La mediazione culturale, strumento dei laici di fede per
influire nelle società del loro tempo
Dall’Ottocento si è divenuti sempre più
consapevoli del ruolo importantissimo dei laici di fede per influire nelle
società del loro tempo secondo gli ideali religiosi. Nei secoli precedenti,
nella nostra confessione si era ritenuto che si trattasse di cosa che competeva
ai capi del clero, nelle loro funzioni di insegnamento e di governo. L’era
delle democrazie contemporanee ha reso manifesta l’insufficienza di questa
concezione. Così, anche se nei nostri capi religiosi permane una radicata
sfiducia nei laici di fede, in particolare quando agiscono in maggiore
autonomia e pretendono che essa sia riconosciuta come lecita ed efficace, il
campo di azione laicale si è
progressivamente esteso da ruoli prevalentemente esecutivi fino alla
formulazione dei principi di azione sociale. Questo processo è stato favorito
da una certa democratizzazione della giurisdizione ideologica dei nostri capi
religiosi, nel senso che dalla metà dello scorso secolo non si sono avuti gli
eccessi inquisitori e sanzionatori che
travagliarono atrocemente l’esperienza storica delle nostre collettività
religiose. L’ultima campagna di repressione con i caratteri di durezza del
tremendo passato, senza però che si potesse giungere alla soppressione fisica,
vietata dalle leggi degli stati, fu quella contro il movimento modernista: essa, oggi, ci appare
insensata. Portò all’emarginazione sociale e religiosa di persone di grande
valore. Quella contro la teologia sudamericana della liberazione, attuata a
partire dagli anni ’70, in concomitanza con l’emergere di quell’importantissimo
e fecondo movimento culturale e religioso, ebbe caratteri più attenuati, anche
se fu gravida di conseguenze sociali negative.
Stiamo imparando, anche in religione e in
particolare in teologia, a convivere con le differenze, a parlarci nonostante
le differenze. Questo atteggiamento di
dialogo, finché dura ed è praticato in concreto, rende possibile la coesistenza
pacifica tra diversi. Trovare le parole per costruire un linguaggio comune per
parlarsi al di là delle differenze è un lavoro che è chiamato di mediazione culturale. Esso è stato
fondamentale per i laici di fede europei per edificare una nuova Europa, dopo
la catastrofe bellica provocata dai totalitarismi fascisti europei. Ma è
servito anche per integrare, in una realtà europea che costituisce un’assoluta
novità storica, l’Unione Europea dei tempi nostri, i popoli liberati dal
dominio dell’impero sovietico. Il metodo della mediazione culturale è
tuttora piuttosto ostico ai nostri capi religiosi del clero, data la struttura
feudale della loro organizzazione. Ma lo è anche per alcuni capi carismatici
emersi dagli anni ‘70 dal laicato, i quali pretendono di avere più che altro
fedeli esecutori tra i loro seguaci e di costruire gerarchie dall’alto, ancora
al modo feudale, come quella del clero. In effetti il metodo della mediazione culturale è fortemente legato ai processi democratici,
che, secondo alcuni, non dovrebbero essere praticati in religione, concezione
che personalmente ho assai precocemente ripudiato e cerco di contrastare
francamente e duramente appena mi si
presenta l’occasione, in particolare appunto praticando i metodi e i principi
democratici anche in religione.
Praticare la mediazione culturale richiede una formazione religiosa di livello
più avanzato di quella che si fa per i sacramenti dell’iniziazione di fede e
non solo di tipo catechetico. Bisogna certamente che il laico di fede che si
voglia impegnare in questo lavoro sia in grado di comprendere il significato
delle principali affermazioni teologiche che si fanno in religione, risultato
che non sempre si riesce a ottenere all’esito dei catechismi di primo e secondo
livello, generando in particolare una sorta di incomunicabilità tra preti e
laici. Ma bisogna anche prendere consapevolezza dei processi culturali e sociali
che sono in atto nelle nostra collettività di fede, nel loro lavoro in
religione e nelle società civili, e avere gli strumenti culturali per valutarli,
non solo in linea di pensiero ma anche nelle loro implicazioni sociali.
Costruzioni teologiche piuttosto affascinanti hanno storicamente generato crudeli
applicazioni pratiche. E una pianta va giudicata dai suoi frutti, come è
scritto.
Da noi in parrocchia non siamo riusciti da
tempo a produrre una formazione religiosa dei laici del tipo di quella che ho
sopra descritto. Per organizzarla le forze dei preti della parrocchia non bastano.
Occorre radunare altre forze. Senza
altre forze non si potranno produrre i cambiamenti che servono.
L’idea stessa di mediazione culturale penso sia
poco familiare ai laici di fede della
nostra parrocchia. Ma lo è, in genere, in Italia, dove per trent’anni hanno
prevalso in religione correnti reazionarie.
Due anni fa ho pubblicato le mie schede di
lettura di un libro del teologo Bruno Secondin proprio sul tema della mediazione culturale. Le pubblico
nuovamente di seguito, come mio contributo al cambiamento che serve. Avviso
che, come per gli appunti dalle lezioni del teologo Ferretti che ho pubblicato
ieri, si tratta di un testo complesso, che richiede fatica e tempo per essere
capito. Vi consiglio quindi di farne un copia/incolla su un file del vostro
archivio su pc e di programmarne la lettura nel tempo.
Ricordo che la mediazione culturale è
faticosa, in termini di tempo e di impegno intellettuale. Non si basa su un’estasi
religiosa o su un adeguamento emotivo e acritico a modelli proposti da altri. La sua forza non dipende dal carisma di un
qualche personaggio dei tempi nostri che propone una sua via, un suo metodo, un
suo cammino, invitandoci a seguirlo prima di capire dove si va, di modo che,
giuratagli fedeltà eterna, il più è fatto.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Che
cos'è e come si fa la mediazione culturale
Miei appunti di lettura del
saggio di Bruno Secondin "Messaggio evangelico e culture -
problemi e dinamiche della mediazione culturale", Edizioni Paoline,
1982
Note: ogni capitolo si apre
con una sintesi dal testo di Secondin ed è seguito da note e considerazioni mie
1
L'umanità sta vivendo un periodo della sua storia
caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti: lo si riconobbe anche durante il
Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e di
questo rimane traccia in particolare nella costituzione pastorale sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (=la
gioia e la speranza), al n.4. In Occidente si è andata delineando una rottura
tra Vangelo e culture: sembra che i valori religiosi siano
considerati superflui, se non addirittura ostacoli al progresso nei campi della
giustizia sociale e della libertà. In realtà il problema di trovare nuove sintesi vitali e di superare schemi obsoleti si è sempre posto e ciò è attestato anche
nella Scrittura.
"…il problema
della mediazione culturale mai esaurita
non è fantasia di teologi
innovatori, ma esigenza di fedeltà al Vangelo e al progetto di Dio nei riguardi degli uomini"[pag.6]
Il messaggio evangelico deve raggiungere tutti
gli esseri umani e parlare loro in termini comprensibili e nel rispetto dei
loro valori. Ma non ogni incarnazione [calare
il Vangelo nella società contemporanea] del Vangelo è corretta. Occorre
mantenere fermi alcuni criteri di
identità e risolvere sempre di nuovo classiche antinomie.
Siamo eredi di una cultura profondamente
imbevuta del cristianesimo. Essa manifestò una condizione civile di cristianità totale, si sviluppò in
società evangelizzate fino alle radici.
Il Vangelo non può legarsi ad uno schema
culturale in modo assoluto, ma "il
non incontro tra Vangelo e culture pregiudica di molto la profondità
dell'evangelizzazione e la piena efficacia operativa della verità salvifica
stessa" [pag.8].
Che cosa si intende con la parola cultura ? Non solamente una attività
intellettuale. Secondo la definizione di E.B.Taylor in "Primitive Culture" (=la cultura dei primitivi), Murray,
Londra, 1871):
"Cultura o
civiltà è un insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il
diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro della
società".
Se ne trova un'altra
definizione al n.53 della costituzione Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2°:
"Con il termine generico di «cultura»
si vogliono indicare tutti quei mezzi con i
quali l'uomo affina ed esplicita le molteplici sue doti di anima e corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo
stesso con la conoscenza ed il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che nella società civile,
mediante il progresso del costume e delle istituzioni;
infine, con l'andare del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze ed
aspirazioni spirituali, affinché possano
servire al progresso di molti, anzi di
tutto il genere umano. Di conseguenza la cultura presenta necessariamente un aspetto storico
e sociale, e la voce «cultura» esprime spesso un significato sociologico ed etnologico. In questo senso si parla di pluralità delle culture. Infatti dal diverso modo di far uso delle cose, di
lavorare, di esprimersi, di praticare
la religione e di formare i costumi, di fare le leggi, di creare gli istituti giuridici, di sviluppare
le scienze e le arti e di coltivare il bello,
hanno origine le diverse condizioni comuni di vita e le diverse maniere di organizzare i beni della vita. Così pure
si costruisce l'ambiente storicamente definito, in cui ogni uomo, di qualsiasi
stirpe ed epoca, si inserisce, e
da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà."
Sul rapporto tra fede e cultura nel medesimo documento si osserva, al
n.58:
"Fra messaggio
della salvezza e la cultura umana esistono molteplici rapporti. Dio infatti, rivelandosi al suo popolo, fino alla
piena manifestazione di sé nel
Figlio incarnato, ha parlato secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche. Parimenti la
chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni
diverse, si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella
sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo
e approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei
fedeli".
La civiltà europea ha ricevuto la sua
fisionomia e la sua identità dalla storia della idee religiose e dai conflitti
e dalle divisioni della cristianità. Si
tratta di un processo maturato nel giro di secoli. Possono bastare pochi
decenni per smentire questa storia. Secondo Secondin non bisogna farsi troppe
illusioni: siamo in una fase di transizione culturale molto estesa.
Secondo il teologo franese Marie-Dominique
Chenu (1895-1990):
"La Chiesa del
20° secolo non ha più da prendere in mano la guida della civiltà e la promozione dei popoli,
bensì ha da gettare il lievito evangelico in queste
civiltà, in queste strutture dell'umanità".
Per Secondin "la presenza della Chiesa nel mondo deve essere oggi
caratterizzata da una capacità illuminativa, critica, costruttiva dell'annuncio
del Vangelo all'interno delle situazioni storiche" [pag.10].
La cultura globalmente cristiana sta
scomponendosi in un arcipelago di culture e sottoculture. Ma nello stesso tempo
il processo di planetarizzazione [oggi si dice globalizzazione - nota mia] sta omogeneizzando un po' tutto in una
cultura di massa priva di profondità e ostile alle provocazioni vitali del
Vangelo. Sono due processi inversi, ma in grado di rimescolare equilibri
secolari e di creare e ampliae una instabilità "che si presta al gioco del
più abile e di chi ha in mano le leve dell'opinione pubblica".
"il risultato è una civiltà senza radici, con frammenti di cristianesimo vaganti più nel sottosuolo che nelle
strutture portanti della società" [pag.10-11]
Note
mie:
Nel
testo che ho sopra sintetizzato occorre distinguere tra le opinioni
dell'autore, che sono il frutto di una riflessione personale di uno studioso,
le opinioni degli altri autori citati (Taylor e Chenu), che sono il frutto
della loro riflessione personale, e il pensiero espresso nei brani della
costituzione pastorale Gaudium et spes,
che invece costituiscono parte del magistero
sociale e che quindi hanno valore normativo nella nostra confessione
religiosa. Tuttavia, anche quel magistero sociale
è legato ad una determinata
situazione storica, è, in questo senso, una manifestazione culturale: questo
significa il termine pastorale con la
quale si denota quella costituzione del Concilio
Vaticano 2°. Il libro è stato pubblicato nel 1982 e la Gaudium
et spes risale alla prima metà degli scorsi anni '60. Chiediamoci se e come
la situazione della società in essi descritta è mutata. In effetti essa è
mutata, mi pare. Il processo di globalizzazione
su scala planetaria si è molto
esteso, favorito anche dalle nuove tecnologie e dall'affermarsi dei modi di
produzione e di scambio, quindi dall'economia, occidentale in gran parte dei
sistemi politici e nazionali della terra. D'altra parte il processo di disgregazione delle unità culturali in
una molteplicità di culture si è
trasformato in un processo di dissoluzione
delle culture su base individualistica, coinvolgendo addirittura gli stati
nazionali, i quali ancora agli inizi degli anni '80 detenevano il massimo della
sovranità sulle società da loro dominate. In qualche modo il processo di mediazione culturale risente dalla crisi
di uno dei termini della mediazione, quello costituito appunto dalla culture. Anche
l'altro termine della mediazione, la fede, è stata coinvolta in questo
processo, in ciò in cui essa è espressione di una cultura.
2
Ogni epoca storica ha dato risposte nuove alle
mutate situazioni culturali, pur cercando di non sminuire il messaggio
trascendente e assoluto del Verbo fatto carne. Fede è storicità talvolta sono
entrate in tensione. Se ne possono citare vari esempi storici.
La definizione dell'essere Cristo Figlio di
Dio e vero uomo al medesimo tempo, adottata nel Concilio di Calcedonia del 451
fu formulata in termini legati alla cultura egemone dl tempo, quella greco-latina
e trovarono incomprensione e reazione in altre culture, portando al distacco
delle Chiese dette "monofisite".
L'incoronazione come imperatore di Roma di
Carlo Magno re dei Franchi , il 25 dicembre 800, costituì una ragione
gravissima di lacerazioni con le Chiese cristiane orientali, in particolare con
la Chiesa di Bisanzio, capitale dell'Impero Romano d'Oriente, che considerava i
barbari, come i Franchi,
materialisti, rozzi e incapaci del cristianesimo.
Il pensiero dell'antico filosofo greco
Aristotele (4° secolo dell'era antica) considerava la monarchia la forma
perfetta di governo: questa concezione influì sui criteri adottati per
l'organizzazione della comunità cristiana, che divenne una monarchia in un
contesto di monarchie concorrenziali.
"Ne risulterà una
concezione assoluta del potere papale, di cui oggi si sente la lontananza dal Vangelo e dalla
chiesa primitiva". [pag.36]
Interessi economici e ragioni di prestigio
personale impedirono di capire che la riforma protestante (16° secolo) partiva
da esigenze profondamente evangeliche.
L'enciclica Rerum Novarum (=delle novità) del papa Leone 13° (1891) ipotizzava
una direzione autoritativa e centralizzata del movimento cattolico "e anzi l'idea stessa di un movimento cattolico unitario alle
dipendenze della gerarchia": tale idea è oggi obsoleta.
"Il
[Concilio]
Vaticano 2° ha ribadito che identità e
ruolo sociale della Chiesa vanno affidati e recuperati non con parametri
socio-giuridici o politici, ma piuttosto teologici. Inoltre bisogna tener conto
della legittimità del pluralismo di opzioni e organizzazioni e della emergenza
di nuovi soggetti protagonisti: le donne e i giovani, per esempio" [pag.37].
In ogni fase storica si possono cogliere costanti e varianti.
Ci sono tre criteri per giudicarla: la relazione con il passato, la relazione con il presente,
la relazine con il futuro.
Nella fede si congiungono
"l'ispirazione evangelica (l'impulso vitale) che viene dal passato e la creatività, cioè la capacita di far
nascere qualcosa di nuovo" [pag.38]
Bisogna anche valutare il ruolo del magistero nell'orientare come fattore di fedeltà e di unità e quello "stimolante
e profetico delle «minoranza cognitive» più sensibili ai disagi dell'asfissia
culturale, più ardimentose nell'uscire dai sacri recinti del patrimonio
ricevuto passivamente, per confrontarsi con la storia che si muove".
E, infine, bisogna saper "distinguere fra il rivestimento
storico culturale ed elemento essenziale irrinunciabile".
Oggi noi cristiani ci sentiamo circondati da
incomprensione e compassione, se non
perfino da ostilità gratuita. Coloro che seguono i valori religiosi anno la
figura di minoranze con poco sèguito. Preti, suore, religiosi sembrano i più
arretrati nella cultura attuale, nel loro modo di vestire, nelle loro forme di
vita comunitaria, nelle loro attività specifiche, nella loro concezione della
corporeità e dei rapporti interpersonali.
Il linguaggio religioso sembra essere
diventato come quello espresso nei geroglifici egiziani, che necessita di traduzioni
e interpretazioni, ormai privo della capacità di manifestare con immediatezza i
suoi significati vitali.
Ci troviamo allora ad essere come delle "figure estranee, strane, forestiere
nella casa dei contemporanei". Gli altri non riescono a cogliere un messaggio che a noi
sembra chiaro ed evidente e si fanno di noi un'immagine diversa (e poco
gradevole) a quella che vorremmo noi.
Allora ci sentiamo delle vittime.
La questioni più grossa è il nostro
progressivo isolamento dall'evolversi della cultura.
"Il
ritardo culturale provoca un'impotenza crescente nella trasmissione dei valori
evangelici" [pag.14].
Abbiamo fuso in un blocco unico dati
essenziali e contingenti, tradizioni evangeliche e costumi locali, scelte di
fondo e mode momentanee: "tutto rischia
di fare la stessa fine, di essere messo in discussione, di essere respinto, e
fors'anche irriso. La forza del Vangelo ci appare indebolita. Avvertiamo
una "prevenzione preconcetta e
radicata verso tutto il messaggio a causa del riardo culturale delle
«mediazioni» utilizzate". Si tratta senza dubbio di sfasatura e di ritardo culturale. Un modo di far convivere fede e storia trovato
dalle generazioni a noi anteriori non regge più. L'aggiornamento promosso dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965) è stato
lento, disorganico e invisibile
ritardo sul rapido scomporsi della cultura liberal borghese. Abbiamo minori
capacità di incidere sulla storia attuale, come dimostrato in politica sulle
questioni del divorzio e dell'aborto e, nella società civile, dal massiccio calo dei segni di appartenenza alla
Chiesa (matrimoni, riti, associazioni). Le Chiese "non sono più in grado di farsi ascoltare, né riescono più ad
essere punto di riferimento se non per minoranza sempre più esigue".
Si pensa a nuove strategia di presenza della
Chiesa, attraverso iniziative profetiche e provocatorie, mediante "un lungo processo di nuove sintesi, di
mediazioni nuove fra eredità e nuovi problemi".
Note
mie:
La situazione delineata da Secondin all'inizio
degli anni '80 ha avuto in Italia imprevisti sviluppi. Come segnalano le
statistiche, anche ad esempio quelle citate in questi giorni sul quotidiano La Repubblica, è proseguita la crisi dei
segni di appartenenza (battesimi, matrimoni religiosi, frequenza
alle liturgie, adesione all'insegnamento della religione nella scuola pubblica)
e si è approfondito su alcune questioni, in particolare su quelle procreative,
il divario tra l'insegnamento dei vescovi e le opinioni e la pratica dei
fedeli, ma il peso delle questioni religiose e il ruolo della nostra gerarchia
è rimasto rilevantissimo nella nostra società civile.
Infatti spesso vengono pubblicate statistiche
centrate sugli elementi di dissenso, che sicuramente vi sono, ma che non dicono
nulla sugli elementi di consenso, che sono ancora molto importanti e, direi,
preponderanti. In particolare il senso
della giustizia diffuso tra le nostre genti è ancora profondamente
improntato alla nostra fede. E la figura
del Papa è ancora considerata come quella di un maestro di spiritualità ed
etica anche al di fuori della cerchia dei cosiddetti praticanti, vale a dire di coloro che mostrano una maggiore
assiduità alle liturgie religiose. Ciò è
dimostrato dalla stupefacente spazio che
interventi del Papa attuale e del suo predecessore hanno avuto di
recente su quotidiani considerati espressione della più rigorosa laicità di pensiero, nel senso di estraneità al
pensiero religioso.
Se effettivamente i praticanti, nel senso che ho sopra precisato, sono effettivamente
una minoranza della popolazione, non
condivido l'opinione di chi pensa che allora la nostra, quella italiana, sia
una Chiesa in minoranza. In realtà,
sulla gran parte delle questioni più importanti per la vita civile della nostra
nazione, il pensiero ispirato dalla fede è ancora sicuramente maggioritario. Non comprenderlo ci fa perdere importanti
opportunità.
3
Nei momenti di cambiamento e di transizione bisogna
interrogarsi su quello che sta avvenendo e "sui significati di fondo ella storia che si vive e si progetta, su ciò
che resta e ciò che muta, su quello che dal passato si può imparare e su quello
che non si deve ripetere": è il lavoro del discernimento.
Non bisogna perdere l'originalità del
messaggio del Signore, ma occorre "riscoprire
il senso di una presenza a contatto vivo"
con l'umanità nella quale la Chiesa è impiantata.
"Una vita cristiana … deve continuamente riferirsi alle proprie origini;
deve orientarsi verso le promesse future nella cui aspettazione vive; e
radicarsi nell'oggi in maniera realistica" [ da La comunione ecclesiale, documento dei vescovi spagnoli del 1979
citato dall'autore].
Nella storia si celebra la rinnovata
accettazione della "parola ultima" di Cristo da parte della Chiesa: essa
è sequela di Cristo, " custodia gelosa e comune degli elementi imprescindibili del
patrimonio ricevuto".
Occorre però rileggere il patrimonio delle tradizioni "con occhi meno incantati",
"per discernere tra assoluto e
contingente, fra rivestimenti culturali, categorie antropologiche e verità che
conduce davvero alla libertà e che va pertanto custodita in tutto il suo
spessore".
Nello sforzo di risalire alla genuinità delle
origini evangeliche vi è il "pericolo di travolgere tutto un
cammino di storia e di tradizioni, senza le quali non sarebbe giunta fino a noi
neppure la forza di risalire alla sorgente". Ma vi è anche il pericolo di svuotare i comandi del Signore per fare stare in piedi le
tradizioni degli uomini".
"Occorre riprendere il contatto con le sorgenti anche attraverso il
tracciato storico del fiume di Dio: perché ne mostra la fecondità e la
molteplicità degli aspetti e dei contenuti nel migrare degli anni. E così si
coglie l'incompiutezza sempre presente,
il protendersi verso nuove realizzazioni, il farsi ancora ricco di sorprese,
provocatorio e demitizzante, per chi si crede in possesso della formula
definitiva".
Note
mie
Nell'ultima riunione del gruppo abbiamo
assistito ad un filmato in cui sono stati presentati diversi modi di vivere
come collettività religiosa nei tempi caratterizzati dal lavoro innescato dal
Concilio Vaticano 2°. Abbiamo visto le immagini di gruppi che si sforzano di
mantenere ritualità e impostazioni del passato, rifiutando del tutto l'aggiornamento conciliare, e varie esperienze, in particolare nell'Europa settentrionale, in
cui si cerca di costruire nuove consuetudini. E' stato sottolineato che uno
degli sviluppi post-conciliari più interessanti è stata la promozione di un
nuovo ruolo (mai esistito prima e anzi di solito duramente contrastato) dei
laici di fede. Il filmato però non ha
sottolineato che proprio in questo campo si sono prodotti contrasti molto seri,
che riflettono in genere quelli più generali che originano dal modo di
affrontare il rapporto con la storia dell'umanità. Di solito il teologhese utilizzato per parlare di religione tra noi
tende ad attenuare (mascherare?) le caratterizzazioni e a trasferirle comunque
dalla Terra al Cielo, attribuendone la responsabilità a potenze soprannaturali.
La linea di discrimine non corre però in Cielo ma sulla Terra ed è rilevabile
dal modo in cui si affrontano le questioni relative alla democrazia
contemporanea: con questo criterio si possono distinguere molto nettamente
concezioni reazionarie da concezioni di tipo conciliare, nel senso di
maggiormente in linea con il lavoro promosso a partire dal Concilio Vaticano
2°. Le esperienze dove non c'è democrazia, dove quindi ci si propone di seguire
i comandi di gerarchie di tipo oligarchico sono di tipo reazionario: la nostra
Azione Cattolica non lo è. Essa infatti ha nel suo statuto il proposito di
essere palestra di democrazia e lo
espone con molto risalto come una bandiera.
Il lavoro di discernimento storico a cui si riferisce Secondin nel testo sopra
sintetizzato è di tipo collettivo e
richiede di essere fatto nel dialogo democratico: non è un compito per
oligarchi. Per capire veramente la realtà storica in tutte le sue
sfaccettature, occorre infatti la collaborazione e l'impegno di tutti.
4
La fede s'è trovata sempre a sostenere un
dialogo vitale con le culture, la sua inculturazione:
oggi, più liberamente che in altri tempi, di questo siamo coscienti e abbiamo
la possibilità di dirlo senza correre il rischio di essere accusati di tradire
la fede. Tutto ciò che è umano è destinato ad essere penetrato da Cristo, per
diventare una nuova creazione. Questa è una esigenza intrinseca
all'incarnazione, la quale è redenzione,
completamento e unificazione. Ed è necessario trovare un equilibrio tra il
dato/memoria ricevuto (essenziale punto di riferimento) e lo spazio dato alla
profezia, al non ancora emerso, al non ancora vissuto.
La storia del cristianesimo può essere vista
come la presenza e il dispiegarsi di un moltitudine di volti di Cristo, che è
la prova più evidente del lungo e fecondo processo di incontro, scontro e
promozione tra i dati della fede e i parametri culturali specifici delle
generazioni, delle civiltà e delle stirpi. Essa manifesta una profezia a
carattere popolare, vitale, mistico, un carisma messianico collettivo che si
esprime nelle strutture sociali e nelle arti, nelle leggi e nei proverbi, nelle
liturgie e nelle associazioni varie, nelle autobiografie e nel paesaggio.
Nel periodo
più antico Cristo è visto innanzi tutto come l'illuminatore, il maestro di verità, il vincitore e il signore della
storia, il dispensatore di
immortalità e di vita tutto però in forma frammentaria, vista la situazione di
minoranza e di sofferenza. Emergono soprattutto le figure dei martiri, che
seguono la sorte dolorosa di Cristo, come sue membra viva e suoi testimoni fedeli.
Intorno al 3° secolo emerge la via
dell'ascesi, animata dalla fede, dalla verginità, dalla carità, dal servizio.
Contemporaneamente emergono apologisti e dotti convertiti che tentano una presentazione più raffinata della
via cristiana.
Quando la Chiesa ottiene di essere associata
al potere politico, i confini dell'impero diventano i suoi confini ideali e
Oriente e Occidente elaborano diverse cristologie e diverse sensibilità di
fronte al mistero di Cristo: in Oriente prevale la sottolineatura della
divinità di Cristo, mentre nelle Chiese latine si svilupperà di preferenza il
modulo del Dio crocifisso.
Sparita
quasi del tutto l'esperienza del martirio, emergono le figure dei monaci, che
conducono una vita dedita all'imitazione
di Cristo nel senso di assimilazione all'attualità dei suoi misteri, in una
sintesi vitale. Il Cristo del monaco non è senza
storia, ma oltre la storia. I monaci inventano un nuovo itinerario spirituale
e pongono le basi di una nuova civiltà politica che doveva nascere dalla
mescolanza fra popolazioni antiche e nuove. Essi evangelizzarono l'Europa e
civilizzarono i numerosi popoli invasori, in una lunga gestazione durata
secoli, in cui si produsse la riqualificazione in chiave cristiana delle
basiliche e delle forme religiose romane.
Dopo il mille si sviluppò la ricerca
dottrinale, sganciandola dalla devozione e sviluppando una seri di principi
filosofici. Tommaso D'Aquino (1225-1274) ne è una figura emblematica: "la sua capacità di sistematizzazione
rigorosa del dato rivelato alla luce dei nuovi apporti culturali (soprattutto
Aristotele, ma non solo) segnerà i secoli". Nei monasteri si sviluppò
contemporaneamente una particolare elaborazione concettuale, quella che verrà
chiamata teologia monastica.
Emerse anche la volontà del popolo di riappropriarsi
della sua fede, della sua pietà e della sua liturgia. Si assistette al grande
risveglio pauperistico dei secoli 12° e
13°, alla ricerca quasi letterale dei valori evangelici. Ne è modello Francesco
d'Assisi.
"Il
valore del poverello di Assisi diviene emblematico ancor più quando si
consideri che la teologia speculativa si stava allontanando pericolosamente dal
vissuto e la celebrazione cultuale era divenuta troppo arcana e lontana per il
popolo semplice" [pag.29].
Emerge
la devozione moderna, rappresentata
nel suo capolavoro, l'opera "L'imitazione
di Cristo". Si manifestò una mediazione fra le vecchie forme di vita
devota e la nuova mentalità più dinamica e laica, più democratica e soggettiva.
Emerse la coscienza viva di un Dio salvatore che è anche uomo tra gli uomini.
"Il
realismo e il verismo del volto di Cristo di questo periodo si smorza a poco
a poco e si confonde con il Cristo
grande sapiente, potente e raffinato
degli umanisti e del fascinoso rinascimento italiano" [pag.29-30].
Note
mie:
Per quanto mi consta, la
storia delle nostre esperienze religiose collettive è assente dall'iniziazione
religiosa. Si passa direttamente dai tempi del primo Maestro ai nostri, senza
alcuna mediazione. Così si può pensare che la sofisticata concettuologia che ai
tempi nostri utilizziamo per esprimere la fede fosse già presente alle origini,
ma non è così. Sembra che riconoscere la verità dello sviluppo storico dei
nostri dogmi di fede conduca a sminuirli, facendone delle invenzioni umane. Eppure la nostra
dottrina teologica non è scesa direttamente dal Cielo. Le nostre Scritture
sacre non sono trattati di teologia e penso che sia per questo che su di esse
si sono potute fondare tutte le nostre teologie, nei duemila anni della storia
del nostro pensiero religioso. I nostri fedeli non sono mai stati puramente di ripetitori e la sequela non è mai stata pura
imitazione, ma piuttosto uno
sviluppare certi principi ideali. La vita terrena e gli insegnamenti del nostro
primo Maestro sono all'origine di questo processo, ma la fede in lui ci
proietta oltre il passato, di nuovo verso di lui come destino finale della
nostra storia umana. Questo slancio verso il futuro, verso le novità della
storia, è l'impegno proprio di ogni persona di fede, che deve costruire la propria strada verso il
destino beato. La ricetta non la si trova già bella e fatta, richiede uno
sforzo. Spesso le cose, nell'iniziazione religiosa, vengono presentate come
troppo semplici. Viene troppo sottovalutato il contributo umano che la fede ha
richiesto e ancora richiede.
"Non
è vero che basta predicare Gesù Cristo e che in tal modo si sono risolti tutti
i problemi. Gesù Cristo è un problema anche oggi…Il problema consiste nel
vedere come e in che senso uno possa rischiare la propria vita per questo
concreto Gesù di Nazaret alla fede creduto uomo crocifisso e risorto. Proprio a
ciò si deve dare una motivazione. Non è quindi possibile cominciare da Gesù
Cristo come dal dato semplicemente ultimo; bisogna anche condurre a lui".
[da Karl Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Friburgo
1976 ; Edizioni San Paolo 1990].
5
Nel Cinquecento si creò una situazione che ha
similitudini con l'attuale. Una situazione ecclesiale che si trascina da uno
scandalo all'altro. La scoperta di un mondo nuovo, con il cambiamento di equilibri di secoli, la
frattura con l'Islam, la fioritura di speranza derivata da un Concilio (quello
di Trento, 1545/1563). Tutto questo provocò un rimescolamento di equilibri e un
vero cambio di cultura e civiltà. Si era all'inizio di un nuovo umanesimo, in
rottura totale con il medioevo. Si cerca di recuperare l'antichità classica,
perché si pensava che essa avesse realizzato il tipo umano più riuscito. Si
confida nella bontà della natura: ne intravvede le conseguenze Tommaso Moro nel
saggio Utopia (1516). Si forma un
sistema di pensiero nuovo. Il sapere e l'esistenza non sono più all'interno di
prospettive di fede. E tuttavia, pur nel discredito di vecchie forme di
spiritualità, si liberano nuove energie spirituali, ad esempio la riforma
carmelitana o il caso di Ignazio di Loyola. L'esperienza concreta ha il primato
sulla dottrina. La conciliazione tra due
esigenze contrarie, azione e contemplazione, avviene attraverso
l'attualizzazione di un'unica decisione di libertà, ma che prende la totalità
dell'essere: è "contemplazione in azione", un movimento unitario di
apertura a Dio e al mondo.
Si produce la riforma protestante, centrata
globalmente sul Cristo della croce. Solo Cristo, in questa concezione, può
rendere possibile la vita sociale degli uomini; da ciò deriva un ideale di vita
sociale basato sulla sequela di Cristo
e perdura la collaborazione tra stato e Chiesa.
Gli anabattisti invece, movimento evangelico
pacifico fondato sulla non violenza, sull'amore fraterno, sulla comunione dei
beni e sull'universalismo della salvezza rifiutavano qualsiasi ingerenza negli
affari politici, vivendo in radicale opposizione con le strutture del mondo.
Anche nell'ambito della riforma vi furono
quindi diversi tipi di mediazione: alcuni furono pi propensi alla
collaborazione in nome di Cristi, altri nello stesso nome più ostili a
qualsiasi progetto che non fosse la pura e semplice presenza nella storia della
novità dell'evento di Cristo.
Altri volti
di Cristo emersero nei secoli successivi: il cristocentrismo della Croce,
quello dell'Eucaristia, quello del Cuore, quello del Sangue. Nell'Ottocento vengono recuperate, in Cristo,
l'eccezionalità, la moralità elevata, la grandezza storica. Viene anche messa in risalto la globalità dei
misteri di Cristo e si trovano negli eventi pasquali i significati pasquali,
per collegare meglio Cristo, il cosmo, la Chiesa.
La religiosità popolare preferisce un Cristo
più umano e concreto, critico e contestatore, solidale e sofferente, amico dei
poveri. Si pensa allora a un Cristo liberatore
e un Cristo di poveri.
"Ogni
epoca ha espresso a suo modo la insondabile ricchezza di Gesù Cristo con gli
strumenti culturali di cui disponeva;
sul piano materiale, sociale, spirituale … anche oggi questa novità e insonnia
per Cristo non si è esaurita" [pag.34]
Secondin ricorda il cristocentrismo del papa
Giovanni Paolo 2°, secondo il quale alla base del discorso religioso sull'uomo
sta l'esperienza storica di Cristo e del suo mistero.
"In
conclusione ogni epoca storia, anche la nostra, ha riascoltato la domanda «voi
chi dite che io sia?». E vi ha dato risposte sempre nuove, sollecitata anche
dalle cangianti situazioni culturali e pur sempre premurosa di non sminuire il
messaggio trascendente e assoluto del verbo che si è fatto carne per la nostra
salvezza e per fare dell'uomo l'icona del Verbo" [pag.35-36].
6
Il fenomeno delle mediazioni culturali si
manifesta anche nella Bibbia. Il significato della storia, la presenza di Dio,
gli effetti di essa su Israele e sul suo destino vengono espressi e compresi
attraverso le culture mesopotamiche, quelle dell'Egitto, di Canaan, della
Siria, della Persia, della Grecia, dell'Asia Minore e poi di Roma. Non si
tratta di un patrimonio che via via cresce e si completa: si hanno accentuazioni
ora di questa ora di quella prospettiva, a seconda delle circostanza storiche e
culturali. Il messianismo delle origini, con prospettive vaghe e cosmiche, si
fa più concreto e realistico al tempo dei profeti. Israele dovette darsi un re per proteggere
meglio la propri indipendenza nazionale. Inizialmente questo fu interpretato dalla tradizione profetica
come un tradimento della sovranità unica
di Dio su Israele. In Isaia la monarchia
fu vista come una mediazione tra il popolo di Israele e il suo Signore, che
doveva tendere alla giustizia e alla pace. La figura del Messia viene
tratteggiata come un "nuovo Davide". Sulla base della visione
sessualistica/naturalistica della religione cananea, Osea presente l'alleanza di Dio con il suo popolo
come delle nozze e la terra premessa come dono nuziale. Le diverse tradizioni
culturali presentano il Messia, a seconda delle prospettive e delle
accentuazioni come mediatore regale, mediatore sacerdotale, mediatore profetico.
Le relazioni fra il Messia mediatore e Dio stesso sono espresse dai titoli di Servo, Aiuto, Figlio di Dio, Figlio
dell'Uomo, Unto. La presenza di questi titoli e attestati non è uniforme ma
discontinua. Le variazioni dipendono dalle situazioni, dai fallimenti
nazionali, dal prevalere di correnti spirituali con esigenze peculiari. La
tradizione deuteronomistica si
propone di rifare la storia con il senno del poi, organizza il culto secondo
esigenze di centralismo e di legalismo, introduce forme vitali e strutture
organizzative mutuate da altri gruppi etnici. Insomma, persone e avvenimenti
storici continenti divengono strumento di rivelazione di un messaggio assoluto
e trascendente, la parola divina e lo stesso mistero si fanno linguaggio e
segno umano. Le diverse tradizioni hanno lasciato profonde tracce nel libro
sacro. La fede degli israeliti mostrò una capacità peculiare di assimilare
elementi culturali altrui per esprimersi.
"La
mediazione culturale dell'Antica alleanza è durata fino ai tempi di Gesù: si
pensi alla corrente sapienziale e alla traduzione del libro in lingua greca. La
traduzione in lingua greca dei libri sacri - la cosiddetta «dei Settanta» - più
che una traduzione si sa che fu opera di interpretazione culturale originale".
Note
mie:
Quando ci occupiamo del tema
della mediazione culturale nelle cose di fede, ci rendiamo conto che la
questione va molto oltre la semplice necessità di tradurre il linguaggio religioso, di spiegare i suoi simboli, per
la gente alla quale vogliamo parlare della nostra fede per diffonderla. E' la
stessa fede che ci giunge portata da culture che non sono quelle del nostro
tempo, quindi mediata da esse, che nello stesso tempo in cui la
trasportano nei secoli e nello spazio in qualche modo la nascondono. Questo
riguarda le stesse nostre Scritture sacre come anche ogni altra espressione
della nostra fede. Bisogna sempre fare uno sforzo per capire ed esso si fa
tanto più intenso quanto la cultura che media un certo messaggio è lontana
dalla nostra. Non è come quando ci facciamo la Comunione, prendiamo in mano
l'ostia consacrata e la mangiamo, non trovando alcuna difficoltà ad
assimilarla.
Non è così facile, come talvolta sembra che si
ritenga, estrarre la Parola dalle parole dei testi sacri. Ma questo vale anche
per scritti molto più vicini a noi, come i documenti del Concilio Vaticano 2°
che risalgono solo alla metà degli scorsi anni Sessanta.
E spesso applicare imprudentemente alla
situazione dei nostri giorni principi che riguardavano tempi storici molto
diversi causa problemi. Ad esempio, considerando il principio "Dare a Cesare quel che è di Cesare"
spesso non si tiene conto che esso fu formulato nella Palestina sotto
occupazione romana, in cui "Cesare" significava la potenza occupante,
che aveva lasciato una limitata autonomia alle istituzioni locali giudaiche,
quelle che ruotavano intorno al Tempio di Gerusalemme e alle dinastie sovrane
israelitiche sottomesse. Nell'Italia di oggi, dove "Cesare", siamo tutti noi che partecipiamo al potere
sovrano con i metodi di una democrazia popolare può non essere così semplice e
le nostre autorità religiose non possono essere assimilate a quelle di
quell'antico Tempio. Le cose si complicano, e molto, quando, negli scritti
"storici" e "profetici" ci si riferisce a complicate
vicende politiche dell'antico Vicino Oriente, che coinvolsero Assiri,
Babilonesi, Egiziani, come anche le altre popolazioni con le quali gli antichi
israeliti entrarono in conflitto in Palestina. Così anche quando il cosmo, le
sue origini, le sue evoluzioni, il suo destino, vengono interpretati secondo i
canoni culturali correnti in antichissime culture mediorientali. Così
l'edizione delle Scrittura Sacre commissionata dai nostri vescovi, quella che
risale al 2008, come anche la precedente, del 1974, sono corredate da un
corposo apparato di note e tutte le
varie edizioni delle Scrittura in commercio non si distinguono solo per
la qualità delle traduzioni, ma per l'estensione delle note e delle altre
spiegazioni. Un accostamento troppo semplicistico e ingenuo alle Scritture
rischia di farne travisare il senso. E
spesso non c'è un solo senso da capire. L'accumularsi delle varie tradizioni ha
comportato una molteplicità di significati. Questo è piuttosto sensibile anche
nei testi neotestamentari, che pure si sono condensati più velocemente di altre
parti della Scrittura e sono stati mediati da culture più vicine a noi, in
particolare quelle antiche greca e romana,
che ancora permeano profondamente la cultura del nostro tempo.
7
Gesù Cristo stesso si è servito di elementi
contingenti e parziali tratti dalla cultura ebraica del suo tempo, a volte
contestandoli o modificandoli, il più delle volte mantenendoli inalterati. In questo senso egli è figlio del suo tempo,
del suo popolo, della cultura locale e perfino legato alle forme linguistiche della
Galilea. Fa su e le modalità religiose della tradizione ebraica: feste,
pellegrinaggi, rito pasquale, culto al tempio, presenza alla sinagoga
metodologia pedagogica rabbinica e altro ancora. Approfitta delle feste
popolari per dar loro un significato più pieno, nuovo: ad esempio della festa
dei Tabernacoli, della Pasqua e della Pentecoste. Nei suoi insegnamenti
utilizza schemi diffusi e praticati dal popolo: digiuni, oblo al tempio,
abluzioni, offerta all'altare, attese popolari sul messia e sui profeti ultimi, credenze negli spiriti del male. Nel Padre nostro utilizza praticamente tutti
gli elementi dell'esperienza orante tradizionale ebraica, fatta eccezione per
l'espressione originale Abbà (=babbo,
papà). Si pone però anche in tensione con la realtà del suo tempo, facendo di
se stesso il parametro di giudizio: in tal modo relativizza ogni tentativo di
manipolare il divino per esercizi di potere umano. Smantella tutte le pareti
divisorie e ricapitola in sé l'eredità
di tutti i popoli.
Il
Vangelo venne predicato originariamente in lingua aramaica. A poco a poco
avviene però un distacco dalla originaria matrice culturale. Il problema
principale diviene la Legge, cui
viene opposta la fede. Avviene la fissazione scritta del contenuto
nella buona novella in greco: in essa si dà prova della fedeltà all'evento
conosciuto e visto e alla sensibilità
delle persone alle quali gli scritti sono rivolti; si tratta di una legge incarnatoria. Ne è emblematico il
lavoro di san Paolo tra le genti. Nel Nuovo Testamento vi è una pluralità di affermazioni
cristologiche, di formule kerigmatiche (kèrigma,
dal greco antico: sono le formule sintetiche e fondamentali dell'annuncio
evangelico), di titoli messianici. Essi manifestano una pluralità nella
comprensione di fede del mistero di Cristo.
Carlo Maria Martini propose una schema di
interpretazione del messaggio evangelico sulla base del tipo di discepolo al
quale si rivolge: Marco sarebbe il Vangelo del catecumeno, Matteo quello del
catechista, Luca quello del teologo, Giovanni quello dell'anziano.
Si
propone anche una classificazione per cristologia: cristologia dal basso (a
Gesù di Nazaret alla fede in Cristo Signore); cristologia dall'alto (si ha
sempre come riferimento l'immagine del Cristo pasquale, vivo, potente, rivelatore
del mistero nascosto nei secoli), cristologia funzionale (parte dall'azione
salvatrice di Gesù), cristologia epifanica o sacramentale (Gesù di Nazaret è
per la fede la riveliazione del vero
Dio, suo Figlio, sua Parola eterna, la salvezza qui e ora).
La fisionomia dei gruppi primitivi dei
credenti (a Gerusalemme, Antiochia, Efeso, Corinto, Tessalonica, Roma) stimolò
i missionari a raggiungere una
conoscenza più complessa e articolare del mistero di Dio.
Negli ultimi scritti neotestamentari (Giovanni,
Pietro, Ebrei) all'insistenza sul kèrigma
si andò sostituendo quella sulla testimonianza attraverso buone opere o bella
condotta: già alla fine della prima generazione cristiana la responsabilità del
messaggio era vissuta diversamente secondo i tempi della storia delle comunità
e le situazioni socio-religiose.
Il tema ellenistico del corpo visto come un
organismo viene reinterpretato da san Paolo in chiave cristologica proponendo
il Cristo glorioso come la testa del corpo costituito dalla chiesa universale.
Il catalogo delle virtù tratto dall'etica ellenistica viene da san Paolo
utilizzato per descrivere gli obblighi morali di ogni essere umano dentro il
cristianesimo. In epoca post-apostolica l'universalità di tali norme non verrà
più mantenuta.
Dalle origini la storia della rivelazione
proseguì e prosegue in un continuo andirivieni tra tradizioni dei popoli e
mediazioni della Parola.
"Con
l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo" [dalla
costituzione pastorale Gaudium et spes (=la
gioia e la speranza), del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n. 22].
8
L'Europa come civiltà superiore si avvia alla
fine. La sostituisce la cultura di massa, meno riflessiva. La Chiesa non può
[non risentirne]. In essa si scontrato spinte opposte: quella che vuole
rifondare tutto da capo e quella della conservazione. Molti si trascinano [consuetudini
culturali e di culto del passato], frutto di stratificazioni di secoli, e non
hanno ancora coraggiosamente vagliato quanto [in esse è] essenziale e quanto
[è] contingente. Oppure si crede che la soluzione della crisi stia nel
ritrovamento da part dei credenti di una loro presunta coscienza e identità di
popolo , che fa da elemento unificante e distinguente rispetto alla
collettività: tale via conduce alla [emarginazione] della fede religiosa.
Bisogna cambiare strategia, evitare
soprattutto di condurre la Chiesa ad alienarsi nell'isolamento sdegnoso, come
se fosse a sola a capire il vero bene.
La Chiesa è chiamata ad essere segno profetico nei ritmi della storia e
coscienza critica [contro ogni soluzione e mediazione che pretenda di porsi
come assoluta]. E' chiamata [a contrastare] ogni progetto che [si ponga] come
ultimo, pur accettando [gli] apporti positivi.
Il problema della mediazione non è mai un
problema chiuso, ma è in continua evoluzione, perché la cultura non è un
sistema chiuso. Come dice il Concilio [Vaticano 2° - 1962/1965]:
"Inviata
a tutti i popoli di qualsiasi tempo e luogo, la Chiesa non si lega in modo
esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo
di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria
tradizione e nello stesso tempo
cosciente della sua missione universale, è in grado di entrare in comunione con
le diverse forme di cultura … in tal modo la Chiesa compiendo la sua missione,
già in questo fatto stimola e dà il suo contributo alla cultura umana e
civile" [dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes (=la gioia e la speranza), n.58]
Il problema della mediazione culturale in
quest'epoca di grandi cambiamenti è al centro dell'aggiornamento ecclesiale
attuale, un processo enorme. Il ritardo culturale e la persistenza di
mediazioni non rispondenti al nuovo
corso sono ancora [un motivo di
difficoltà] nelle nostre comunità ecclesiali. Tuttavia lentamente sta prendendo
corpo la convinzione che [la distanza] culturale che si separa dalla storia è
una provocazione non solo alla fedeltà ai valori ricevuti, ma anche all'approfondimento
[delle possibili aperture al Vangelo] insite nelle correnti umanistiche
attuali. Non è sufficiente avere a disposizione dei valori, è necessario
diventare, essere un "valore, costruirsi in forma di valore significativo.
Tutti i [documenti del Concilio Vaticano 2]
hanno di mira una verifica dei valori essenziali per un nuovo dialogo con il
mondo contemporaneo. [Si tratta] di entrare in dialogo con la storia attuale e
i problemi culturali delle nostre generazioni per una duplice fedeltà, a Dio e
all'uomo: non si tratta di fedeltà contrapposte; esse formano un unico
atteggiamento spirituale che porte la Chiesa a scegliere le vie più adatte ad
esercitare la sua funzione di mediazione tra Dio e gli uomini.
Per credere veramente nell'Incarnazione
occorre essere coinvolti nell'esperienza
di una sempre nuova "assunzione" della carne. Il messaggio cristiano,
si potrebbe dire, deve morire entro ogni cultura e risuscitarvi con nuovo
splendore: non deve farsi strumentalizzare, ma deve sempre di nuovo provocare e
alimentare.
"come Cristo fatto uomo
-scrive Mancini- la cultura cristiana deve incarnarsi nel mondo. Come Cristo
crocifisso deve resistere al mondo, deve progressivamente demondanizzarsi e rappresentare per il mondo una riserva
critica, la forma perennemente alternativa. Come Cristo risorto, la cultura
cristiana deve aiutare il mondo a rigenerarsi, ad attuare prassi di
liberazione".
Il disagio attuale alquanto profondo e al conoscenza di varianti storiche e
bibliche notevoli nella trasmissione e nell'esperienza del messaggio della
salvezza, dovrebbero pacificare in noi eventuali timori di essere alle prese
con falsi problemi o di intaccare i fondamenti della nostra fede.
9
Nel processo di secolarizzazione emerge la
prevalenza della cultura dell'indifferenza nei confronti di qualsiasi domanda
sul senso della vita umana. Il cristianesimo in Occidente va perdendo la sua
famosa caratteristica di "religione di tutti", ma quel che preoccupa
di più è il venir meno dell'idea di trascendenza che si fa storia. Si perde
allora l'alterità di Dio rispetto alla storia e anche la non riducibilità
dell'uomo alle realtà materiali e alla situazione presente. La cultura dell'immediato e del razionale
sembra precludere ogni spazio all'annuncio di fede.
E' urgente rendere contemporaneo il Vangelo ai
nostri contemporanei.
Occorre conoscere i vari progetti di uomo
attualmente proposti da altre forze collettive e movimenti di massa,
individuare i filoni consistenti delle culture secolari che hanno ampiamente
occupato gli spazi disponibili. Gli esperti hanno cominciato a indagare sulla
consistenza di culture sommerse, dette anche subalterne: quella contadina, quella dei pastori, quella dei
migranti, quella che si sta formando nelle cinture delle grandi città
industrializzate, quella delle minoranze etniche e religiose.
[Nei tempi passati] toccava alla Chiesa
progettare l'uomo: oggi il progettare è diventato un fatto autonomo, se non a
volte in opposizione, rispetto alla tutela della fede. Molti sono i soggetti
elaboratori di nuove antropologie, primari e autonomi. Alla Chiesa è chiesto di
entrare in questo processo di progettazione.
Dei progetti/uomo
se ne individuano almeno una mezza dozzina.
Si va da quello da quello portato a
privilegiare nell'uomo la categoria della storicità, del divenire se stesso
entro la storia al modello [centrato sul fare e sulla rivoluzione, secondo il
quale] una teoria senza influsso [sul fare] è vuota. [C'è il modello che
recupera il primato dei bisogni [e li assolutizza]. C'è quello che sottolinea
la dimensione [di gioco] e festiva, contemplativa e disinibita della persona. C'è infine il modello di uomo pacificato con
la natura e con la sua corporeità, capace di gestire le relazioni con il cosmo
e la sua interiorità mediante una disciplina e una sapienza vitale.
Certo [serve conoscere quei modelli], ma ancor
più serve "farsi prossimi", accostarsi e confrontarsi con queste
prospettive esistenziali. Per dirla con padre Bartolomeo Sorge la comunità
cristiana è chiamata "a fare coagulo tra culture diverse, a far emergere
quei valori veri che sono comuni a diversi umanesimi, e che si ritrovano in
parte in ogni elaborazione sull'uomo".
[Lo scrittore Bernanos] ammonisce: "Tutte
le brecce si aprono sul cielo"; alle volte la presenza del divino si
scopre dove non si sarebbe pensato di trovarla. Lo scambio vitale tra Chiesa
evangelizzatrice e culture antiche e nuove è criterio di fedeltà alla volontà
di Dio di far discepole le genti.
10
I valori culturali non sono degli assoluti.
Nel dialogo occorre rispetto reciproco, donare e ricevere. Non sempre forse è
avvenuto così, anche nelle chiese.
Possiamo guardare ai metodi di evangelizzazione missionaria e
scorgervi una evoluzione.
Abbiamo avuto un processo di assimilazione, [inteso come] trapianto totale nella nuova
situazione del modello già costituito altrove. Si pensi ad esempio
all'evangelizzazione delle Americhe.
Una tappa successiva è stato il processo di adattamento, [vale a dire] il processo di accostamento di
un modello culturale ad alcuni elementi di linguaggio, di sensibilità, di
espressione simbolica di un'altra cultura. E' il processo classico e il
concetto di missione fino quasi ai nostri tempi.
Si è parlato ancora di acculturazione, [intendendo] il confronto tra cultura e cultura, lo
scambio di beni, modelli, istituzioni in una osmosi bilaterale. E' questo il
processo in atto nella pastorale italiana postconcilare.
Si perla da un po' di tempo anche di inculturazione, [intendendo]
l'immissione del seme evangelico in una determinata cultura, [per] rifondare la
stessa cultura, illuminandola dall'interno.
Inculturazione
[è] un neologismo usato
ufficialmente nei documenti della chiesa forse per la prima volta nel Messaggio a Popolo di Dio" del Sinodo
dei Vescovi del 1977. Il messaggio e la fede cristiana devono tendere a "contestualizzarsi" , a
fermentare e trasformare la situazione
"locale". [Il
concetto di] inculturazione si pone ai confini tra scienze antropologiche e
scienze teologiche. "Enculturazione"
i veniva in genere chiamato dagli antropologi il processo di inserimento e crescita di un
individuo in una data cultura, attraverso varie fasi di apprendimento e di
corresponsabilizzazione. Per analogia alcuni missionari hanno cominciato a
chiamare con il termine "inculturazione"
il rapporto vitale tra messaggio cristiano e culture quando esso si sviluppa
nella linea di un vitale e progressivo inserimento e di profonda fecondazione.
Questa riflessione teologica [si è] sviluppata primariamente nelle zone di
missione [e] si riferisce anzitutto all'esperienza di chiese locali.
"La
chiesa locale è una chiesa incarnata in un popolo, una chiesa indigena e
integrata in una cultura. E questo
significa una chiesa in continuo, umile e amorevole dialogo con le tradizioni
vive, le culture, le religioni, in breve con tutte le realtà di vita del popolo"
[da
un documento del Sinodo dei vescovi dell'Asia, del 1974].
L'inculturazione
del Vangelo non è mai finita, perché la cultura è una realtà vivente e in
evoluzione. Ciò comporta ovviamente individuare la diversità delle fasi, quella
del prima apprendimento che è più passiva e quelle ulteriori che vedono in
gioco anche la capacità di una partecipazione attiva. Ma il tutto avviene in
modo preminente a livello delle chiese
locali, e si deve evitare di stabilire modelli
e processi a priori uniformi, come appunto invitano ad imparare non solo
la storia del passato, ma anche le attuali esperienze delle chiese nei vari
continenti.
V'è in atto una feconda stagione di
riplasmazione culturale di una chiesa forzatamente monoacculturata: [essa]
esige pazienza e rispetto per un pluralismo che è segno di una cattolicità viva
e reale. Anche per noi europei e italiani [è] urgente uno sforzo di "re-inculturazione" della
fede nel genio e nel sistema dei valori
del nostro popolo.
Occorre uno sforzo per integrarsi e per
integrare il Vangelo in un paese, in una lingua, in una vita che in buona parte
si sono fatti per noi e per la fede cristiana estranei. Occorre ripensare il
messaggio e i valori evangelici all'interno dei dinamismi propri della nostra
cultura.
In questi temi di fuga nel privato e nell'egoismo di massa, bisogna scoprire di nuovo
al forza di comunione del Vangelo.
Non [si tratta] di piantare alberi, ma di
gettare semi. E' nascondere un pugno di lievito nella pasta per farla
fermentare. E' nella carne della chiesa locale, della comunità particolare, che
il Vangelo va seminato e nascosto.
Tutto questo comporta un processo collettivo e individuale, una discrezione prudente, una apertura interiore capace di
umiltà e fiducia. C'è bisogno di lunga pazienza nel cercare [gli] elementi e
[i] valori evangelici che ogni cultura possiede. Si richiede audacia, umiltà [e]
passione per la comunione. La fede [allora]
darà forma alla realtà umana e sociale, trasformandola alla luce del
Vangelo in un lungo processo di tentativi e di seminagioni, che impegneranno
generazioni.
Mie
considerazioni
Stiamo vivendo tempi straordinari per la
nostra collettività religiosa, in cui sembra che la storia si sia rimessa in
moto. Viverli da soli, da semplici spettatori, è triste. Si sentono tante idee
e propositi interessanti e coinvolgenti. Ma lavorarci su richiede un'azione
collettiva. Dove sono però, nel nostro quartiere, quelli che sono interessati a
questi impegno? Possibile che tutte le forze che potrebbero collaborare siano
state definitivamente disperse? Che non ci sia da noi, ad esempio, un nucleo di
dieci persone tra i quaranta e i sessanta e un numero analogo tra i venti e i
quaranta con i quali ricominciare? Laici
di fede disposti a riprendere a confrontare le proprie esperienze religiose e
di vita e a studiare per progettare e sperimentare l'attuazione di un rinnovato
modello di re-inculturazione.
Disposti a stringere un patto per il rinnovamento e per sostenere la
rigenerazione delle esperienze vitali di fede, in particolare nei più giovani.
Il nostro vescovo ci ha esortati a essere Chiesa in uscita, ma io voglio lanciare
un appello forte alla Chiesa uscita. Tornate,
amici, a prendere il posto che è vostro! Senza timore, senza ritegno, senza
timidezza, con audacia, rivendicando ciò che è vostro e che non può e non deve
esservi tolto. Tornate in quella che è casa vostra, patria vostra. Forzate i
confini, abbattete i muri invisibili che vi trattengono fuori, entrate di forza, senza esibire i passaporti, al modo dei
migranti che attraversano i deserti geografici e quelli della vita, le grandi acque
del globo e della società, e si fanno stranieri per non esserlo più, mai più. Invadete
la vostra parrocchia. Entrate a viso aperto e a testa alta. Portate con voi
tutto ciò che siete e che ritenete buono. Portate le vostre vite, le vostre
esperienze, i vostri dolori, i vostri dubbi, le vostre certezze, i vostri
successi. Entrate gridando e cantando, al modo di un esercito vincitore, non
sussurrando e con gli occhi bassi. Tornate, tutti voi, che siete usciti, da poco o da molto! Tornate, voi che avete fatto il
catechismo con me, in parrocchia, tanti anni fa, e forse, passando davanti alla
vostra chiesa un po' di nostalgia ce
l'avete. Tornate, ragazze e ragazzi che avete fatto il catechismo con le mie
figlie e che ora non vedo più, ma che anni fa vedevo venire il parrocchia con
la Bibbia in mano e cantare in chiesa, e ora vi dite non più credenti e lo scrivete anche. Tornate mamme e papà del
quartiere che avete santificato la vostra vita nella famiglia, affrontando con
coraggio tante difficoltà, tante traversie, tanti rovesci, riuscendo comunque a
mantenere un ambiente amorevole o sforzandovi di farlo,
non sottraendovi alle vostre responsabilità: non sentitevi stranieri per
la Chiesa, non lo siete e non avete
bisogno che, ai confini sacri, vi si timbri il passaporto con il bollo "misericordia", le frontiere non
hanno ragione d'essere per voi, varcatele senza riserbo, d'impeto, al modo in
oggi si circola liberamente nella nostra nuova Europa varcando confini che un
tempo apparivano fatti d'acciaio. Torna Chiesa
uscita a riprendere ciò che è tuo! Fatti Chiesa in entrata! E, innanzi tutto, prendi coscienza di essere e
di essere sempre stata Chiesa.
11
Quello che forse fa problema per noi è il tasso di profezia che circola nel nostro
sangue: cioè quell'audacia profetica che viene dallo Spirito e rende capaci di
mettere in moto la storia.
"Il Concilio ha scosso le coscienze, è stato una
grande fonte di ispirazione e di rinnovamento; ma non ha dato (e non poteva
dare) una cultura nuova. E' un compito tutto da svolgere" (cita P.G.
Cabra, 1980).
Nessuna cultura è perfetta, non esiste una
cultura totalmente cristiana, non esiste una cultura totalmente impermeabile al
Vangelo.
"L'eccessivo
sviluppo del ragionamento ci ha resi buoni dialettici, ma ha isterilito la vena
profetica" (cita Carlo Molari, 1981).
"Se
l'inculturazione è un fatto vitale, è chiaro che suppone anche
l'identificazione con le sofferenze di un popolo e con le sue ansie di
liberazione e di crescita di valori autentici. Inculturazione e promozione
della giustizia si suppongono mutuamente" (cita p.Pedro Arrupe, 1978).
Mie
considerazioni
Secondin scriveva nel 1982 e ragionava ancora
nell'ottica degli anni precedenti, in cui, ad esempio, si poteva ancora parlare
di popolo e delle sue ansie e sofferenze. Nel
corso degli anni '80 si è assistito, almeno in Occidente, al progressivo
allentamento dei legami sociali, fenomeno che all'inizio venne definito come un
riflusso nel privato, ma che in
seguito si è rivelato assai più serio e duraturo, fino a coinvolgere
pesantemente anche le organizzazioni politiche, che si sono fatte molto più
deboli e molto meno stabili. Ai tempi nostri si tende ad affrontare tutti i
problemi della vita in un'ottica individualistica, sulla base dell'interesse
del singolo o, al massimo, di coloro che al singolo sono maggiormente prossimi,
come i familiari più stretti. Si pensa in genere che la collettività sia più
fonte di problemi, ad esempio di nuovi doveri, che di vantaggi. Questo ha
inciso anche sulla vita e sulle consuetudini delle nostre collettività di fede.
E' diventato difficile ottenere un impegno altruistico della gente con
carattere di continuità e ciò anche in cose minime, come può essere ad esempio
un qualche servizio in parrocchia. Ma è divenuto più complicato anche solo
riunire le persone per un'attività comune, ad esempio per certe liturgie. In
una società così atomizzata, in cui
ognuno pensa più che altro ai propri interessi particolari, anche la cultura
popolare, il complesso delle convinzioni, usi, consuetudini, linguaggi, rituali
condivisi, si è venuta scomponendo in una molteplicità di culture che si
riferiscono a settori ristretti della popolazione, ciascuno in lotta con gli
altri per l'accesso a risorse scarse, per cui è problematico parlare di giustizia sociale come se ne parlava fin
dalla metà dell'Ottocento, perché mancano criteri di giudizio al di fuori di
quegli interessi particolari, incomponibili al di là di transitori e precari
accomodamenti. Si dice, ad esempio, che la nostra collettività di fede deve
avere un'attenzione preferenziale per i poveri, ma ciascuno poi, dal suo particolare punto di
vista, si ritiene povero e
ingiustamente discriminato, perché rivolge lo sguardo a coloro che hanno di più
e non a quelli che hanno di meno, e non accetta di condividere nulla con
nessuno, salvo che questo si inserisca in un accordo che comunque gli
garantisca qualcosa in cambio. L'ideologia dell'era che stiamo vivendo fu
espressa bene, negli anni '80, da Primo ministro britannico Margaret Thatcher
quando sostenne che la società non
esiste, esistono solo gli individui.
La nostra fede religiosa si basa molto su un
impegno collettivo, fondato sull'idea che ci siano forti legami tra le persone.
Si crede "tutti insieme".
Le nostre liturgie, e in particolare la Messa, manifestano chiaramente questa
convinzione. Ma essa è costantemente espressa anche dal magistero dei nostri
capi religiosi, con molta forza. La fede non è un fatto privato, che possa
riguardare solo l'individuo nella sua interiorità. L'atomizzazione della
società ha pertanto colpito anche le nostre collettività religiose,
indebolendole e indebolendo la loro presa nella società. Le grandi folle che
negli anni passati sono state protagoniste di eventi con grande risonanza
mediatica, in particolare organizzati intorno alle persone dei Papi, si sono
rivelate un po' come il pubblico dei grandi concerti rock, volubili e incostanti. Creavano solo l'apparenza di un
consenso sociale che in realtà, al dunque, non c'era realmente. Riescono a
mantenersi in qualche modo coesi gruppi organizzati al modo di confraternite,
con impegni di solidarietà interpersonale molto forti, nel quadro di accordi che garantiscono un dare e un
ricevere, creando una dimensione di famiglia
allargata, di focolari domestici allargati, che però rimangono forti
quando si separano dal resto della società e
quindi la indeboliscono nel mentre rafforzano sé medesimi.
Il primo e più urgente sforzo di inculturazione ma pare quindi che sia
proprio quello diretto a ricostituire legami più forti nella società nel suo
complesso, per creare il terreno fertile in cui il seme evangelico possa germogliare. Il problema è che, negli scorsi
anni Ottanta e Novanta, le nostre organizzazioni religiose dell'Occidente, che
erano egemoni a livello globale, hanno stretto una sorta di patto con
organizzazioni politiche che seguivano l'ideologia dell'atomizzazione della
società e dell'individualismo, contrastando le correnti ideali e le esperienze
pratiche che spingevano verso un'unità di popolo
fondata su ideali altruistici di giustizia sociale. Ciò è accaduto nel
contrasto con l'ideologia del declinante impero sovietico, che, dopo la sua
dissoluzione, ha manifestato dinamiche sociali analoghe a quelle Occidentali.
Ma quella che definiamo dottrina sociale non ci può aiutare, perché, al di là di generiche
affermazioni di principio, essa nasce, con l'enciclica Rerum Novarum (=sulle novità), proprio per moderare aneliti e correnti di giustizia sociale, temendo i
riflessi sulle attività religiose dei conflitti sociali, dai quali storicamente
sono nati sistemi sociali e politici che consideravano gli interessi di fasce
più ampie delle popolazioni. Ma, ai tempi nostri, occorre suscitare più che moderare.
Sulla via della moderazione, per molto tempo
siamo stati in genere dei ripetitori.
Ogni innovazione è stata vista con sospetto. E' possibile che qualcosa però
stia cambiando. Vedremo. Quello che è certo
è che il cambiamento non potrà essere programmato dal vertice, ma dovrà
prodursi dalle basi della società. Occorre una nuova interpretazione dei segni
dei tempi e una serie di progetti
comuni, a seconda delle situazioni. Tutto questo non potrà essere contenuto
nell'ennesima enciclica o esortazione. Non è ordinando di costituire nuovi legami che essi si produrranno nella
società. Bisognerà inventarseli e sperimentarli
nelle situazioni concrete, vedere se e come funzionano. Bisognerà
costruire nuove ideologie, intese come forme di comprensione della realtà. E'
un campo in cui i laici sono chiamati a svolgere un lavoro essenziale. Ma non
siamo più abituati a farlo. Troppo a lungo abbiamo accettato di farci ripetitori, soggiogati dalla straripante
personalità dei nostri padri universali. Il punto di partenza credo che possa
essere la considerazione che in una società atomizzata, in cui nessuno crede di
avere motivo di fidarsi degli altri, si
vive male, come la gravissima crisi economica e sociale che stiamo vivendo
dimostra in modo eclatante. Sganciandoci dalle grande ideologie sociali del
passato siamo finiti nelle mani di persuasori occulti che, sfruttando le nostre
emozioni e le nostre debolezze, ci manovrano a loro piacimento. Chi è che
veramente comanda oggi nel mondo? Nessuno lo può veramente dire. Anche l'uomo
più potente del mondo, il presidente statunitense, si è trovato a dover subire.
Questo rende chiaro che il problema che dovremmo affrontare riguarda in primo
luogo la democrazia, che nella concezione contemporanea è intesa in primo luogo come potere
di tutti, condiviso fra tutti,
l'omnicrazia della quale scrisse Aldo Capitini (filosofo, insegnante
universitario, politico; 1899-1968), in
cui chi comanda ha sempre un nome e accetta limitazioni nell'interesse
collettivo e, innanzi tutto, per garantire
la partecipazione più ampia ed effettiva alle decisioni collettive. Che c'entra la
democrazia con la fede religiosa? C'entra in quanto la democrazia crea il popolo (è il demo- della parola democrazia) ed è solo in un popolo che la nostra fede religiosa può attecchire e crescere,
tanto che, nella nostra concezione di fede, riteniamo di essere chiamati a radunare un popolo.
12
In questo processo di mediazione culturale,
una specie di pellegrinaggio che si compie assieme e in compagnia con tutti i popoli,
si può essere presi dalla paura di rischiare troppo, che può essere provocat[a]
dalla fatica di cambiare, dall'intendere la tradizione in modo fossilizzato, il
che impedisce di condurre la Chiesa per vie ignote, in terra estranea dove c'è
da fidarsi solo sulla Parola di Dio e sulla sua fedeltà.
Legge fondamentale del Vangelo [è] far sì che
la fede, penetrando in ogni cultura, la faccia altra da quella che è, lievitandola in senso dinamico.
Ci sono epoche nelle quali alle Chiese è
chiesto di usare di più la libertà e la fantasia, la profezia per promuovere il
gusto e il sentimento della differenza qualitativa. La nostra è una di queste.
Amore e unità devono accompagnare e fondare il
cammino di inculturazione sempre ripreso. Questa comunione nell'unità si
qualifica come professione di una sola fede e deve essere vissuta non solo con
l'animo del possesso, ma anche con quello del progetto, perché ancora
attendiamo di vedere e di vivere tutta la pienezza di santità e di verità.
Il paradosso del destino umano è che si
diventa sé stessi diventando qualcosa d'altro. Ciò non toglie che bisogna
individuare gli elementi di continuità. Ci sono alcuni elementi dinamici
dell'identità cristiana che devono rimanere costanti. In questo tempo la
questione è diventata importante, anche perché la stessa concezione della
Chiesa e della sua relazione con la
storia e con il mondo si è modificata profondamente. Il volto della Chiesa
emerso in questi anni è meno giuridico e
istituzionale, e più sacramentale e missionario. In effetti la Chiesa esiste
perché il mondo creda. Essa non può limitarsi a parlare una lingua intesa e
comprensibile solo tra credenti, ma deve di continuo imparare il linguaggio degli uomini e della loro storia.
[Nello] schema classico degli Atti degli Apostoli, e più precisamente
[nei] sommari (At 2,42-47; 4,32-35]
sono evidenziati alcuni elementi qualificanti [dell'essere Chiesa]: la
perseveranza nella dottrina degli apostoli, la comunione fraterna, l'assiduità
alla frazione del pane e alla preghiera, la simpatia presso il popolo.
Mie
considerazioni
Storicamente, gli intenti di mantenere l'unità
ideologica delle nostre collettività religiose hanno originato movimenti
mortiferi e oppressivi. Questa esigenza di unità di pensiero è presto
degenerata in quella che, con gli occhi contemporanei, può essere vista come
una vera e propria ossessione. Essa ha fondamenti scritturistici ed è perciò
assai difficile da superare. La sfida dei tempi nostri è di provare a farlo.
Utilizzando la chiave di lettura dell'analisi
dei moti repressivi, può essere individuata, nella storia della nostra
confessione religiosa, un'era, che va dal Concilio di Trento allo marzo 2013,
che definirei l'era del Sant'Uffizio,
quella dell'ultima Inquisizione romana, caratterizzata da una organizzazione
burocratica centralizzata e globale della polizia ideologica religiosa, che ha
avuto termine con un nostro sovrano religioso che a lungo era stato a capo di
quella burocrazia. Negli ultimi quarant'anni l'azione di polizia ideologica ha
prodotto il progressivo inaridimento del pensiero religioso e un gravissimo
scollamento tra il popolo dei fedeli e la burocrazia da dove quell'azione
repressiva scaturiva. Quella macchina poliziesca avrebbe tuttavia continuato a
girare efficacemente, essendo un meccanismo particolarmente perfezionato ed
efficiente, basato su raffinati schemi di pensiero e dotato di una notevole
potenza mediatica, se non che altri settori della nostra burocrazia religiosa
centrale hanno ceduto, disgregandosi, in un gravissimo processo degenerativo
causato dall'inaridirsi delle nostre più coinvolgenti idealità di fede, per cui
ciò che viene definito mondanità, intesa
come smania del potere, del prestigio, della ricchezza e del piacere, e
desiderio di compromessi e alleanze con altri potenti della Terra, ha fatto, di
nuovo, irruzione negli ambienti di governo centrale della nostra confessione
religiosa, arrivando a minacciare direttamente colui che dell'unità di fede è
il simbolo mondiale. E' la storia della drammatica crisi che abbiamo
collettivamente vissuto l'anno scorso, come ci è stata riferita direttamente da
sui protagonisti e come è emersa dalle cronache.
La polizia ideologica religiosa è stata
esercitata, negli ultimi anni, secondo lo schema della lotta all'indifferentismo, basata su una sorta di tirannia della ragione, secondo una
concezione per la quale, razionalmente, la
verità è una e una sola. Uno schema analogo fu utilizzato, con conseguenza
molto più gravi, sotto il regime stalinista, in Unione Sovietica, sistema politico
caratterizzato anch'esso da forti azioni di polizia ideologica. In quest'ottica
la ragione divide: separa coloro che manifestano
un pensiero corretto, ortodosso, da quelli che ne manifestano uno deviato.
Quest'ultimo deve essere rettificato.
Nell'ottica della mediazione culturale la ragione non è invece un fattore di
divisione, ma di relazione. La verità
è ricercata, ma mai posseduta.
Ci possono essere diversi approcci, accostamenti alla verità. Secondo questo
schema il pluralismo ideologico non minaccia
l'unità di fede e non va combattuto, ma è espressione di operazioni di inculturazioni della fede.
13
Quella che si chiama anche ortodossia [deve] intendersi come
adesione vitale alla realtà
annunciata. Si tratta di una testimonianza di vita.
Come l'evangelista Giovanni richiama spesso,
occorre "fare la verità" (Gv
3,21; 1Gv 1,6), cioè interiorizzare anzitutto in se stessi la verità di Gesù
Cristo perché essa diventi la sorgente segreta di ogni azione.
Sempre secondo Giovanni la verità non è nozione astratta. Indica
[invece] la rivelazione storica di Dio in Gesù Cristo, che si attualizza nel
cuore dei credenti in virtù dello Spirito Santo. La Parola e la verità sono
come un seme (1Gv 3,9), un olio di unzione (1Gv 2,20.27), acqua viva (Gv 4,10.14);
trasforma a poco a poco il credente dall'interno e lo fa "nuovo" in
tutto il suo agire.
C'è una tensione molto feconda nel rapporto
tra messaggio cristiano che è irreversibile e definito e la varietà delle
espressioni dottrinali, culturali e pratiche, entro cui esso viene veicolato,
adattato e spiegato nella vita. C'è il rischio continuo di diluire la forza del
Vangelo, ma c'è anche il pericolo che [il] contenuto evangelico sia
sopraffatt[o] da contaminazioni ideologiche proprie di certe stagioni culturali,
o sia soffocat[o] da assolutizzazioni [esterne] alla rivelazione.
Il magistero dei successori degli apostoli
come anche quello della "collettività dei credenti" uniti ai pastori
e sostenuti dalla Spirito nell'unità (Costituzione dogmatica Dei Verbum - =la Parola di Dio - del Concilio Vaticano 2°
- 1962/1965) [aiutano] "non
sbagliarsi nella fede" (Costituzione dogmatica Lumen Gentium - =Luce per le
genti - del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965).
Il centro
essenziale e sostanziale di tutte le verità cristiane è la proclamazione
della misericordia di Dio nell'evento di Gesù Cristo, uomo e Dio
incarnato, morto e risorto per noi, e
perciò salvatore e vivente nei secoli. E attorno a simile proclamazione e
professione sostanziale e sulla base di essa che va giudicata l'ortodossia o
anche la sola compatibilità (o no) delle prospettive e delle opzioni culturali
e vitali nuove, emergenti dal mutare degli anni.
Qualcuno potrebbe pensare che il processo di
inculturazione metta in pericolo l'universale forza vincolante dell'unico
Vangelo, in quanto apre la via ad un pluralismo pernicioso e relativizzante. Ma
si deve osservare che l'universalità del messaggio cristiano, dell'etica
cristiana e dell'esperienza cristiana, non è da intendersi in modo fissista e
statico, ma dinamico.
Cita Tullo Goffi, Cattolicità dell'etica acculturata, 1979: "Il Signore ha offerto alla Chiesa il
messaggio evangelico come fermento di unità cattolica da realizzare
progressivamente; come grazia che orienta faticosamente verso la comunione
nell'unica fede; come visione dottrinale destinata a riunire tutti i disparati
valori in unità solamente alla fine".
Mie
considerazioni
La questione dell'ortodossia,
del corretto modo di pensare ed esprimere la nostra fede religiosa, ha
travagliato le nostre collettività religiose fin dalle origini e ne è rimasta
traccia evidente in quella parte delle nostre Scritture sacre che riflette
l'esperienze delle prime nostre aggregazioni di fede, in particolare negli
scritti di Paolo di Tarso. L'intento di realizzare l'ortodossia ha suscitato storicamente
incredibili efferatezze e violenze, fino ad arrivare a vere e proprie guerre, realtà
dalle quali oggi, seguendo il magistero del papa Giovanni Paolo 2°, possiamo
onestamente prendere le distanze. Cambiare la storia non è possibile, è
possibile invece falsificarne la memoria e ciò è stato fatto, a lungo. Oggi
siamo invece chiamati ad un lavoro contrario, vale a dire a quella che è stato
definito purificazione della memoria,
che implica innanzi tutto fare realistica memoria di ciò che è accaduto e proporsi
di distaccarsi dal male che è stato
fatto, prendendo un'altra direzione per il futuro. Non si tratta di ergerci a
giudici di personaggi del passato, i quali vissero, ragionarono e agirono
secondo la cultura dei loro tempi, per certi versi tanto diversa, e tanto più
feroce e intollerante, di quella dei tempi nostri. Si tratta invece di non
farsi dominare da un passato che contiene tanta brutalità. E' ciò che si fa, ad
esempio, nel confrontarsi con certi brani crudeli delle nostre Scritture Sacre,
in particolare di quelle che abbiamo adottato dall'antico giudaismo, in cui si
fa l'apologia dell'omicidio, delle stragi, addirittura del genocidio, dello
sterminio di interi popoli. Oggi, ad esempio,
non saremmo più disposti a passare tra le case dei nostri concittadini
per trucidare, per sacro zelo, coloro che si sono dati agli idoli. Quello che sto scrivendo può apparire ovvio,
ma in realtà non lo è. Per certi versi sembra che solo l'anno scorso si sia
usciti dall'era, durata cinque secoli!, dominata dal Sant'Uffizio, la rigida burocrazia di polizia ideologica che,
secondo una visione ancora corrente ai tempi nostri, sembrava indispensabile
per mantenere l'universalità del messaggio di fede, quasi che esso non si espandesse,
in realtà, per forza propria,
soprannaturale.
Noi laici non abbiamo voce nella riforma delle
strutture del clero che esprimono il governo della nostra confessione
religiosa. Decideranno quindi i vegliardi che occupano i posti di comandi. Può piacere o non
piacere, ma così è. Viviamo comunque nel secolo giusto: le loro
decisioni, qualunque esse siano, non sconvolgeranno le nostre vite. Fossimo
stati, ad esempio, nel Cinquecento, sarebbe stato diverso.
Quello che possiamo fare è sperimentare nuove
forme di convivenza tra di noi, in cui si sia maggiormente tolleranti delle
differenze di modi di pensare, di agire, di relazionarsi con gli altri fedeli e
con le società intorno. E poi cercare di essere meno clericali, meno dipendenti
in tutto, anche in quello che competerebbe primariamente a noi, dai sacerdoti.
Cercare quindi di approfondire le questioni, di farsi carico dell'unità, di non
rimanere sempre a rimorchio, come pesi morti, di qualche prete. E cercare di
non prendere parte nelle lotte clericali, tra fazioni di preti. Non è una cosa
facile perché ci hanno cresciuti insegnandoci a farci dipendenti dal clero, obbedienti e docili, al modo di un gregge. E a diffidare di tutti i devianti. Per
non avere problemi, che poi potrebbero riflettersi duramente sulla nostra vita
spirituale, si tende quindi, nelle questioni controverse, a concedere un
assenso formale, mantenendo però riserve interiori. Questo non fa progredire le
nostre collettività, che si sono infatti inaridite dal punto di vista del rinnovamento
ideale. Si tende ad essere semplici ripetitori.
Ecco che ora ci accusano di essere diventati delle mummie, di aver trasformato i nostri templi in musei. Sicuramente
noi laici abbiamo le nostre responsabilità, ma bisogna pur dire che,
finora, quelli che comandavano ci hanno
voluti proprio così, semplici comparse in uno spettacolo in cui i protagonisti
erano i nostri sovrani religiosi. E, in effetti, non è ancora cambiato molto.
Nell'esperienza religiosa si hanno
ciclicamente a che fare con forme individuali e collettive di eccesso e
stravaganza, movimenti visionari o tiranneggiati da guide spirituali dispotiche,
correnti di bellicoso ritualismo, gruppi che cercano di scalare
l'organizzazione feudale della nostra organizzazione religiosa per combattere
guerre sante dall'alto dei troni religiosi e via dicendo. Una fede che si
propone di fare unità nel genere umano e, in prospettiva, di unificarlo in un
solo popolo animato dagli stessi
ideali religiosi deve indubbiamente fare i conti con tutto ciò. Tuttavia,
probabilmente, la questione va posta, ai tempi nostri, in termini diversi che
come ortodossia, intesa come
accettazione di un'unica autorità spirituale che tracci i confini con atti
normativi e poi giudichi la conformità di pensieri e prassi nel quadro di una
sorta di procedimento giudiziario. E, innanzi tutto, quello che si fa in questo
campo deve essere forse svincolato dalla burocrazia del clero, che viene talvolta ad assumere le funzioni di una
polizia ideologica, se non esplicitamente politica.
Dovremmo ideare e sperimentare meccanismi di
riconoscimento reciproco condivisi che consentano di far coesistere
pacificamente la diversità in una unità benevolente. Mi pare che proprio
sviluppando le tematiche che dal secolo scorso hanno riguardato in religione la
questione della pace si potrebbero
raggiungere dei risultati. Ai tempi nostri infatti parliamo di pace in senso molto diverso dai secoli
passati, nei quali una realtà pacificata
era in definitiva concepita come quella in cui cessasse ogni dissenso, il
pluralismo, la diversità di pensiero e prassi. La pacificazione era intesa quindi come repressione della ribellione. Nell'era
contemporanea pace significa accettazione delle diversità e
ricerca di forme organizzative che consentano di farle coesistere senza che
diano luogo a conflitti sociali. Il dialogo interreligioso si basa proprio su
questa idea. Ciò ha consentito alla nostra confessione religiosa di fare pace con altre confessioni
religiose in passato duramente combattute come eretiche. Si tratta di un
portato dei tempi nuovi che stiamo vivendo, che, dunque, non esprimono solo il
male e il degrado, come taluni sembrano ritenere. Sono le democrazie
occidentali contemporanee ad aver raggiunto i
migliori risultati e, in religione, ci siamo messi alla loro scuola. E,
insomma, il nostro magistero professionale si è fatto in questo discepolo, pur
continuando, formalmente, a dettare legge. Alcuni vedono in questo un male, ma
i frutti sono buoni. Ai tempi nostri non si rischia più la vita per questioni
religiose. I laici di fede italiani, che vivono da protagonisti queste nuove
dinamiche democratiche, hanno ora la possibilità di essere creativi in campi in
cui la polizia ideologica religiosa precludeva l'accesso, pretendendo
uniformità e obbedienza. Mancano però le forme organizzative, perché la nostra
confessione è ancora struttura al modo feudale. Ma sperimentazioni di base
possono essere attuate, ad esempio nei rapporti di diversa ispirazione e
tendenza che vivono nelle parrocchie. Dobbiamo innanzi tutto, per come la vedo
io, iniziare dal proporci di non far
fuori le esperienze degli altri, sebbene diverse dalle nostre.
14
Faticosamente stima riscoprendo in questi
anni [l'autore scrive nel 1982 - nota mia]
la concezione neotestamentaria della fraternità, ben lontana dalla fratellanza
di tipo stoico, dall'egualitarismo democratico oggi di moda, come anche dalla
concezione di gruppo "settario" e isolato. Fraternità è frutto ed
esigenza di un nuovo rapporto col Padre unico e con la sua volontà di salvezza
universale in Cristo.
Attualmente si cercano nuove forme di fraternità, di condivisione dei beni, di povertà
evangelica gioiosa e liberante.
Logico che vi siano in questi tentativi a
volte delle radicalizzazione non sempre equilibrate o che si cada nella
reciproca diffidenza fra gruppi. Ci sono gruppi che svendono quanto la Chiesa è
stata ed ha fatto fino ad oggi, in nome di una purificazione radicale e di una
rifondazione alla luce di un Vangelo inquadrato in schemi ideologici di moda.
Ma ci sono anche gruppi che al contrario
assolutizzano forme storiche tradizionali fino ad accusare di
illegittimità ogni tentativo altrui di rinnovamento. Tali gruppi si
fronteggiano oggi nella Chiesa con reciproche repulsioni che dilacerano la
comunione.
Occorre distinguere bene il pluralismo di
opzioni temporali e la professione di
fede nel valore singolare dello spirito delle beatitudini e nella speranza del
compimento in Cristo di tutta la storia umana.
Cita san Giovanni Crisostomo (4° secolo
dell'era antica): "la Chiesa non è fatta per dividere quelli che si
riuniscono, ma per riunire insieme quelli che sono divisi".
Il centro visibile della comunità e della
comunione fa recuperato a livelo locale, ed è il vescovo con il suo
presbiterio. Senza comunione con essi, ed insieme ad essi con il Papa, non si
dà autentica comunione cattolica, e l'esperienza di mediazione culturale
rischia di assumere i connotati della provocazione settaria. Ma anche questa
comunione non è fine a se stessa, ma è in vista del popolo di Dio chiamato a
modellarsi sull'unità trinitaria e della riunione fra tutte le genti (Lumen Gentium -=luce per le genti;
Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965), il che è la vera
missione della Chiesa (Mt 28,19). Una
comunione che significasse la fine della creatività e della ricerca profetica,
non sarebbe la comunione ereditata da Cristo.
Mie
considerazioni
La fraternità universale
supera i limiti fisiologici di un individuo della nostra specie. Si è
calcolato, sulla base di sperimentazioni, che una persona umana è in grado di
stabilire relazioni sociali profonde con non più di circa 150 persone (è il
cosiddetto numero di Dunbar). E' solo
in un gruppo con questo numero di persone che si possono stabilire, per così
dire naturalmente, relazioni sociali
non conflittuali. Ma le società umane, e anche le nostre collettività
religiose, sono composte da un numero molto più grande di individui. La
strategia escogitata dalla nostra specie, con notevoli sviluppi per evoluzione
culturale, è quella di non cercare di guardarsi in faccia gli uni con gli
altri, tutti quanti siamo, cosa che appunto supera di gran lunga le nostre
possibilità fisiologiche, ma di guardare tutti verso determinati modelli o persone.
Questo rende possibili relazioni pacifiche tra un numero enorme di individui e
l'organizzazione della complessità delle nostre società. Il metodo democratico
contemporaneo è il modello più evoluto di questa strategia e combina il guardare insieme verso modelli e
persone, mentre il modello feudale monarchico era basato sostanzialmente sul
guardare tutti insieme a delle
persone, i sovrani fra loro coordinati gerarchicamente tutti rivolti verso un
monarca a tutti superiore, che impersonava l'unità. Il vantaggio del modello democratico è di essere meno conflittuale di quello feudale
perché basato sulla pari dignità delle persone umano e
quindi limitativo degli eccessi dispotici delle varie persone alle quali,
secondo certi modelli, è attribuito il ruolo di guide. I conflitti tra coloro che ambiscono di impersonare tali ruolo è
condotto secondo procedure altamente formalizzate e, per questo, si proclama che
ogni autorità è soggetta alla legge,
a un certo modello ideale. Il sistema di tipo feudale ha storicamente prodotto
un maggior livello di violenza, nella lotta tra i sovrani feudali per il
predominio. Ciò è accaduto e accade nella nostra collettività religiosa che è ,
anacronisticamente, ancora organizzata sul modello feudale. In realtà noi
sperimentiamo nella vita delle nostre collettività che non vi è, in genere un
modo di composizione pacifico dei conflitti se non quello di decidere di
sottomettersi tutti ad un unico sovrano. Questa organizzazione è
un prodotto dell'evoluzione culturale, non esisteva alle origini, anche se in
teologia si pretende di trovarvi agganci con le nostre Scritture sacre. La
concezione basata sull'idea che vi sia un popolo
unito dalla fede e che esso deve potersi esprimere in ogni cosa della fede,
emersa con forza all'inizio degli scorsi anni Sessanta, non è n realtà componibile con la concezione
feudale, secondo la quale l'unità consiste nella comune sottomissione a un
sovrano, anche se le due concezioni continuano ad essere proposte insieme, come
integrabili a vicenda. Presentare la dialettica che oggi si è prodotta nelle
nostre collettività religiose come quella tra i vescovi e il Papa significa
riproporre schemi antichi (più volte nella storia della Chiesa conflitti basati
su di essa si sono accesi, anche con conseguenze tragiche): il centro della
questione è se mettere o non mettere radicalmente in questione il sistema
feudale di organizzazione che abbiamo ereditato dai secoli passati. Non si
verte quindi in materia di contrasto tra un re e i suoi lords, i suoi feudatari ma tra re
e popolo. Dove spira il vento del soprannaturale: sul re e i suoi feudatari
o sul popolo? Si sostiene che quest'ultimo avrebbe un particolare senso della fede, ma poi, in realtà lo
si ascolta poco e, innanzi tutti, di solito lo zittisce. Esso non parla con una
voce sola, è infatti una realtà pluralistica. Questo spaventa. La verità, si
dice infatti, è una e una sola ed è
quella proclamata dal monarca supremo. Se così non fosse il gregge si
disperderebbe, si sostiene. Ma un popolo può
essere visto ancora, realisticamente, come un gregge? Avere voluto continuare a considerarlo tale ha prodotto la
gravissima e drammatica crisi che la nostra collettività religiosa sta vivendo.
Questo mese saremmo invitati a celebrare due
nostri grandi sovrani religiosi. Accorreranno le folle, qui a Roma. In occasione
di precedenti eventi simili, esse sono state solo comparse di uno spettacolo
liturgico diretto a manifestare il grande consenso verso il nostro sistema
feudale di organizzazione religiosa, andando dove veniva detto loro di andare,
recitando e cantando le parole che veniva detto loro di recitare e di cantare. Questo
grande convergere di gente potrebbe però essere anche l'occasione propizia per
interrogarsi se quel ruolo ci soddisfi veramente ancora.
15
Afferma fortemente S.Paolo: "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo a quest'unico pane"
(1 Cor 10,17).
Nei molteplici gruppi e nelle esperienze varie
spesso la celebrazione dell'eucaristia rimane il punto di incontro più alto e
intenso.
L'eucaristia della ecclesìa (termine del greco antico, che significava assemblea del popolo, passato poi nel
latino come ecclèsia, da cui Chiesa) locale rende presente la sostanza
della Chiesa tutta intera, facendo dinamicamente tutte le esperienze cristiane
comunitarie.
Nel fare memoria di quanto Dio ha fatto per
noi nella pasqua del suo Figlio, la Chiesa viene chiamata ad assumersi delle
responsabilità in ordine alla liberazione degli uomini.
"Una volta attirati alla sequela di
Cristo nell'eucaristia, i cristiani trovano la forza di liberare se stessi e i
loro fratelli da ogni manipolazione e di divenire costruttori di un mondo
nuovo, dove i diritti e la dignità di ciascuno siano rispettati, non a parole
ma a fatti" (cita un testo sul Congresso eucaristico internazionale di
Lourdes, 1981).
Mie
considerazioni
L'esperienza dimostra che la
nostra fede funziona molto meglio come fattore di liberazione individuale,
personale, che collettivo. Solo nei primi quattro, cinque secoli della nostra
storia religiosa le nostre collettività hanno espresso potenzialità di
innovazione e liberazione. Per un tempo veramente lunghissimo, durato fino alla
meta del secolo scorso esse si sono aggregate in un impero religioso che ha
sempre teso, dove ha potuto, a stipulare alleanze con i sovrani civili, senza
tener tanto conto del loro orientamento etico. In genere la religione come
manifestazione collettiva viene tuttora
sperimentata come espressione di orientamenti conservatori e di azioni
repressive. Appare superficialmente che, per essere religiosi, ci si debba
sottomettere ai preti ai loro alleati politici. Solo approfondendo si può
scoprire e sperimentare il potenziale liberatorio che è insito nella nostra
fede. Coloro che hanno cercato di teorizzare e di attuare prassi liberatorie a
sfondo religioso sono stati duramente repressi, in particolare dalla fine degli
anni Settanta. Ogni volta che in religione si affronta il tema della libertà inizia col precisare,
pignolescamente, che cosa non deve
intendersi per libertà. Sembra poi che quando si passa a dare una definizione
di libertà in positivo rimanga poco.
In genere ai fedeli viene posto come pio
obiettivo l'obbedire liberamente al
volere dei nostri sovrani religiosi.
In effetti, finché si rimane sul generico, le
parole libertà e liberazione fanno effettivamente parte del lessico religioso.
Quando però si cerca di dare un po' di concretezza a questi aneliti liberatori,
le cose si complicano.
L'unico campo in cui l'azione collettiva a
sfondo religioso appare ottenere risultati di un certo rilievo è quello del
volontariato sociale. Per il resto, quando uno si propone di agire in altri
settori della società civile, gli viene di solito intimato di farlo sotto la
propria responsabilità e senza manifestare motivazioni religiose: viene in
sostanza sconfessato.
Così, la grande emotività che deriva dalle
nostre grandi celebrazioni liturgiche rimane in genere ad un livello collettivo
piuttosto superficiale e le folle, dopo essersi adunate e aver pregato insieme,
si disperdono e se non lo fanno ci si preoccupa di disperderle. Per tanto tempo
è andata bene così. E' possibile cambiare? E' possibile. Ma bisogna prepararsi,
riprendere in mano i libri, correre il rischio di sperimentare. In genere, noi
laici si va dietro ai preti e loro sono inseriti in un sistema feudale che ha
sempre funzionato bene come strumento repressivo in tutti i sensi. Oggi forse
non si arriverebbe alle inaudite asprezze che furono riservate, ad esempio, a
Lorenzo Milani, ma mi pare che un certo conformismo continui ad essere
apprezzato.
Effettivamente nella fede si può fare
l'esperienza che viene definita come rinascita.
La fede può cambiare molto profondamente la vita. Ma poi sembra che non si
possa realizzare una unità collettiva
se non rinunciando a gran parte di ciò che si è diventati da rinati.
Rinunciando quindi ad essere costruttori
di un mondo nuovo. La Gerusalemme
celeste, la nuova casa degli essere umani nel soprannaturale, giungerà del
cielo già pronta e adorna per essere abitata, si dice, senza che noi si debba fare granché. E' solo
allora che i sovrani saranno deposti dai troni e innalzati gli umili, come è
scritto.
Il problema è il voler avere un solo mondo nuovo. Bisognerebbe
pensare se invece si debba accettare il nuovo in una sua dimensione pluralistica,
in modo che l'esigenza di unità non
divenga il motivo di costruire non nuove
città, ma un grande carcere planetario.
16
Pregare è un po' come il respiro profondo di
una comunità che sa di essere sotto la potente attenzione di Dio.
Sono molte le comunità ecclesiali che stanno riscoprendo la
preghiera non come un qualcosa di accessorio, alienante e fors'anche di falso,
ma come un'avventura verso la pienezza della propria identità cristiana.
Ha scritto uno dei leader delle nuove comunità
di base italiane [cita Franco Barbero, Maestri
di nessuno, Claudiana, 1978]:
"La preghiera non
esaurisce la fede, ma una fede senza preghiera è inconcepibile. Senza la preghiera la fede o si estingue o
diventa dottrinale … Anche nel
vivo della lotta politica, anche nel vertice dell'impegno sapremo ancora e sempre ricevere, attendere
dalla mano del Signore, ci lasceremo sempre
e ancora fare dono del suo amore. Impiegheremo le nostre mani, ma continueremo a fidarci del suo
braccio … Pregare è anche una grande croce,
perché esige disciplina, fatica, silenzio".
Pregare è uno dei settori nei
quali in questi anni si sono rivelate le
stratificazioni culturali sorpassate (linguaggio,
universo simbolico, ritualità, ritmi, ruoli ecc.), ma anche le potenzialità di
nuove mediazioni, di nuove interpretazioni anche di elementi tradizionali come
i salmi, la proclamazione della Parola, la riunione comunitaria, il canto
collettivo, le immagini, le fonti liturgiche. La preghiera ha bisogno di essere
sempre evangelizzata: cioè ricondotta alla fisionomia dell'ascoltare e
rispondere, dell'adorare e supplicare nella prospettiva del mistero di Cristo.
Talvolta purtroppo si ha a che fare con una preghiera comunitaria fondata su
esperienze magico-taumaturgiche, sull'eruzione incontrollata dell'inconscio, su
esigenze epidermiche, sull'euforia isterica.
La preghiera va fondata teologicamente e
collocata nel fiume della storia e della speranza non conclusa (Il cosiddetto
tempo intermedio). La preghiera di cui parliamo è anche superamento di una
preghiera di consumo.
Mie
considerazioni
La fede, nella mia esperienza,
sia come fatto personale che collettivo si esprime nella preghiera. Anche se
fatta insieme ad altri la preghiera rimane un fatto interiore e come tale in
gran parte incomunicabile. Quindi si può insegnare
a pregare solo fino ad un certo
punto. Poi ognuno dovrà addentrarsi in un territorio che rimarrà inaccessibile
agli altri. Ma dovrà farlo, se vorrà conservare la fede. Questo è ciò che ci
insegnano i maestri e ciò che si può verificare nella pratica, ottenendone una
conferma per così dire sperimentale.
Dicono che una voce dall'alto ci parla per
prima, ma bisogna intendersi su quello che così si vuole intendere. Non è che
ci si debba attendere di vedere gli angeli o di udire veramente una voce soprannaturale. A me non è mai accaduto e penso
che non sia accaduto nemmeno alla maggior parte delle persone religiose. Nella
preghiera si fa un'esperienza interiore e, ricostruendola a posteriori, una
persona può concludere che è stato come
dopo aver udito una voce soprannaturale. Non è poco, comunque.
Per capire ciò che intendo è necessario
sperimentare la preghiera, a cominciare da quella liturgica che si fa insieme ad altri. Chi ha ricevuto fin da piccolo una iniziazione
religiosa conosce le formule classiche di preghiera, innanzi tutto quella
evangelica del Padre nostro e poi
un'altra, caratteristica della nostra confessione, quella dell'Ave Maria. Con quella del Gloria al Padre e del Salve
Regina compongono la salmodia del popolo, il Rosario, una di quelle
preghiere che Carlo Maria Martini, grande maestro di spiritualità, chiamava a ritmo, destinate a dispiegarsi
all'occorrenza per un tempo indefinito legandosi con il ritmo stesso
dell'esistenza biologica della persona, innanzi tutto sul ritmo del respiro e del battito del cuore. Un buon test per capire
se si è ancora, nonostante tutto, una persona di fede, che può dirsi ancora nel
solco della tradizione del nostro primo Maestro, è provare a recitare una di
quelle preghiere. Quando non si riesce a
finire il Padre nostro si è fuori e
non sarà facile riavvicinarsi. Un buon
inizio è proprio partire dal Padre nostro.
Ma non basta memorizzarlo come una qualsiasi poesia. Occorre avere molto, molto
tempo. Nella preghiera infatti si fa uno spreco enorme di tempo, secondo i
canoni dell'industria contemporanea. Quindi poi la preghiera è liberare il nostro tempo per la
preghiera. E' incredibile come, nella contemplazione, una preghiera semplice
come il Padre nostro si possa dilatare all'infinito prendendo tempi
lunghissimi. Insegnano i maestri che occorre cercare un luogo in cui si possa fare silenzio, in cui taccia il mondo
intorno, taccia il nostro mondo interiore, si stia in meditazione delle cose
della fede. Le nostre chiese, e comunque alcune parti di esse, in genere sono
luoghi adatti per queste attività. Alcune chiese di Roma, storiche, molto
frequentate dai turisti, non lo sono, perché il vagare e il chiacchiericcio dei
visitatori distrae. Altre invece lo sono particolarmente. Ci si può mettere in
una sorta di pellegrinaggio e cercarle. Ma, in fondo, perché girare, quando c'è
la nostra chiesa parrocchiale, a due passi da casa nostra? Bisogna però dire
che l'esperienza del viaggio, del muoversi, prepara alle esperienze
spirituali e, innanzi tutto, favorisce quel distacco
dal mondo di tutti i giorno, in cui siamo per così dire incapsulati come una rotella in un ingranaggio, che è essenziale
all'esperienza di preghiera. Tuttavia questo lavoro per liberare il nostro tempo e di distaccarci
dagli ingranaggi sociali non deve essere un'esperienza saltuaria, destinata a
tempi straordinari, ma quotidiana e abituale. Dirlo sembra facile, nella
pratica non lo è. "Pregare è anche
una grande croce, perché esige disciplina, fatica, silenzio", scriveva
Barbero e, nella mia esperienza, è proprio così. In qualche modo bisogna forzare la nostra vita per liberare tempo per la preghiera.
17
[La] simpatia presso il
popolo è una delle costanti dell'avventura della Chiesa primitiva (si vedano ad
esempio i richiami [negli] Atti degli
apostoli 2,47; 4,21.33; 5,13) [ed è] quindi uno dei criteri per riconoscere
se si appartiene alla "cattolicità".
Secondo gli esegeti questa karis [parola greca che significa carisma = dono
soprannaturale] può essere intesa come la forza di Dio che accompagna il
ministero con segni e prodigi ma [ad avviso dell'autore vi deve essere]
incluso e sottolineato il valore
particolare di questa simpatia del popolo.
Nello sforzo di creare una vera fraternità
attorno al Signore, i credenti si guardano bene dal trasformarsi in ghetto.
Questo dialogo intenso con il mondo
circostante [procura] simpatia e favore:
è vero sempre. La vita costringe ad organizzarsi in fraternità compatte, in
strutture sociali che consentano di rinnovare e rafforzare la fede a contatto
con i testimoni qualificati e con la celebrazione orante della frazione del
pane, rito specifico. Ma nel contempo i credenti si devono rendere conto che
per poter svolgere la loro azione profetica devono essere aperti agli altri.
La stessa cosa del resto raccomandava Pietro
ai cristiani dispersi ed
emarginati:"Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia
questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza" (1Pt
3,15).
Il ruolo di minoranza conoscitiva e profetica
nel Nuovo Testamento è sempre visto in osmosi con tutto il cammino dell'ecclesìa (=Chiesa) e della società
civile, per non degenerare nell'illuminismo esoterico o nella situazione
settaria tipica degli esuli della storia.
Mie
considerazioni
Spesso i sacerdoti, in
parrocchia, ci fanno notare come il mondo che ci circonda, e anche nel nostro
quartiere, si sia allontanato da una visione religiosa della vita. Questo è senz'altro vero. Questa
situazione è molto progredite in questo
senso dai tempi in cui scriveva Bruno
Secondin, all'inizio degli anni '80. Mi capita di notarlo spesso quando devo
sentire delle persone nel mio lavoro e, quando gli chiedo informazioni sulla
loro situazione familiare, alla voce "coniugato?",
mi rispondono "convivente".
È però, a mio parere, un fenomeno diverso dal secolarismo, perché non ha comportato una diminuzione delle
credenze nel soprannaturale, un aumento della razionalità della gente. Mi pare
invece di capire che le persone si muovano pensando che ciò che loro accade sia
determinato da un contesto, per così dire, magico,
che interpretano secondo criteri che, per una persona religiosa, sono pure superstizioni. Quindi, in realtà, non è
la religione ad aver fatto passi indietro, ma è la nostra religione ad aver
perso presa tra la gente e questo per vari motivi. Di solito, per spiegare ciò
che accade, si fa riferimento, ad esempio, ai costumi sessuali più disinvolti
della nostra epoca, che contrastano con la severa morale religiosa. Ma invito a
riflettere sulla circostanza che nei duemila anni della nostra storia religiosa
le condotte sessuali delle genti cristiane, in realtà, clero e popolo, sono
state sempre assai divergenti dai modelli proposti nella predicazione. Ci sono
state epoche in cui gli stessi Papi avevano concubine, chiamate, appunto, Papesse. Da questo punto di vista uno
dei punti più bassi, nella storia della nostra Chiesa, si è raggiunto intorno
all'anno Mille, proprio alla vigilia di cambiamenti epocali, dell'introduzione
di leggi della nostra confessione religiosa che hanno profondamente segnato le
istituzioni della nostra collettività religiosa, per cui, ancora oggi, il
modello organizzativo della nostra
confessione religiosa, pur dopo i mutamenti decisi nel corso e a seguito
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), risale ancora a quell'epoca.
In
qualche modo è la dimensione collettiva della vita di fede ad essere stata
colpita e ciò è dimostrato, in Italia ma anche in tutta Europa, dal distacco
dalla liturgia, in particolare dalla frequenza alla Messa domenicale. Possiamo
considerarlo un'espressione di un male che ha colpito in generale tutta la
società civile, in particolare nella sua organizzazione politica, che in
democrazia richiede una intensa partecipazione alle decisioni collettive. Si
preferisce vivere la propria fede religiosa nella propria individualità, o al
massimo in piccoli gruppi amicali che mimano la vita in famiglia. Questo
comporta, distaccandosi dalla matrice originale, lo sviluppo di una incredibile
varietà di concezioni religiose, talvolta coincidenti con le visioni del
singolo individuo, con tutti i limiti derivanti dalle capacità di comprensione
di una persona isolata. Spesso, a questo proposito, si parla di ignoranza religiosa, nel senso che la gente sembra non
avere più consapevolezza delle verità fondamentali della nostra fede, ma credo
che, in realtà, si tratti di qualcosa di diverso, vale a dire della difficoltà
di vivere la propria fede insieme ad altri e in particolare a molti altri, a moltitudini
di altri. E' l'organizzazione delle
società Occidentali del nostro tempo, in particolare nel settore dell'economia,
con il marcato accento sulla competizione
come fattore di miglioramento sociale (lo ritroviamo addirittura nell'atto
fondativo della nostra nuova Europa, nel Trattato
di Lisbona, del 2007, entrato in vigore il 1 dicembre 2009), a spingerci
verso questo orientamento, di diffidenza verso le masse. In genere non si pensa
di avere nulla da guadagnare agendo tutti
insieme, in molti. Si pensa
invece di migliorare distinguendosi, come quando, in certi naufragi, prevale
l'istinto di sopravvivenza e tutti si accalcano verso la salvezza,
spintonandosi e spingendo indietro gli altri per farsi strada e guadagnare
l'uscita.
Finora i tentativi del nostro clero di
modificare la situazione riaffermando la propria autorità normativa sulla gente
sono risultati vani. Del resto lo sono stati anche durante tutta la storia
della nostra confessione religiosa, a parte i primi tre secoli in cui si è
prodotta una straordinaria espansione delle nostre visioni religiose in un
mondo che, come cultura di massa, era a loro completamente estraneo.
L'affermazione di ciò che chiamiamo cristianità, in Europa e nelle parti del
mondo che vennero egemonizzate dalle genti europee, non si è fondata, dal
quarto secolo in poi, vale a dire da quando la nostra ideologia religiosa è divenuta quella
fondante delle istituzioni politiche, sulla simpatia
delle genti, come invece era avvenuto nei tre secoli precedenti, ma
essenzialmente sull'esigenza di obbedire ad un'autorità comune per rafforzare
la potenza delle proprie politiche di popolo, verso l'interno e verso
l'esterno. Questo è rimasto il modello corrente fino al definitivo affermarsi
delle democrazie di popolo, in un processo che è partito dalla fine del
Settecento e può dirsi concluso nella
seconda metà del secolo scorso. In questa epoca è gradatamente venuto meno il
valore della nostra fede religiosa, almeno di quella esplicita, come fondamento
ideologico delle istituzioni politiche. E' questo il processo di secolarizzazione, quello appunto
riguardante la secolarizzazione della politica, che ha inciso fortemente
sull'affermazione della nostra fede religiosa nelle società del nostro tempo.
Del resto la secolarizzazione della politica è stata anche un'istanza
religiosa, dagli scorsi anni Sessanta in poi. L'ideologia politica a sfondo
religioso si era infatti dimostrata storicamente piuttosto mortifera, nella
lunghissima era della federazione tra capi politici e feudatari religiosi (la
nostra organizzazione religiosa fu infatti, e sostanzialmente è tuttora,
organizzata secondo criteri feudali).
Ai tempi nostri la situazione è complicata dal
fatto che ad essere in crisi sono anche le istituzioni politiche democratiche
della nostra società civile: il processo di secolarizzazione della politica si
sta evolvendo in un processo di dissoluzione
della politica, che è determinato dall'incapacità di accettare visioni per così
dire religiose della politica, vale a
dire fondate su qualcosa di più della semplice contrattazione su interessi
spiccioli e concreti. In realtà le democrazie di popolo nascono proprio da
queste nuove visioni religiose della politiche: ad esempio nel proclamare il principio universale dell'eguaglianza in dignità tra tutti gli esseri umani, a prescindere da
ogni condizione storica di distinzione. L'idea di una fraternità universale ha specifiche matrici religiose nella nostra
fede, come appare evidente se si considerano i principi proclamati nella
rivoluzione che portò alla costituzione degli Stati Uniti d'America, ancora
oggi il modello delle grandi democrazie di popolo.
L'accomodamento politico che ha prodotto nei
secoli passati il modello della cristianità
è finito per sempre, con il declino dell'ordinamento feudale delle nostra
società politiche, che prima o poi finirà per riverberarsi anche nella nostra
organizzazione religiosa. Tuttavia le nostre società dimostrano di non potersi
reggere senza una visione religiosa della vita che però non può più essere
veicolata efficacemente (solo) dall'organizzazione del nostro clero. In qualche
modo ciò che sta accadendo ai nostri tempi ha inaugurato un'era nuova che
definirei l'era del laicato, quella
in cui è il popolo, tutto il popolo, a dover divenire protagonista.
Si tratta di un'esigenza evidente dei tempi, ma noi laici non vi siamo
preparati. Siamo ancora troppo clero-dipendenti,
che è come dire clericali in senso
proprio. Del resto è stata l'ideologia religiosa affermatasi dagli scorsi anni
'80 ad averci spinto a questo. E sicuramente il clericale non raccoglie la
simpatia della gente. Eppure, a ben vedere, vi sono effettivamente settori del
laicato che raccolgo questa simpatia, che quindi sono capaci di coalizzare
consenso intorno alle proprie proposte, ai propri stili di vita. Essi però, nel
recente passato, sono stati sconfessati
e si sono dovuti mantenere, per così dire, anonimi. Sono stati sconfessati in
quanto non clericali. Quali sono? Essi sono molto evidenti. Il fatto di non
riuscire a vederli dipende proprio da
quel pervicace lavoro di sconfessione che ha segnato profondamente, e in senso molto
negativo, la vita delle nostre collettività religiose negli ultimi trentacinque
anni; un periodo lunghissimo, il nostro grande
inverno, la nostra era glaciale.
18
La mediazione culturale comporta stima e
simpatia per tutte le ricchezze delle culture e delle nazioni e strati etnici.
Ricchezze sono le consuetudini e le tradizioni, arti e scienze, sapere e modi di
vivere, avvenimenti storici e riti collettivi. Ma la simpatia di fondo per la
storia e per le possibilità umane di gestirla non si significa accettazione acritica di qualsiasi
corrente culturale popolare o elitaria emergente. Una serie di tensioni dialettiche o di
antinomie spirituali ci fanno sempre compagnia nella ricerca delle mediazioni
culturali. Sono situazioni di contrasto, di conflitto insopprimibile. Essi si
radicano nello stesso mistero della salvezza: la pasqua -come tensione e come
dialettica fra morte e vita- è la prima delle antinomie (Rm 6,1-11). E lo
Spirito santo è il principio generatore delle antinomie, perché è lui che
spinge alla fedeltà in alto e in avanti, alla terra e al cielo, orizzontale e
verticale insieme.
Mie considerazioni
Nel corso delle conversazioni sul tema
"La norma nelle scienze e nella morale" tenute nell'incontro del
gruppo MEIC romano della Sapienza lo scorso 22 maggio, di cui ho dato conto in
uno dei precedenti interventi su questo blog, ci è stato spiegato che la
produzione di varianti è alla base dell'evoluzione delle specie
viventi, che può condurre a progressi, quindi all'affermazione delle
popolazioni portatrici di una variante fortunata, o al contrario anche
all'annientamento di popolazioni portatrici di varianti negative. Questa legge biologica, che esprime ciò che di
norma accade nella natura, si applica in fondo anche all'evoluzione delle
culture umane, delle quali la religione, come fatto sociale, fa parte. Ed in
effetti la nostra collettività religiosa non è rimasta sempre uguale a quelle
delle origini, anch'essa ha subìto una evoluzione: questo è un fenomeno molto
evidente, ma si ha una certa ritrosia ad ammetterlo e, a volte, si vorrebbe
invertire il corso della storia, tornando a un lontano passato nel quale si
situa ogni bene. In un canto che facciamo in parrocchia durante la Messa ci si
propone di tornare alla Chiesa primitiva,
che significa voler annullare tutta l'evoluzione culturale che c'è stata in
duemila anni, vagheggiando di riprodurre la situazione di effervescenza e di
espansione del primo secolo. Questo è, in fondo, un atteggiamento propriamente
reazionario, ma irrealistico, irrazionale, perché ciò che si vuole riprodurre
come ritorno al passato, come forma ideale di esperienza sociale religiosa, nel
passato non c'è mai veramente stato. E' stato infatti osservato che si tende a costruire un lontano passato situandovi il
modello di progetti per il futuro che in realtà non sono che varianti reazionarie dell'oggi. Quindi: pensiamo un
certo futuro e cerchiamo di accreditarlo proiettandolo
nel passato.
Volendo
invece essere realistici, nel nostro passato c'è la nostra tutta la nostra
tremenda, sanguinaria e mortifera storia religiosa, inestricabilmente connessa con
una storia diversa, di bene, di compassione e solidarietà universale, come
sempre accade nella storia delle società umane: non è possibile recuperare solo
quest'ultima, distillandola dal passato; se si evoca il passato esso
ritorno anche con i suoi orrori, dai quali, faticosamente, ci siamo iniziati a
liberare solo di recente, diciamo dagli scorsi anni Sessanta. Nei primi secoli,
ad esempio, c'è, molto evidente, un forte antigiudaismo, che riflette una
situazione di vivissimo contrasto delle nostre prime collettività con l'esperienza
religiosa dalle quali originarono e si differenziarono (una variante che si è dimostrata fortunata). Esso si manifesta già nei nostri scritti sacri, ad
esempio nel Vangelo di Giovanni, ed è fortissimo in altri scritti che riteniamo
fondativi della nostra ideologia religiosa, quelli che attribuiamo
genericamente ai Padri della Chiesa.
Che cos'è che attira nell'esperienza delle
origini? Mi pare che sia una certa unità e concordia spirituale, che si vuole
contrapporre alle discordie dei tempi nostri, in cui come ricorda Secondin
viviamo una serie di forti antinomie. In realtà la lettura dei nostri scritti
sacri dimostra con molta chiarezza che antinomie e contrasti vi furono fin
dalle origini, addirittura vivente il nostro primo Maestro. L'evoluzione culturale,
divenuta indispensabile per la conservazione dell'umanità a causa
dell'organizzazione estremamente complessa delle sue società che consente la
sopravvivenza delle moltitudini, richiede di imparare ad accettare e vivere
positivamente queste antinomie, senza sognare semplicemente di sopprimerle.
L'ideologia democratica consiste proprio in questo.
19
Il processo di mediazione culturale e di
inculturazione non deve significare affatto sminuire la forza del radicalismo evangelico, il rigore di una
sequela che comporti associazione alla vita del maestro.
Seguire è credere dirà Giovanni, seguire è
abbandonare e rinnegarsi dicono i Sinottici; seguire è imitare spiegherà meglio
Paolo.
Mediazione culturale significa ancora
riconoscere che la storia del cristianesimo in fondo non è che una storia di
imitatori e seguaci.
La vera teologia della chiesa è la storia
degli eventi salvifici che di contino si incarnano nella vita dei credenti. E'
la storia di racconti che sono insieme memoria e testimonianza di una vita che
"conquista senza bisogno di parole quelli che si rifiutano di credere alla
Parola".
La nostra storia è una storia di peccato e di
grazia, di sequela e di attesa. Anche quella delle singole comunità ecclesiali.
Occorre [quindi] "demitizzare"
la nostra storia e le nostre "narrazioni": scomponendo di continuo il
monolite delle tradizioni decodificando nella memoria e nell'identità ereditata
gli elementi che sono realmente tipici, essenziali e irrinunciabili, per
distinguerli da quelli che sono contingenze culturali, stratificazioni prodotte
dal pessimismo o dall'ottimismo [nell'espressione delle concezioni di fede],
dai rapporti ereditati con civiltà obsolete, da limitazioni personali,
pastorali, socio-economiche connaturali ad altre epoche e non alle nostre.
Le nostre comunità di credenti hanno bisogno
di ascoltare di nuovo ciò che devono credere, le ragioni della propria
speranza, il comandamento nuovo dell'amore. In altre parole hanno bisogno di
essere riconvocate e convertire.
Mie
considerazioni
L'evoluzione culturale delle società umane si
sviluppa secondo criteri in parte analoghi a quelle dell'evoluzione biologica:
per conservazione e accumulo e per varianti che vengono mantenute, con in più,
trattandosi di processi consapevoli, effettivamente in parte determinati da disegni collettivi intelligenti, un
continuo lavoro di correzione e adattamento, da una parte, e di imitazione
dall'altra. Queste ultime caratteristiche consentono un'evoluzione
complessivamente estremamente più veloce delle società umane rispetto a quella
biologica e non determinata esclusivamente dal risultato di sopravvivenza dopo
conflitti. Le capacità cognitive degli esseri umani consentono infatti una
stupefacente capacità delle società umane di interagire tra loro anche nelle
modalità della solidarietà e dello scambio per equivalenti oltre che in quella,
spietata e cieca al modo delle dinamiche naturali, del conflitto. E' proprio la
cultura, intesa come "un insieme
complesso che include la conoscenza, le credenze,
l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come
membro della società [E.B.Taylor in "Primitive
Culture" (=la cultura dei primitivi), Murray, Londra, 1871, citato nel
testo da Secondin - si veda parte n.1 di questa sintesi], che ha fatto
storicamente la differenza, tra gli umani, per questo tipo di evoluzione.
Questo aspetto differenzia profondamente le società umane dalle altre
popolazioni animali, che fondamentalmente sono assoggettate alla dura legge di
natura del conflitto e della predazione, secondo la quale, in particolare,
tutti mangiano tutti, pesce grosso mangia pesce piccolo, una legge spietata e
sanguinaria che in religione consideriamo come il frutto di una caduta, immaginando una originaria
diversa realtà da erbivori, alle origini della storia dei viventi animati.
Spesso non ci si rende conto dell'importanza
che ha, nell'evoluzione delle società umane, la capacità di farsi volontari imitatori e seguaci. E'
proprio questo che ha consentito lo straordinario processo di conservazione e
accumulo di informazioni che ha determinato, finora, il successo degli umani su
tutti gli altri viventi terrestri e, in particolare, il prevalere sociale su
quasi tutti i viventi nemici naturali dell'umanità, ad eccezione, per ciò che
ne so, di batteri patogeni e virus. Le società umane, a differenza delle
popolazioni degli altri animali, non hanno bisogno di attendere il lunghissimo
esito del processo di selezione naturale
indotto dalla spietata legge della natura, ma possono introdurre varianti fortunate per imitazione e
scambio di equivalenti, in quest'ultimo caso secondo le dinamiche di mercato.
La possibilità di interazioni di progresso tra società umane che, secondo le
leggi di natura, dovrebbero tendere semplicemente a prevalere l'una sull'altra, sterminando tutti gli individui delle
società concorrenti e in tal modo eliminando i loro codici genetici, sono date
secondo le modalità dell'agàpe,
quindi della possibilità di scoprire solidarietà con società teoricamente
concorrenti e di radunarne gli individui in un convegno festoso, condividendo risorse e facendo in tal modo unità. Questa opportunità venne
sottovalutata dalle correnti del cosiddetto darwinismo
sociale le quali, dalla metà
dell'Ottocento, applicarono alquanto semplicisticamente le leggi
dell'evoluzione biologica delle specie animali all'evoluzione della società
umane, ritenendo un bene che la sanguinosa legge di natura fosse volontariamente applicata anche a queste
ultime, finendo poi per dare le basi culturali al razzismo novecentesco, che
pretese di avere fondamento scientifico e fu diffuso anche in Italia negli anni
'30.
L'evoluzione delle società umane ha anche
un'altra importante caratteristica che la rende più veloce: la capacità degli
esseri umani di individuare razionalmente e combattere gli errori nella replicazione
dei modelli e di introdurre volontariamente varianti,
in quest'ultimo caso senza attendere i tempi lunghissimi della produzione
casuale e dell'affermazione con le modalità della selezione naturale. Questa
capacità, che negli ultimi millenni ha riguardato la dimensione sociale, ora, con il progresso della
bioscienze, comincia a riguardare anche
la nostra fisiologia. In un certo senso è vero, quindi, che noi
abbiamo la capacità di creare esseri
umani nuovi. Questa possibilità di
incessante rinnovamento riguarda anche la religione; è sempre stato un fatto
molto evidente, ma se ne è cominciato a prendere veramente collettivamente
coscienza e, soprattutto, ad accettarla come un fenomeno anche positivo solo
dagli scorsi anni Sessanta.
Scrive
Paul Paupard, in un articolo pubblicato sull'ultimo numero di Coscienza, trattando della genesi della
costituzione conciliare Gaudium et spes
[=la gioia e la speranza] del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e, in
particolare, del n.54 di quel documento normativo:"…aggiunge il testo, le scienze storiche giovano a far considerare
le cose sotto l'aspetto della loro mutabilità ed evoluzione. Basta pensare al
significato del tempo nella storia della salvezza, dalla Genesi all'Apocalisse.
Viene dopo, l'industrializzazione, l'urbanesimo e le altre cose che favoriscono
la vita comunitaria e creano nuove forme di cultura (cultura di massa), da cui
nascono nuovi modi di pensare, di agire, di impiegare il tempo libero. Il n.
54, dedicato a questi nuovi stili di vita, conclude, secondo la confidenza di
monsignor Moeller su una visione proprio teilhardiana [dal teologo
Marie-Joseph Pierre Teilhard de Charidn, filosofo gesuita - 1881-1955] Così poco a poco si prepara una forma più
universale di cultura umana che tanto più promuove ed esprime l'unità del
genere umano, quanto meglio rispetta la particolarità delle diverse
culture".
Ora, usciamo da un'era storica in cui, nella
nostra organizzazione religiosa, quel lavoro di correzione degli errori di
cui dicevo ha comportato non solo la funzione molto importante di contenimento del male (riprendo il concetto da un recente libro del
filosofo italiano Cacciari), ma anche un lavoro piuttosto pervicace di
inibizione di ogni variante. Questo ha oggettivamente impoverito la nostra vita
di fede e ne ha determinato il regresso nella società, questa volta, sì, quasi
al modo in cui un fenomeno simile viene indotto dal processo di selezione
naturale nelle popolazioni animali. Ripensare a fondo questo orientamento è
così diventato, veramente, questione di vita o di morte, di sopravvivenza;
fatto di cui possiamo renderci ben conto nel nostro gruppo di Azione Cattolica.
20
Gesù Cristo salvatore deve essere davvero lo
specifico, il centro e il tutto della
vita del cristiano. E mai si riduca al ruolo di presidente onorario.
Ogni mediazione umana -anche quella
privilegiata della Chiesa- veicola, propone, prepara, contestualizza l'unica
salvezza, ma non è la salvezza. Essa [la salvezza] scende dall'alto (Ap 21,12),
sempre, per dono continuo di colui che
ne è la fonte e l'amministratore e si serve di strumenti e segni umani.
Ma occorre anche volgersi continuamente verso
l'uomo. La verità sull'uomo che la Chiesa ha ricevuto deve tradurla in
atteggiamenti conseguenti, facendosi testimone, serva, vindice della dignità
umana. La fedeltà alla via dell'uomo è fedeltà all'uomo concreto, ferito e
ribelle, presuntuoso o povero, minacciato e amministrato, autocompiaciuto o senza speranza né dignità.
Vi può essere una vera esperienza di fede
ancor oggi se la forma di Gesù di
Nazareth -la sua obbedienza radicale, il suo abbassamento, il suo farsi
maledizione e schiavo- con-forma qui
e ora un pezzo di storia, penetra e vivifica realmente una situazione reale.
Mie
considerazioni
Organizzare tutta la nostra
vita di fede intorno alla persona del nostro primo Maestro, riconosciuto come
persona divina, può sembrare un obiettivo coerente con le nostre concezioni e
finalità religiose, ma è piuttosto problematico, se noi con questo intendiamo
di voler fare a meno di ogni mediazione culturale, per cercare un accesso diretto a lui. Infatti noi possiamo conoscerlo solo per via di mediazione culturale. Prescindendo
da quest'ultima, quindi dalla cultura della fede, anche la sua figura storica
ci diviene inaccessibile. Quindi poi, come ricordato da Secondin in altra parte
del suo saggio, nel corso della storia sono state costruite diverse immagini del Nazareno e, correlativamente, sono
state proposti diversi modelli di santità, di perfezione. Ai
tempi nostri, ad esempio, abbiamo riscoperto
la condizione di ebreo del nostro fondatore, e quindi i legami culturali che le
nostre concezioni di fede hanno con il giudaismo delle origini, il che ha
costruito la cornice ideologica che ha consentito lo spettacolare incontro
interreligioso di ieri in Vaticano, con una preghiera
comune con maestri dell'ebraismo contemporaneo. Questa, in realtà, più che
una riscoperta è una conquista culturale, se si considera il duro
antigiudaismo degli scrittori ai quali, per la loro rilevanza nella formazione
delle basi della nostra ideologia religiosa, riconosciamo la qualità di Padri, che si espresse con fraseologie
che alla nostra sensibilità contemporanea appaiono sconvolgenti. E lo è ancor
di più a confronto con l'ideologia della sostituzione
degli israeliti come popolo eletto
che, presente fin dai primordi delle nostre collettività di fede, è stata costruita, nel modo in cui per secoli
l'abbiamo predicata, nel corso del secondo millennio della nostra esperienza
religiosa, costituendo la base culturale di un pervicace antiebraismo che, oggi
siamo disposti a riconoscerlo, ha
travagliato tutta la nostra storia religiosa.
Anche la stessa nostra mistica, che vuole proporre esperienze di relazioni dirette con il soprannaturale, si è
sempre espressa in determinati
contesti culturali, a prescindere ovviamente dall'emotività che le è
connaturata e che, come tale, è però incomunicabile.
Piuttosto, quando ci si propone di concentrarci sulla persona del nostro primo Maestro, lo
scopo in genere è di relativizzare
tutte le mediazioni culturali che di volta in volta sono state raggiunte e
proposte, nel senso di rendere possibile un loro costante superamento e quindi poi il rinnovamento
della nostra fede.
Naturalmente possiamo riconoscere alcune
importanti costanti nelle teologie, quindi nei sistemi concettuali, che
storicamente si sono succedute. Questo
convince di trovarsi di fronte, in fondo, a un'unica confessione di fede, pur con moltissime varianti, moltissimi
stili di vita, diverse liturgie, diverse tradizioni culturali. Anche questa
tuttavia è una conquista culturale recente, mentre solo
fino alla metà del secolo scorso la questione veniva posta in termini
drammatici di vero/falso e di ortodossia/eresia. Questa conquista ha reso possibile l'ecumenismo come ai tempi nostri lo si
concepisce, vale a dire come la pratica di relazioni
pacificate con le altre confessioni religiose della nostra medesima fede,
mentre per un tempo lunghissimo esso venne invece concepito, dal punto di vista
della nostra confessione di fede,
come il processo storico per ricondurre tutte le genti di fede sotto il dominio
assoluto di un unico Padre terreno,
del nostro sovrano religioso romano.
La via che si propone per il superamento di
ogni storica mediazione culturale è quella della misericordia verso i patimenti
degli esseri umani, il voler essere collettivamente via di
salvezza non per l'uomo dei
filosofi, ma per l'umanità della
storia, per la gente concreta, sull'esempio del nostro primo Maestro i cui
insegnamenti erano sempre accompagnati, e avvalorati, da gesti di salvezza e di
liberazione e da una marcata empatia con i sofferenti. La legge dell'agàpe, il voler sempre radunare in un
convito benevolente e festoso tutta l'umanità
concreta, porta sempre a superare le
leggi dei giuristi teologi, anche qui secondo uno schema molto antico, che ha
evidenti espressioni fin dalla teologia espressa negli scritti biblici prodotti
dalle nostre prime collettività di fede. E' un movimento che anche di questi
tempi è potentemente evocato dal nostro nuovo sovrano religioso romano, senza
però, mi pare, una vera corrispondenza nella base dei fedeli, in Italia. Era
esattamente l'inverso negli scorsi anni Cinquanta, che costituirono l'ambiente
vitale in cui si manifestarono e crebbero i fermenti vitali che sorressero il
moto di aggiornamento del Concilio
Vaticano 2° (1962/1965). Per certi versi siamo ancora nel pieno dell'inverno che rapidamente seguì la primavera conciliare. L'Azione Cattolica è uno degli ambienti in cui si cerca di
andare in controtendenza; essa ha cercato di conservare una tradizione
culturale che è stata piuttosto contrastata fino a tempi piuttosto recenti. Per
convincersene basta dare un'occhiata catalogo della casa editrice
dell'associazione, la A.V.E. .
21
Fondamentale nella vita cristiana è la
disponibilità allo Spirito e alla sua azione. Duplice è il movimento provocato dallo Spirito tra i
credenti: chiama alcuni ad evidenziare il superamento della storia nella
profezia delle beatitudini, e altri li spinge invece ad una testimonianza di
incarnazione per il servizio della terra.
E' fondamentale che la Parola sia letta e
interpretata sotto l'impulso dello Spirito e in situazione: cioè fuori dalle genericità e dalle astrattezze che
la bloccano in alto nei cieli e nell'eternità. E' presunzione voler afferrare
la Parola allo stato puro, disancorata dalla storia, senza contaminazioni, come
se scendesse in verticale.
Occorre accogliere la Parola non tanto con
l'animo del possesso quanto con l'umiltà dell'attesa, del progetto e del
religioso ascolto.
Mie
considerazioni
Con molti argomenti si è cercato, in
particolare dagli scorsi anni Sessanta, di far accettare l'idea che le
concezioni della fede possano, e anzi debbano, mutare nel tempo, che quindi
abbiano uno sviluppo storico. Tanto che essa, esposta ai tempi nostri, forse
non scandalizza più tanto. Eppure, in fondo, essa è ancora fortemente
controversa. E tutta l'organizzazione della nostra collettività religiosa è stata, e per certi versi è ancora, quasi totalmente concentrata, nelle sue attività
ordinarie, al di fuori di certi momenti speciali e spettacolari in cui ha
vissuto il brivido dell'inatteso, nella repressione di ogni proposta nuova, di
ogni stile di vita diverso da quello consacrato
dalla tradizione, di ogni contaminazione con le culture
contemporanee. Insomma essa si è manifestata essenzialmente come reazionaria. Questo non ha impedito i
cambiamenti, ma li ha resi lentissimi e travagliati. Gli innovatori hanno
sofferto molto, per poi magari essere anche creati
santi. C'è chi in questo, nel
contrastare pervicacemente le manifestazioni di santità che emergono tra la
nostra gente, vede qualcosa di positivo. Ecco che quindi vengono creati santi anche grandi reazionari. Il
loro merito, si dice, è quello di aver salvato la continuità della tradizione. Sarebbe quindi addirittura un merito,
ad esempio, non aver riconosciuto, ed anzi aver duramente represso ed
emarginato, la santità di un Lorenzo Milani.
Di solito si cerca di rendere un'idea di come
dovrebbe essere il giusto moto di
rinnovamento affermando che la Parola
deve essere letta e interpretata sotto l'impulso dello Spirito: questo in realtà significa poco. Che cosa è la Parola, che cosa, e anzi chi, è e dove e in chi e in che cosa si manifesta lo
Spirito? Si tratta di interrogativi
problematici appena si voglia approfondire la questione e non accontentarsi del
suono delle parole.
Per certi versi, nella nostra confessione la Parola
appare prigioniera di un ceto feudale di interpreti privilegiati. D'altra parte
essa, a contatto con la gente, ha generato ogni sorta di stravaganza, e anche
di pericolosa stravaganza. Una situazione che spaventa e che storicamente ha
permesso di accettare l'azione di una inesorabile polizia ideologica. Per cui
sembra che l'alternativa sia solo tra la reazione e il disordine stravagante.
Questa concezione, che ha ancora piuttosto credito nella nostra ideologia di
fede, ricalca quelle delle forze antidemocratiche che, dalla fine del
Settecento, hanno cercato pervicacemente di mantenere sui troni, realmente o
metaforicamente, le vecchie dinastie sovrane assolute. Secondo quest'ordine di idee la democrazia
era anarchia. Come si è visto storicamente, le cose sono andate diversamente.
Una delle finalità principali del processo di aggiornamento promosso dal Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) fu quella di istituzionalizzare,
vale a dire di far considerare normale, non più come eresia e ribellione, i
processi di cambiamento nelle concezioni di fede. Questo risultato non è stato
conseguito, come molti altri che ci si proponeva di raggiungere, di attuare. Nella pratica hanno continuato
a succedersi una serie infinita di sconfessioni,
provvedimenti che hanno sostituito le brutali scomuniche del passato
mantenendone però la sostanza, per cui, ad un certo punto, gli innovatori
venivano privati della qualifica di innovatori della nostra confessione, in
questo modo insterilendo la loro azione.
E' successo ad un certo numero di teologi, ma in modi più decisi a una schiera
molto vasta di altra gente di fede. In genere però non si è andata a colpire la
stravaganza, che, anzi, in genere si è tentato di riassorbire e inquadrare nei
ranghi, ma ogni concezione che legasse l'attuazione degli ideali di fede alla
giustizia sociale nel senso in cui la si intende nel mondo contemporaneo, non
tanto quindi come riaggiustamento equitativo del processo spartitorio delle ricchezze prodotte
in una società, ma come elevazione e parificazione della dignità personale. Superare
questa situazione, nella quale il nostro clero appare inestricabilmente
intrappolato, deve essere uno dei principali obiettivi della sperimentazione
laicale: come vivere l'innovazione senza che essa diventi stravaganza
anarchica, mantenendo la responsabilità dell'unità, la modo in ci si riesce a
farlo nelle democrazie politiche.
"I problemi del nostro tempo, per la loro
difficoltà e ampiezza, sono troppo gravosi non solo per la loro
risoluzione, ma anche per la loro comprensione,
ameno per la maggior parte di noi. Tuttavia ognuno li deve avvertire, se non
altro per non perdersi e per rafforzarsi spiritualmente. Allo sconvolgimento
della Chiesa e del mondo bisogna guardare come a uno sconvolgimento radicale e
sostanziale. Occorre con ciò vincere i noi la paura, il sentimento di debolezza
e di spossatezza e lottare contro lo spirito di una reazione e di una
restaurazione decadenti, che è la più dannosa di tutte le forme di utopismo che
ora possano esistere. Certo, questo va compreso in modo religioso, non
politicamente; le persone estranee agli interessi di fede cercano di servirsi
dei valori ecclesiali per i loro scopi
ed effettuano in tal modo una sostituzione religiosa furtiva. La nuova
creatività meno di tutto deve essere innovazione rivoluzionaria quand même (franc., pron. kaa mèem=a tutti i costi). Tuttavia, non
è meno dannoso e cieco un amore all'antico e lo sforzo per restaurarlo, sotto
l'influsso dello smarrimento e dell'insicurezza spirituale. Nella Chiesa tutto
è eterno e non c'è niente di nuovo, ma allo stesso tempo tutto deve essere
nuovo." (citazione da S.Bulgakov, Russia,
emigrazione, ortodossia, 1924, tratta dall'articolo di Stefano Biancu, Dall'ombelico alla città, in Coscienza, n.5 2013).
22
Occorre attendere il Signore che tornerà. Il
ritorno del Signore non sarà però un mero completamento ultimo di un processo
evolutivo in mano agli uomini. Il suo arrivo è una sorpresa e bisogna tenersi pronti e vigila per non
farsi trovare impreparati. Noi non abbiamo quaggiù una città stabile. Siamo
nomadi attraverso la storia e il cosmo, ma il nostro passaggio li deve
trasformare entrambi in senso salvifico. Rimane pertanto egualmente impegnativo
evangelizzare.
Le tradizioni religiose dei popoli sono segno
della pedagogia di Dio plasmatore delle identità culturali e preparazione
evangelica. [Occorre] rispettare nel popolo la sua capacità di narrare e
profetizzare, sperare e confessare Dio dentro gesti e simboli umani trasmessi
da generazioni. [Ma] non tutti quelli che ne parlano hanno attenzione a
rispettare il popolo e la sua dignità. Col pretesto della religiosità popolare
si ribadiscono le proprie ostilità alla storia attuale e la nostalgia per altre
epoche ormai relegate agli annali e ai musei etnografici.
La religiosità popolare ha certamente i suoi
limiti: la superstizione, la magia, il ritualismo senza vita, il fatalismo e la
rassegnazione, egoismo e frustrazione collettiva. Ma è anche ricca di valori
genuini. E' in fondo il grido di
speranza e idi redenzione di un popolo che attende giustizia e fraternità.
Mie
considerazioni
La vita in una delle nostre
collettività di fede di base, come la parrocchia, rende manifesto che in
religione ci sono diverse tradizioni culturali, quindi vari concezioni,
costumi, tipi di relazioni a sfondo
religioso, finalità e attese. Credere è un fatto sociale e ognuno, in fondo crede nel modo in cui lo ha appreso in una collettività viva. Questo
pluralismo crea inevitabilmente problemi e prima di tutto quello di fare unità ed un'unità pacificata, come
richiesto dai nostri ideali di fede ispirati alla finalità dell'agàpe universale, di riunire tutta l'umanità in un
unico convito festoso e amicale. Storicamente la strategia prevalente nella
nostra organizzazione religiosa, soprattutto nel secondo millennio della nostra era, è stata quella di
fare unità soggiacendo ad un'unica autorità suprema terrena, concepita come
direttamente delegata e ispirata da quella soprannaturale. Questo ha comportato
che l'unità si facesse prevalentemente per via di repressione del dissenso e
dei costumi oggettivamente devianti. Ai tempi nostri questa strategia
costituisce essa stessa un problema. E questo per l'avanzare
nell'organizzazione delle nostre società dei principi democratici
nell'estensione che essi hanno avuto nel mondo contemporaneo. In particolare
quella forma di dispotismo a fini unitari non è più ritenuta conforme alla dignità delle persone umane. Noi
attualmente siamo in una fase di passaggio culturale: ci siamo pentiti dei suoi
eccessi, ma la manteniamo come fattore generale unificante.
Il fare unità è anche un obiettivo
democratico come dimostra il motto della rivoluzione americana: e pluribus unum, espressione in latino che significa fare dei molti un solo popolo, dove però
è sottinteso che l'unificazione si debba fare nel rispetto dei diritti inalienabili che vanno
attribuiti a tutti gli esseri umani e ad ognuno di essi per il fatto di essere
stati creati uguali in dignità. In una concezione democratica
dell'unità infatti si rifiuta il dispotismo gerarchico come fattore unificante,
vale a dire che nell'unità si rispetta il pluralismo ed anche che l'unità è
affidata a un progresso culturale della base, quindi di tutta la società,
invece che ad un'azione di polizia ideologica sviluppata dal vertice.
Storicamente le due strategie fondamentali per
fare unità sono entrate in conflitto e, generando vari tipi di precari
compromessi e di armistizi, hanno prodotto le varie fasi di un processo che è
ancora in corso e che può essere riassunto in un progresso dal dispotismo alla
democrazia, dall'unità affidata a una gerarchia feudale a quella basata
sull'integrazione culturale generata alla base delle società. Ai tempi nostri,
però, non è questo il conflitto dominante nel nostro mondo, come da tempo si
comincia ad osservare da parte di molti commentatori dei fatti sociali.
Il contrasto all'ordine del giorno è tra
concezioni culturali che ancora si
propongo di fare unità, in uno dei
modi in cui essa può essere ottenuta, e quelle basate sull'idea che il
conflitto tra le società umane e i gruppi all'interno di esse sia fonte di
progresso e non un male da combattere e che quindi esso vada stimolato e non
combattuto. Queste ultime concezioni, che sono state elaborate da ultimo sulla
base del pensiero economico dominante che vede nella competizione di mercato un
fattore di progresso, condividono l'ideologia sviluppata a partire della fine
dell'Ottocento del darwinismo sociale,
che sulla base della lotta di tutti contro tutti che ha caratterizzato e
caratterizza l'evoluzione naturali delle specie viventi e che è stata esposta
per la prima volta dal naturalista britannico Charles Darwin (1809-1882), propongono
di vedere nei conflitti sociali di tipo egoistico, basati sulla lotta per
accaparrarsi risorse scarse, una fonte di progresso in quanto mezzi per
favorire la sopravvivenza del più adatto. Lo sviluppo di questa concezione
nelle nostre società, in particolare in quello Occidentali, ha portato alla
crisi sia dei dispotismi tradizionali sia delle democrazie di popolo. Essa sta
avendo riflessi anche in religione e in particolare nella religiosità popolare.
Leggendo nostri testi sacri si ha un panorama
molto vasto di forme di religiosità storicamente attuate e quegli scritti sono
stati organizzati e ci sono stati proposti in modo da evidenziare uno sorta di
progresso da concezioni primitive ad altre successive che sono conseguite a
particolari illuminazioni soprannaturali e, in particolare, dal politeismo al
monoteismo. Le forme primitive di religiosità sono più in linea con l'attuale
ideologia del conflitto egoistico permanente come fonte di progresso sociale.
In quell'ottica ogni popolo aveva il suo dio e la storia era vista anche come
una lotta tra dei, in cui prevaleva il dio più forte, in quanto più forte. Questo
tipo di religiosità non si propone alcun fine di giustizia, i suoi dei non sono
forti in quanto più giusti. E' il
tipo di religiosità che vediamo espressa, ad esempio, all'interno di alcune
società criminali correnti in Italia e, sotto un certo profilo, alcune
concezioni economiche per così dire estreme manifestano profili criminali.
Ai tempi in cui scriveva Mondin, si avvertiva
il problema dello sfruttamento di tipi primitivi di religiosità a fini
reazionari, quindi per contrastare i moti democratici nella nostra
organizzazione religiosa e pertanto dell'indebito utilizzo a tali di fini del potere sacrale. Oggi la questione si
pone in modo piuttosto diverso. E consiste appunto nell'integrazione di
concezioni a sfondo religioso in stili di vita collettiva che non hanno di mira
l'agàpe, ma la prevalenza in una
lotta sociale con altri gruppi. Essa viene espressa direttamente dalla base
sociale ed ha una chiara valenza magica,
in quanto ritiene di poter modificare con certi riti religiosi il corso
degli eventi. E, alla fine, risulta frustrante perché comporta l'accettazione
dell'ingiustizia sociale. In quest'ordine d'idee si mira ad ottenere di volta
in volta il favore soprannaturale in una specifica situazione. Rispetto
all'ideologia dell'agàpe costituisce
una involuzione, un regresso. E' tuttavia lo specchio dei tempi.
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Il tempo nel quale la chiesa e la società
vivevano una integrazione profonda è quasi solo un ricordo; la forza di
socializzazione è diminuita. Eppure occorre visibilizzare
l'unione di tutti coloro che ubbidiscono
all'imperativo divino della fraternità e della speranza. Affinché anche
l'ordine materiale e le strutture temporali portino traccia del rinnovamento
evangelico. La comunione di fede e di carità impedisce di chiudersi nel ghetto
e nel particolarismo.
[Ci] è chiesto di fare attenzione all'uomo
concreto attraverso una comunità concreta. La chiesa cattolica è la chiesa che
si mostra in realizzazione, che passa dagli universali oggettivi agli eventi
soggettivi. Ciò comporta una valorizzazione delle specificità.
A volte ci
manca la pazienza e il rispetto. [Cerchiamo] schemi di uniformità e di perfezione puramente teorici.
Ogni cultura ha bisogno di redenzione. E'
vero: non esiste una cultura totalmente
cristiana. Ma non è meno vero che è
necessario accettare di passare da una presenza istituzionale alla presenza
personale e per piccoli gruppi. Bisogna arrivare alla presenza totale per un
cammino di presenze parziali. Per fare una ecclesiologia che non si impantani nel
formalismo, ma sappia stare attenta al concreto, la via è quella di porre "al centro, prima di
tutto, l'evento originario che fa la chiesa, il fatto, cioè, che esistono due o
tre persone, riunite nel nome di Gesù, che credono e comunicano nella
fede" (cita il teologo Severino Danich).
Siamo gente troppo abituata al centralismo e
all'uniformità, non sappiamo gestire in modo costruttivo il ruolo delle
autonomie locali, né quello di minoranza, né la presenza policentrica, né un
sano pluralismo nel pregare e nel
celebrare, nell'amare e servire, nel vivere e nell'attendere. L'identità
cristiana è anche identità in via, e allora "senza spazio concesso alla
critica, alla sperimentazione, all'opinione … la chiesa rischia di ridursi a
museo di esperienze del passato e di non aprire speranza per il futuro"
[cita il teologo Luigi Sartori].
Mie
considerazioni
A conclusione del suo libro, Mondin segnalò
problemi che ad oggi non sono stati superati, anzi semmai si sono aggravati. La
critica alla chiesa-museo si ritrova anche nelle parole del nostro nuovo
vescovo e padre universale. Ma ormai ci siamo abituati ad attendere dall'alto
le parole d'ordine, le soluzioni; troviamo difficoltà a sperimentarle, provando
ad attuarle lì dove concretamente abbiamo possibilità di operare, di influire. Il
lavoro in un gruppo di Azione Cattolica è l'occasione per farlo, il luogo in
cui si possono sperimentare nuove mediazioni culturali a partire dalle proprie
concrete esperienza di vita. Chi vi
cercasse schemi per irreggimentare la propria vita di fede, rimarrebbe deluso. Non
così chi, nell'era che sembra stia per concludersi di questi tempi, venne
allontanato da una vita collettiva di fede perché insofferente dell'uniformità
e degli schematismi che parevano doverla necessariamente caratterizzare. Per queste persone l'impegno
in Azione Cattolica potrebbe offrire l'opportunità per riprendere a vivere e a
manifestare la fede in una comunità concreta, viva, e come parte viva di essa.
Sintesi dal testo di
Bruno Secondin e note e considerazioni di
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli