperto
della risposta di Dio). La sostanza della risposta è indipendente dal quella
della domanda, ma non lo è dalla forma della domanda.
La sostanza della risposta teologica è il
Cristo. Ma è differente se si risponde al legalismo giudaico (allora il
Cristo viene presentato come liberazione dalla legge), alla disperazione
esistenziale dello scetticismo greco (allora il Cristo viene presentato come lògos,
verità già nascosta e portata alla luce), o al nichilismo del 20° secolo
ecc.
L’elaborazione della domanda esistenziale
spetta al filosofo. Tillich in merito utilizza la filosofia dell’esistenzialismo.
Ma l’esistenza di risposte divine porta il teologo a discernere tra le
domande esistenziali.
Nell’opera Teologia sistematica Tillich
propone 5 domande esistenziali e 5 risposte teologiche. Alla domanda
concernente la ragione la teologia risponde con la rivelazione, a
quella su essere/non essere risponde con Dio, a quella sull’esistenza
risponde con Cristo, a quella
sull’esistenza risponde con lo Spirito, a quella sulla storia
risponde con il Regno di Dio.
Ad esempio la teologia pone in correlazione il
tema essere/non essere e quello di Dio in quanto afferma che Dio
è il fondamento dell’essere che resiste alla minaccia del nulla (è il
fondamento del coraggio di esistere).
Analogamente, pone in correlazione la storia
(con il senso del cammino, della precarietà del futuro) con il Regno di
Dio, affermando che il Regno di Dio
è il senso, il compimento, la realtà della storia.
Tillich pensa di superare sia il
soprannaturalismo (che intende Dio gerarchicamente sopra il mondo - principio Zeusico) e il naturalismo
(che identifica Dio con il mondo), proponendo una visione di Dio vicino al
mondo ma altro dal mondo. Dio non si deve cercare fuori del mondo, ma
neppure è il mondo. Pensa di
superare l’autonomia (intesa come dimenticanza del senso ultimo della
vita e della cultura) e l’eteronomia (Dio si impone al mondo) e
propone una teonomia, intesa come visione di Dio il quale domina
l’essere dall’interno, come fondamento e senso ultimo.
5.1.2.Considerazioni sulla
teologia di Paul Tillich.
Nella teologia di Paul Tillich vi è il
rischio di non salvare a sufficienza né l’autonomia di Dio né quella del mondo.
In primo luogo può obiettarsi che la Rivelazione viene trovata ovunque
nel mondo (Barth) e che non rispettando l’autonomia del mondo si causa il
fallimento del tentativo di reinterpretare le domande esistenziali e il mondo
non accetta queste reinterpretazioni (Bonhoeffer). Bonhoeffer critica Tillich,
affermando che Tillich vuole dare come un tutore al mondo - il tutore/Dio
-, ma davanti alla possibilità che le
ultime questioni possano essere risolte senza Dio si trova nella
necessità di demolire l’apparente sicurezza del mondo, per cui fa vivere la
religione sui fallimenti umani nei vari campi.
Tuttavia il fascino della teologia di Tillich
è di essere un tentativo di teologia della mediazione, con la
preoccupazione amorosa e pastorale di trovare Dio nelle realtà del mondo e
della vita come ultima e vera realtà. Pedagogicamente è una via utile perché
afferma che bisogna calibrare le risposte. E’ una teologia legata
all’esistenzialismo, che corre anche il pericolo di cadere nell’intimismo.
5.2.1. La teologia di Rudolf
Bultmann
In Rudolf Bultmann il rapporto tra Vangelo e
cultura è definito utilizzando il concetto di ermeneutica, intesa come
teoria dell’interpretazione o studio dei presupposti generali del fatto
interpretativo. In questa concezione la cultura è uno dei presupposti
dell’interpretazione, operazione che permette di cogliere ciò che il
Vangelo può dirci oggi.
Bultmann, nell’occuparsi del rapporto tra
Vangelo e cultura, propone due vie: quella della demitizzazione,
intesa come ricerca del nucleo essenziale, e della interpretazione
esistenziale.
5.2.1.1.La demitizzazione
Bultmann propone il metodo di interpretazione
della storia delle forme. Il testo del Vangelo viene concepito come risultato
di una elaborazione e di una connessione organica di varie forme più
originali che riportavano detti e fati interpretativi ambientati e adattati
nelle primitive comunità cristiane. Occorre pertanto ripercorrere le storie di
queste forme e compiere analisi filologiche per mettere in luce quale era
l’autentico detto o fatto, in modo da chiarire il contesto e vedere l’intento
interpretativo della comunità o dell’evangelista. L’interpretazione deve essere
guidata anche da una intenzione teologica oltre che archeologica. Si
deve arrivare a vedere quello che questi testi hanno dire a noi oggi,
bisogna scoprire l’appello odierno del Nuovo Testamento, vale a dire che
cosa è o non è la fede cristiana.
Il primitivo messaggio cristiano ha subito già
all’inizio, per funzioni descrittive, un rivestimento mitico. Ad
esempio nella rappresentazione di una
suddivisione del mondo in tre strati: cielo, terra e inferno. O nella proposta
di una visione della storia dell’uomo
sottoposta all’ingresso di potenze soprannaturali come angeli e demòni e votata
ad una fine prossima. Il mito è ogni rappresentazione nella quale ciò
che è divino viene presentato come mondano e umano. Nel mito
gli interventi di Dio vengono presentati come qualcosa di constatabile.
Allora, per rendere trasparente il significato più vero del Vangelo è
necessaria una demitizzazione, intesa come ricerca del senso
esistenziale. Poiché la nostra cultura non é più una cultura mitica,
occorre liberarsi del mito inteso come rivestimento culturale.
Nella prospettiva del mito, il mondo è aperto
al mondo dell’aldilà e non solo il mondo naturale ma anche la vita personale
sono sottoposti a potenze non mondane. Nella prospettiva delle scienze il mondo
è chiuso all’intervento di potenze non mondane, ma aperto al pensiero
scientifico; in questa concezione l’uomo si interpreta come unità e imputa a sé
stesso le sue azioni. Il pensiero scientifico distrugge l’immagine del mondo
come risulta dalla Bibbia.
5.2.1.2.L’interpretazione
esistenziale
L’interpretazione esistenziale
suppone una precomprensione dell’esistenza. Per cogliere il senso dell’annuncio
della Scrittura, occorre che si sia aperti al senso dell’esistenza, che si sia
aperti alle cose di cui si tratta in quei testi.
Bultmann utilizza l’esistenzialismo del primo Heidegger per descrivere l’esperienza che serve da
precomprensione. In questa prospettiva si distingue una esistenza autentica
da una esistenza inautentica.
L’esistenza autentica è aperta all’inoggettivabile, vive
dell’invisibile; l’uomo è storicità (intesa come libertà, decisione,
poter essere, ciò che non è tutto fatto); si può cogliere l’altro
come io e si può fondare un rapporto interpersonale fondato sul’appello di
novità che l’altro è. L’esistenza inautentica è quella in cui l’uomo si affida
a ciò che è tangibile e visibile, di cui può disporre; l’uomo è ragione,
nel senso che egli oggettivizza tutto ciò che conosce - tutto ciò che
viene conosciuto diviene oggetto su cui si esercita il dominio, anche
l’altro uomo. La filosofia tuttavia, secondo Bultmann, non può passre
dall’esistenza inautentica all’esistenza autentica: solo l’evento salvezza
verificatosi in Cristo consente questo passaggio.
Secondo Bultmann l’appello liberante di
Cristo non ci perviene per via storica (attraverso l’oggettività degli
scritti evangelici): il Gesù della storia non salva (infatti non si può essere
tutti esegeti e oltre tutto è irraggiungibile. Tale appello liberante ci
perviene per il tramite di una conoscenza storico-esistenziale, come
appello della predicazione attuale del chérigma alla vita presente,
annuncio escatologico che però già nel Nuovo Testamento ha i tratti del mito.
Ad esempio la resurrezione del Cristo non è un evento di questo mondo: trova
nel Vangelo di Giovanni i tratti di un annuncio storico-esistenziale (non
avviene adesso, non è un cambiamento fisico del mondo, è un atteggiamento
esistenziale: l’evento escatologico).
5.2.2.Osservazioni sulla
teologia di Rudolf Bultmann
Rudolf Bultmann introduce in teologia il
problema ermeneutico, la necessità di una mediazione culturale per interpretare
il vero senso dell’annuncio biblico. E’ tuttavia discutibile il tema della
precomprensione, soprattutto per essere così legato alla filosofia
esistenzialista. Sono discutibili anche la negazione della possibilità di
raggiungere la persona storica di Cristo e la concezione del mito. E’ positivo
porre il problema della retta interpretazione e stabilire un nesso tra
Vangelo e cultura. Bultmann, come già
Tillich, afferma la necessità di pensare il Vangelo con tutta la nostra
cultura, non mischiando Vangelo e cultura né ponendo diaframmi tra noi e il
Vengelo; egli intende la cultura come via per penetrare il Vangelo nella sua
autenticità.
6.Jacques Maritain
(1882-1973). L’umanesimo integrale
6.1. Presentazione di Umanesimo
integrale
Il relatore ha dichiarato di considerare,
dell’opera di Jacques Maritain, solo Umanesimo integrale-problemi temporali
e spirituali di una nuova cristianità del 1936 che contiene, come scrive lo
stesso autore, “il testo di sei lezioni tenute nell’agosto del 1934 ai corsi
estivi dell’Università di Santander”.
Maritain ritiene che dopo la crisi modernista
sia necessaria una nuova sintesi tra cristianesimo e umanesimo moderno,
che comprenda anche temi politici come libertà, giustizia ecc. Questa nuova
sintesi viene esposta in Umanesimo integrale che è un’opera filosofica e
teologica ispirata alla filosofia di Tommaso d’Aquino; si propone una visione
globale di temi filosofici e teologici e di temi concreti con indicazioni
politiche. Questa nuova sintesi ha subito opposte critiche: di naturalismo da
parte dei cattolici, di soprannaturalismo da parte dei laici.
Lo schema dell’opera si muove intorno al
concetto di uomo. Si esaminano la cristianità medievale e l’umanesimo
moderno e si propone un ideale di nuova cristianità intesa come
umanesimo
integrale. Si considera la
posizione pratica dell’uomo davanti a Dio, il problema di che cosa sia
l’uomo e la relazione tra Grazia e libertà. Considerando il rapporto tra il
cristiano e il mondo si esamina l’ideale storico concreto della
cristianità medievale e si propone l’ideale storico di una nuova cristianità.
L’idea chiave dell’opera è il principio
tomista dell’analogia, che si contrappone ad “univocità” ed “equivocità” e
che afferma la possibilità che un termine o un’idea possano essere
concretizzati in modi essenzialmente diversi pur conservando intatta la
loro formalità. In sostanza un
principio può essere realizzato in modi diversi pur rimanendo intatto il suo
riferimento al nucleo centrale. Per Maritain questo nucleo centrale è
l’idea di cristianità intesa come cultura o civiltà cristiana,
una società animata da principi
cristiani.
6.2. L’uomo nella visione
della cristianità medievale
Nella cristianità medievale l’uomo veniva
concepito come persona, vale a dire come universo di natura spirituale avente
libertà di scelta. In questa concezione l’uomo viene costituito dalla sua
libertà come un tutto indipendente di fronte al mondo e di fronte a Dio.
Tuttavia l’uomo è persona ma persona ferita, infatti porta l’eredità del
peccato originale, ha una natura ferita.
La filosofia medievale sottolinea soprattutto
la dimensione metafisica dell’uomo, ma non studia l’uomo per sé stesso ma nei
dinamismi concreti della sua libertà. La concezione medievale del rapporto tra
Grazia e libertà, tratta da Agostino, afferma la piena gratuità e sovranità
della Grazia e l’effettiva libertà dell’uomo. Si coglie una certa inumanità
teologica, infatti in epoca medievale viene sottolineata la natura decaduta
dell’uomo e l’arbitrarietà dell’elezione divina. L’umanità viene vista come massa
dannata e si esclude un effettivo dramma interiore. L’atteggiamento pratico
consigliato all’uomo è di obliarsi in Dio: si guarda all’azione di Dio, si
obliano sia l’azione umana, sia i costi dell’impegno umano.
6.3 L’umanesimo classico (post
rinascimentale) evolve in un umanesimo disumano
Dalla dissoluzione del medioevo emerge una civiltà
profana che si separa dalla incarnazione, si passa dal culto del Dio fatto
uomo al culto dell’umanità dell’uomo. La creatura viene riabilitata in senso
antropocentrico.
Scrive Maritain che nel protestantesimo questa riabilitazione appare travestita nel
suo contrario e si mostra in una soluzione di disperazione. Vi è una dialettica
tragica nella coscienza protestante; infatti in questa concezione la
creatura non vale nulla per il cielo (pessimismo teologico) e tuttavia,
attraverso la dottrina della predestinazione, della grazia senza libertà, si
giunge ad un ottimismo temporale, ad un ottimismo per il mondo terreno. Scrive
Maritain: “...il predestinato è sicuro della propria salvezza. Allora egli è
pronto ad affrontare tutto quaggiù e a considerarsi come eletto da Dio sulla
terra: le sue esigenze imperialistiche (per lui, uomo sostanzialmente macchiato
ma salvato, sempre corrotto dal peccato ma eletto da Dio) saranno senza limiti;
e la prosperità materiale gli apparirà come un dovere del proprio stato”.
Maritain ricorda in nota la teoria di Max Weber (1864-1920) sulle origini del capitalismo esposta nel
saggio Sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo e considera
assodato che il calvinismo (e la dottrina stessa di Calvino sul prestito a
interesse) abbiano svolto nel capitalismo “una parte certa e importante”.
Nel molinismo,
sistema elaborato dal teologo gesuita spagnolo Louis De Molina (1536-1600) in
cui si esclude la predeterminazione fisica della grazia, visto da Maritain come
teologia umanistica mitigata, l’atto buono viene sdoppiato in una
parte che deriva da Dio e una parte che deriva dall’uomo. La libertà umana
disputa il terreno a Dio ed è quasi sullo stesso piano di quella di Dio. Nel
molinismo si cerca di salvare la libertà umana a spese della causalità divina.
Come reazione al molinismo si produce la teologia
o metafisica umanistica assoluta, la
teologia del razionalismo, della libertà senza la Grazia, che Maritain
individua, esemplificando, nella
filosofia di Rousseau. In questa prospettiva non vi sono più Grazia senza libertà
o libertà e Grazia e libertà che si contendono il campo, ma solo la libertà,
l’indipendenza. Il molinismo separava il piano della natura (autosufficiente -
piano della ragione) dal piano della Grazia soprannaturale (della fede).
Nell’umanesimo assoluto l’infinito è portato sul piano naturale (Hegel, Bloch).
Per recuperare tutta la pienezza della prospettiva religiosa si passa dalla
separazione dei piani all’assolutizzazione di un elemento,
all’antroprocentrismo che si risolve in un umanesimo inumano. Infatti nella
concezione dell’umanesimo si afferma il dominio dell’uomo sulla natura
ma anche l’essere l’uomo dominato dalla natura.
Maritain afferma che “...al termine di una
evoluzione storica secolare, ci troviamo in presenza di due posizioni pure: la
posizione atea pura e la posizione cristiana pura. Nella seconda si possono
distinguere due correnti di pensiero: la
teologia di Karl Barth e il tomismo.
Barth presenta al centro dell’uomo Dio, ma annullando l’uomo dinanzi a
Dio, finisce per concepire un antiumanesimo primordiale. Il tomismo si
presenta come integralista (nel
senso che tiene presenti sia l’uomo che Dio) e progressivo (cioè parte
dal presupposto che la storia non torna indietro); intende salvare le verità
umanistiche “sfigurate da quattro secoli di umanesimo antropocentrico mediante
un rifacimento totale delle nostre strutture culturali, che significa passare a
una nuova era di civiltà.
Bisogna chiedersi se il trionfo della ragione
strumentale sia un derivato dell’abbandono di Dio o se l’abbandono di Dio e
l’affermazione della ragione strumentale siano gli esiti di uno stesso sviluppo
di pensiero.
6.4. La nuova civiltà
cristiana
6.4.1 Umanesimo integrale come
umanesimo dell’Incarnazione
In una nuova concezione di civiltà cristiana
la creatura deve essere riabilitata in Dio: la creatura non è un puro mezzo, ma è
vero fine.
Scrive Maritain: “in questo nuovo momento
della storia della cultura cristiana, la creatura non sarebbe misconosciuta né
annullata innanzi a Dio; non sarebbe neppure riabilitata senza Dio e contro
Dio; sarebbe riabilitata in Dio. Non c’è più che uno scampo per la
storia del mondo, dico in regime cristiano, checché ne sia del resto: ed è che
la creatura sia veramente rispettata nei suoi legami con Dio e perché
essa tiene tutto da lui; umanesimo, ma umanesimo teocentrico, radicato là ove
l’uomo ha le sue radici, umanesimo integrale, umanesimo
dell’Incarnazione”.
6.4.2.La distinzione tra
spirituale e temporale
In questa nuova prospettiva non c’è più
antagonismo tra Grazia e libertà: la Grazia sostiene e attraversa la libertà, è
sua causa prima. Occorre recuperare una coscienza di sé evangelica, elaborare
un ideale storico di un nuova cristianità, attraverso uno sviluppo culturale in
modo da favorire lo sbocciare di una vita propriamente umana, sul piano
materiale, etico, religioso, artistico.
Nel cristianesimo vi è la distinzione tra
religione e cultura. La religione appartiene all’ordine del soprannaturale e
trascende ogni civiltà e cultura: è universale. Scrive Maritain:
“L’ordine della cultura o della civiltà appare dunque l’ordine delle cose delle
cose del tempo, l’ordine temporale. Mentre che l’ordine della fede e dei doni
della grazia, concernenti una vita
eterna che è una partecipazione alla stessa vita intima di Dio, costituisce al
contrario un ordine al quale conviene
per eccellenza il nome di spirituale, e che trascende per sé l’ordine
temporale”.
Poiché la cultura deve rispettare la persona
e i suoi fini, deve favorire l’effettivo raggiungimento dei veri fini della
persona, quindi anche il fine dell’attuazione religiosa, e subordinarsi a tali veri fini. Ne consegue
che la persona non è subordinabile alla società, ma la società deve servire
la persona.
6.4.3.Il Regno di Dio
La distinzione tra temporale e spirituale,
essenzialmente cristiana pone diversi problemi nell’ordine teorico, il più importante dei quali è quello del Regno
di Dio. Vi sono tre errori: il primo è quello di ritenere il mondo come il
regno di satana, il secondo è di concepire il mondo come attuazione del Regno
(l’utopia teocratica), il terzo e di concepire il mondo come regno dell’uomo e
della natura pura. Per il cristianesimo il mondo presenta una ambivalenza, su di esso regna sia Dio che satana. Non
bisogna accettare passivamente questa ambivalenza, ma analizzarla criticamente
e sforzarsi di realizzare la verità storica del Vangelo, informando,
transpenetrando e animando il temporale con lo spirituale.
Scrive Maritain “Il mondo è bensì salvato, è
liberato in speranza, è in marcia verso il Regno di Dio, ma non è santo,
è la Chiesa ad essere santa; è in marcia verso il Regno di Dio ed perciò tradimento verso questo regno non
volere con tutte le forze una realizzazione -proporzionata alle condizioni
della storia terrena, ma così effettiva quanto possibile, quantum potes
tantum aude- o, più esattamente, una
rifrazione nel mondo delle esigenze evangeliche; tuttavia questa realizzazione,
anche relativa, sarà sempre, nel mondo,
in un modo o in un altro, deficiente e contestata. E nello stesso tempo che la
storia del mondo è in cammino (è la crescita del frumento) verso il Regno di Dio, è anche in cammino (è
la crescita dell’erba folle, inestricabilmente mescolata al frumento) verso il
regno della riprovazione ... il cristiano deve sforzarsi tanto più di
realizzare in questo mondo (in modo perfetto e assolto se si tratta della
propria vita di persona; in modo relativo e secondo l’ideale concreto
conveniente alle diverse età della storia, se si tratta del mondo stesso) le
verità del Vangelo; egli non si sforzerà mai abbastanza a far progredire le
condizioni della vita terrena e a trasfigurare questa vita. Questo stato di
tensione e di guerra è necessario alla crescita della storia, è soltanto a tale
condizione che la storia temporale prepara enigmaticamente la sua finale
consumazione nel Regno di Dio. Ma se ciò che diciamo è esatto, lo scopo che il
cristiano si propone nella sua attività temporale, non è il fare di questo
mondo stesso il Regno di Dio, bensì di fare di questo mondo, secondo
l’ideale storico richiesto dalle diverse età o, se così posso dire, delle mute
di questo, il luogo d’una vita
terrena veramente e pienamente umana, cioè piena certamente di debolezze, ma
anche piena d’amore, le cui strutture sociali abbiano come misura la giustizia,
la dignità della persona umana, l’amore fraterno e che pertanto prepara
l’avvento del Regno di Dio in modo filiale, non servile, cioè mediante il bene
che fruttifica in bene, non mediante il male, che, pur andando verso il proprio
luogo, serve al bene come mediante violenza...il cristianesimo deve informare
o piuttosto transpenetrare il mondo, non in quanto questo sia il suo
scopo principale (è per lui un fine secondario indispensabile) e non affinché
il mondo divenga sin d’ora il Regno di Dio, ma affinché la rifrazione del mondo
della grazia vi sia sempre più effettiva e l’uomo possa vivervi meglio la sua
vita temporale”.
6.4.4.il compito temporale del
cristiano-una santità volta verso il temporale
Maritain distingue la Chiesa come gerarchia,
che opera nel campo spirituale e non si preoccupa di animare direttamente
il temporale, e la Chiesa come laici cristiani, che ha il compito
dell’animazione del temporale. Il relatore ha osservato che nei documenti del
Concilio Vaticano II la distinzione è presente, ma non così netta.
Per Maritain occorre evitare sia il
temporalismo che l’estraniazione. L’uomo, in quanto cristiano, opera nel campo spirituale, come
membro della Chiesa, e da cristiano anima il campo materiale nel
temporale. Scrive Maritain in un celebre
paragrafo di Umanesimo Integrale che ritengo opportuno
trascrivere quasi integralmente, tanto i suoi echi si ritrovano nella nostra
comune formazione culturale-religiosa:
“...Un rinnovamento sociale
vitalmente cristiano sarà opera di santità o non sarà; dico di una santità
volta verso il temporale, il secolare, il profano... Se una nuova
cristianità sorge nella storia, sarà l’opera di una tale santità...si è in
diritto di attendere una spinta di santità di stile nuovo.
Non parliamo di un tipo nuovo di santità,
questa parola sarebbe equivoca (il cristiano non riconosce che un tipo di
santità eternamente manifestata in Cristo). Ma mutando le condizioni storiche
possono dar luogo a modi nuovi, a stili nuovi di santità. La santità di
San Francesco ha altra fisionomia da
quella degli Stiliti, la spiritualità dei gesuiti, la spiritualità domenicana o
benedettina rispondono a stili diversi. Così si può pensare che la presa di
coscienza dei compiti temporali del cristiano chiami a un nuovo stile di
santità, che si può caratterizzare come la santità e la santificazione della
vita profana.
A dire il vero, questo nuovo stile è nuovo
soprattutto nei confronti di certi
concetti erronei e materializzati. Così, quando questi subiscono una specie di accasciamento
sociologico (è ciò che è accaduto spesso nell’età umanistica classica) la
distinzione ben conosciuta degli stati di vita (stato regolare e stato
secolare), compresa in senso materiale, è intesa in modo inesatto. Lo stato
religioso, cioè lo stato di quelli che si votano alla ricerca della perfezione,
è allora visto come lo stato dei perfetti, e lo stato secolare come quello
degli imperfetti, di guisa che il dovere e la funzione metafisica degli
imperfetti è d’essere imperfetti e di restar tali, di condurre una vita mondana
non troppo pia e solidamente piantata nel naturalismo sociale (anzitutto in
quello delle ambizioni familiari). Ci si scandalizzerebbe se dei laici
cercassero di vivere diversamente: si preoccupino soltanto, mediante pie
fondazioni, di far prosperare sulla terra dei religiosi che, in cambio
guadagneranno loro il Cielo, e l’ordine sarà così soddisfatto.
Questa maniera di concepire l’umiltà dei laici
sembra esser stata molto diffusa nei secoli 16° e 17°. Il catechismo spiegato
ai fedeli, del domenicano Carranza, allora arcivescovo di Toledo, fu così
condannato dall’Inquisizione spagnola su un rapporto del celebre teologo
Melchior Cano. <E’ da condannarsi, dichiarava questi, la
pretesa di dare ai fedeli una istruzione religiosa che conviene ai soli
preti>. Egli alzava la voce con
vigore anche contro la lettura della Sacra Scrittura in lingua volgare, e
contro coloro che si assumono il compito di confessare tutto il giorno. Lo zelo
spiegato dagli spirituali per indurre i fedei a confessarsi e comunicarsi spesso gli era molto sospetto,
e gli si attribuisce d’aver detto in una predica che, a suo parere, uno dei
segni della venuta dell’Anticristo era la grande frequenza ai sacramenti.
Più profondamente, e noi tocchiamo una
questione molto importante della filosofia della cultura, si può intendere che
c’è una maniera non cristiana di intendere la distinzione tra sacro e profano.
Per l’antichità pagana, santo era
sinonimo di sacro, cioè di ciò che è fisicamente, visibilmente,
socialmente a servizio di Dio. Ed è solo nella misura in cui era penetrata
dalle funzioni sacre che la vita umana poteva avere un valore innanzi a Dio. Il
Vangelo ha profondamente mutato ciò, interiorizzando nel cuore dell’uomo, nel
segreto delle relazioni invisibili tra le personalità divine e la personalità
umana, la vita morale e la vita di santità.
Da allora il profano non si oppone più al
sacro come l’impuro al puro, ma come un dato ordine di attività umane, quello
il cui fine specificatore è temporale, s’oppone a un altro ordine di attività
umane socialmente costituite in vista di un fine specificatore spirituale
mediante la predicazione della Parola di Dio e la distribuzione dei sacramenti.
E l’uomo impegnato in questo ordine profano e temporale d’attività può e deve,
come l’uomo impegnato nell’ordine sacro, tendere alla santità (e per giungere
lui stesso all’unione divina e per attirare verso il compimento delle volontà
divine l’ordine tutto intero al quale appartiene). Di fatto quest’ordine
profano, in quanto collettivo, sarà sempre deficiente, ma noi dobbiamo
tuttavia, e dobbiamo tanto più, volere e sforzarci affinché sia ciò che deve
essere. Perché la giustizia evangelica domanda da sè di tutto penetrare, di
impadronirsi di tutto, di scendere sino al più profondo del mondo.
Ebbene, si può rilevare che questo principio
evangelico s’è tradotto e manifestato nei fatti solo progressivamente e che il
suo processo di realizzazione non è terminato.
Le quali osservazioni ci fanno meglio capire
il significato di questo nuovo stile di santità, di questa nuova tappa nella
santificazione del profano dicui abbiamo parlato or ora. Aggiungiamo che questo
stile, toccando alla spiritualità stessa, dovrà senza dubbio comportare
caratteri particolari propriamente spirituali -a esempio un insistere sulla
semplicità, sul valore delle vie ordinarie, su quel tratto specifico alla
perfezione cristiana d’essere la perfezione non di un atletismo stoicistico di
virtù, ma di un amore tra due
persone, la persona creata e la Persona Divina, infine su quella legge di
discesa dell’Amore creato nelle profondità dell’umano per trasfigurarlo senza
annullarlo, si cui s’è parlato nel capitolo precedente- caratteri di cui alcuni santi dell’età contemporanea sembrano
aver il compito di farci presentire l’importanza“.
6.4.5.L’ideale storico
concreto di una nuova cristianità
L’ideale storico concreto di una nuova
cristianità è l’essenza ideale oggi realizzabile, mediando con la cultura d’oggi.
La cristianità può realizzarsi in forme
diverse; la nuova cristianità deve essere in sintonia con il movimento storico.
Si possono distinguere degli elementi comuni
ad ogni cristianità ed esattamente:
a)un movimento comunitario;
b)un regime personalistico;
c)un regime non sacralizzato.
La cristianità può essere realizzata
analogicamente in diversi modi.
La cristianità medievale, che Maritain
considera positivamente come artefice di un mondo il quale -pur pieno di
manchevolezze- era “tale da poter essere vissuto“,aveva costruito il proprio
ideale storico concreto intorno ad una concezione sacrale-cristiana del
temporale (Il Sacro Romano Impero). Sue caratteristiche erano:
a)un’unità organica
qualitativamente massimale (fondata sullo spirituale);
b)predominio del compito ministeriale
del temporale, rispetto a quello
dello spirituale (il re come “vescovo
dell‘esterno“, le crociate);
c)causalità strumentale del
temporale rispetto al sacro;
d)impiego dell’apparato
temporale per i fini spirituali (mezzi coercitivi);
e)diversità di razze sociali
(intesa come disparità essenziale di
categorie sociali ereditarie, ceti/classi) riconosciuta alla base della
gerarchia delle funzioni sociali e delle relazioni d‘autorità;
f)un’opera comune: edificare
l’impero di Cristo.
L’ideale storico concreto di una nuova
cristianità deve basarsi su una concezione profana-cristiana del temporale.
Sue caratteristiche devono essere:
a)il pluralismo (economico,
giuridico, religiosa; l’unità non parte dall’unità di fede, ma da un’unità
minimale sul temporale a livello della persona, per questo la nuova cristianità
“può essere cristiana pur raggruppando nel suo seno dei non cristiani”; la
nuova cristianità si basa sulla tolleranza dogmatica verso le altre
religioni (ritiene la libertà dell’errore come un bene in sé) e sulla tolleranza
civile, intesa come dovere dello Stato di rispettare le coscienze);
b)l’autonomia del temporale
(intesa come autonomia della ricerca del fine intermedio);
c)la libertà della persona (la
forza non deve essere usata per costringere alla verità, vi deve essere un
minimo di coercizione per un minimo di unità temporale);
d)l’unità di razza sociale: si
deve sviluppare una democrazia personalista;
e)la sua opera comune deve essere
edificare una comunità fraterna sulla terra.
Mediante qualcosa di divino, l’Amore, devono
realizzarsi istituzioni buone ispirate all’amicizia civile.
In conclusione bisogna salvare le
verità della cultura moderna dagli errori in cui tale cultura è coinvolta e ciò
mediante una rifusione sostanziale e totale che consenta di arrivare al primato
vitale della qualità sulla quantità, del lavoro sul denaro, dell’umano sul
tecnico, della saggezza sulla scienza,
del servizio comune delle persone umane sulla cupidigia individuale di
arricchimento indefinito o sulla
cupidigia statale di potenza illimitata.
6.5. Valutazione della
filosofia di Maritain
Ci si può chiedere se i valori proposti a
fondamento della nuova cristianità derivino necessariamente ed esclusivamente
dalla fede cristiana. Maritain ritiene che solo la fede cristiana li possieda e
che non possano essere raggiunti per altre vie.
Ci si può chiedere se questi valori, sentiti
come cristiani, siano derivati solo dal Vangelo o derivino anch’essi da una
mediazione.
Ci si può chiedere quale sia lo spirito del
servizio cristiano e se il mondo sia cieco e incosciente senza i cristiani.
La filosofia di Maritain ha il merito di
sottoporre a un vaglio critico l’umanesimo e la cultura moderni. Comporta il rischio
di una sacralizzazione del temporale.
7.La teologia di Karl Rahner
(1904-1984)
7.1.Applicare la svolta
antropologica in teologia
Karl Rahner vuole recuperare
l’antropocentrismo applicando anche in teologia, e non solo nelle scienze
del temporale, la svolta antropologica, per superare così ogni opposizione tra
Dio e mondo. Secondo Rahner la cultura moderna deve animare la nostra
comprensione del Vangelo.
Secondo questa concezione, la teologia deve
operare dall’interno della cultura moderna, dove si è avuta una
generalizzata svolta antropologica, nel senso che l’uomo è posto al centro
della teoria e della prassi (soggettività moderna) come quel soggetto che
pensando ed agendo mette sempre in questione sé stesso. L’uomo è
divenuto l’oggetto centrale della filosofia; non si è prodotta solo quella
svolta copernicana di cui parlava Kant, ma si ritiene che ogni domanda
dell’uomo sull’essere sia anche necessariamente anche domanda sul soggetto che
si interroga (cfr Heidegger, Essere e tempo).
Secondo Rahner, che si muove nella linea di
pensiero che va da Tommaso d’Aquino a
Heidegger, vi è nell’uomo un autopossesso conoscitivo originario
mediante il quale l’uomo conosce sé stesso; tale autopossesso conoscitivo
originario è unito alla conoscenza di sé stesso, ma da questa sempre distinto.
Nell’atto della conoscenza bisogna distinguere una conoscenza tematica
(dell’oggetto preso in considerazione) e una conoscenza atematica (di sé
stesso) distinta dalla prima. Quando conosce un ottetto, l’uomo ha sempre questo
autopossesso conoscitivo, nel senso che conosce l’oggetto come uomo e quindi conconosce sè stesso (conosce
di conoscere e in tal modo conosce sé stesso). Questa è una esperienza
trascendentale (esperienza del continuo superamento dell’oggetto della conoscenza) che è
condizione della possibilità di conoscere, nel senso che ciò che non ha
rapporto con l’uomo non solo non interessa ma neppure si può conoscere.
Anche in teologia la svolta
antropologica è feconda, doverosa e fondata rigorosamente. Infatti la
problematica teologica non ruota intorno a
verità oggettuali esteriori all’uomo, al dogma oggettuale, ma intorno
alla irriducibile soggettività dell’uomo. L’uomo non è un settore particolare
della teologia: i problemi dell’uomo sono tutta la teologia. Tale
concezione non contraddice un sano teocentrismo/cristocentrismo. L’uomo è
l’essere dell’assoluta trascendenza verso Dio. La soggettività umana
confrontandosi con gli oggetti come finiti rimanda all’essere assoluto, a Dio:
Dio e l’uomo non sono contrapposti. In ogni atto è anche sempre implicata l’apertura
all’essere assoluto di Dio, che costituisce il termine ultimo di ogni atto
umano. Ciò comporta la sconfitta dell’umanesimo ateo (Feuerbach / Satre), che
afferma “o Dio o l’uomo”, che è necessario perché l’uomo viva che Dio muoia.
7.2L’uomo è aperto e
disponibile alla Rivelazione
Questa concezione è cristocentrica perché l’umanità dell’uomo Gesù, Dio, è
inscritta nella realtà dell’uomo. La Rivelazione è rivelazione della salvezza
dell’uomo, tutte le realtà sono salvifiche in relazione all’uomo. Si risolve in
tal modo l’alternativa tra teologia liberale (Rivelazione come proiezione della
soggettività umana) e la teologia di Barth (Rivelazione come no detto
all’uomo). Nell’uomo vi è una apertura all’essere totale che non è possesso
dell’essere totale. Poiché l’uomo è aperto e disponibile a una rivelazione di
Dio, senza predeterminarla, Dio non dirà un “no” all’uomo (“no” totale), ma
presupporrà una certa capacità di accoglienza. La Rivelazione
presuppone l’uomo, l’uomo non pretedermina la Rivelazione (vi è nell’uomo
un’apertura assoluta all’assoluto).
7.3.La Grazia
La Grazia è Dio che
si autocomunica, non solo quindi dono di Dio (qualcosa che Dio ci dà), ma è Dio
stesso che si dà, che colma l’apertura dell’uomo all’assoluto. Dio è il futuro
assoluto dell’uomo.
7.4L’ìncarnazione
L’incarnazione è la promessa irrevocabile di
Dio in Cristo, opera della Grazia nella storia dell’uomo, inizio e fine
dell’antropologia, che è teologia. L’uomo
che accetta fino in fondo la propria esistenza dice di sì a Dio e a Cristo;
dire di sì a Cristo e a Dio significa accettare fino in fondo la propria
esistenza.
7.5L’ateismo
Ateismo significa rifiutare Dio. Il rifiuto di
Dio può situarsi su due livelli: a livello della conoscenza atematica (vale a
dire nella profondità del cuore) o a livello della conoscenza tematica (chi si
proclama ateo a questo livello non significa che non abbia accettato Dio sul
livello atematico). Viceversa chi si proclama credente può rischiare di
non accettare la parola di Dio sul piano atematico.
Vi è una difficoltà ad esprimerci con schemi
culturali del passato nel valutare il dilagante e dichiarato ateismo della
moderna secolarizzazione. Vi è la possibilità di un cristianesimo anonimo:
comunque agisca, l’uomo agisce accettando o rifiutando Cristo, anche se non
arriva ad una esplicita affermazione di fede. Vi è una storia generale della
salvezza che coinvolge tutti gli uomini di tutti i tempi, per il fatto di
essere aperti all’assoluto, e una storia speciale della salvezza che, a livello esplicito, è la storia degli atti
con cui Cristo ci salva.
7.6 Valutazioni della teologia
di Karl Rahner
Secondo il teologo Han Urs Von Balthasar,
Rahner avrebbe valorizzato l’atto secolare dell’amore esplicito dell’uomo a
discapito dell’amore esplicito per Dio.
8.Teologia e prassi di
liberazione: la teologia della speranza, la teologia politica, la teologia
della liberazione
8.1 Considerazioni generali
La teologia della speranza, la teologia
politica e la teologia della liberazione considerano i riflessi per la teologia
delle prassi di liberazione e, in particolare del rapporto tra il Vangelo e le
culture militanti formatesi nel concreto delle prassi di liberazione (movimento
operaio, movimenti di liberazione nell’America Latina, movimento femminista,
movimenti giovanili, movimenti di liberazione di altri gruppi sociali
emarginati).
8.2.Teologia della speranza
La teologia della speranza raccoglie il nucleo
della provocazione culturale del neo-marxismo e della filosofia della speranza
del filosofo tedesco Ernst Bloch (1885-1977).
Secondo Bloch, la crisi del marxismo
scientista ha prodotto una riscoperta della corrente calda del marxismo, quella
filosofia che insegna a sperare. La storia è unificata dal primato del futuro;
l’atto dello sperare orienta la storia verso l’utopia, intesa come ogni
presente che può essere realizzato sebbene non predeterminabile.
Il teologo tedesco Jurgen Moltmann (1926),
stimolato dalla lettura dell’opera di Bloch, vista come espressione di un
marxismo che cattura la speranza (si noti che il mondo protestante pone al
centro della riflessione teologica l’escatologia [da éskata
“le cose estreme” e logia “discorso” - “trattazione”:
parte della teologia che ha per oggetto l’indagine sui destini ultimi dell’uomo
e dell’universo. Fonte:Zingarelli 2001 -Vocabolario della lingua italian),
costruì una teologia della speranza non più come teologia di una virtù
(le virtù teologali: fede, speranza, carità), ma come teologia che
adotta la speranza come una prospettiva per lumeggiare tutta la fede. La centralità della prospettiva
escatologica comporta che il futuro riacquisiti una dimensione temporale
e che l’annuncio cristiano apra un domani alla storia umana. Secondo Moltmann
il cristianesimo è escatologico dal principio alla fine. Egli propone una
visione di Dio non più in alto e immobile, ma concepito come futuro assoluto,
assolutamente fedele (io sarò quel che sarò, YHWH) e una visione della
storia non più ciclica, ma aperta al futuro di Dio, fondata sulla
resurrezione di Cristo e non sulla base dell’uomo soltanto; ciò che consente di
dare una speranza anche per chi è debole e perde e non solo per chi è forte e
vince.
Ciò comporta per Moltmann una nuova visione
della Chiesa, intesa come comunità dell’esodo e non come istituzione
conservatrice. In ciò si può vedere un aggancio per una teologia politica.
8.3.Teologia politica
La teologia politica può essere considerata
una provocazione culturale lanciata dai teologi Moltmann, Metz (Johann-Baptist
Metz, 1928) e da molti altri.
Essa parte dalla considerazione, non solo
della frattura tra società e religione, ma anche dei risultati della critica
marxista e illuminista, che ha messo in luce
la dimensione ideologica e sovrastrutturale della religione in funzione
di determinati rapporti di potere con funzione di conferma del potere
esistente. Ritiene che non sia sufficiente dimostrare teoricamente la
non opposizione tra Dio e l’uomo, ma che sia necessaria una pratica diversa
da parte dell’uomo di fede, per cui la fede religiosa, specialmente se
istituzionalizzata, e la vita del credente assumono un ruolo politico. E’
quindi necessario costruire una nuova teologia politica, distinta dalla
vecchia teologia politica che sacralizzava l’aspetto politico-istituzionale o
affidava alla Chiesa le redini del potere.
Occorre innanzi tutto deprivatizzare la
religione. Privatizzare la religione significa sottolineare ciò che la Parola
di Dio ha da dire all’uomo come singolo (v.specialmente Rudolf Karl Bultmann,
1884-1976). E’ necessario deprivatizzare non eliminando il soggetto e
l’esistenza (Moltmann è discepolo di Rahner), ma mostrando che questa esistenza
è implicata nelle mobilità sociali e che se la fede non comprende le sue
implicazioni sociali rimane astratta anche rispetto al singolo. Si deve così
arrivare a una nuova formulazione del messaggio cristiano che determini
in maniera post critica il rapporto tra Chiesa e società.
La scuola filosofica marxista di Francoforte
(Mark Horkeimer, Theodor Wiesegrund Adorno, Herbert Marcuse, Erich Fromm)
riteneva che non fosse possibile un uso pubblico della ragione (illuminismo)
senza una prassi liberante. Analogamente secondo il teologo Metz non è
possibile una fede critica e adulta senza che si instauri una relazione tra
prassi della fede e concezione teoretica della fede. Non basta domandarsi “la
mia fede è ragionevole?”. Bisogna che nel rapporto tra fede e prassi sociale la
fede si mostri efficace nella vita.
Dal punto di vista della riflessione biblica,
questa corrente teologica evidenzia come la Bibbia annunci una salvezza
pubblica e non privata. La Bibbia
contiene un annuncio critico e liberante, escatologico. Questa teologia
introduce il concetto di riserva escatologica fondata sulla memoria di
Cristo. La riserva escatologica ha in teologia la stessa funzione dell’utopia
in filosofia, fa vedere la costante provvisorietà di questo mondo. La teologia
escatologica corrisponde alla teoria critica della società (scuola di
Francoforte).
La riserva escatologica non è priva di
contenuto, perché è fondata sulla memoria di Cristo, della sua passione, morte
e resurrezione: è una memoria sovversiva e liberatrice che rompe l’incanto
della coscienza dominante.
La Chiesa, in questa prospettiva, viene
concepita come luogo della libertà critica nei confronti della società,
di questa memoria critica e sovversiva, della testimonianza pubblica di ciò che
può dire e dice l’annuncio di Cristo. Nel medioevo la Chiesa si è servita della
società politica, nella concezione di Maritain la Chiesa si divide il compito
con la società politica: secondo la teologia politica non c’è annuncio della
Chiesa che sia neutrale, non politico. Anche all’interno della Chiesa, come
all’interno della società, l’opinione pubblica esercita un ruolo, per
cui la teologia deve esercitare un influsso responsabile sull’opinione
pubblica e di conseguenza sulle
istituzioni. Quindi non si risolve in un annuncio teorico, ma rende una
collaborazione e un servizio disinteressato.
