Futuri religiosi
Pensare il nuovo significa pensare
il presente o il futuro.
Nella prima prospettiva le novità incombono: è quella della prima enciclica
della dottrina sociale contemporanea, appunto intitolata Delle novità – Rerum
novarum, del 1891. All’epoca le novità a cui in quel documento si fece
riferimento erano i moti sociali in difesa del proletariato (definito
proprio così in quel testo), in particolare quello cittadino e industriale. Si
trattò sostanzialmente di un magistero sul socialismo, duramente criticato nelle sue pretese di riforma sociale e nei
suoi metodi, quindi sia nel futuro immaginato che nel presente praticato, pur
condividendone l’analisi dell’origine delle sofferenze sociali del proletariato,
inteso come i lavoratori che dipendevano dai capitalisti per la propria
sussistenza. La soluzione proposta: tornare all’ordine medievale europeo in cui
corporazioni di artigiani avevano avuto un ruolo politico, in particolare nell’esperienza
dei Comuni diretti da propri Consigli. Una riforma del tutto irrealistica nell’Europa
di fine Ottocento, nella quale le riforme sociali cominciavano ad essere sostenute
da forme più aperte di democrazia politica, con il coinvolgimento di sempre più
gente negli affari sociali. Irrealistica perché pensata da persone con scarsa
competenza in quest’ultimo campo. Ci volle quasi mezzo secolo perché anche il
magistero religioso ne prendesse atto e tentasse di porvi rimedio. In mezzo ci
sta l’abbaglio per i fascismi europei, in particolare, in Italia, per quello
mussoliniano e per quelli della penisola Iberica, durati addirittura fino agli
anni ’70, per non parlare di quelli latino-americani. Negli anni ’30 fu raggiunto un concordato anche con il regime nazista hitleriano, accordo nella
conclusione del quale fu protagonista Eugenio Pacelli da Segretario di Stato
della Santa Sede.
Nella seconda prospettiva le novità sono principalmente quelle
progettate, che quindi ancora non ci sono, se non in germe. La riforma sinodale
che stiamo cercando di impersonare e praticare da qualche mese è di questo
tipo, perché, appunto, ancora non c’è. Risponde al problema dell’irrilevanza
sociale della nostra fede, in particolare in Europa occidentale, ma anche ad una
vera e propria dissoluzione delle esperienze religiose, molto marcata nell’Europa
settentrionale. In Italia essa ha cominciato a manifestarsi da quando è entrata
in crisi l’organizzazione del cattolicesimo democratico, che aveva retto le
sorti della nuova Repubblica popolare dal 1946 al 1994, un arco temporale molto
lungo. Lo stato in cui appare meno sensibile è la Germania in cui fino a pochi
mesi fa i cristiani democratici erano al governo e dove, forte di un imponente
finanziamento pubblico, la Chiesa cattolica nazionale ha coinvolto potentemente
il laicato negli affari religiosi, in particolare con un’originale esperienza
sinodale tuttora in corso. In quella nazione da decenni si è formato un ceto di
teologhe e teologi laici ai quali sono
state affidate importanti responsabilità nelle parrocchie. Ciò che finora è
risultato impossibile ottenere in Italia, in particolare per il fatto che la
teologia a livello universitario è confinata, per ragioni storiche, nelle
università pontificie che, per vari motivi, non possono essere considerate
organismi del tutto liberi, soggiacendo alla pesante pressione della polizia
ideologica dell’istituzione che, nella Santa Sede, è succeduta alla triste e
tragica Inquisizione romana.
