La
parrocchia-comunità di comunità
1. Uno dei modi di rendere un’idea del modello di collettività
religiosa indotta dai saggi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) è quello di
descriverlo come quello di una comunità, in cui tutti sono ammessi a
partecipare creativamente al lavoro
comune in uno spirito di reciproco servizio
inteso come manifestazione di benevolente solidarietà per andare incontro alle
esigenze della vita delle persone, rispetto a quello di tipo giuridico-istituzionale,
tutto centrato sull'idea di gerarchia e quindi sull'esercizio e la
ripartizione di poteri religiosi al modo di uno stato, nel quale il servizio è solo l’attività di gerarchi a vari livelli,
della quale quelli ai livelli inferiori rispondono solo a quelli ai livelli
superiori, e consiste prevalentemente in ciò che serve al potere religioso per dominare e mantenere unito sotto la
sua autorità un popolo di sudditi.
Questa
concezione di una fede vissuta collettivamente secondo un modello comunitario era al centro del moto di
vera e propria riforma innescato dai saggi di quel
Concilio, ma nella fase attuativa andò molto depotenziandosi, venendo ad essere
inteso essenzialmente come uno strumento per inculcare più efficacemente nel
popolo dei laici principi religiosi costruiti e custoditi altrove, in
particolare dalla gerarchia del clero.
Questo in particolare apparve piuttosto
evidente nell'utilizzo romano del modello organizzativo
sostanzialmente rivoluzionario sperimentato
nelle comunità di base latino-americane e poi in Europa a partire
dagli anni Sessanta, vale a dire quello della collettività religiosa come comunità di comunità, che comportava anche
forme di auto-organizzazione
democratica e di creatività ideologica e
di progetto. Ne parlo come di uno schema rivoluzionario, perché antitetico a quello
di tipo imperiale/feudale organizzato dall'Undicesimo secolo e ancora oggi
sostanzialmente vigente. Tale carattere fu colto chiaramente dal papa Giovanni
Battista Montini che così ne trattò nell'esortazione apostolica L’annuncio del Vangelo, del 1975,
promulgata dopo un Sinodo celebrato nell’anno precedente:
58. Il recente Sinodo si è molto occupato di
queste piccole comunità o «comunità di base», perché nella Chiesa d'oggi sono
spesso menzionate. Che cosa sono e per quale motivo queste sarebbero destinatarie
speciali di evangelizzazione e, nello stesso tempo, evangelizzatrici?
Fiorendo un po' dappertutto nella Chiesa, secondo
le differenti testimonianze sentite al Sinodo, esse differiscono molto fra di
loro, in seno alla stessa regione e, più ancora, da una regione all'altra.
In alcune regioni sorgono e si sviluppano, salvo
eccezioni, all'interno della Chiesa, solidali con la sua vita, nutrite del suo
insegnamento, unite ai suoi pastori. In questo caso, nascono dal bisogno di
vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa; oppure dal desiderio e
dalla ricerca di una dimensione più umana, che comunità ecclesiali più vaste
possono difficilmente offrire, soprattutto nelle metropoli urbane contemporanee
che favoriscono la vita di massa e insieme l'anonimato. Esse possono soltanto
prolungare, a modo loro, a livello spirituale e religioso - culto,
approfondimento della fede, carità fraterna, preghiera, comunione con i Pastori
- la piccola comunità sociologica, villaggio o simili.
Oppure
esse vogliono riunire per l'ascolto e la meditazione della Parola, per i
Sacramenti e il vincolo dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato
civile o la situazione sociale rendono omogenei, coppie, giovani,
professionisti, eccetera; persone che la vita trova già riunite nella lotta per
la giustizia, per l'aiuto fraterno ai poveri, per la promozione umana. Oppure,
infine, esse radunano i cristiani là dove la penuria dei sacerdoti non
favorisce la vita normale di una comunità parrocchiale. Tutto questo è supposto
all'interno delle comunità costituite della Chiesa, soprattutto delle Chiese
particolari e delle parrocchie.
In altre regioni, al
contrario, comunità di base si radunano in uno spirito di critica acerba nei
confronti della Chiesa, che esse stimmatizzano volentieri come «istituzionale»
e alla quale si oppongono come comunità carismatiche, libere da strutture,
ispirate soltanto al Vangelo.
Esse hanno
dunque come caratteristica un evidente atteggiamento di biasimo e di rifiuto
nei riguardi delle espressioni della Chiesa: la sua gerarchia, i suoi segni.
Contestano radicalmente questa Chiesa. In tale linea, la loro ispirazione
diviene molto presto ideologica, ed è raro che non diventino quindi preda di
una opzione politica, di una corrente, quindi di un sistema, anzi di un
partito, con tutto il rischio, che ciò comporta, di esserne strumentalizzate.
Ecco invece la visione di tale modello esposta nel gennaio del 1999 dal papa Karol Wojtyla nell’esortazione
apostolica La Chiesa in America,
promulgata a Città del Messico a poco più di un anno dalla celebrazione del
Sinodo delle Chiese americane del dicembre 1997:
41. La parrocchia è un luogo privilegiato in
cui è possibile per i fedeli fare l'esperienza concreta della Chiesa. Oggi, in America come altrove nel mondo, la
parrocchia attraversa talora alcune difficoltà nello svolgimento della propria
missione. Essa ha bisogno di un rinnovamento continuo partendo dal principio
fondamentale che « la parrocchia deve continuare ad essere primariamente
comunità eucaristica » [dal documento conclusivo del Sinodo]. Tale principio implica che « le parrocchie
sono chiamate ad essere accoglienti e solidali, luogo dell'iniziazione
cristiana, dell'educazione e della celebrazione della fede, aperte alla varietà
di carismi, servizi e ministeri, organizzate in modo comunitario e
responsabile, capaci di coinvolgere i movimenti di apostolato già esistenti,
attente alla diversità culturale degli abitanti, aperte ai progetti pastorali e
sovraparrocchiali ed alle realtà circostanti [dal documento conclusivo del
Sinodo].
Una
speciale attenzione meritano, per le loro problematiche specifiche, le
parrocchie nei grandi agglomerati urbani, dove le difficoltà sono così grandi
che le normali strutture pastorali risultano inadeguate e le possibilità di
azione apostolica notevolmente ridotte. L'istituzione parrocchiale, tuttavia,
conserva la sua importanza e va mantenuta. Per ottenere questo obiettivo,
occorre « continuare la ricerca di mezzi con i quali la parrocchia e le sue
strutture pastorali giungano ad essere più efficaci nelle zone urbane» [dal
documento conclusivo del Sinodo]. Una via
di rinnovamento parrocchiale, particolarmente urgente nelle parrocchie delle
grandi città, si può forse trovare considerando la parrocchia come comunità di comunità e di movimenti. [Cfr IV Conferenza Generale dell'Episcopato
Latino-americano, Santo Domingo, ottobre 1992: Nuova evangelizzazione, promozione
umana e cultura cristiana, n. 58]. Appare perciò opportuno il formarsi di comunità e di gruppi ecclesiali
di dimensione tale da permettere vere relazioni umane: ciò consentirà di vivere
più intensamente la comunione, avendo cura di coltivarla non solo «ad intra» [=all’interno
del gruppo o movimento], ma anche con la
comunità parrocchiale alla quale tali raggruppamenti appartengono, e con
l'intera Chiesa diocesana e universale. Sarà inoltre più facile, all'interno di
un simile contesto umano, raccogliersi in ascolto della Parola di Dio, per
riflettere alla sua luce sui vari problemi umani, e maturare scelte
responsabili ispirate all'amore universale di Cristo [cfr Giovanni Paolo II, enciclica La missione del
Redentore, 1990, 51].
L'istituzione parrocchiale così rinnovata « può suscitare una grande speranza. Può
formare la gente in comunità, offrire aiuto alla vita familiare, superare la
condizione di anonimato, accogliere le persone e aiutarle ad inserirsi
nell'ambito del vicinato e della società» [dal documento conclusivo del
Sinodo]. In tal modo, ogni parrocchia
oggi, e particolarmente quelle operanti nelle città, potrà promuovere
un'evangelizzazione più personale, e al tempo stesso incrementare le relazioni
positive con gli altri operatori sociali, educativi e comunitari [dal
documento conclusivo del Sinodo].
Questa versione del
modello di comunità di comunità depotenziato della
sua forza riformatrice è quella che successivamente è stata adottata in Italia
come modello di riorganizzazione della catechesi su base comunitaria. Esso, del
resto, sembrava ben adattarsi, non tanto alle residue comunità di base sopravvissute nel clima di normalizzazione
progressivamente instaurato dagli anni ’80, ma ai nuovi movimenti che avevano preso
a diffondersi nel laicato, su basi talvolta reazionarie, nel senso di reazione contro le sperimentazioni
postconciliari basate su modelli comunitari di tipo democratico.
Questo modello, pur essendo stata immaginato per
rafforzare l’efficacia dell’azione di promozione della fede svolte nelle
parrocchie, ne ha talvolta determinato la crisi, quando i gruppi che in esse si erano insediati ne
hanno tratto argomento per sostituire le articolazioni parrocchiali con le
proprie, rivendicando la propria autonomia di proselitismo, iniziazione,
formazione e di metodo di convivenza sociale. E’ ciò che è accaduto nella nostra
parrocchia.
2. Creare un’istituzione è molto più
semplice che costituire una comunità. Questo perché l’istituzione può fare a
meno dei rapporti amicali che invece sono essenziali nella comunità. Questi
ultimi si creano di solito tra le persone che partecipano a collettività di
dimensioni limitate: più lo sono e più quel tipo di relazioni si fanno forti.
Le comunità propriamente dette sono costituite da persone che si scelgono tra
loro, quindi in base a relazioni di elezione
reciproca. Le istituzioni di derivazione comunitaria, dal basso quindi,
mantengono questo carattere solo se in qualche modo sono obbligate a rimanere
legate alla loro base, ad esempio potendone subire le critiche e le verifiche,
dovendo quindi rispondere ad esse. Tuttavia più gli affari di una
comunità si fanno complessi, più l’istituzione, pur di derivazione comunitaria,
tende a divenire prevalentemente gerarchia, vale a dire un sistema di potere.
Ma come
mantenere la coesione di una collettività estesa quanto un miliardo circa di
persone?
Una delle vie è quella di costruire comunità più estese a partire da
comunità più piccole, federandole. E’ quella appunto della comunità di comunità sognata
ai saggi del Concilio e da coloro che ad
essi si sono ispirati. Ma senza democrazia
è difficile mantenere un ordine definito. Ci vuole un impegno più serio della
base, che vada oltre episodiche convergenze e l’emotivo reciproco piacersi.
Se si pensa che tutta questa gente, per rimanere unita, debba accettare
innanzi tutto di sottomettersi ad una gerarchia, la soluzione appare invece più
semplice
e si tratta solo di capire da dove essa debba originare: dal basso o
dall’alto. In un sistema feudale origina dall’alto e si costruisce procedendo
verso il basso, per livelli decrescenti di potere. In democrazia origina dal
basso e poi, a seconda della complessità dell’organizzazione, può ridiscendere
verso il basso: i funzionari elettivi scaturiscono dal basso ma essi, a loro
volta, possono creare al di sotto di loro un gerarchia che procede verso
livelli inferiori di poteri e competenze. Ad esempio: il corpo elettorale
elegge dei parlamentari, i quali legittimano un governo, che a sua volta nomina
funzionari non elettivi di gradi discendenti, come prefetti, questori,
commissari e via dicendo, per ogni settore dell’amministrazione. Nella nostra
confessione religiosa la gerarchia origina dall’alto, perché è tipo feudale,
strutturata nell’Undicesimo secolo, dunque in pieno Medioevo, ed è stata solo
marginalmente toccata dal processo di riforma innescato dal Concilio Vaticano
2°. Questo taglia fuori dai processi di governo religioso le comunità di fedeli, le quali al più possono esprimere
dei consiglieri in alcuni ambiti. Se consideriamo freddi i rapporti istituzionali di tipo gerarchico,
perché fondati su norme e non su rapporti amicali, e caldi quelli di tipo comunitario, perché fondati su affinità elettive, quindi su qualità,
concezioni ed esigenze comuni per cui ci si sceglie e si sta bene insieme,
possiamo dire che le collettività si raffreddano quanto più in esse prevale
l’aspetto gerarchico.
La fede religiosa può diffondersi sia nelle collettività fredde sia in quelle calde. La differenza è che nelle prime deve essere imposta dalla società, mentre nelle
seconde si diffonde per comunicazione tra persone che si vogliono bene e si
stimano (alcuni utilizzano l’immagine del contagio).
Nei primi tre secoli della nostra era, la nostra fede si diffuse in
collettività calde. Poi le nostre
collettività di fede iniziarono a raffreddarsi,
quando la religione divenne questione di stato, politica, e allora, venendo
incorporata nell’ideologia di governo delle società civili, venne imposta alla
gente, anche se poi quest’ultima, in genere, provava un vero afflato emotivo, ci
credeva, come si suol dire. A questa situazione poste termine, in un
processo progressivo durato fino alla metà del Novecento, l’avvento delle
democrazie di popolo contemporanee. Non si fu più obbligati socialmente a
manifestarsi religiosi per conseguire l’integrazione civile. Il principio della
libertà di coscienza è tra quelli
fondamentali di quelle democrazie. Esso fu a lungo duramente avversato dalla
nostra gerarchia del clero. Ma i processi democratici si rivelarono
incontenibili, globalizzandosi. Ai tempi nostri appaiono inumane e incivili le
religioni che pretendono la fede dalla gente sotto minaccia di sanzioni
criminali, ad esempio punendo con la morte l’apostasia o l’eresia. Questo
tuttavia fu il costume delle nostre collettività religiose per circa cinque
secoli, un tempo lunghissimo. Farne memoria realistica ci è, in genere,
piuttosto penoso, per cui non mancano ciclicamente tentativi per minimizzarlo.
I saggi dell’ultimo Concilio si
trovarono dunque a fare i conti con una situazione sociale in cui la fede non
poteva più essere imposta e, diffondendosi per via di collettività piuttosto fredde, aveva sempre meno presa tra la
gente. Dunque costruirono un’ideologia per riscaldare
quelle collettività, cercando di
rivitalizzare la componente comunitaria.
La idearono intorno al modello che si trova rappresentato negli Atti degli Apostoli 2, 42-47:
“Essi ascoltavano con assiduità l’insegnamento degli apostoli, vivevano
insieme fraternamente [nel testo greco:
koinonìa], partecipavano alla Cena del Signore e
pregavano insieme.
Dio faceva molti miracoli e
prodigi per mezzo degli apostoli: per questo ognuno era preso da timore. Tutti
i credenti vivevano insieme e mettevano in comune [nel testo greco: koinà] tutto quello che possedevano. Vendevano le
loro proprietà e i loro beni e distribuivano i soldi fra tutti, secondo le
necessità di ciascuno. Ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio.
Spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di
cuore. Lodavano Dio, ed erano benvisti da tutta la gente. Di giorno in giorno
il Signore faceva crescere la comunità con quelli che giungevano alla
salvezza.”
Al centro di esso vi è l’idea di koinonìa, che è il vivere in
comunità condividendo fraternamente ogni risorsa, ascoltando gli insegnamenti
degli apostoli e partecipando alle liturgie della fede. Nel greco antico quel
termine deriva dalla parola koinòs, che significa appartenente a più di uno e relativo a più di uno, ed è in relazione
al verbo koinonèo,
che significa condividere e partecipare.
La concezione comunitaria ideata dai saggi del Concilio ruotava quindi
intorno alle idee di condividere e di partecipare. Tuttavia essa appare appena
abbozzata e dovette convivere con l’articolatissimo apparato gerarchico che la
nostra organizzazione religiosa aveva ricevuto dai secoli passati, che fu
mantenuto pur ancorandolo ad un diverso quadro teologico rispetto al passato.
Non si riuscì a conciliare bene l’una e l’altro: rimangono quindi
fondamentalmente divergenti in quanto retti da princìpi informatori antitetici.
Essi rimasero in forte dialettica anche
nella fase post-conciliare, fino a quando, durante il regno del papa Wojtyla,
dagli anni ’80 del secolo scorso, si sospese il processo di riforma, riscaldando per altra via le nostre
collettività, mediante una sorta di culto della personalità intorno a colui che
era ancora costituito come sovrano assoluto nella nostra confessione di fede, in
un ingenuo neo-papismo costruito non
più in base alla sacralità del regnante ma alla sua umanità fascinosa, sempre
più svelata e resa accessibile mediante eventi e mezzi di comunicazione di
massa.
Venuto meno il Wojtyla, che aveva improntato della sua personalità tre
decenni della nostra vita religiosa, un tempo lunghissimo, lo spazio
addirittura di una generazione, ci si è presto resi conto della situazione
difficilissima in cui ci si era venuti a trovare, con un gerarchia che, al suo
livello centrale romano, era divenuta sostanzialmente autoreferenziale e
ingovernabile rendendo problematici i rapporti con i capi religiosi locali, e
con collettività religiose gelate, in quella che ho definito una
sorta di grande glaciazione, nel
quale ogni processo di riforma post-conciliare era stato sospeso e la stessa
memoria dell’ultimo Concilio si era fatta sempre meno viva e affidabile, fatta
eccezione per ristretti circoli di pervicaci affezionati. Sull’ideologia
conciliare si era sovrapposta quella indotta dal Wojtyla e dai suoi teologi di
riferimento, tra i quali colui che ne era stato il successore. Il senso di
questa operazione è stato sostanzialmente, secondo alcuni, quello di una correzione di rotta mediante quella che i giuristi
definiscono interpretazione autentica, che si ha
quando ci sono divergenze nell’intendere una certa norma di legge e allora il
legislatore interviene nuovamente precisandone la reale portata. Ciò si è fatto
con toni ultimativi, utilizzando anche certe espressioni sacrali che volevano significare tirare in ballo la suprema
autorità, quella connotata dall’infallibilità,
affermata, in una delle epoche più buie della nostra confessione di fede e in
tempo di sfacelo del potere temporale dei papi, nel corso del Concilio Vaticano
I, sospeso nel 1870 e mai più ripreso. Ma il nostro nuovo vescovo e padre
universale, utilizzando la medesima autorità, ha inteso riaprire i processi di
riforma a tutto campo, sia sotto il profilo della gerarchia istituzionale che
sotto quello comunitario, cercando di indurre un riscaldamento dell’ambiente religioso, che in Italia non si è
ancora prodotto venendo, anzi, così appare, sempre più vivamente contrastato.
In questa nuova stagione si presenta centrale il problema della democrazia, che fu presente ai saggi
dell’ultimo Concilio ma che essi non ebbero modo di risolvere, appunto non
avendo ritenuto di modificare l’apparato gerarchico organizzato nel Medioevo al
modo di un impero assoluto. Perché senza democrazia, intesa non solo come
sistema maggioritario di voto ma come complesso di valori fondamentali, non è
possibile una reale partecipazione del popolo, al di là di collettività molto
piccole di tipo parafamiliare in cui le divergenze e i conflitti sono più rari
per la presenza di relazioni amicali molto forti e il consenso è, per così,
dire intuitivo e spontaneo. Senza democrazia non è possibile riscaldare a sufficienza le gerarchie che occorrono per
governare collettività di massa adunate intorno a una fede religiosa.
Al centro della questione, quindi, non vi è
tanto una questione di chi comanda, autocrati o gente eletta da una qualche
base, ma mancanze molto gravi relative a valori rilevantissimi, come è platealmente emerso
durante il processo giudiziario inscenato nel piccolo regno vaticano contro due
giornalisti italiani per diffusione illecita di notizie riservate, dove è
emersa l’intollerabile divergenza di quel processo dai principi del giusto processo attuati nelle democrazie di popolo europee.
La koinonìa che si vuole
indurre nelle nostre collettività religiose richiede più partecipazione
democratica per funzionare: quest’ultima non connotava le comunità idealizzate
negli Atti degli apostoli perché
allora si era in altri tempi e in un altro ambiente culturale, e soprattutto si
era solo agli esordi in quel campo. Esse quindi non possono costituire un
modello completo per vivere oggi comunitariamente la fede. Occorre, in
particolare, tenere conto dell’evoluzione bimillenaria delle nostre
collettività di fede e della loro diffusione ormai globale, nonché di tutti gli
errori che in questo processo sono stati compiuti, fino a che, distaccandocene culturalmente e politicamente, si è arrivati a a
condividere un disegno di pace universale basato sull’uguaglianza in dignità di
tutti gli esseri umani, che comporta anche la libertà di coscienza e di
determinazione, e sulla solidarietà fraterna che appare l’unica via per
mantenere in vita le moltitudini umane che popolano il globo, con la
complessità delle loro esigenze sociali.
3. Dunque ecco che nella sua esortazione apostolica La gioia del Vangelo, del 2013, il
nostro vescovo e padre universale ha inteso riproporre l’idea di comunità
di comunità:
28. La parrocchia non è una struttura
caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto
diverse che richiedono la docilità e la creatività
missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica
istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi
costantemente, continuerà ad essere «la
Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo
suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo
e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti
che guardano a se stessi. La
parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della
Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della
carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la
parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti
dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove
gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante
invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al
rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché
siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente
verso la missione.
Collegando la dimensione comunitaria alla
partecipazione e alla creatività, e concependo la parrocchia come comunità
viva, il modello proposto dal papa
Bergoglio riprende la dimensione riformatrice originaria dei saggi dell’ultimo
Concilio, del resto secondo gli indirizzi generali dell’attuale papato.
Nell’attuarlo in concreto occorre però, da noi
a San Clemente papa, fare memoria dei problemi che la sua precedente versione
ha creato alla parrocchia.
Esso
infatti da noi mi pare che sia stato inteso nel senso di concepire la
parrocchia come una federazione
condominiale di gruppi, quindi come
una struttura al loro servizio, mentre essi ottenevano una quasi completa
autonomia di gestione al loro interno, determinandosi in particolare secondo
gli indirizzi nazionali dei movimenti di cui erano articolazione. Uno di essi,
poi, il Cammino Neocatecumenale, ha
finito per prevalere su tutti, avendo anche l’apprezzamento del precedente
parroco il quale in esso si era formato. La parrocchia è quindi giunta
sostanzialmente per identificarsi quasi del tutto con quel movimento, i cui
aderenti attualmente gestiscono quasi tutti i servizi parrocchiali, monopolizzando in particolare la catechesi di
secondo livello e le catechesi per gli adulti. Esso ha un’organizzazione
interna di tipo gerarchico/autoritario, per quello che ho potuto constatare
dall’esterno. Vale a dire che i membri delle varie comunità in cui si
articolano le collettività di quel movimento mi sembrano avere poche
possibilità di determinare il corso delle attività, che per ciò che ne so si
sviluppano secondo un metodo piuttosto rigido, a tappe iniziatiche, fissato a
livello nazionale. Insomma, c’è poco
spazio per autonomia e creatività nel progettare le attività. Si tratta inoltre
di un movimento che tende ad esaurire la socialità religiosa della persona: c’è
poco tempo e spazio per rapporti con le altri componenti della parrocchia. E’
un’esperienza sociale di quelle che ho definito di tipo chiuso, quindi concentrata
su se stessa. Caratterizzando fortemente la parrocchia ha finito così per
isolarla dal quartiere a cui essa è stata inviata.
Paradossalmente non si sarebbe potuti uscire
da questa situazione, che si era fatta piuttosto seria, senza l’intervento
d’autorità della gerarchia del clero, in particolare della diocesi, in persona
del cardinal vicario. In genere infatti si pensa che interventi di questo tipo
siano diretti a contenere le
dinamiche comunitarie, data la dialettica tra esse e il modello
gerarchico-istituzionale, invece nel nostro caso è stata teso a ripristinarle, per aprire ciò che si era chiuso, per ripristinare il
pluralismo parrocchiale.
Dobbiamo, ora, fare tesoro dell’esperienza.
Dobbiamo coinvolgere tutta la gente di fede
delle Valli e questo significa non progettare comunità che si esauriscano
sostanzialmente nella cura e perfezionamento dei propri appartenenti.
Occorre passare dalle poche centinaia alle migliaia di persone di fede del
quartiere. Questo richiede di abbandonare l’esclusività di metodi, cammini,
programmazioni particolari. Serve un progetto parrocchiale e soprattutto
occorre rendere possibile un’esperienza comunitaria più ampia di quella vissuta
in un qualche gruppo particolare. Occorre riprendere a interessarsi delle
questioni del quartiere.
Si deve poter avere un’esperienza sociale di
fede, in parrocchia, senza preliminarmente aderire a un qualche gruppo
particolare che vi si è insediato. E
occorre riprendere a lavorare in particolare per la gente delle Valli, senza
attirare in parrocchia persone di altre zone della città che la frequentino
come potrebbero fare in qualsiasi altro quartiere, solo perché c’è questo o
quel gruppo di tendenza.
Bisognerà cercare di conoscere meglio la
gente delle Valli e non essere condizionati, nel programmare le attività, da un
certo metodo particolare e da finalità che non siano quelle generali della
diocesi.
Per rendere accogliente e praticabile la
parrocchia per molta più gente di quella che oggi la frequenta assiduamente,
occorrerà fare pratica del metodo democratico e dei suoi valori, che consentono
la condivisione e partecipazione di
molta più gente rispetto a quella di comunità organizzate sul modello
gerarchico/autoritario/familistico.
E bisognerà riprendere a fare cultura, perché
è così che si costruiscono linguaggi e modelli per condivisione e
partecipazione.
Lo spirito parrocchiale dovrà prevalere su
quello di fazione. Ogni membro di articolazioni parrocchiali dovrà essere
libero, ma anche sentirsi in dovere, di partecipare alle attività della
parrocchia dirette al coinvolgimento della gente delle Valli.
Bisognerà curare molto che in parrocchia non
si manifestino i sorpassati modelli maschilistico autoritari del passato, dando
ampio spazio alla creatività delle donne, né quelli impostati su altri pregiudizi
e discriminazioni di vario genere, ad esempio verso i giovani e coloro che
stanno vivendo situazioni familiari diverse da certi modelli ritenuti ideali.
Nessuno dei gruppi insediati in parrocchia
dovrà permettersi di attuare propri scrutini su chi si avvicina alla
parrocchia. Bisogna mandare in pensione doganieri e polizia di frontiera.
Le parole d’ordine secondo le quali
riorganizzare un’esperienza comunitaria a livello parrocchiale dovranno essere apertura, partecipazione, condivisione,
solidarietà, dignità e libertà delle persone. Proprio per la sua apertura essa sarà anche creativa e varrà anche come sperimentazione di modi nuovi per vivere
insieme la fede.
Mario Ardigò
- Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli