1. Note
di metodo
Questa conversazione si propone
di stimolare un franco dibattito politico tra persone di fede.
Non proporrò
contenuti eruditi. Farò invece riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla
storia delle nostre collettività permeate dal pensiero religioso.
Perché il dialogo
sia veramente libero non farò riferimento esplicito ad alcun documento di
autorità religiose, né menzionerò queste ultime. Presenterò in forma anonima il
pensiero sociale che storicamente espressero. Esso potrà così essere analizzato e criticato senza
alcuna remora.
Inizierò definendo
che cosa intendo per politica.
Proseguirò
tratteggiando alcuni tratti caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di
popolo.
Richiamerò la storia
del pensiero politico espresso nella nostra fede religiosa, con particolare
riferimento all’Italia.
Infine analizzerò i
problemi che oggi in italia si presentano alle persone di fede impegnate nel
partecipare alla democrazia di popolo.
La mia formazione è
giuridica, ma di pratico del diritto, non di teorico. Ho ricevuto una
formazione politica dal lungo contatto con mio zio Achille, persona di fede,
professore di sociologia e politico.
2. La politica
Definisco politica l’attività di
governo delle società umane. Un’attività di questo tipo si riscontra anche in
collettività poco numerose e primitive. E’ stata ritenuta una caratteristica
degli esseri umani come viventi sociali.
Lo studio delle
collettività primitive ci può dare un’idea dello sviluppo delle attività
propriamente politiche. Una delle linee di costituzione di un’autorità politica
può individuarsi, nelle collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del
potere monocratico di un maschio dominante su collettività di parenti o
servitori. Nella nostra cultura l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a
quella di paternità e ciò per un retaggio storico molto risalente nel tempo e
radicato nelle diverse culture che si sono incontrate, scontrate e ibridate
intorno al bacino del Mediterraneo.
Le nostre concezioni
sulla politica impiegano tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie
dell’antica Grecia. Solo dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi
sociologica per capire i problemi politici.
Una particolare chiave interpretativa della politica è stata proposta
dal marxismo a partire dalla medesima epoca: essa è particolarmente
caratterizzata dall’analisi storica dell’evoluzione delle società umane.
Sociologia e marxismo convergono nell’individuare all’origine del potere
politico le dinamiche sociali delle popolazioni umane. In quest’ottica tutta la
storia della politica è stata reinterpretata utilizzando le acquisizioni di
queste discipline. Per capire la politica e per prevederne gli sviluppi si ritiene
necessario capire le società in cui essa si manifesta.
3. La
democrazia di popolo
Definisco democrazia un regime
politico in cui l’autorità è legata in misura più o meno intensa alla volontà
collettiva dei governati, sia nella scelta di chi la esercita sia nei suoi
metodi, finalità generali e obiettivi concreti. Non consiste solo nel metodo
maggioritario per adottare decisioni collettive. Si fonda anche su un sistema
ampio di diritti di libertà, per consentire la partecipazione al dibattito
politico e ai processi decisionali collettivi. In democrazia è essenziale la
possibilità di un dialogo fra soggetti liberi. Anche nel definire
concettualmente i caratteri della democrazia si è soliti fare riferimento a
modelli realizzati e teorizzati nell’antica Grecia. Tuttavia la democrazia come
ai tempi nostri la si intende è un’esperienza sociale che non è mai esistita
prima del secondo dopoguerra. E non è mai stata neppure teorizzata prima degli
scorsi anni Venti. Il nostro mondo è veramente un nuovo mondo. La chiamo democrazia di popolo per distinguerla
dalle precedenti esperienze storiche.
Il suo archetipo è il
regime politico emerso a fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è
stata espressa anche mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede.
Quell’esperienza, anche se in genere non se ne ha consapevolezza, non è stata
solo una secessione dal dominio di una monarchia europea, ma è stata
propriamente una rivoluzione. Ha infatti instaurato un nuovo modello di
società, fondato su un’ideologia egualitaria
su basi religiose, secondo la quale tutti gli essere umani sono stati creati uguali e con diritti inviolabili.
Crediamo in queste verità che sono evidenti di per sé stesse, che tutti gli
uomini sono creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi inalienabili
diritti, e tra questi il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della
Felicità. Per assicurare questi diritti sono costituiti i Governi tra gli
uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri dal consenso dei governati. [Dichiarazione
d’Indipendenza delle Tredici Colonie, costituitesi in Stati Uniti
d’America, 4 luglio 1776].