Si progetta ciò che si pensa possa essere utile per il futuro. Ma l’utilità
dell’esperienza religiosa non è più molto evidente. E infatti, nel fare
pubblicità per ottenere la destinazione del cosiddetto 8xmille nelle dichiarazioni dei redditi, più o meno
tutte le Chiese mettono in luce anzitutto le loro attività caritative, cosa non
del tutto onesta, perché sono principalmente altro. Ma, ad esempio, in Italia
la pesante pressione che la gerarchia cattolica esercitava nei confronti della
politica, arrivando a bloccare le procedure legislative su certi temi, un tempo era
considerata positivamente, ora invece non più tanto. L’imponente finanziamento
pubblico in Italia rende indipendenti clero e religioso dai fedeli laici: anche
questo un tempo veniva considerato positivamente, ora è diverso. Finisce con l’ostacolare
il processo sinodale che viene oggi proposto, perché pressati dal laicato, ad
un certo punto clero e religiosi possono liberarsi d’impaccio decidendo di fare
da sé, tenendo intorno a sé solo la gente che ci sta. E’ quello che, in fondo,
accade nella gestione delle parrocchie, dove sembra impresa quasi impossibile
cambiare anche le minime cose dal basso e spesso anche le direttive dall’alto
vengono disinvoltamente ignorate, come quella che impone che i Consigli pastorali parrocchiali siano
convocati e funzionino.
Oggi la funzioni prevalenti nelle strutture religiose territoriali, quindi
nelle articolazioni locali della gerarchia che si vorrebbe trasformare
in vere comunità, sono quelle di prima formazione etica dei più giovani,
compito in cui gli adulti sono sempre più incerti, di liturgizzazione, quindi spettacolarizzazione,
degli eventi della vita personale, di assistenza sociale sussidiaria e di
sostegno psicologico, dove ci sono abbastanza preti, queste due ultime attività
rispondenti all’esigenza dello star bene personale. Troppo poco per avere un qualche
impatto sociale.
In realtà, mi pare che prevalga la paura delle novità, soprattutto in un
clero e tra religiosi in prevalenza molto anziani, e la difficoltà di rivolgere
un pensiero ad un futuro in cui la religione conti ancora qualcosa in società.
Si è visto, di questi tempi, sulla questione della guerra europea che è
in corso in Ucraina, con il crescente coinvolgimento dell’Europa occidentale, e
anche dell’Italia. A parte poche scontate parole di circostanza, non ve ne è
traccia, mi pare, nella predicazione, salvo che in quella del Papa, che mai
come ora mi pare una persona sola.
Anzi, la concentrazione della società sulle questioni poste dalla guerra,
praticamente ignorate nelle nostre Chiese, mi pare sia stata l’occasione colta
per mettere in sordina i processi sinodali in corso, quando invece la
sinodalità doveva e poteva esservi principalmente coinvolta, perché essa ha al
proprio centro proprio la gestione pacifica dei conflitti sociali, che ora nella
nostra Chiesa si preferisce piuttosto negare o nascondere con una certa
ipocrisia.
Ad esempio, dove la conflittualità parrocchiale
è più sensibile, come indubbiamente nella nostra realtà, si preferisce non convocare
il Consiglio pastorale parrocchiale, che dovrebbe essere la sede principale per
discuterne e cercare vie d’uscita. Così però si fa sempre meno esperienza di
sinodalità, che è anzitutto pratica prima che teoria, e così, come accaduto
negli incontri cosiddetti sinodali che si sono fatti nella nostra parrocchia, quando
ci si ritrova almeno per parlarne, non si sa che dire. E, del resto, le
indicazioni venute dalla Diocesi erano nel senso di non fare un dibattito,
quindi negando il dialogo, in cui si parla ma anche si ascolta, dimensione
che, nell’incontro del Meic Lazio di venerdì scorso ci è stato detto essere
addirittura costitutiva della
Chiesa, lì dove anche i laici hanno una propria competenza in base al proprio
vissuto.
Non bisogna perdersi d’animo, però, è stato detto alla conclusione di quell’incontro.
Qualcosa cambierà sicuramente, perché le società evolvono e le Chiese in esse,
e come sarà il futuro, se sarà ancora religioso o non, dipenderà anche da noi, da
una miriade di piccole iniziative di sinodalità pervicacemente praticate, che
poi potrebbero costituire una rete. Come ad un certo punto, nella storia dell’evoluzione
biologica, ai grandi rettili seguirono i mammiferi, così accadrà nelle nostre Chiese.
La settimana prima il relatore aveva osservato che nel giro di dieci anni, per consunzione
naturale, il sistema della parrocchie come ancora lo stiamo vivendo, svanirà.
Bisogna progettare il nuovo futuro che ne seguirà.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli