Vigilia
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Un cartoncino con gli auguri di Buon solstizio d'inverno, Yule, e un Babbo silvano |
Nella grande Cina comunista
di oggi si festeggia il natale, ma non è un giorno festivo per la legge civile.
Gli innamorati si scambiano doni e comprano i regali in negozi e centri
commerciali addobbati come in Occidente, con l’Albero di natale, i Babbi natale
e tutto il resto. Molto vicino a casa mia, qui a Roma, ha aperto un negozio
gestito da una coppia cinese, con un bimbo, in cui vendono tutto quello che
serve nella vita quotidiana. Ieri lì ho comprato un piccolo trolley per mia
madre. “Di che colore lo vuole?”, mi ha chiesto l’uomo. Volevo che si
distinguesse dalle altre valigie degli ospiti del pensionato dove mia madre
vive e ho scelto il rosso. “Rosso…Natale!”, ha detto lui. Non ci avevo proprio
pensato… A me il rosso evoca altre cose, altre esperienze: anticamente, a Roma,
era il colore delle vesti dei potenti ed è per questo che poi si è tramandato
in quelle dei più potenti del clero cattolico. Ma è anche, dall’Ottocento, il
colore della lotta del popolo: rosse erano le divise dei garibaldini, rosse le
bandiere del socialismo. Il rosso natalizio è stato inventato nel Novecento
dalla The Coca Cola Corporation, che
l’ha usato nel costume del suo pupazzo Santa
Claus - Babbo natale, il quale nella tradizione vestiva di verde,
probabilmente perché metamorfosi di una primordiale divinità silvana. In quel
momento ho pensato: come spiegherei a questi signori il nostro Natale? Ma in che
senso nostro? Perché, più o meno, il natale che
c’è in giro da noi è uguale al loro, a quello dei cinesi.
E’ l’indizio di una colonizzazione culturale dei cinesi da parte degli europei
che non è mai veramente riuscita alla
loro religione principale, nelle sue varie denominazioni. Più difficile parlare
del Natale dei cristiani, anche per me che ho vissuto tanto a lungo tra loro
che forse non mi si riesce più a distinguere bene da loro. Da dove cominciare? Da questo: in Cina e da
noi c’è un natale innocuo, tanto che gli oligarchi cinesi di oggi non lo
combattono più, e anche da noi è in genere così: questo segnala che non si
tratta del Natale cristiano. Perché il Natale cristiano è strettamente collegato all’idea un radicale
cambiamento a partire da una conversione interiore e individuale per
poi farsi sociale, una forza critica, temuta da sempre da ogni potente.
Per provare a capire
il Natale cristiano, bisogna cancellarne in noi tutte le immagini correnti, compresa quella
del presepe, comprese quelle diffuse in religione. Cancellate tutto, tutto
(potrete riprenderlo poi, dopo esservi convinti però che non c’è in esso nulla
di essenziale). Cancellate. Anche la festa della famiglia, il bambinello, i
pastori, i Magi, la Stella ecc. Rinunciate ad ogni immagine. Che rimane?
Quando ti iniziano
alla fede ti spiegano che è questo che si deve fare.
Ignazio di Lojola,
mistico del Cinquecento, ci scrisse sopra una specie di manuale, gli Esercizi.
E’
come quando si sbuccia una cipolla, togli strato dopo strato, quello che rimane
è l’essenziale, Ma, ripeto, che rimane?
La fede è stata
descritta come l’inoltrarsi, ascendendo, in una notte oscura, o anche come il
gettarsi in un precipizio al buio. Ma è pure spiegata come illuminazione.
“Ciascuno dalla sua notte va verso la luce”
cantò Victor Hugo, nella poesia Les
contempations
Puis vous m'avez perdu de vue; un vent qui souffle
Disperse nos destins, nos jours, notre raison,
Nos cœurs, aux quatre coins du livide horizon;
Chaque homme dans sa nuit s’en va vers sa lumière.
Nella concezione cristiana, la luce non è in noi, e nemmeno
andiamo verso di essa prima che si manifesti: essa viene a noi. L’attendiamo, come la sentinella
attende l’aurora, nella sua veglia, ripetendoci l’un l’altro le parole del
salmo: Sentinella, a che punto è la notte?.
Si manifesta, andiamo e l’adoriamo. Questo è il Natale per i cristiani. E’ la
manifestazione della luce: Natale, Capodanno, Epifania: un’unica festa, si
celebra la stessa cosa.
Lo dico con il
greco antico delle scritture sacre dei cristiani: E zoè en to fos ton antropòn, kai to fos en te skotia fàinai - la
vita era luce per gli uomini e la luce
splende nelle tenebre. I colleghi che lavorano dalle parti di piazza Cavour
lo potranno leggere nell’iscrizione sopra la porta del bel tempio valdese che
c’è là: lux lucet in tenebris. E
l’annuncio del Natale dei cristiani.
Teòn
udèis eòraken pòpote, lo confessiamo, non l’abbiamo mai visto, nessuno l’ha mai visto, il Creatore, il Fondamento, ma ekèinos
exegèsato, ci è stato rivelato. O
Teòs agàpe estìn: è null’altro che agàpe,
l’Eterno, l’Atteso. Ecco il senso di tutto: ciò che ci è stato rivelato. Questa
è l’illuminazione, la luce dell’agàpe. Non l’abbiamo capito da noi stessi, scoperto, ci si è manifestato e ancora
ci si manifesta e l’attendiamo alla fine dei tempi. E l’invocazione del Natale
è èrku! Vieni!.
Null’altro conta, null’altro vale, perché nunì
de menèi pìstis, elpìs, agàpe, ta tria tàuta: mèizon de tuton e agàpe.
Rimangono la fede, la speranza e
l’agàpe, proprio queste cose, ma la più grande è l’agàpe. Non è lontana da noi,
s’è fatta come noi, è accanto a noi, prende dimora in noi, è luce per le nostre
vite, speranza in cui confidiamo nelle nostre tenebre, in ogni nostra angoscia
e nell’ultima ora. Nulla le è pari, a tutto siamo disposti a rinunciare se fa
ombra alla sua luce, essa è la guida nella nostra conversione. Vegliamo, per
non esserne distolti. E’ il senso della Veglia di questa notte, ma di ogni
Veglia di ogni liturgia cristiana.
L’agàpe dunque è alla
nostra portata e richiama l’idea di un convito in cui ce n’è per tutti e
nessuno è escluso. Se ne ha l’immagine anche come di una città che ci è donata
e scende dall’Alto. E dòxa tu Teù
efòtisen atèn - lo splendore stesso della santità dell’Eterno la illumina. In
essa nux gar uk èstai ekèi - là non vi sarà più notte. Eppure: che
vediamo intorno a noi e anche in noi? Siamo esseri viventi al pari di quelli
non umani e in noi sentiamo ancora l’istinto di belva. Il rovello della
teologia cristiana, fin dalle origini, sta tutto qui. In fondo la storia dei
cristiani è stata tutta un progettare e costruire città nuove, civiltà nuove,
interi mondi nuovi, tra nostalgia di ciò che non è mai
stato, ma si vorrebbe che fosse stato, e attesa di ciò che potrebbe ancora
essere. Nel distacco da tutto ciò che c’è,
vissuto come imperfetto, ancora bisognevole di agàpe, ma tuttavia costruendo su
ciò che c’è, convinti che in esso vi
sia il germe del nuovo. Non costruiamo su fantasie. Ciò che c’è ci è dato come un bimbo, bisognevole
di cura. Lo si può avere tra le mani. Crescerà? Siamo convinti che crescerà
bene. Ma non dipende solo da noi. Dipendesse solo da noi, non sarebbe
ragionevole la speranza. Da chi allora? E anche su questo che ci si interroga nel tempo di
Natale. Si rammenta la teologia della storia: il senso della storia umana. E’
possibile congiungere Cielo e Terra, ciò che è umano e ciò che è eterno? La
nostra evidenza di belve, alla quale sempre si tende a ritornare, dalla quale è
così difficile, ma anche così bello, elevarsi, è l’ultima parola su di noi? E’
su questo che i cristiani hanno sviluppato, nell’arco dei primi secoli, la
teologia del Natale. Costruita intorno alla persona del primo Maestro, colui
che ha rivelato, la nostra luce. Così, si dà un Nome alla nostra speranza. Ogni
generazione poi ha aggiunto qualcosa o
corretto qualcosa: il cristianesimo è un’opera collettiva. I secoli non sono
passati invano. Ma si cerca di non dimenticare nulla. E così è stato anche per
il Natale. Ma è un lavoro non ancora compiuto. Il nuovo ci sorprende e, del
resto, è proprio questo che si attende, che ci sorprenda. L’attesa vigile è al
centro della spiritualità del Natale cristiano. Kai to pneuma kai nùmfe lègusin: èrku - E lo spirito e la sposa
dicono: «Vieni!»
Mario Ardigò - Roma