E’
proprio da questa ideologia, più che da quella espressa dopo pochi anni dopo
dalla Francia rivoluzionaria, che derivano le democrazie di popolo
contemporanee. E ciò innanzi tutto per il fatto che la democrazia statunitense
ha avuto una durata molto più lunga di quella espressa dalla rivoluzione
francese, che fu veramente effimera. Essa ha potuto quindi costituire un
modello duraturo sul quale si sono innestati gli sviluppi successivi. Poi per
il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello fu preso come riferimento per
riorganizzare i regimi politici europei. Il più importante e duraturo
contributo della rivoluzione francese alle democrazie di popolo contemporanee è
stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, la base dello stato di diritto:
ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà
generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere; gli esseri umani nascono liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.
L’uguaglianza
nell’ottica di quelle rivoluzioni è un’uguaglianza in dignità. Essa è
affermata religiosamente, vale a dire in modo pregiudiziale e assoluto, a prescindere da qualsiasi riscontro effettivo
nella realtà (uso il termine religioso in questo particolare senso, come lo intendeva
il filosofo Aldo Capitini).
L’altro
fattore da cui sono scaturite le democrazie di popolo contemporanee è
stato l’apporto del socialismo,
dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come uno strumento
per rendere effettiva l’uguaglianza in dignità mediante la giustizia
sociale. Tra i diritti inviolabili vengono inclusi anche alcuni diritti sociali, ad esempio quello alla
libertà dal bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme
costituiscono presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di
libertà proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.
In merito
si ricorda come archetipo la costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui
trascrivo una norma significativa.
Art.151. L’ordinamento della vita economica deve
corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a
tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà
economica dei singoli.
Altro archetipo è considerato la
costituzione sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano previsti il
diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella vecchiaia e nella
malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione, all’uguaglianza in
dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle costituzioni rivoluzionari
settecentesche che ho sopra ricordato.
Trascrivo due articoli particolarmente significativi.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo
in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica. […]
123. L’uguaglianza giuridica dei
cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti
i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o
indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi
diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità
alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale
o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
Dalla storia sappiamo che
nell’Unione Sovietica questi diritti rimasero in gran parte solo nelle
costituzioni, non divennero mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo
nuovo che rimase però sempre a livello ideale.
Le previsioni costituzionali
relative ai diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato
furono presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra
Costituente, nel 1947, i cui lavori
precedettero quelli per la redazione della Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, approvata nel 1948. Da quest’ultima
scaturì la concezione contemporanea della democrazia a livello planetario, come
regime politico universale destinato a realizzare una reale eguaglianza in
dignità degli esseri umani, a
prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare, mediante l’effettività dei diritti
fondamentali e inviolabili, in particolare di quelli sociali, a livello
universale. Riporto un articolo particolarmente significativo della
Costituzione italiana vigente:
Art. 3
Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali.
È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il secondo
comma è stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della
concezione politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU,
risalta dal fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e
linguistiche, rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per gli italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero elementi
cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di quella
Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una teologia
politica.
L’ultimo
fattore decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il
suffragio universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.
Una democrazia
di popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su un’idea di
uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare mediante riforme
sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo delle democrazie di
popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le cause di infelicità e
di discriminazione.
4. Il
pensiero politico espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare
riferimento alla situazione italiana.
Di solito non
si ha sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto svilupparono un
pensiero politico su basi di fede. In
caso contrario l’ideologia politica basata sulla fede cristiana non avrebbe
potuto sostituire, nel giro di quattro secoli quella basata sull’antica
religione politeistica. In particolare non se fa menzione nella formazione
religiosa di primo e secondo livello. Si passa dai cristiani perseguitati dal
potere imperiale romano agli imperatori cristiani.
Un indizio
della precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo possiamo
trovare nella Lettera a Diogneto, che
si fa risalire alla fine del secondo secolo:
[I cristiani] abitano
ciascuno la propria patria, ma come stranieri residente; a tutto partecipano attivamente come cittadini, a tutto assistono
passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni
patria terra straniera. [V,5].
Conquistato lo
stato romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di
ritenere che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca
dovesse svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget
Bozzo considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo,
teologo e storico Eusebio di Cesarea
(265-340). La dimostrazione di quanto essa si fosse radicata è che tutti i
concili ecumenici del primo millennio, dal primo di Nicea (325) al settimo di
Costantinopoli (879), furono convocati da imperatori. L’ideologia del monarca
come capo civile e religioso del popolo cristiano fu fondata sulle narrazioni
veterotestamentarie adattate ad una situazione storica molto diversa e rimase
latente in Europa fino all’avvento della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento.
Sempre su base veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela
ideologia che affermava una supremazia
politica del potere religioso su quello civile. Il popolo cristiano, in
Occidente, finì per avere due padri
che pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una
vera e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le
invasioni dal Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana
in Occidente: un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La
storia che seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere
religioso occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già
venuti a contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come
modello di potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in
quella politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse
l’emergere del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle
origini (Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come
imperatore religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto
dominio longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia
centrale. Questo dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo,
nella quale il papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la
struttura feudale nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano
propriamente politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri del popolo, su due imperatori politico/religiosi, fu rafforzata dalle
necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In Oriente rimase
invece l’organizzazione politico religiosa del passato imperniata
sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in Oriente, in
posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del papato
avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili collegamenti
neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come espressione
della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria (teologia
del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai costumi
delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse l’idea che
il mantenimento della pace politica e religiosa fosse fondamentalmente un
problema criminale, da affrontare irrogando pene efferate. Pace a quell’epoca era una
delle denominazione del diritto criminale. Da ciò l’istituzione di polizie
politiche di natura politica-religiosa la cui manifestazione più eclatante fu
l’Inquisizione cattolica. Ne può essere considerata un’estensione la guerra di crociata, in particolare quella condotta
nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti religiosi albigesi. In un’ottica
di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la politica venne vista come un
problema di fedeltà ad un capo politico/religioso; in Occidente anche come
quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi emersi dal primo
millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali assoluti. Nel secondo millennio cominciarono a
manifestarsi idealità di giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse
dovettero però venire a patti con i padri
politico-religiosi, con le gerarchie
assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti
poteri propriamente politici, o vedersi
da essi duramente represse come espressioni criminali. Esperienze di tipo di
tipo tendenzialmente democratico furono organizzate nell’Europa occidentale fin
dagli inizi del secondo millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei
sovrani, ma, a parte il caso dell’importante
influsso del calvinismo politico, la prima espressione di una teologia
politica su base democratica, e quello delle rivoluzioni parlamentari inglesi del
Seicento, prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo
religioso romano, l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori
supremi delle società, ciò che definiamo giustizia
sociale, ebbe difficoltà ad essere integrata nelle concezioni di fede. Del
resto, nelle Scritture quel tipo di democrazia semplicemente non c’è, per il
contesto storico in cui esse si formarono, e di ciò ha risentito la teologia su
di esse costruita. C’è però un’idea che è risultata al centro delle ideologie democratiche
contemporanee: l’uguaglianza in dignità.
La possiamo trovare sintetizzata in questo passo della lettera ai
Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è
né schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in
Cristo Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).
I processi
storici e sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee furono
avviati, sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento,
anticipati sul piano ideologico dal pensiero liberale e illuminista. Ma fu l’Ottocento il secolo
del loro crogiolo. In Italia il confronto con le collettività di fede fu
particolarmente drammatico per i prevalere di fortissime tendenze reazionarie,
appoggiate da efficienti organizzazioni di polizia ideologica. In origine non
anti-religiosi, i moti rivoluzionari espressi nel Risorgimento italiano,
divennero anticlericali per le difficoltà incontrate nel processo di
unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni clericali. Il motto del
mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione tra tendenze democratiche
e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente repressa. La storia delle
collettività di fede italiane dalla metà dell’Ottocento può essere interpretata
come un faticoso processo di integrazione tra idee religiose, idee di giustizia
sociale e idee di democrazia politica,
con uno scontro durissimo su base ideologica tra diverse componenti sociali
religiose, che lasciò importanti tracce, oltre che nella storia nazionale, anche
nelle biografie dei più importanti personaggi di fede di quel periodo, ad
esempio in quelle di Romolo Murri, il fondatore del movimento
democratico-cristiano, e di Giuseppe
Toniolo. Fino alla metà degli anni Quaranta prevalsero tendenze reazionarie, con
conseguenze tragiche sul piano politico. Il ritardo dell’integrazione
democratica dei cattolici spianò infatti la strada al fascismo storico. Si
riteneva, da molti, che, al di fuori di un’organizzazione paternalistica,
fortemente accentrata, la fede religiosa si sarebbe corrotta. La democrazia era
vista, secondo un filone dell’antico pensiero greco, come fonte di disordine
culturale e sociale. Il crollo del fascismo storico e il ruolo dei
cattolico-democratici nella lotta antifascista e nell’organizzazione della
nuova Repubblica aprirono un nuovo corso.
L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente elaborata in
circoli ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi Jacques Maritain
e Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante negli anni Sessanta,
ma l’idea che il regime democratico fosse quello preferibile risale, nella
teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia non ancora conclusa, in
particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza clericale in politica è stata
fortissima.
5. Problemi che oggi in Italia si presentano alle persone di
fede impegnate nel partecipare alla democrazia di popolo.
L’idea che in
religione non si debba parlare di politica è un portato del fascismo storico e
in particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole, concluso tra la
nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il fascismo chiuse
la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad ogni forma di
teologia politica.
La scelta religiosa che fu fatta in alcuni
ambienti di fede negli anni scorsi anni Sessanta, sulla scia dei risultati
dell’assemblea di saggi della nostra confessione religiosa svoltasi all’inizio
di quel decennio, fu cosa profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica
di partito, aprendola al pluralismo e proponendosi una formazione e un
tirocinio collettivi in merito. In quell’epoca, infatti, sulla base di un
pensiero teologico avviato nel secondo dopoguerra, i problemi politici vennero
concepiti anche come problemi religiosi, quindi in un’ottica di fede. Fu infatti scritto:
Le gioie
e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente
umano che non trovi eco nel loro cuore. [1965].
E anche:
Noi
scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non
meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito specifico il
rinnovamento dell’ordine temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di
insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in
questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza
attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano
la mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei cambiamenti,
indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi risolutamente a
infonder loro il soffio dello spirito evangelico. [1967].
Divenne
quindi centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto difficile nelle nostre collettività di fede,
ciò che venne efficacemente sintetizzato, in queste righe:
“La Chiesa […] con
il II Concilio ha mutato profondamente il suo rapporto con la società e
l’umanità. Dalla difesa del proprio campo di missione spirituale nel temporale
(obiettivo della nuova cristianità
elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare all’apertura
evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas hominum, sul fondamento della sola, comune, natura umana.
[…]
E’ nella comunità
di Chiesa locale che l’unità nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni
politiche e sociale debbano convivere se non integrarsi nella tensione talora,
mai nella dialettica profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi
fa crescere la funzione di guida e di autorità dottrinale e pastorale della
gerarchia come la partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale
dei laici, nella Chiesa e nella storia. […]
Sotto questo profilo, tutta l’innovazione
della Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi in quel
paragrafo 4 della Octogesima Adveniens
di Paolo VI che così fatica a trovare (ma il convegno ecclesiale del novembre
’76 [Evangelizzazione e
promozione umana] ne è un luminoso
esempio) applicazione e sviluppi pastorali. […] La comunità di Chiesa locale,
guidata dal Vescovo, [deve essere] assunta anche come luogo di confronti tra
credenti, pure tra credenti con scelte politiche diverse, per cercare insieme
le vie essenziali di impegno di tutta la Chiesa locale alla necessaria
trasformazione della società in cui la comunità di Chiesa opera, per
l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille Ardigò, “Toniolo: il
primato della riforma sociale. Per ripartire dalla società civile”, 1978]
In quest’ottica, in
religione si dovrebbe parlare di
politica. Una importante manifestazione
del nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica, fu il convegno ecclesiale
Evangelizzazione e promozione umana,
svoltosi a Roma nel 1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta
portarono, dagli anni ’80 al prevalere di orientamenti paternalistici, in
quello che, nel campo fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno,
nonostante il recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica,
quindi, non fu all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi
pare sia stato l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un
referendum su tema sensibile per la fede, nel 2005. E anche la dura
repressione delle teologie di liberazione di origine latino-americana. Oggi
siamo autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo
democratico nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano
mancare risorse sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio,
si attendono ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto,
invece di suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come
protagonisti i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali
democratici.
Mario Ardigò