Indurre
una comunità aperta - 5
Il lavoro di induzione di una comunità
rientra in quello di promozione umana. Quest’ultimo ha un alto valore religioso
anche se ciò che si costruisce non riguarda gli spazi liturgici, ma la vita
sociale più in generale, lì dove interagisce tutta la gente del mondo. Di
questo si è preso atto nell’ultimo Concilio, ma le soluzioni che i saggi che vi
parteciparono escogitarono per definire il valore religioso dell’impegno civile
traendone le conseguenze nel campo dell’organizzazione religiosa non sono
complete e definitive, ma il punto di inizio di un processo. Per molti aspetti
certi problemi non sono stati risolti, ma solo avviati alla soluzione. In
realtà, come accade in tante cose della
vita, di certe nuove idee occorreva fare pratica, metterle in atto per vedere
se e come funzionavano. Questo non è il modo di procedere consueto in teologia,
in cui di solito ci si limita a prendere atto di ciò che si è fatto nel
passato, anche quando ci si proietta idealmente nel futuro. E la teologia era
la base culturale del saggi del Concilio. La teologia pensa sempre di guidare i
processi, e in questo è la lingua del potere religioso, ma in realtà interviene
sempre a cose fatte, per sistemare concettualmente realtà già manifestatesi e
sperimentate, e nello sforzo di dare coerenza al progredire dei tempi, evitando
rotture con il passato, svolge essenzialmente una funzione di moderazione, di
conservazione. Del resto questo è limite proprio della disciplina, che ragiona
sulla fede dei popoli, ma non la costruisce, essa infatti le preesiste, la
precede.
Quando
ci proponiamo di indurre una comunità secondo gli ideali dell’ultimo Concilio,
noi partecipiamo a quella sperimentazione di cui dicevo e quindi costruiamo il
futuro, non ci limitiamo a riproporre forme del passato, perché appunto questa
era la sfida accolta in quella sede, quella di fare una cosa nuova.
Si è detto che il Concilio ha segnato uno
stacco rispetto al passato, è stato un nuovo inizio, può essere visto come una
cesura nella trama storica della nostra fede, ma questo non è del tutto vero.
Secondo le consuetudini dei teologi, i saggi del Concilio si limitarono a
prendere atto, e a metabolizzare, a digerire, un processo che era in corso da
un secolo e mezzo e che aveva portato i laici al centro delle attività
religiose, nei secoli precedenti dominate in tutto dal clero e dai
religiosi, a loro volta inquadrati in una struttura feudale rigidamente
verticistica, al modo di un impero religioso, organizzata prendendo a modello i
bizantini e i franchi dell’Alto Medioevo.
I laici che erano emersi dalla fine del
Settecento in avanti erano quelli impegnati nei processi democratici, che agli
inizi ebbero una chiara impronta religiosa, ma che poi si venne perdendo nel
conflitto ideologico e politico con la nostra gerarchia. Al centro di tutto vi
è quindi il problema della democrazia, anche se di esso non si parla nei documenti
del Concilio. Lo ricordo spesso: se ne iniziò a prendere atto nel corso della
Seconda Guerra mondiale, in uno storico radiomessaggio natalizio del 1944 del
papa Eugenio Pacelli, ma poi la riflessione fu interrotta e si fecero ulteriori
passi avanti solo negli anni ’90, a partire dall’enciclica del ‘91 Il centenario del Wojtyla, centrata
proprio sui processi democratici. La democrazia venne da allora considerata il
regime politico più rispondente alla dignità umana affermata nella nostra fede.
Se ne sarebbero dovute trarre le conseguenze anche per quanto riguardava
propriamente l’organizzazione religiosa, ma si era nell’era della grande glaciazione, in cui tutti i
processi di rinnovamento erano stati sospesi d’autorità per il timore della
dispersione del gregge derivante dalle sperimentazioni sociali in religione. La
religione veniva perdendo importanza nella società, prendendo congedo da essa,
divenendo essenzialmente, per il largo pubblico, un’agenzia di promozione di grandi eventi, mentre la gerarchia
conduceva, isolata dal contesto religioso di base, dal suo popolo, le sue strategie di potere con la
tecnica del lobbismo parlamentare, concentrandosi su specifici obiettivi e
individuandoli come valori non
negoziabili, che in realtà erano, dal suo punto di vista, gli unici valori veramente negoziabili, vale a dire le
uniche materie sulle quali riteneva che in religione ci si dovesse spendere nel campo
civile, mentre tutte le altre perdevano di interesse e in definitiva divenivano
irrilevanti per la fede. Quindi, innanzi tutto, le risorse pubbliche per le
organizzazioni religiose, l’otto per
mille, cioè la quota del gettito fiscale riversata automaticamente nelle casse
della gerarchia, poi le esenzioni fiscali alle attività economiche degli
istituti religiosi, gli aiuti pubblici alle scuole gestite dai religiosi, le
assunzioni degli insegnanti di religione nelle scuole statali, e poi una serie
di temi che incidevano in qualche modo sull’esercizio del potere religioso sui
fedeli, quindi sulla giurisdizione
della nostra gerarchia: matrimonio, contraccezione e aborto, fine vita.
Questi ultimi sono ancora al centro
dell’impegno politico di tutti i nostri movimenti fondamentalisti e
integralisti. Negli ultimi anni si è aggiunto quello della polemica contro il gender, secondo cui si avversa ogni tentativo di eliminare le
discriminazioni che colpiscono coloro che manifestano socialmente modelli di
sessualità diversi da quelli polarizzati su quelli fisiologici maschio/femmina delle culture tradizionali europee.
Dunque i
processi attivati dall’ultimo Concilio furono sospesi d’autorità, ma in
definitiva nella base, nel laicato, non si sentì veramente il bisogno di
continuarli anche a prescindere dalla volontà della gerarchia, come si era
fatto dalla metà dell’Ottocento e, in particolare nel corso del Novecento, in
cui fioccarono le scomuniche, ma i
processi democratici progredirono, manifestandosi poi spettacolarmente proprio
in quel Concilio.
Si giunge quindi ai giorni nostri in cui
nella nostra parrocchia ci si ritrova a fare i conti con la realtà prodotta
dalla radicalizzazione dell’ideologia prevalente in religione nell’ultimo
trentennio, che è quella di una estraneità rispetto alla gente del quartiere.
Del resto, al tempo dei valori non
negoziabili, ci siamo disinteressati alla sua vita e, così, abbiamo finito
per diventare irrilevanti. Siamo stati ripagati della stessa moneta.
Ripartire in altra direzione richiede di fare
sincera memoria di ciò che è accaduto, delle cause di ciò che è accaduto, e
quindi di ripensare all’ideologia di estraneazione che ha dominato fino a tempi
recenti. Si tratta di pensare vie nuove, di rimettere al centro del nostro
lavoro il proseguimento della pratica sperimentale delle idealità promosse dall’ultimo
concilio, e innanzi tutti della pratica dei processi democratici in religione,
che non è solo questione di tecniche di decisione, per cui si cerca di
coinvolgere il consenso di maggioranze più o meno larghe, ma di valori umani, che riguardano l’infinita
dignità della persona che riconosciamo nella fede.
Si possono pensare due fasi in questo lavoro.
La prima è quella della creazione di gruppi di contatto che ristabiliscano
legami sociali nel quartiere, organizzando la convocazione di gente nuova e
impostando una nuova organizzazione.
La seconda è quella dell’emersione di funzioni
e responsabilità dalla stessa gente convocata.
Un gruppo
di contatto deve agire come comitato promotore. Le persone che vi si
impegnano devono a) avere già rapporti sociali significativi con il quartiere,
b) aver sufficiente consapevolezza del processo storico in cui ci si inserisce
e c)credere nel lavoro che si fa facendo. La loro scelta compete al parroco,
che dovrebbe crearsi una adeguata rubrica telefonica, con la gente giusta da
chiamare per ogni lavoro che c’è da fare. Si agisce su mandato, questo è alla
base della nostra organizzazione religiosa. Questa impostazione rimarrà anche
attuando processi democratici.
Conoscendo meglio la gente del quartiere, dopo
averla convocata, si avrà un’idea più chiara, senza pregiudizi,
precomprensioni, preconcetti, tutti i “pre” che si possono immaginare e che
limitano la nostra capacità di avere una visione realistica dei problemi, di
come articolare quella parte della vita religiosa che si attua nell’impegno
civile e che è essenziale per coinvolgere nuovamente i laici del quartiere
nella vita della parrocchia, per renderla significativa nelle loro vite.
Infine bisogna indurre l’emersione di una
dirigenza democratica in ogni ramo di attività che riguarda l’impegno civile,
in modo da mantenere sempre il più vasto coinvolgimento e fare tirocinio di democrazia, in particolare dei suoi valori, secondo i quali non si prevarica
e non si discrimina e ogni potere non è mai arbitrario.
A quel punto i gruppi di contatto dovranno sciogliersi. Non abbiamo necessità di guardiani della rivoluzione.
L’obiettivo iniziale può essere l’orientamento
religioso: fare memoria dei processi in corso, acquisirne migliore
consapevolezza. Un buono strumento può essere la Laudato si’, totalmente dedicata al tema del valore religioso dell’impegno
civile, definito ecologico, ma in senso molto ampio, comprendente
sostanzialmente sia l’ambiente naturale che l’ambiente umano e le loro interazioni. E' scritta in termini comprensibili a chi abbia avuto un percorso scolastico dell'obbligo.
Ma si può pensare anche ad altro, come catalizzatore di idealità e tirocini collettivi. L’arte, la bellezza, sono potentemente evocative dell’armonia che si sogna di
produrre in società: bisogna ricominciare a praticarle. Abbiamo urgente
necessità di mettere a norma il teatrino parrocchiale per farlo. Dobbiamo
riunirci ma oggi, a parte la chiesa parrocchiale, ogni altro spazio più esteso, adatto a radunare un po' più di gente, è diruto.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli