Cristianesimi, sinodalità e agàpe
Ciò che definiamo cristianesimo è legato a modi di vivere insieme, quindi a
collettività, a gruppi. In questo senso, non vi è un cristianesimo, ma
tanti cristianesimi quanti sono i modi di viverli. Anche la nostra parrocchia,
nella sua storia che risale agli scorsi anni Cinquanta, ne ha vissuti di
diversi, corrispondenti a stagioni di socialità. Vi ha avuto importanza il clero,
in particolare i parroci, ma non solo. Ogni generazione ha lasciato una sua
traccia e le generazioni che hanno convissuto hanno esercitato influenze le une
sulle altre. All’interno della parrocchia sono coesistiti e coesistono altri gruppi
minori, alcuni dei quali sono parte di altri maggiori o facenti parte di
confederazioni che esprimono comuni orientamenti. La coesistenza determina sempre reciproca influenza, anche se può anche produrre
conflitti, quando le posizioni si radicalizzano. Il conflitto è sempre anche un modo di stabilire relazioni e quindi
se ne esce diversi e questo anche se ideologicamente si può pensare di stare
combattendo per liberarsi di influenze altrui che si pensano cattive.
Il comandamento supremo dell’agàpe, che traduciamo di solito con amore
ma che significa un modo di convivenza solidale, sollecito e misericordioso non
rientra nelle definizioni che distrattamente recitiamo la domenica a messa nel Credo.
Questo perché l’agàpe non è da credere, ma da vivere.
— Maestro, qual è il più grande comandamento
della Legge?
Gesù gli rispose:
— Ama il Signore, tuo Dio,
con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima
e con tutta la tua mente.
Questo è il comandamento più grande e più
importante.
Il secondo è ugualmente importante:
Ama il tuo prossimo
come te stesso.
Tutta la legge di Mosè e tutto
l’insegnamento dei profeti dipendono da questi due comandamenti.
[dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 22,
versetti da 36 a 40 – Mt 22, 36-40 – versione in italiano TILC]
nel greco evangelico suona così:
Διδάσκαλε, ποία ἐντολὴ μεγάλη ἐν τῷ νόμῳ; ὁ ⸀δὲ ἔφη αὐτῷ· Ἀγαπήσεις κύριον [agapèseis kùrion = fai agàpe con il Signore] τὸν θεόν σου ἐν ὅλῃ ⸀τῇ καρδίᾳ [cardìa, cuore] σου καὶ ἐν ὅλῃ ⸁τῇ ψυχῇ [psiché, vita interiore] σου καὶ ἐν ὅλῃ τῇ διανοίᾳ [dianòia, ragione] σου· αὕτη ἐστὶν ⸂ἡ μεγάλη καὶ πρώτη⸃ ἐντολή. Δευτέρα ⸀δὲ ὁμοία ⸀αὐτῇ· Ἀγαπήσεις τὸν πλησίον [plesìon, il vicino] σου ὡς σεαυτόν [òs seautòn, come te stesso]. ἐν ταύταις ταῖς δυσὶν ἐντολαῖς ὅλος ὁ νόμος [nòmos, la legge di Mosè) ⸂κρέμαται καὶ οἱ προφῆται⸃[profètai, i profeti].
La norma dell’agàpe è
semplice: trattare le altre persone come vorremo essere trattati noi. Si
suppone infatti che ciascuno voglia essere trattato bene, ma non è sempre
detto, perché gli esseri umani sorprendono. Ma anzitutto c’è l’agàpe, vale a
dire una forma di convivenza solidale, sollecita, misericordiosa, in cui si
prevengono i bisogni altrui, così come il genitore con il figlio.
Perché non si è sentito il bisogno di costruire un vero e proprio dogma
sull’agàpe? I dogmi storicamente sono scaturiti da conflitti di potere e può
pensarsi che l’agàpe, come tale, non ne abbia mai originati, perché quando c’è
non c’è il conflitto. Tuttavia rimane il comandamento supremo.
L’agàpe
è al centro di ciò che chiamiamo sinodalità, che è appunto agàpe
ecclesiale, vivere come Chiesa nel modo dell’agàpe.
Bisogna
aver studiato per capire veramente i dogmi, ma non per capire e vivere l’agàpe.
Nel corso della nostra vita la pratichiamo istintivamente, ad esempio verso i
figli, verso i genitori e talvolta verso altri parenti. E’ per questo che la
metafora padre-figlio-figlia e madre-figlio-figlia è tanto importante nel dire
la nostra fede.
La
parabola del Samaritano misericordioso fa eccezione ed è considerata una delle
spiegazioni più avvincenti dell’agàpe cristiana, in particolare, come spiegano
i predicatori, per spiegare come farci prossimi alle altre persone. Al centro della parabola c’è
il sofferente, un uomo che è stato lasciato malconcio dai rapinatori. Di solito
abbiamo molte pretese verso le altre persone, ma da un uomo ridotto come quello
là non c’è molto da aspettarsi. Il Samaritano pratica l’agàpe verso il
sofferente e, in questo, gli si fa prossimo. La parabola esprime una
conseguenza del comandamento dell’agàpe che non sempre è intesa: il dovere
religioso di farsi prossimi alle altre persone. Fai agàpe con il tuo
prossimo, era il comandamento, ma c’è anche quello di farsi prossimi,
vale a dire di includere: significa incidere sulla società intorno in modo da
tramutarla in un mondo di prossimi, di persone vicine, verso la quali
quindi non si è indifferenti, con le quali fare agàpe. L’azione sociale
dei cristiani è stata connotata anche in questo senso, non solo dalle tristi
dinamiche di dominio che ha condiviso con tutti i poteri storici delle varie
epoche. Se ne rende l’idea quando si parla di fare dell’umanità un’unica famiglia.
Ci si
può avvicinare a un cristianesimo per tanti motivi, e anche per conseguire un certo
benessere, pur se solo spirituale. I cristianesimi storicamente hanno inglobato
forme di spiritualità, molte delle quali mutuate dagli antichi Orienti, che effettivamente
possono costruire quello che intendiamo come pace dell’anima, ad esempio
mediante tecniche di meditazione, e i consigli che talvolta si danno per
la preghiera consistono proprio in questo. Ma non è questo il centro dei cristianesimi, Anzi, proprio perché il centro è l’agàpe il cristiano è in genere una
persona inquieta, che non si appaga di ciò che vive perché vede sempre una
forma più estesa o intensa di agàpe possibile e doverosa. E’ sempre impegnato a
farsi prossimo di sempre più gente, ed è per questo che è spinto a varcare i
confini.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli