Un
compito impegnativo: radunare i dispersi e indurre una comunità
Ognuno ha in mente un modo di essere persone
di fede in parrocchia. Vede le cose sotto prospettive particolari: la sua
esperienza personale, quella del gruppo in cui si è formato e in cui ha le
relazioni fondamentali della sua vita sociale. Si hanno anche delle attese,
delle aspettative, che cambiano a seconda delle età della vita e delle
situazioni sociali e personali. In parte esse non dipendono dalla nostra
volontà, ma da ciò che chiamiamo natura.
Un ventenne vede le cose in modo diverso da un sessantenne. E sentiamo che, nel
corso della vita, siamo sempre la stessa persona, ma anche che cambiamo molto.
Non è solo questione della biologia corporea,
per cui uno cresce, si riproduce, invecchia e muore. Ci sono, ad essa
collegati, dei processi psichici, mentali, sui quali possiamo influire in
maniera piuttosto limitata. E tuttavia si creano dei legami tra tutta questa
gente che è molto diversa, ma che, anche, condivide molte cose della vita.
Questi legami sono la cultura di un popolo. Come gli esseri umani cambiano,
anch’essa cambia. Della cultura di un popolo fa parte anche la sua fede nel soprannaturale e la religione, come modo
di viverla socialmente. La nostra religione, come fatto culturale, è molto
cambiata dalle origini, anche se vi riconosciamo dei tratti comuni, che
permangono, così come in un adulto riconosciamo certi tratti del bambino. Tuttavia
c’è una differenza: la religione non è invecchiata con il passare dei secoli,
si è invece rinnovata. Di generazione
in generazione. Tutte le culture che non hanno saputo rinnovarsi si sono estinte. Confidiamo che la nostra
fede non passi. Perché? Nella nostra visione, essa ha infatti incorporata una
dinamica di rinnovamento costante, sorretta da una grazia soprannaturale. La
promessa del rinnovamento, che tutte le cose siano fatte nuove, conclude le nostre scritture sacre. Ma in che
direzione rinnovarsi? E’ un processo che ci sovrasta. Che supera ogni nostro
progetto, ogni nostra sistemazione delle cose, che va intesa sempre come
provvisoria. E’ come quando si genera un figlio e si scopre, mentre cresce, chi
è e che, benché assomigli ai genitori, non è mai identico a loro. E infatti, in
religione, siamo giunti a concepire quel rinnovamento anche come rigenerazione. In questo però
riprendiamo un’idea dell’antico ebraismo: siamo aperti alla vita, come si dice, non perché siamo affezionati alla
specie come, ad esempio, può esserlo un allevatore di canarini o di pecore pregiate,
ma perché ci attendiamo grandi sorprese, e soprattutto molto bene, dai nuovi
arrivati, nel processo di rinnovamento/rigenerazione.
Nelle cose umane si dà molta importanza alla tradizione, che si esprime soprattutto
nella civiltà giuridica, che dà una continuità alla storia delle culture umane.
La tradizione non è solo tramandare
la cultura, intesa come complesso delle conoscenze e dei costumi di vita, ma
anche accrescerla di generazione in generazione, di modo che non
vada perso ciò che si è imparato nei secoli e, soprattutto, ciò che si è
appreso dagli errori fatti. La scienza procede per errori e secondo il fisico
Carlo Rubbia, premio Nobel nel 1984, lo
scienziato migliore è quello che ha fatto tutti gli errori possibili nel suo
campo e, aggiungo, ha imparato da essi. Ma anche nel campo del diritto si
procede in un modo simile. Nel sesto secolo, il sovrano dell’Impero Romano d’Oriente,
Giustiniano I, promosse un’opera enciclopedica raccogliendo le leggi e il
pensiero giuridico di circa mille anni di storia romana: leggendola vi
ritroviamo il fondamento degli attuali concetti giuridici diffusi nel mondo
dagli europei. Tuttavia il diritto, nei secoli, è molto cambiato, adattandosi a
regolare nuove situazioni e nuove relazioni umane, e soprattutto imparando
dagli errori fatti. Il diritto di Giustiniano non potrebbe più regolare la
nostra vita di oggi, ma, ragionando di diritto, ci rifacciamo ancora a molti degli
schemi concettuali dell’antica civiltà giuridica da cui esso provenne.
Nel processo di rinnovamento/rigenerazione le genti della nostra fede hanno preso a
distanziarsi molto dall’antico ebraismo. Non dobbiamo dimenticarcene mai.
Condividiamo un importante patrimonio culturale ma impersoniamo due religioni
diverse, nessuna delle quali deve essere concepita come eresia dell'altra, per cui ad un certo punto ci si aspetti che sia assorbita dall'altra o che comunque assuma il punto di vista dell'altra. Devono coesistere pacificamente nella loro diversità, e proprio la loro diversità costituisce un arricchimento per il genere umano. La diversità emerge più fortemente nel confronto con la parte delle scritture
sacre che deriva dall’antico ebraismo. Dobbiamo sempre ricordare che esse vanno
interpretate, in un’ottica di fede nostra, alla luce di quelle originate dalla
nostre prime collettività di fede, sulla base degli insegnamenti del Fondatore.
Le nostre genti hanno ritenuto da sempre
di essere inviate fino agli estremi confini della terra per
suscitare quel rinnovamento di origine soprannaturale che esprime l’idea
di salvezza che ci è propria. L’antico ebraismo visse
invece l’esperienza dell’espansione fuori delle terre originarie della sua
cultura come dispersione, diaspora, con un fatto negativo,
addirittura talvolta come una pena per i peccati del passato, e soprattutto come un pericolo
per la sua integrità per i rischi di contaminazione con culture aliene, ad esempio per via matrimoniale.
Di fatto poi visse un’esperienza storica simile a quella delle nostre genti e
oggi comprende, dal punto di vista antropologico, popolazioni umane di molte
varietà e culture, fortemente integrate dalla cultura religiosa.
Storicamente abbiamo sempre avuto diverse
difficoltà a integrare tradizione e rinnovamento/rigenerazione. La nostra, in
realtà, dovrebbe essere una tradizione di
rinnovamento/rigenerazione. Spesso però abbiamo fatto prevalere quell’aspetto
della tradizione che consiste nel tramandare
quanto ricevuto dal passato. Così la
tradizione diventa essenzialmente lo sforzo di riprodurre
il passato, che si considera
immutabile, e di eliminare le innovazioni successive, viste come incrostazioni storiche. In realtà nella nostra storia bimillenaria di novità ne abbiamo
introdotte moltissime ed è stato un bene: questo ha consentito il rinnovamento/rigenerazione. Il moto di rinnovamento/rigenerazione ha dunque sempre funzionato, nonostante le resistenze e difficoltà culturali. Ma non di rado, seguendo
l’ideologia dell’antico ebraismo, ne abbiamo una cattiva opinione. Fondamentalmente perché abbiamo dei problemi nel lavoro che il Wojtyla chiamò di purificazione della memoria, che significa discernere nel passato ciò che è bene e ciò che è male nella nostra esperienza religiosa, ciò che può essere preso ad esempio e ciò che non deve esserlo, ciò che merita di essere continuato e ciò che non lo lo merita. Anch'esso, talvolta, viene considerato un pericolosa innovazione. A volte si vorrebbe riproporre acriticamente un nostro particolare passato, più o meno lontano, e, in questo modo, arrestare l'evoluzione storica, che ci crea problemi culturali. Lo si fa cercando di appigliarsi ad argomenti soprannaturali o evocando il successo di nostre passate civiltà, sminuendone gli effetti collaterali negativi, e spesso anche gli orrori.
Questo
si è visto in particolare di fronte allo spettacolare moto di
rinnovamento/rigenerazione indotto dai saggi dell’ultimo Concilio ecumenico,
che significa universale, cinquant’anni
fa. Invece di assecondarlo, scoprendone il profondo senso religioso, ne abbiamo
avuto paura e abbiamo preso delle contromisure. Esse sono consistite nel fare
argine, cercando di contenere l’entità del nuovo che si stava sviluppando. E in questo abbiamo seguito, veramente in una sorta di tradizione, i moti reazionari che si svilupparono a partire da fine
Settecento. Due sono state le vie. La prima è fissare alcuni temi sui quali il
rinnovamento non doveva esercitarsi: è quella dei valori non negoziabili. Se
questi valori vengono collegati a una tradizione di popolo, come elementi
culturali di tipo etnico, individuandoli in base a ciò che ad esempio si è
stati In Italia per secoli, essa assume la forma del fondamentalismo religioso. L’altra è quella di chiudersi
in piccole collettività molto coese, rigidamente e gerarchicamente disciplinate,
in cui vivere tutto ciò che riteniamo rientri nell’ideologia di vita
ricevuta dal passato che pensiamo di dover riprodurre in eterno: questa è la
via dell’integrismo religioso. In entrambe si fa pulizia dei
fattori contaminanti, in un’azione propriamente di polizia ideologica. Questo significa ripulire le nostre collettività dai dissenzienti o recalcitranti, da tutti coloro che non accettano di conformarsi a una certa ideologia religiosa. Nell’accostarsi alle persone nuove diventa così
centrale lo scrutinio: quelle che non
superano l’esame di conformità ideologica vengono allontanate. E si cerca anche di
limitare i contatti potenzialmente contaminanti con l’esterno. Ho parlato a questo proposito di comunità corazzate. Ecco dunque che l'elemento comunitario visto dai saggi del Concilio come fonte di rinnovamento/rigenerazione si trasforma in quelle esperienze collettive nel suo contrario.
In Italia sono state percorse entrambe quelle
vie di contenimento del moto di rigenerazione/rinnovamento.
I movimenti che le esprimono usano convocare in piazza masse di loro aderenti, per produrre e manifestare folle di gente fedeli alla loro
impostazione ideologica, secondo il modello della comunità corazzata, che viene presentata come l'unica veramente ortodossa. Se ne cerca conferma dall'autorità religiosa, provando ad accattivarsela con il numero e una specie di culto della personalità di massa. Così creano un’immagine
di espansione, evocando quella, strepitosa, delle nostre collettività delle
origini. Questa è stata anche la strategia della nostra Azione Cattolica fino
agli anni Sessanta. Esibire le masse in piazza. Solo che in quell'esperienza non si voleva proporre una propria ideologia collettiva, per portare la gerarchia sulle posizioni dell'Azione Cattolica, ma sostenere quella diffusa dalla suprema autorità religiosa. Dopo il Concilio, però, in Azione Cattolica si è
seguita un’altra via, quella della mediazione culturale, proponendosi di essere
fermento, come il lievito in un impasto
che comprende anche gente che la pensa diversamente, senza timore di
contaminazione. Non è cambiata però l'idea di essere strumento del magistero: ci si è concentrati in particolare su quello dell'ultimo Concilio, del resto sollecitati in questo dalla gerarchia del clero.
Di fatto poi i fondamentalisti e gli integralisti hanno poco seguito in
società, e infatti si lamentano sempre di essere diventati un piccolo resto. Quegli altri, invece,
hanno espresso una cultura che è ancora alla base della nostra nuova Europa,
quella dei diritti umani e della pace perpetua.
Nella nostra parrocchia negli ultimi trent’anni
si è seguita prevalentemente la via dell’integralismo religioso, in ciò innovando profondamente la tradizione parrocchiale dei vent’anni precedenti. Questo ha comportato ridurre al minimo il pluralismo. Ecco
che, all’esito di questo processo, ci troviamo in pochi e non sappiamo che
fare. Diamo la colpa alla gente di fede
del quartiere. Infedele che è! Il gregge si è disperso, possiamo dunque dire
con una metafora pastorale. La cosa può essere vista però anche così: nella nostra ansia di purificazione abbiamo lasciato molta gente fuori. Ma il
fatto negativo non è solo che si è rimasti in pochi, ma che si è bloccato il
moto di rinnovamento/rigenerazione
che è caratteristico della nostra fede e che corrisponde alla sua missione
religiosa. In mancanza di gente nuova
non ci rinnoviamo/rigeneriamo e la collettività si estingue.
Oggi ci accorgiamo che non basta espandersi per via biologica, generando fisicamente gente
nuova che prenda ad un certo punto il nostro posto. E questo anche se
cerchiamo di essere molto prolifici. E scopriamo che è triste arrivare a dover
fare catechismo solo ai nostri figli. Perché è triste? La rigenerazione c'è in definitiva, ma è generazione
di ciò che in fondo vogliamo che rimanga sempre uguale al passato, manca quindi il
rinnovamento.
Il nostro lavoro di oggi, allora, deve essere
quello di aprire le porte, far entrare gente nuova senza che si debba
sottoporre a controlli di dogana religiosa, radunare il gregge che è fuori degli spazi liturgici, disperso, e
indurre una nuova comunità nuovamente capace di rinnovamento/rigenerazione.
In una parola. ripristinare il pluralismo.
In questo modo anche la via dell'integralismo riprenderà vigore, perché tra i molti che arriveranno ve ne saranno sicuramente alcuni, non tutti, che ad un certo punto saranno attratti dall'idea di una vita religiosa come quella. Ma anche tutti gli altri riprenderanno ad abitare la parrocchia, liberi di seguire altre vie, innanzi tutto quella indicata dalla diocesi.
Che significa indurre una comunità?
Ne tratterò nei successivi interventi.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro Valli