Brezza
marina – Brise Marine (Stéphane Mallarmé)
La
carne è triste, ahimé, e ho letto tutti i libri/
Fuggire! Laggiù fuggire! Io sento uccelli
ebbri/
d’essere
tra l’ignota schiuma e i cieli!/
Niente,
né antichi giardini riflessi dagli occhi/
o
notti! né il cerchio deserto della mia lampada/
sul
vuoto foglio difeso dal suo candore/
né
giovane donna che allatta il suo bambino! Io partirò!
Vascello
che dondoli l’alberatura/
l’àncora
sciogli per una natura straniera!
E
crede una Noia, tradita da speranze crudeli!
ancora
nell’ultimo addio dei fazzoletti! E gli alberi forse, richiamo dei
temporali,\
son
quelli che un vento inclina sopra i naufragi\
sperduti,
né antenne, né antenne, né verdi isolotti…\
Ma
ascolta, o mio cuore, il canto dei marinai.
La chair est triste, hélas ! et
j'ai lu tous les livres./
Fuir ! là-bas fuir ! Je sens que
des oiseaux sont ivres/
D'être
parmi l'écume inconnue et les cieux !/
Rien, ni les vieux jardins reflétés
par tes yeux/
Ne
retiendra ce coeur qui dans la mer se trempe/
Ô
nuits ! ni la clarté déserte de ma lampe/
Sur
le vide papier que la blancheur défend/
Et
ni la jeune femme allaitant son enfant./
Je
partirai ! Steamer balançant ta mâture,/
Lève
l'ancre pour une exotique nature !/
Un Ennui, désolé par les cruels
espoirs,/
Croit encore à l'adieu suprême des
mouchoirs !/
Et, peut-être, les mâts, invitant
les orages/
Sont-ils de ceux qu'un vent penche
sur les naufrages/
Perdus, sans mâts, sans mâts, ni
fertiles îlots.../
Mais, ô mon coeur, entends le chant
des matelots !/
Capire la complessità
sociale
Appunti di un mio viaggio in Provenza fatto con mio zio Achille, sociologo bolognese, e mio cugino
Sergio dal 7 al 12 aprile del 1980.
Ho
conservato gli appunti presi durante un viaggio in Provenza fatto con lo zio
Achille e Sergio dal 7 al 12 aprile 1980. Lo zio lo aveva programmato per noi
un po’ come, in piccolo, il “tour” che nell’Ottocento si faceva fare ai giovani
borghesi e aristocratici dopo gli studi superiori e prima di impegnarsi in una
professione o comunque di prendere il proprio posto nella società.
Ad ognuno di noi giovani lo zio aveva proposto
un libro di meditazione. Il mio era: “Il sacro oggi. Una svolta antropologica”,
a cura di Pino Mercuri, Edizioni dell’Apocalisse, Milano, 1980. Conteneva un
saggio di Sabino Acquaviva (“Mutazione antropologica”), e interviste allo zio
(“Il feticcio del sacro”), a Franco Ferrarotti (“Dopo il cristianesimo”) e Ida
Magli (“La cultura come sovranatura”).
Si parte da Arles per Marsiglia. La sera si
mangia in un ristorante in rue de la Libertè, vicino alla stazione di St.
Charles. Discutiamo sull’intervista a Ferrarotti e su quella allo zio. Lo zio disegna schemi su una tovaglietta di
carta del ristorante: il sistema E-P-C, Economia-Politica-Cultura, che prima
creava il senso della vita è in crisi; ci sono una pluralità di centri creatori
di senso. Ferrarotti: la crisi è la
manifestazione di uno stato aurorale, di un mondo diverso, post-cristiano e
post-socialista; la crisi ha una funzione epifanica, di rivelazione del nuovo;
il mondo di oggi, basato su mercato, si mostra insufficiente a dare senso alla
vita, in quanto ha una logica interna puramente utilitaria; vi è la necessità
di mettersi in ascolto, di sospendere il giudizio (Husserl: sospensione
epocale), di mettersi in atteggiamento religioso, perché l’uomo religioso è
l’uomo dell’ascolto e dell’attesa. Ardigò:
al di là di una rassomiglianza superficiale, c’è una profonda differenza
tra sacro, religione e fede; ogni società ha bisogno del suo sacro, ma l’uomo
di fede no; il sacro è un modo di dare una risposta razionale all’ignoto, alla
prova, all’oscurità della meta; ogni società ha bisogno del suo sacro,
soprattutto quelle che si ispirano a concezioni dichiaratamente atee, ma l’uomo
di fede no; la decadenza della società ha come effetto il riemergere del sacro
e si tratta di sacralità pagana; nel cristianesimo si ha una radicale
demistificazione e secolarizzazione del sacro, è il centro della rivelazione
cristiana; la liberazione per i cristiani non passa attraverso il collettivo,
ma attraverso la metànoia, la conversione personale, un cambio profondo della
personalità, la spada di Dio taglia, la parola di Dio separa fin dentro le
midolla il cristico dal pagano; il rapporto con Cristo deve essere sempre
razionalizzabile, ci deve essere sempre un rapporto positivo verso l’altro e
verso la storia, l’atteggiamento del cristiano deve essere solare, non può
essere un atteggiamento irrazionale; è difficile rallegrarsi di una ripresa
privatizzata del sacro, perché il sacro privatizzato è un sorta di epifenomeno
della decadenza di una civiltà, e si manifesta in quelle sue componenti che
mancano di un atteggiamento aperto e positivo nei confronti dell’uomo e della
sua storia o che mancano di speranza cristiana; l’individualismo ne è certamente
la premessa maggiore, non c’è più dono, non c’è più solidarietà se non
attraverso sforzi faticosissimi; rifondare il rapporto con l’altro diventa il
problema dei problemi; si tratta di partire da questo mondo vitale quotidiano,
nel quale si ricreano nuclei di gente che vivono la propria vita affidandosi a
un rapporto di conoscenza diretta, che ricostruiscono la trama sociale
attraverso una moltitudine di atti di comprensione piena di senso, d’amore, di
dono, di solidarietà, di fiducia, di responsabilità; il punto di ripresa oggi è
certamente nella possibilità di fondare un rapporto non narcisistico con
l’altro, e quindi di rifondare i mondi vitali quotidiani e il rapporto con la
società, dove il bisogno di sacro viene in qualche modo assorbito e superato da
una forza vitale della coscienza nel rapporto davvero interpersonale; ciò che
colpisce è che ci sono dei periodi in cui la gente torna a cercare il pagano;
il fondamento della ripresa dei mondi vitali quotidiani sta nella crescita
della capacità di stare con gli altri senza essere succubi o marginali o
dominanti, in rapporto di comunicazione familiare; per fare questo occorre
essere capaci di autodirezione, che a sua volta è possibile a partire da una
nuova nascita; bisogna essere capaci di capire “sei mesi prima”.
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Che immagine avete della società
in cui vivete? Cercate di farvela?
C’è chi rinuncia e si butta in un mondo di amici in cui si pensa, si
veste e si parla uguale e verso tutti gli altri, i diversi, quelli che non
riesce e non vuole capire, usa violenza, ma di difesa non di conquista. Il
neo-fascismo che vedo oggi in giro è fatto spesso più che altro di questo, ma quello che ho descritto
è un modo di aggregarsi che, come si
legge, sembra essere piuttosto frequente anche sulle reti sociali che si formano
sul WEB, sebbene in questo ambito la violenza sia (in genere) solo psicologica.
In questa modalità ci si può anche dedicare alla rapina e allora è niente altro
che mafia. Proprio qui a Roma abbiamo osservato una degenerazione mafiosa di
alcuni tipi di neofascismo o una metamorfosi neofascista di alcune mafie. La
differenza dalle mafie della tradizione, alleanze criminali su basi
etniche, è piuttosto forte: esse
infatti, in quanto consapevoli di essere aggregazioni criminali, reiette della
società, amano l’oscurità e il nascondimento, lavorano sottotraccia, per
agguati, fuggono l’evidenza pubblica, cercano di controllare la politica da
dietro le quinte. La mafia tradizionale ha prosperato quando c’era, ma in
società si diceva che non ci fosse. Il
neofascismo mafioso cerca invece di emergere socialmente, si manifesta, e
manifesta nelle strade, usa metodi mafiosi platealmente, cerca non solo sottomissione, ma
sottomissione e vaste e pubbliche complicità, si propone di controllare porzioni del territorio
al modo delle gang¸ delle bande, che ci sono nelle grandi città
statunitensi, il cui modello ha fatto scuola in tutto l’Occidente ed anche
oltre. Un mafioso si dirà tale solo tra i suoi complici segreti, con gli altri si dirà uomo d’onore, onest’uomo padre di
famiglia, dedito al bene; un neofascista mafioso invece urlerà chi è nelle piazze che si propone di controllare. Ma la violenza
crea infelicità sociale e quindi presto
viene meno anche la complicità: rimane la sottomissione, dalla quale ci si può
liberare più facilmente, proprio perché il neofascista mafioso urla la sua
identità, si manifesta, è riconoscibile, non può sfuggire alle forze di polizia. Con la mafia
tradizionale è tutto molto più difficile. Da notare che ideologia del fascismo
storico e i costumi della mafia tradizionale furono in rotta di collisione,
benché entrambi si valessero della violenza criminale, ma con finalità diverse,
di conquista e consolidamento del potere politico mediante l’annientamento dei
dissenzienti nel caso del fascismo, di
controllo economico del territorio nel caso mafioso. La dimensione fascista era
nazionale, quella mafiosa era e rimane sostanzialmente locale, benché
progressivamente estesa a sempre più numerose porzioni territoriali, al modo di
una metastasi cancerosa. Un neofascismo mafioso cercherà di ottenere il
controllo politico ed economico di un territorio locale.
Essere ammessi in un
gruppo chiuso dà una sensazione di sicurezza, perché ci si
trova sempre tra propri simili. Si è apprezzati proprio in quanto simili agli
altri, altrimenti c’è l’esclusione. Si tratta però di una sicurezza illusoria,
perché si basa sulla cancellazione dell’immagine della società in cui si vive e
con cui si è in relazione. La società c’è,
tuttavia. E da essa, a ben ragionare, dipendono la nostra felicità e la nostra
sofferenza. Migliorare la nostra condizione richiede quindi di capirla per cambiarla in meglio. «Bisogna essere capaci di capire “sei mesi
prima”» ci insegnava mio zio Achille, sociologo, tanti anni fa. .Siamo a meno
di sei mesi dalle prossime elezioni politiche, dal cui esito dipenderà, forse
come poche volte è accaduto prima, la nostra felicità, e, se non abbiamo ancora
capito è possibile che sia già troppo tardi.
Nel viaggio in Provenza del 1980 di cui ho
scritto sopra, lo zio Achille ci parlò del senso
della vita. E’ ciò che è in questione nelle scelte più importanti. Fino al
secondo dopoguerra, fino alla metà degli anni Quaranta del secolo scorso, si basava
su un sistema integrato E-C-P, economia -
cultura - politica. In questo schema, coerente, la religione è compresa
nella cultura come comprensione razionale dei fatti economici e politici. L’economia
sono le relazioni della società civile e la politica l’autorità che mantiene un
certo assetto di quelle relazioni. Economia e politica venivano spiegate dalla cultura e a quest’ultima facevano
riferimento per darsi obiettivi. La persona e la sua rete di relazioni di
prossimità, quelle più importanti, in primo luogo quelle vissute all’interno
delle famiglie, poteva facilmente orientarsi, e orientare le sue scelte e i
suoi obiettivi, in base alla cultura della società, che le consentiva anche di
operare come agente economico e politico. Il governo dello stato veniva
legittimato dal riconoscimento culturale della sua supremazia, vista come
necessaria per l’economia e il raggiungimento degli obiettivi politici. Nella prima
figura qua sopra, è raffigurato lo schema E-C-P come una figura triangolare,
quindi con una sua struttura chiaramente riconoscibile, e quindi comprensibile. Un’immagine stilizzata,
come quella delle cartine topografiche, utile a farsi un ‘idea sommaria dell’insieme
e capire come muoversi.
Come
osservato anche dal sociologo Zygmunt Bauman, dagli scorsi anni Quaranta la
società è apparsa più complessa e, in particolare dagli anni Sessanta. Essa ha
manifestato la sua realtà di insieme di centri di potere continuamente in
movimento, dai più piccoli ai più grossi, in cui il governo è solo uno dei
tanti, anche se tra i più grossi. I rapporti e le gerarchie cambiano
costantemente e anche molto velocemente. La seconda figura cerca di rendere un’idea
di tutto questo. Ho parlato di realtà,
perché è così che è fatta veramente la società, e lo era anche prima: era la cultura a darne un’immagine semplificata, ma non
realistica. Questo spiega i problemi di fronte ai quali in genere si sono
trovati i riformatori sociali, i quali, nel progettare il cambiamento, hanno
adottato lo schema E-C-P. Esso non descriveva bene la società, ma invece di
migliorarlo si è tentato di adattarvi la società e questo ha richiesto dosi
crescenti di violenza politica. La violenza ha generato l’infelicità: tutte le
società violente sono infelici, perché la violenza genera sempre l’infelicità degli
umani. L’infelicità, alla fine, ha generato ribellione e contro-rivoluzione. La
società ha preso il sopravvento sugli schemi rigidi ai quali si voleva
adattarla. Questa,
sostanzialmente, è stata la ragione del fallimento di tutti i regimi comunisti di
tipo leninista, vale a dire basati sull’ideologia neo-marxista del
rivoluzionario russo Vladimir
Il'ič Ul'janov - detto Lenin (1870-1924),
fino all’avvento della rivoluzione neo-comunista cinese di Deng Xiaoping negli
anni ’80, dalla quale uscì, in un processo piuttosto veloce, uno dei quattro
modelli economici e politici ad oggi egemoni nel mondo, insieme a quello
neo-capitalista statunitense, quello neo-capitalista russo e quello dell’economia
sociale di mercato dell’Unione Europea. La fortuna del modello neo-comunista
cinese, rispetto agli altri comunismi storici sta nell'aver riconosciuto e cercato di governare, non di abbattere, la
complessità sociale.
In un
mondo che si riconosce complesso, trovare il senso della vita è più difficile,
perché è più difficile orientarsi. Il mondo intorno sembra cambiare
continuamente e non ci si raccapezza più. Non si riescono a fare programmi per
il futuro meno prossimo, a lunga scadenza. Ecco dunque la tentazione di
rinchiudersi in piccoli mondi di quartiere presidiati dalla violenza. Dove
impera la violenza, vige la legge del più forte. Ecco che si cade nelle mani di
piccoli despoti. Un’altra via per risolvere la complessità è quella di
affidarsi all’uomo del destino, al
capo politico decisionista, che tronchi con un atto di
volontà le controversie, che fermi il mondo in modo che ci si possa capire
qualcosa. Da noi il modello di un personaggio del genere è stato Giuseppe Garibaldi.
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Giuseppe Garibaldi, fotografato nel 1860 a Palermo, a 53 anni |
Alla sua epoca Garibaldi fu trattato negli
stati italiani prima dell’unità nazionale come un terrorista. Era
essenzialmente uno che faceva politica con la violenza militare, su larga
scala. Un violento egli stesso. Uno che terrorizzava i suoi nemici con le
strategie di guerra e guerriglia messe a punto in Sud-America. Il suo più grande
successo politico può essere considerato l’abbattimento del regno dei Borboni
nel meridione d’Italia, concluso nel 1861. Egli, tuttavia, capiva bene che, ad
un certo punto, la violenza non era più sufficiente per governare la
complessità sociale e mise il regno conquistato nelle mani della monarchia
sabauda, un sistema politico organizzato democraticamente. Questo fu uno dei
suoi maggiori meriti politici: l’aver posto fine, ad un certo punto, alla
violenza politica. E questo anche se Giuseppe Mazzini, il suo capo politico, lo
spingeva all’instaurazione di una repubblica popolare, che avrebbe richiesto
nuova violenza. Gli uomini forti possono avere ragione della complessità
sociale con dosi crescenti di violenza politica. Alla fine, però, così
ottengono sottomissione, non vero consenso, e, con l’infelicità che
deriva dalla violenza, avranno ribellione. Il dominio sociale mantenuto con la
violenza è quindi sempre precario.
Ogni aggregato sociale, dalla famiglia, all’impresa, al governo, esprime
un centro di potere politico che,
relazionandosi con gli altri genera l’assetto complessivo della società, e così anche la
sua felicità o infelicità. Il consenso democratico nasce da questa realtà
sempre in movimento, sempre da capire. La politica italiana è in crisi di legittimazione (espressione che
iniziò ad essere usata negli anni ’80 per descrivere quella crisi) dagli scorsi
anni ’80, quando raggiunse il suo culmine la perdita di contatto vivo tra ceto
politico - il personale politico impegnato a vari livelli nel governo della
società - e quelli che mio zio Achille definiva mondi vitali, li dove
ciascuno trova il senso della propria vita. Negli anni ’80 si è tentato di
sostituire quel rapporto vitale con tecniche di marketing politico, cercando
di acquisire dall’elettore un segno sulla scheda di voto con le stesse strategie
di fascinazione con le quali si cerca di convincere i consumatori agli
acquisiti. Ecco quindi che i politici - il personale che vuole impegnarsi nel
governo e che per farlo ha bisogno di voti alle elezioni - cercano di costruirsi un’immagine pubblica affidandosi a tecnici del
marketing. Per il resto cercano di
tessere trame con i centri di potere maggiore e, a questo punto, la scelta non
si fa più in base a un certo orientamento ideologico, di un programma, ma in base a chi ci sta ed è abbastanza grosso per servire allo scopo. Quanto
alle alleanze, esse si rimandano al dopo elezioni: si tratterà con quelli che
avranno successo. Questo però è un discorso tipico di chi cerca il potere per
il potere: non è prudente mandare al potere gente così. Questo perché se il suo programma è solo il potere, per
mantenerlo potrebbe essere disposta a qualsiasi compromesso, con chiunque sia
abbastanza forte per garantirle il potere, e a qualsiasi espediente, comprese
frode e violenza, senza tenere troppo in
conto di valori e mondi vitali, e, insomma, la vita della gente.
Per cambiare la società è meglio cominciare a
ritessere relazioni di mondo vitale nelle nostre realtà quotidiane: anche
questa è politica, anzi è a questo livello che inizia la politica democratica. E’ qui che comincia il tirocinio di politica democratica,
quella che vuole elevare tutti alla politica, in modo che il governo tenga
conto della felicità e della vita di tutti. Si impara a non temere la
complessità sociale, a non avversarla come un pericolo, ma a favorire il valore che può dare: è questo il grande
insegnamento politico della dottrina sociale moderna, fin dal suo esordio nel
1891, con l’enciclica Rerum Novarum - Le
novità del papa Vincenzo Gioacchino
Pecci - Leone 13°. E’ l’insegnamento della sussidiarietà,
che significa, appunto, accettare e capire la complessità sociale, orientandola
al bene mediante l’azione dei centri di governo superiore, senza abbatterla né
comprimerla ingiustificatamente. In questo modo l'ordine sociale, largamente consentito perché favorisce la felicità collettiva e individuale, necessità di essere presidiato da minor violenza pubblica, solo quella che serve a prevenire e combattere la violenza del crimine.
Paradossalmente le società che hanno tentato
di vincere la complessità abbattendola, per rendersi più stabili, si sono
manifestate in genere precarie, mentre quelle che l’hanno riconosciuta e accettata cercando di governarla, come è acceduto nelle democrazie moderne, si sono
dimostrate molto più stabili. Fino ad oggi ne sono stati un esempio gli Stati
Uniti d’America, che, però, sotto la presidenza federale di Donald Trump appaiono
indirizzarsi ora per altra via. Il primo effetto eclatante sono stati i venti
di guerra che hanno cominciato a soffiare nel mondo, e anche molto vicino a
noi.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro, Valli