Dinamica
dei gruppi
Dunque, cari amici, si riparte.
Quando, aderendo all’AC parrocchiale, iniziai
a scrivere su questo blog, era a qualcosa del genere che pensavo, insieme agli
amici del gruppo.
Trascrivo di seguito a questo post il primo intervento che pubblicai,
esattamente il 1 gennaio 2012, riportando un mio intervento in AC di qualche
giorno prima. Mi pare che, nei quasi mille contributi che poi sono seguiti, si è proseguito, più o meno, a trattare,
sviluppandoli, degli argomenti affrontati in quel testo. Rileggendolo mi pare
di cogliere anche una certa continuità di linea di pensiero su quei temi. Sono
io che sono uno noioso o sono certe cose che mi frullano sempre per la
testa? Oppure ora come allora c’erano un
po’ le stesse necessità?
Dunque:
vogliamo collegare nuovamente le masse del quartiere alla parrocchia. Ci
aspettiamo quindi che venga gente nuova, e molta. Allora occorre prepararsi.
Viviamo in una società in cui si è persa
l’abitudine all’agire politico, vale
a dire a riunirsi in molti e a produrre qualcosa di comune nel dialogo fattivo con gli altri. Accade quindi che ci si ritrovi
e poi che ce se ne vada insoddisfatti, con la sensazione di una gran
confusione. Ma l’umanità ha trovato diversi rimedi. A lavorare insieme si
impara.
Una delle possibilità è di fare come
l’orchestra sinfonica o il coro, che si affidano all’orecchio e alla
sensibilità di un direttore. Questa strategia si basa quindi su una gerarchia, sul seguire un capo. Se uno
suona o canta sotto la direzione altrui come forma di lavoro, di solito non si
occupa di scegliere il direttore. Fa quello per cui lo pagano, anche se sa che
la direzione è necessaria. Nel mondo di quelli che fanno arte per il proprio
piacere, l’arte per l’arte, come si legge nel simbolo della casa
cinematografica Metro Goldwyn Mayer intorno
alla testa del leone che ruggisce, ars
gratia artis che in latino significa
appunto l’arte per l’arte, è diverso. Di solito gli artisti che suonano o
cantano in gruppo vogliono mettere bocca nella scelta del direttore. Però lo
fanno da competenti, da persone che conoscono e amano la musica. Se non possono
farlo, lasciano. Chi glielo fa fare, infatti, di mettersi sotto un capo che non
stimano?
Anche
le masse che inviteremo in parrocchia non sono fatte da gente pagata e per
lasciarsi dirigere devono avere
fiducia e stima in chi lo fa, altrimenti presto si disamorano.
Bisogna fare molta attenzione a questo, a non
trasformarle in gente pagata, quindi a non promettere mai, in cambio della loro
adesione, ciò che non possiamo mantenere e soprattutto che non siamo
autorizzati a promettere. Ad esempio che venendo tra noi la gente avrà
risolti i suoi problemi di famiglia, di
lavoro, di integrazione sociale, di malattia, di infelicità. Da noi potrà
trovare solidarietà e condivisione, ed anche un aiuto, questo senz’altro.
Questa attività fa parte della vita collettiva di fede fin dalle origini. Ma
i guai degli altri non saranno
magicamente cancellati. Neanche se la gente si sforzerà di credere molto
intensamente. E neanche se accetterà di annullarsi mettendosi totalmente nelle
nostre mani, a fare acriticamente tutto ciò che ordiniamo. Questa del resto una
cosa che noi non siamo autorizzati ad accettare e nemmeno a pretendere. E,
allora, che cosa ne ricava uno, venendo tra noi? Venite e vedete, dobbiamo dire. La salvezza non è nelle nostre
povere mani. Non ci viene come corrispettivo, come retribuzione, non ce la meritiamo;
in religione si sostiene che ci venga donata. Agli altri non abbiamo altro da
offrire che la nostra fragile e povera umanità. Ma proprio di essa è fatto il
nostro cercare di radunarci a convito e il di più, l’aggiunta, ciò che la
trasforma in agàpe viene dal Cielo,
non è in nostro potere. A volte esso ci
illumina ed è in questi sprazzi di luce
che, come è stato talvolta descritto molto efficacemente, in qualche modo
consiste la nostra esperienza di fede. Nella fede noi siamo amanti di quella luce, che è soprannaturale perché
non illumina l’ambiente in cui viviamo, ma le nostre stesse vite, le nostre
stesse esistenze. L’ha detto benissimo la sociologa e antropologa Claudia
Giaccardi, nel pensiero del giorno
che ho pubblicato lo scorso 4 ottobre e che trascrivo nuovamente di seguito.
“Come ogni
mattino è la luce che ci fa rinascere,
dopo il buio della notte veniamo ancora alla luce, torniamo alla vita.
Il buio separa, la luce ci richiama all’esistenza; ci unisce nello slancio
comune per affrontare il nuovo giorno e tutto ciò che ci verrà incontro”. Lo scrive
Emily Dickinson [poetessa statunitense, 1830-1886], in una sua bella poesia,
perché la separazione quella è notte, e la presenza semplicemente alba. Lei, la
luce purpurea lassù chiamata mattino: una luce che sembra sempre un miracolo, “stupore di ultramattutina luce”, per il
poeta Mario Luzi [poeta italiano, 1914-2005].
La luce, come una lama, taglia l’oscurità. Non si può parlare di luce senza
alludere a questo dialogo con le tenebre, così come la parola si staglia sempre
sullo sfondo del silenzio.
Se però ci
abituiamo a stare al buio, la luce ci punge, ci ferisce e alla fine preferiamo
evitarla. A volte abbiamo paura di
guardarla, nel timore che ci spinga fuori delle nostra comode certezze, dalle
abitudini che rassicurano.
“La luce è venuta, ma gli uomini hanno
preferito le tenebre alla luce”, leggiamo nel Vangelo di Giovanni [Gv,
3,19]. Eppure è lei ad avere l’ultima parola.
“Con angoscia
ti fuggo, o luce, ma sulla stessa via sempre ti incontro”, recita un verso
di padre Turoldo [poeta e frate dell’Ordine dei Servi di Maria italiano,
1916-1992].
E anche Nelson
Mandela [politico sudafricano, premio Nobel per la pace nel 1993; 1918-2013]
diceva: “E’ la nostra luce, non la
nostra ombra, a spaventarci di più.” E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo
stesso. La luce infatti accende il nostro desiderio. “Se non avessi visto il sole, avrei sopportato l’ombra, ma la luce ha
reso il mio deserto ancora più selvaggio”, scriveva Emily Dickinson. Un
desiderio che sempre ci spinge oltre, verso quell’infinito che ci rende liberi
perché nessun idolo lo può saturare.
Persino uno
spirito inquieto come Pessoa [Fernando
António Nogueira Pessoa, poeta e
scrittore portoghese, 1988-1935] riconosce che questo movimento verso la luce,
e grazie ad essa, è ciò che ci rende veramente umani: “In me esiste, al fondo di un pozzo, un pertugio di luce verso Dio. Là,
molto in fondo, alla fine, un occhio fabbricato nei Cieli”.
Ma questi amanti
della luce soprannaturale che
vengono tra noi a volte hanno perso
familiarità con essa. Devono essere aiutati a riscoprirla. Però, ed molto
importante tenerne conto, bisogna capire che ne sono anche portatori. Vengono tra noi a cercare la luce, ma
anche ce la portano. Quindi bisogna anzitutto condurli a riscoprirla in loro
stessi. E’ questo appunto che si vuole intendere quando si dice, in religione,
che nell’altro vediamo il volto del fondamento beato. Ogni incontro con l’altro
è illuminato di luce soprannaturale. E’ per questo che, nella fede, attribuiamo alla vita umana, ad ogni vita
umana, un infinito valore. E perché, lo dico con il filosofo Aldo Capitini, non
vorremmo rinunciare a nessuno. Lo si può realizzare mettendosi a scuola di
dialogo. Nel brano che ho trascritto di
seguito, Giuseppe Lazzati diede alcune importanti indicazioni in merito.
Fondamentalmente, noi non ci dobbiamo proporre
di costruire una comunità, ma di suscitarla, che significa far emergere
dagli altri quella luce di cui dicevo.
Questo rende molto importante il ruolo di coloro che accoglieranno la gente
nuova e inizieranno a guidarla su quella via. Si tratterà di presiedere della
assemblee per fare emergere da esse la comunità e la sua luce. Occorreranno che
questi primi direttori di orchestra
abbiano la capacità di capire gli altri e di orientare il lavoro comune in modo
che ognuno abbia un suo spazio, senza essere tiranneggiato né da chi dirige, né
dal gruppo nel suo insieme, né da altri che vi partecipano. Questi primi
animatori vanno considerati un po’ come i sostegni che si mettono ai giovani
alberi quando sono ancora troppo giovani per resistere al vento e alle
intemperie. Lo si fece per i pini di via Val Padana, io lo ricordo e ne ho anche le fotografie. Ora non ne hanno più bisogno. Così deve accadere nel
processo di suscitazione di una comunità da una collettività. Si suscitano
anche nuove persone che poi la presiederanno con la piena fiducia delle
assemblee. Esse emergono
dall’assemblea comunitaria. In qualche modo quindi i primi animatori devono
essere pronti a mettersi in secondo piano nel momento in cui ne emergeranno
altri dall’assemblea. E, innanzi tutto, devono individuarli nell’assemblea. Non
è detto che ve ne sia uno solamente. Anzi, per stabilire una continuità di
tradizione, si ritiene preferibile quella che viene definita una leadership comunitaria che è l’insieme
di tutte le persone che in un qualche gruppo si occupano di proporre obiettivi, di proporre vie per
realizzarli, di contribuire al mantenimento del gruppo, di rendere equilibrate
le diverse funzioni della vita di gruppo
evitando estremismi fatali, di far superare atteggiamenti passivi o
rassegnati.
Ecco come vengono riassunte le qualità di chi
svolge la funzione di presiedere nel libro di Gennaro Luce, Dinamica di Gruppo, Edizione LMS, 1977:
-un grande spirito di sacrificio per
dimenticare se stessi e donarsi agli altri;
-il “leader” dev’essere un vero
“testimone” di ciò che annuncia e profondo conoscitore dell’ambiente dove
lavora;
-egli deve avere un grande dominio
delle proprie reazioni per poter capire gli altri;
-egli deve sintetizzare in sé i valori egli obiettivi del gruppo.
Un’ultima considerazione.
Per fare spazio a tutti è necessario
imparare il metodo democratico. Che implica l’accettare alcuni valori, come il
rispetto della dignità e della personalità degli altri. Il fare spazio agli altri. Ma
anche saper praticare una certa tecnica per discutere e prendere decisioni
collettive, individuando le questioni importanti sulla base degli obiettivi che l'assemblea si propone di raggiungere, formulandole in modo comprensibile e organico e mettendole in votazione in modo che ne risulti una volontà collettiva coerente. E' il lavoro delle assemblee legislative. Io queste cose le appresi per la prima volta nella mia vita in
FUCI, che sostanzialmente seguiva, come anche oggi, la linea dell’Azione
Cattolica, pur nella reciproca autonomia, ai tempi nostri più marcata di
allora. Alcuni di coloro che all'epoca presiedevano le nostre assemblee di universitari oggi sono parlamentari e hanno contribuito a riscrivere parti importanti della nostra Costituzione. Ancora una volta, come nel secondo dopoguerra, sono il frutto maturo del nostro laicato di fede.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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post pubblicato il 1 gennaio 2012 con il titolo “AC
S.Clemente 29-11-11 – L’affermazione dei principi
nella società è compito di tutti”
Il
testo che vi presento questa sera è un’opera collettiva. Alla fine ne dirò il
titolo e l’epoca di pubblicazione. Riguarda l’affermazione dei principi di fede
nella società. Li apprendiamo in una collettività nella quale siamo educati.
Essa, fin dalle origini, si raccoglie intorno a maestri, che si impegnano a
tramandare fedelmente quei principi di generazione in generazione.
Non agisce solo per il bene dei propri membri. Ritiene di poter
venire in aiuto delle società in cui vive. In questo c’è un compito che può
essere svolto anche da coloro che non hanno specificamente il compito di
organizzare e formare ai principi quella collettività. Nessuno in essa deve
essere solamente passivo. E’ la stessa complessità dell’organizzazione delle
società umane a richiedere che il lavoro di influire per l’affermazione dei
principi sia svolto anche da coloro che, nei vari ambiti sociali, hanno modo di
operare. Esso, quindi, non è estraneo alla vita di fede: ne è invece una delle
finalità.
La famiglia, la cultura, l’economia, le arti e
le professioni, la politica, le relazioni internazionali non sono solo vie,
strumenti, per il perfezionamento personale, ma hanno un valore loro proprio,
per il loro particolare rapporto con la persona umana al servizio della quale
sono state create, per migliorare la società secondo i principi di fede.
Benché
nella fede si confidi che tutto ciò che esiste possa, al termine della storia,
essere ricondotto ad unità, ogni realtà sociale ha suoi propri fini, sue
proprie leggi, suoi propri mezzi, una sua specifica importanza per la persona
umana: si parla in proposito di una sua autonomia.
Conoscere
i principi di fede tramandati e
sforzarsi di conformare la propria vita ad essi, sotto la guida di maestri
stimati e degni di fiducia, non sono sufficienti ad influire sulla società
intorno a noi. La collettività di fede è vista come un corpo umano, in cui ogni
parte deve esercitare la funzione sua propria, per il bene di tutti. Sono gli
stessi nostri maestri ad esortare vivamente tutte le persone di fede a fare la
loro parte per difendere e applicare i principi ai problemi attuali, cooperando
anche con persone di altre fedi e convinzioni, secondo la specifica competenza
di ciascuno e sotto la propria personale responsabilità. Un lavoro
che, comportando lo sforzo di adeguare le società in cui si vive a principi
supremi, universali, che richiedono di dare a ciascuno il suo, ciò che gli
compete in ragione della comune umanità, deve essere vista come azione di
giustizia. Quest’ultima è anche considerata una manifestazione di “amore”. Nel
greco antico, la lingua in cui furono scritti i libri che caratterizzano specificamente
la nostra fede, ciò che si traduce in genere con la parola italiana “amore” è
espresso con vari termini: agàpe, filìa, coinonìa,
èros. C’è una frase di quei libri che ci coinvolge sempre
emotivamente: ò Teòs agàpe estìn (così è
scritto nella prima lettera di Giovanni, al capitolo quarto, versetto 8.
Significa: il fondamento beato di tutto,
il Creatore, è agàpe). Indica
ciò che è al fondo di molte altre nostre convinzioni comuni. Uno dei suoi sensi
profondi può essere spiegato così: nella nostra fede vorremmo arrivare
a raccogliere tutti gli umani, nessuno escluso, a mangiare insieme da amici,
una bella cena, con vino buono, che rallegra ma non fa male, e buon cibo, l’agàpe
appunto. La nostra giustizia può quindi anche essere
considerata come un cercare di instaurare questa agàpe nelle
società in cui viviamo. Nonostante le difficoltà e i dolori della vita comune.
Rese
così questa idea, nel 1980, il giornalista Paolo Giuntella:
“Non bisogna infatti
smettere di essere poeti per costruire la nuova città della giustizia. Bisogna
smettere di essere istrioni. E diventare per la prima volta poeti. Cioè
trasformatori. ‘Poièsis’ del resto significa produzione, costruzione, prodotto.
Il prodotto della pràxis. La bellezza , compimento della poesia, senza slabbrature,
non è infatti languore e malinconia. Anche la nostalgia più cruda e inguaribile
deve trasformarsi in poesia, in energia e superare l’adolescenza attraverso
l’esperienza del dolore e divenire adulta. Incontrerà, allora, senza dubbio la
Bellezza, vincerà l’impossibile, ricongiungerà le carni e le anime divise.
Signore, non
allontanare da me questo calice. D’accordo, Ma fa che si trasformi in
Marzemìno, in Teroldègo [due tipi di vino pregiato]
generoso. Che io possa ritrovare la tenerezza tua Immagine, tuo Senso, tuo
Seno, e possa tornare a danzare sulla piazza del mercato al suono del flauto e
poi sedere sotto la pergola dell’osteria di Cana a bere quel mosto che non
ubriaca mai.”
Un’azione di giustizia che si basa
su convinzioni di fede è religiosa. Questo significa che l’agire individuale e
comune scaturisce da forti interiorità e che, per questo motivo, non ci si
arrende mai, per quanto le società in cui si vive resistano al
cambiamento. La meditazione personale, lo studio dei libri fondativi del nostro
vivere insieme da persone di fede, la partecipazione alle celebrazioni comuni
ci fortificano contro ogni disillusione e ogni difficoltà.
Ci sono molte vie per l’impegno,
non una sola. Sempre bisogna aver presenti quelli che stanno peggio, coloro che
mancano di cibo, vestiti, casa, medicine, lavoro, istruzione, di un livello
minimo di benessere, Un altro campo di azione è quello che riguarda la vita
nelle famiglie. In esse può essere iniziato un dialogo amichevole con i più
giovani, che può proseguire anche in altre occasioni. Anche la partecipazione
alla società civile e a quella politica può essere occasione di operare per
l’affermazione dei principi di giustizia. Storicamente si è anche affermato un
tipo di impegno che caratterizza le organizzazioni dette “di azione
cattolica”. In esse, con un più stretto legame con chi ha il compito di
organizzare le collettività religiose, ci si forma e si collabora alla
diffusione dei principi di fede in vari ambienti sociali.
La formazione che si richiede a
chi voglia operare religiosamente per l’affermazione dei principi di fede nelle
società in cui vive è sia spirituale che culturale. Bisogna conoscere bene il
mondo in cui ci si trova inseriti, essere inseriti nelle proprie società, al
livello con la loro cultura.
L’arte
del convivere e cooperare fraternamente, al fini di stabilire un dialogo con
gli altri, con credenti e non credenti, con prudenza e gentilezza, per “promuovere
tutto ciò che è vero, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è santo, tutto ciò
che è amabile”, si apprende. C’è in questo un tirocinio da compiere, non si
tratta solo di imparare una teoria.
Associandosi
ad altri che condividono certi obiettivi concreti, ci si può
sostenere l’un l’altro in questo. Ma le varie idee che ci si propone di attuare
nella società, i metodi seguiti e i risultati ottenuti devono essere discussi e
vagliati, in spirito di fraternità e cooperazione, al cospetto dei
capi della collettività religiosa, che hanno il compito di mantenere l’unione
di tutte le forze che, nei vari ambiti, operano per l’affermazione dei principi
di fede nella società. Questa è una parte importante di quel tirocinio di cui
si è detto. Siamo esortati ad eliminare, a partire dalle relazioni con coloro
che condividono la nostra fede, ogni malizia e ogni inganno, le ipocrisie e le
invidie e tutte le maldicenze. A coltivare l’amicizia, per offrirci
vicendevolmente aiuto. Quando parliamo di “dialogo” che cosa dobbiamo
intendere?
Ci ragionò molto su Giuseppe
Lazzati (1909-1986), che a lungo lavorò in Azione Cattolica:
Suoi caratteri sono i
seguenti: 1) la chiarezza innanzi tutto; il dialogo è un travaso di pensiero
…basta questa iniziale esigenza per sollecitare … a rivedere ogni forma del
nostro linguaggio; 2)altro carattere è poi la mitezza…il dialogo non è
orgoglioso, non è pungente, non è offensivo…non comando, non è imposizione. E’
pacifico, evita i modi violenti; è paziente; è generoso; 3) la fiducia …
promuove la confidenza e l’amicizia…esclude ogni scopo egoistico; 4) la
prudenza pedagogica, la quale fa grande conto delle condizioni psicologiche e
morali di chi ascolta. Nel dialogo, così condotto, si realizza l’unione della
verità e della carità, dell’intelligenza e dell’amore.
(da una lezione tenuta
nel 1984)
Nei secoli passati si cercò
di stabilire una forte continuità tra le convinzioni di fede e quelle, di
diversa natura, diffuse nelle varie società, ad esempio quelle che riguardavano
gli ordinamenti politici e il funzionamento della natura, gli astri, la Terra,
i viventi, compresi gli esseri umani.
Ai
nostri tempi si ritiene che l’unità, tra l’ordine spirituale e quello del mondo
in cui si vive, si attui in primo luogo ed essenzialmente nelle coscienze delle
persone di fede. Nella convinzione, comunque, che si stia formando
come una nuova creazione, in modo iniziale qui ed ora, in modo perfetto in un
tempo a venire, alla fine. La realtà presente, nella quale siamo inseriti, non
è per questo privata di autonomia e valore, ma ne è come perfezionata. Ciò
significa che le società in cui viviamo, con le loro difficoltà, i loro dolori,
i loro problemi, non sono mai, nella visione di fede, l’ultima parola sugli
esseri umani. E, nella fedeltà ai principi religiosi, riteniamo obbligo di
giustizia di agire in esse per soccorrere le persone che in esse vivono, avendo
“riguardo, con estrema delicatezza, alla libertà e alla dignità della
persona che riceve l’aiuto”, senza desiderio di
dominio, nell’intento di eliminare “non solo gli effetti, ma
anche le cause dei mali…in modo che coloro i quali [ricevono
l’aiuto] vengano a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e
diventino sufficienti a se stessi.
Ho
riassunto e commentato il decreto Apostolicam Actuositatem (=l’apostolato), sull’apostolato dei laici, del
18 novembre 1963, approvato e diffuso
durante il Concilio Vaticano 2°.
Mario Ardigò dell'AC S.Clemente