E’ stato osservato che quella di Metz sarebbe
una teologia politica senza contenuti. L’obiezione è fondata, perché in effetti
non è possibile una teologia politica teorica, che non si risolva in una prassi
di liberazione.
8.4La teologia della
liberazione
La teologia della liberazione
tenta di accompagnare alla teoria la prassi. Essa non comincia la sua
riflessione solo dalle promesse divine, ma anche dalle concrete possibilità di liberazione.
E’ teologia che parte dalla prassi di liberazione. E’ un nuovo pensare
teologico che si origina dalla prassi.
9.Vivere il Vangelo nella
nostra storia
9.1. Non esiste un Vangelo non
mediato
Il Vangelo non è solo un’idea da capire, una
visione globale del mondo, è anche un appello personale da vivere: la
mediazione culturale è intima ad ogni esperienza umana, quindi anche a
quella del Vangelo.
Secondo il teologo Edward Schillebeeckz
(1914-), la realtà dell’esperienza è intimamente legata ad un modello culturale
-anche la fede-, è colorata / codeterminata dal bagaglio culturale.
La fede è intimamente inserita nella storia e
non c’è fede se non espressa (mediante parole, immagini, categorie concettuali,
immagini rappresentative). E’ una realtà che discende dall’incarnazione,
vista come condiscendenza di Dio alla realtà umana per incontrarci sul nostro
terreno.
Non c’è un Vangelo puro, non mediato o
da non mediare culturalmente. Anche la ricerca dell’essenziale nel
Vangelo non è mai la ricerca di un nucleo astorico, formulabile una volta
per tutte e poi rivestibile con i più diversi panni culturali, un dato
conchiuso in sé stesso. Si tratta della ricerca di un incontro analogo,
proporzionato e proporzionale all’incontro con Cristo che hanno avuto i
discepoli ma originale, con categorie, immagini ed espressioni della nostra
cultura. Se non ci fosse nessun cristiano non si sarebbe nessun Vangelo.
Non esiste un Vangelo non mediato. Quello che
chiamiamo Vangelo scisso dalla cultura, non mediato, è in realtà un Vangelo
inculturato in una cultura morta.
La prima mediazione culturale consiste nel vivere
il Vangelo nella propria vita. La fede vissuta costituisce una
mediazione culturale. Vivere il Vangelo significa accogliere il Vangelo con
tutta la propria cultura, con tutta la propria personalità. Non
significa svuotarsi di sé stessi (in questo senso è errata l’ascetica che
riduce l’umiltà a passività), ma significa accogliere il Vangelo con sé
stessi, attivando tutta la capacità di accoglienza che si ha in sé stessi.
Mediazione culturale significa poi dare
voce al Vangelo, cioè farlo essere Vangelo, farlo vivere dagli altri, per
gli altri. Dare voce significa azione (per evitare l’intellettualismo) e
parole (per evitare il prassismo), attraverso il dialogo culturale e la
condivisione attiva. Bisogna vivere il Vangelo nella propria storia:
l’evangelizzazione è sempre inculturazione.
9.2.Nell’attualità: vivere la
fede in un mondo divenuto adulto e autonomo
Nel medioevo la mediazione culturale si è
risolta valorizzando tutta la società umana perché la cultura
diventasse tutta teologia, perché la cultura diventasse tutta cristiana. E’
stato un progetto affascinante, ma sbagliato ed antievangelico. Il
disincanto che ne è conseguito, nel nostro mondo divenuto adulto e autonomo, non è stato solo una dura necessità,
ma è stato un aprire gli occhi sul dinamismo vero del Vangelo.
Cristo non vuole colonizzare tutta la realtà umana, sacralizzare
tutto, ma utilizzare quello che basta
per l’annuncio; in questo senso Dio è per tutti.
La creaturalità del mondo va compresa
nell’orizzonte storico-salvifico del mondo: attraverso l’incarnazione il mondo
appare totalmente mondano e Dio totalmente divino (il mondo non è
un “pezzo” di Dio). E’ in questo senso che si parla di autonomia mondana.
Ci si chiede se la separazione tra la Chiesa e
la società porterà alla insignificanza della fede.
Se il Vangelo fonda e annuncia la mondanità
del mondo, già solo per questo non è insignificante; esso è il garante continuo
della non sottomissione del mondo a nuovi idoli. Contro l’alienazione sacrale,
mantiene il mondo nel suo vero futuro.
Il Vangelo ha una sua valenza politica, nel
senso che può fondare una mediazione politica. Quest’ultima non si risolve
essenzialmente solo in una animazione
del mondo politico mediante principi di fede che consentano una analisi e una
comprensione della situazione. Ci si può chiedere infatti se come cristiani
abbiamo principi di azione politici diversi strutturalmente dai non cristiani e
se la carità sia patrimonio esclusivo cristiani. In realtà l’annuncio
centrale di Cristo come salvatore assoluto dell’uomo attraverso la mediazione,
che fonda gesti paradossali, capacità critica e la denuncia,
permette di difendere l’umano minacciato
dai falsi assoluti. La mediazione culturale non deve tendere
a sintetizzare la cultura cristiana e la cultura pagana in una cultura
cristiana mondana ma, attraverso l’annuncio, la prassi e la teologia,
contribuire a fondare una cultura veramente umana e autonoma.
9.3.Considerazioni sulla
polemica tra FUCI e CL (“cultura della mediazione o cultura della presenza?”)
A chi si chiede se la salvezza in Cristo debba
essere cercata fuori della storia o nella storia bisogna
rispondere che è possibile e necessario vivere un nuovo tipo di rapporto
Chiesa e mondo e ciò non solo come singoli ma anche comunitariamente. Bisogna
creare le condizioni della possibilità dell’ascolto, tenendo conto
dell’interlocutore, ma appunto non solo come preti in sacrestia e laici come
individui responsabili nella loro coscienza.
In questo senso il problema di stabilire quale
presenza debba essere realizzata dai cristiani nel mondo è effettivo.
Sicuramente per rendere possibile un significato della fede nella realtà
storica è necessaria una presenza comunitaria, ma di che tipo? Ci si può chiedere, in questa prospettiva,
quale tipo di interventi della gerarchia sia giustificato, legittimo e
produttivo (parola disinteressata, astinenza, quali parole?). Star zitti non è
legittimo né per la gerarchia né per i laici, ma vi è la possibilità di una
ambiguità della presenza.