Manuale operativo di sinodalità
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Sinodalità in piccolo, ma coordinata in
grande
L’altra settimana, alla riunione del MEIC Lazio in Zoom è stato riferito
che in Diocesi non sono affatto soddisfatti di ciò che è uscito nella fase di ascolto del Popolo di Dio nelle parrocchie e altrove. Del resto si miete ciò
che si aveva seminato. Le linee guida diocesane sull’ascolto erano fortemente
riduttive e incentrate su una vaga spiritualità, più che altro come momento di
crescita interiore. Sinodalità significa
invece cooperare con le altre persone nelle fasi decisionali sulla conduzione
della vita comunitaria.
Pubblicamente il popolo viene incensato come
soggetto che, contro ogni evidenza, avrebbe una sorta di fiuto per intuire la verità. In privato se ne diffida e
anche lo si diffama. In prevalenza è fatto di persone che sanno poco di religione
e che quindi si limitano a seguire, quando a loro va. Del resto è proprio così
che si è loro insegnata la religiosità.
La predicazione raramente è un momento di
crescita: ci si limita di solito a fare ricorso alla mitologia ricamandovi
sopra le solite raccomandazioni a sfondo moralistico, al centro delle quali vi
è il comandamento dell’obbedienza ai superiori, e le lamentazioni sulla degenerazione
dei tempi.
Paradossalmente, questo è stato osservato da
molti nelle sedi dove la discussione sulla sinodalità è effettiva, il clero
giovane è in genere molto meno efficace degli anziani nelle relazioni con i
laici, il campo critico della sinodalità: sono stati formati così, a volte
piuttosto fragili nella pratica quotidiana del loro ministero, tendono a demoralizzarsi
facilmente. Sembra che sia stato raccomandato di separarsi dal cosiddetto
gregge, piuttosto che integrarvisi dentro cercando di influirvi.
Il problema più evidente nel tentativo di organizzare
a livello diocesano l’ascolto è che non la si è pensata come un’esperienza di lungo periodo,
destinata ad essere proseguita, dopo iniziata, anche a prescindere dalle varie
fasi del sinodo nazionale e mondiale. Il Papa vorrebbe invece che la sinodalità
diventasse gradualmente la vita comunitaria della Chiesa. Di fronte a lui tutti
fanno mostra di aderire a questa impostazione, ma poi si dicono gli uni gli
altri che è un obiettivo irrealistico, e anche pericoloso.
In realtà è pericoloso rimanere fermi.
Sempre all’incontro del MEIC Lazio di cui
dicevo un esperto ha osservato che la gran parte delle parrocchie ha gli anni
contati: tra una decina d’anni la maggior parte svaniranno. Il popolo che le
frequenta è troppo anziano. Faranno la fine della maggior parte dei conventi di
frati e monaci.
Comincerei con il dire che la sinodalità
locale, delle realtà di base, se non è guidata anche dalle persone laiche, ma solo dal clero, non
ha nessuna possibilità di radicarsi. D’altra parte, è vero: le persone laiche
sanno in genere troppo poco di religione, e parlo anche di me. Dalle domande
che talvolta vengono fatte ai sacerdoti in ambito ecclesiale si capisce che non
di rado quel poco è molto vicino al nulla. Ma chi domanda? In genere i
bambini e gli anziani: nei primi la scarsa conoscenza non è scandalosa. La
gente di mezzo, neanche chiede.
Quindi il principio della sinodalità locale
dovrebbe essere un lavoro di acculturazione, innanzi tutto storica, per capire
da dove si viene e dove si va. Bisognerebbe invece mettere sullo sfondo la
mitologia. Ed emanciparsi dall’ossessione per l’obbedienza.
Alcune persone sono affascinate da una
spiritualità visionaria, centrata sul prodigioso narrato mitologicamente:
queste non sono adatte ad un processo sinodale. Non bisogna, però, scandalizzarsene,
ma lasciarle fare ciò che credono lì dove vogliono; l’importante è che non
travaglino la sinodalità con quei costumi. La sinodalità è una conquista culturale
che non può essere imposta; rimarranno sempre persone che non se ne sentiranno
coinvolte, almeno in certe fasi della loro vita. La religione è stata da sempre
vissuta anche in quel modo, non ci si può fare nulla ed è anche fatica sprecata
tentare di mutare quei costumi.
La sinodalità, e quella sua fase preparatorie
che consiste nell’acculturazione religiosa, deve farsi per piccoli gruppi di
persone motivate e capaci di relazionarsi positivamente con le altre. Questi nuclei,
crescendo, potranno poi generare analoghe esperienze in altri contesti e gruppi.
Ma, per consentire questo sviluppo, è necessario pensare un organismo permanente
di coordinamento, in modo da superare l’isolamento in cui quelle esperienze
possono esser vissute. Per problemi cognitivi di specie noi siamo confinati in teatri
di relazioni molto limitati, lì dove si generano le intese profonde, stimate in
contesti tra le trenta e le centocinquanta persone, ma siamo capaci di coordinamento
e in questo la cultura gioca un ruolo determinante.
La parrocchia già ha un organismo di quel
tipo che è il Consiglio pastorale parrocchiale, che nella nostra parrocchia è
stato pressocché abbandonato, ma che dovrebbe svolgere proprio quel lavoro di
cui dicevo. Non è consigliabile costruirne altri, perché il Consiglio ha uno
statuto ecclesiale preciso, è addirittura obbligatorio nella Diocesi di Roma (come in
altre Diocesi). Da noi lo si lascia inattivo perché ci siamo mostrati incapaci
di relazionarci positivamente in quell’ambito. La soluzione è semplice:
sostituirne i membri che possono essere sostituiti (fondamentalmente le persone
laiche) e fare in modo che i nuovi prevalgano numericamente su quelli che non
si è potuti sostituire (perché del collegio fanno parte di diritto).
Mario Ardigò
– Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli