Sinodalità in piccolo
Nell’incontro di venerdì scorso del MEIC - Lazio su Democrazia
e Sinodalità è stato osservato che
la sinodalità è sprecata per decisioni minime, come decidere dove piazzare la
statua di un santo in chiesa o l’orario delle messe, che anche senza procedure
sinodali si risolvono da sole. E’ stato anche detto, però, che c’è il timore
che cominciando dalle cose piccole poi si finisca per voler mettere bocca anche
sui dogmi. Quindi, ostacolare la sinodalità nel piccolo può essere visto come
una forma di tutela dei principi maggiori, che dovrebbero essere tenuti fuori
della portata dei più, perché pasticciandoci sopra ne risentirebbe l’integrità
della Chiesa. Inoltre, per le persone appassionate alle questioni più complicate,
occuparsi del piccolo è noioso, preferiscono occuparsi di cose più elevate,
nelle quali però trovano l’ostacolo degli interdetti riguardanti i dogmi,
vale a dire tutto ciò che non può essere
creduto diversamente, altrimenti si è fuori.
Devo dire che non amo dogmi e dogmatica, non perché non siano
costruzioni di pensiero affascinanti, ma perché sono costati tanto sangue.
Sarebbe bello se fosse diverso, ma è così, è storia e la storia non può essere
cambiata, ma solo falsificata. Da strumenti conoscitivi di sintesi, presto i
dogmi divennero norme giuridiche per stabilire chi fosse dentro e chi fuori,
anatema, e quelli fuori vennero criminalizzati. E’ la storia della persecuzione
degli eretici. L’invenzione dell’idea di eresia si fa risalire all’apologeta
Giustino, nato a Nablus in Palestina da immigrati nel Secondo secolo e morto
martire a Roma. In particolare, il potere del neo-papato imperiale fondato nel
Secondo millennio a partire dalla riforma del papa Gregorio 7° si fondò
principalmente sulla repressione delle eresie, da cui gran parte di quella
storia sanguinosa di cui dicevo.
Quindi, riassumendo: non varrebbe la pena di occuparsi delle piccole
cose, che lasciate a se stesse si risolvono da sole, e delle cose maggiori ci
si può occupare come muovendosi in un campo minato.
Sulle cose grandi il nostro problema
principale non è di cambiarle o sostituirle, ma di disinnescarle, in modo che
non diventino più strumenti di sofferenza. Si tratta, formalmente, di
definizioni, ma sono collegate ad un sistema di potere ecclesiastico. Le stesse
cose che vorrebbero significare potrebbero essere dette in altro mondo e in termini equivalenti ma è il potere a cui
sono legate che non vuole essere definito in altro modo. Il problema è quindi
politico, non teologico. Disinnescando quelle definizioni esse tornerebbero ad
essere ciò che dovrebbero rimanere: strumenti di comprensione e di dialogo. Ma
è inutile cercare di disinnescare partendo dalla teologia: occorre agire sul
sistema di potere che le rende fonti di esclusione.
Il fatto di non poter mettere bocca sui dogmi non pesa molto alla
maggior parte dei laici. La dogmatica dal Duecento è divenuta materia
specialistica universitaria e i più non ne sono acculturati, ma questo fa poco
danno in sé. Pesa molto di più essere emarginati nelle cose piccole, quelle delle
quali si vive nelle realtà di prossimità, ad esempio in un parrocchia. Qui non
sono in questione i dogmi ma un sistema di potere che, appunto, emargina. Lo fa
con il pretesto di proteggere le cose grandi, ma in realtà protegge solo se
stesso, perché per i più i dogmi rimangono sullo sfondo. Quando un parroco
pretende di accentrare la decisione sugli orari delle messe, è la propria
supremazia che protegge, la teologia non c’entra nulla. L’ufficio del parroco
lo si vuole monocratico e non partecipato, se non mediante consulenti, perché è
tutta la piramide gerarchica che è costruita così, da circa ottocento anni, e i
gerarchi si legittimano a vicenda, dal basso e dall’alto. Nessun altro potere
viene riconosciuto a parte il loro. Come oggi è comunemente ammesso, questo è
un portato storico. Si tratta di una struttura di potere obsoleta che è
divenuta intollerabile nella mentalità degli europei occidentali contemporanei
e, in parte, nell’America settentrionale e latina, vale a dire nelle popolazioni che nella nostra Chiesa di fatto
danno la linea di come la fede debba essere pensata e vissuta. Si dice che la
Chiesa si dissolverebbe abbandonando l’attuale struttura gerarchia, ma comincia
a farsi strada la consapevolezza che quest'ultima sia, in realtà, tra le principali cause
della crisi. Non cambiando le cose così come sono, la nostra Chiesa si
dissolverà rapidamente.
A questo punto si capisce l’utilità di occuparsi sinodalmente delle cose
piccole. Bisogna fare tirocinio del nuovo, che non è possibile progettare
compiutamente, perché non si sa bene come risponderà la gente di fede. E’ così
che accade negli affari sociali. Bisogna però che queste sperimentazioni non
siano limitate a piccole cerchie di eletti, ma provate sulle masse dei fedeli,
dalle quali emerge una certa insoddisfazione per come vanno le cose, meno
marcata negli anziani, ma molto sensibile in tutte le altre persone, ora anche
tra le donne. Tornare al passato o anche solo mantenere le cose così come
stanno, congelandole, come si tentò di fare sotto il regno di papa Wojtyla, non
è possibile: il nuovo comunque ci precipiterà addosso, e sarà o la
dissoluzione, o la trasformazione secondo certe linee di tendenza che appaiono
pericolose, come quelle clericofasciste o dell’intimismo estatico, oppure, se
ci si darà da fare, l’evoluzione dell’agàpe evangelica in quella realtà sociale molto
partecipata, misericordiosa e amorevole tratteggiata negli scritti di papa
Francesco, nella quale al centro non sono i dogmi come discrimine tra il dentro
e il fuori, ma la capacità di
volersi bene come indicato nella vita del Maestro.
Fare tirocinio, vale a dire provare a fare, è già cambiare e anche molto
profondamente. Così non va sottovalutata l’importanza di una procedura mediante
la quale in un organismo partecipato una comunità parrocchiale decida, in
comunione con il parroco come si dice, l’orario delle messe. Questo significa,
appunto, costruire una comunità, laddove oggi prevalentemente vi è un
pubblico di utenti del sacro, nella migliore delle ipotesi, o una platea
di liturgie sacre, o, se le cose vanno male, ci sono dei poveretti che del sacro
divengono schiavi, in realtà schiavi non del sacro in sé ma dei gerarchi,
vale a dire di chi esercita il potere mediante il sacro. Un potere si dice
sacro quando lo si definisce come voluto dal Cielo e, in questo, immutabile.
Chi si azzarda a dire che stabilire gli orari delle messe sia voluto dal Cielo,
per cui sia appannaggio solo del gerarca? Così per aprire la via alla reale
sinodalità popolare occorre anche desacralizzare lì dove la sacralizzazione
appare arbitraria.
Va detto che la sinodalità popolare è tutt’altro che facile. Chi ha
provato a sperimentarla lo sa. Innanzi
tutto perché non la si è mai fatta e nessuno sa bene come si fa. Poi perché
ciascuno è tentato di cercare di prevalere
e su questa via si creano permali e, in crescendo, anche odii feroci. E’
molto difficile argomentare tenendo conto degli argomenti altrui. C’è un
deficit di formazione in merito: si punta in genere a preparare animatori,
che però agiscono come dall’esterno sulla comunità decidente, e spesso si cade
nelle trappole di leader carismatici che prevalgono fascinando, non
argomentando. Poi, naturalmente, spesso si prendono cattivi esempi dai gerarchi
superiori tirando di mezzo disinvoltamente la dogmatica senza saperla
maneggiare, a soli fini di escludere chi su un certo tema non la pensa in un
certo modo. E’ comodo sbottare in un “Tu non sei di Cristo!”, invece di
argomentare. Del resto è così che si è proceduto nella nostra Chiesa,
praticamente fino all’altro ieri.
Poi, sulla base di un tirocinio positivo nelle piccole cose, si può
cominciare a ragionarci sopra, cominciando ad articolare una corrispondente
ideologia, e, per chi ne è capace, anche una teologia in senso proprio. In
questo caso si ragiona su ciò che c’è, mentre spesso la teologia, anche
la più affascinante, al dunque mi pare
che arzigogoli su fantasie. Fantasie in base alle quali, però, si è molto
ammazzato. Quando poi si decide che conviene piantarla, tutto si risolve
abbastanza presto, come tra cattolici e protestanti sulla sfiancante dottrina
della giustificazione, chiusa pacificamente nel 1999 con la Dichiarazione congiunta di Augsburg dopo aver provocato incredibili sofferenze e stragi nei secoli precedenti.
Ieri è stata la festa dei lavoratori. Una delle principali istanza del
movimento che la promosse fu ed è quella di far realmente partecipare i lavoratori, vale a dire quelli che dipendono
da altri per vivere, all’organizzazione della società. E’ scritto anche nella
nostra Costituzione repubblicana, al secondo comma dell’art.3:
È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
L’emarginazione nelle e dalla cose sociali
causa una sofferenza ingiusta e rende ingiusta l’organizzazione dei poteri sociali,
perché chi riesce ad arrivare in alto ha il principale scopo di rimanervi
prendendo più che può. Questo è ancor più inammissibile quando è in questione
ciò che chiamiamo Grazia, perché deforma l’immagine della divinità
proprio mentre deforma l’immagine della creatura umana.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli