Inaccettabile
(in occasione della Festa della mamma)
da “Il corpo della donna” di Daniela
Hammaui, pubblicato su La Repubblica dell’11 maggio 2024
“Tensioni, scontri con
la polizia, diversi feriti, una ministra che non è riuscita a fare il suo
intervento per le contestazioni: gli Stati Generali della Natalità verranno
ricordati per questi episodi ma, come spesso succede, così si rischia di vedere
il dito e dimenticare la luna.
[…]
[…]
molte donne si erano illuse che l’autodeterminazione fosse diventata un diritto
indiscutibile. Invece nulla è immutabile, tanto meno quando si tratta di
diritti femminili. Il corpo delle donne che da secoli ha attratto il potere
come una calamita, e che è stato usato e abusato, è tornato ad essere al centro
della politica a diverse latitudini.
[…]
Risolvere la denatalità -è di questi giorni l’ultimo record negativo con
solo 379 mila neonati nel 2023- diventa prioritario, come se anni di politiche
sbagliate dovessero ancora una volta ricadere sulle donne e sul loro proverbiale senso di abnegazione e
di sacrificio, come se le loro decisioni dolorose e personali diventassero
all’improvviso di pertinenza della politica.
Che il
corpo femminile sia da sempre una merce preziosa per chi gestisce il potere, è
evidente. Che lo sia ancora nel terzo millennio, e persino in Paesi che
dovrebbero essere la culla dei diritti civili, è preoccupante, Anche perché si
porta dietro l’indifferenza che stiamo dimostrando verso i soprusi più atroci a
cui sono sottoposte le donne nel mondo e che molti governi usano per sancire la
loro autorità assoluta.
[…]
La
domanda che sorge spontanea è perché quest’accanimento? I motivi sono tanti ma
se volessimo riassumerli in uno solo sarebbe questo: se una ragazza scopre che
non può gestire autonomamente il proprio corpo, impara da subito che non potrà
mai gestire la sua mente, se capisce che la sua vita appartiene a un uomo, allo
Stato, prima che a sé stessa, non sarà mai in grado di sentirsi davvero libera
e soprattutto di immaginare il suo futuro”.
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All’ultima assemblea nazionale del MEIC – Movimento ecclesiale di
impegno culturale, svoltasi il mese scorso, ci siamo detti e abbiamo anche
scritto che l’umiliante condizione femminile nella nostra Chiesa, efferato
culmine di quella che più in generale devono subire tutte le persone le quali
vivono liberamente la nostra fede, è inaccettabile. Sembra che si possa
aspirare al riconoscimento di una qualche santità di vita solo rinunciando alla propria libertà ed è ancora
questa idea che colpisce in particolare le donne, come anche i preti e le
persone che si sono legate a un qualche ordine religioso, con la differenza che
in questi ultimi casi questo asservimento è la condizione necessaria per poter
esercitare l’autorità.
E’
stata, così, organizzata una crudele teologia contro le donne che una
generazione di valenti teologhe sta tentando di smontare culturalmente e di
delegittimare ecclesialmente. Il modo in cui in genere nei nostri ambienti
ecclesiali viene affrontata la questione della denatalità ne risente
fortemente.
A ciò
che è inaccettabile si ha il dovere morale di resistere e di reagire. Il
problema non è che ciò accada qua e là, ma che questo sia in genere una
eccezione.
E’
strano che si consideri così grave la questione della denatalità, che è molto
evidente in Italia, come in gran parte dell’Europa occidentale, ma anche in
altre aree del mondo comprese nell’idea di Occidente, quando nel mondo
non c’è mai stata tanta gente: si stimano che vi vivano oltre otto miliardi di
persone.
Mi
pare che da noi si affronti il problema secondo la stessa prospettiva del
fascismo mussoliniano, vale a dire che ci debbano essere più italiani, intendendo
che devono riprodursi di più le coppie che, al di là delle evidenti diverse discendenze
antropologiche, dal punto di vista dei
costumi e di altri aspetti della cultura popolare espressa rientrano nell’idea
di persona italiana, vale a dire parlano più o meno la lingua italiana,
mangiano pastasciutta e fantasticano di un certo proprio personale legame con
gli antichi romani ed “eroi, santi,
poeti, artisti, navigatori,
colonizzatori, trasmigratori” del passato (elenco tratto da un discorso di
Mussolini nel 1935 per l’inizio della stragista guerra contro gli etiopi).
Naturalmente, però, non può essere considerato di diritto divino, nella
nostra fede, che continui ad esserci una popolazione italiana in quel
senso. Dove sarebbe scritto?
Dal punto di vista sentimentale, ci si può anche
dolere che ci siano in futuro meno persone che ci assomigliano in quelle cose,
ma perché, chiede Hammaui, per rimediarvi si dovrebbe ripristinare la schiavitù
biologica delle donne? Quest’ultima, poi, è proprio una di quelle costumanze
culturali purtroppo legate a una certa condizione di italianità che dovrebbero essere superate. Perché? Perché
fanno ingiustamente soffrire. Ingiustamente perché la sofferenza personale e
collettiva che provocano è legata ad una condizione di prevaricazione sociale,
fantasiosamente sacralizzata, basata
solo sulla violenza pubblica per replicarla di generazione in generazione, nel
presupposto che sia una condizione naturale e, come tale, in qualche
modo anche voluta dal Cielo, quindi insuperabile. Mentre paleoantropologia,
antropologia, sociologia e storia dimostrano che nessun costume
culturale è mai stato una condizione naturale nei gruppi sociali umani, che tutto dipende
dalle dinamiche di dominio in società, e
che dunque un diverso assetto sociale è sempre pensabile e attuabile, sempre
che si riesca ad organizzare una forza sociale che lo sostenga. Purtroppo fino
ad oggi nessun mutamente sociale, anche nelle cose religiose, si è mai realizzato
senza che fosse necessario una qualche forma di lotta per vincere resistenze di
chi beneficiava dell’assetto precedente. Nelle democrazie evolute si cerca di
incanalare tutti i conflitti in forme non violente, stabilendo procedure per
assecondare i mutamenti politici secondo l’evoluzione delle società di
riferimento in modo non solo che i più prevalgano (e qualche volta si riesce anche
a ottenerlo) ma anche che le maggioranze non umilino la dignità delle altre
persone rimaste in minoranza. Certe volte sembra si ritenga che le procedure
democratiche siano volte a proteggere le maggioranze, le quali in quanto
tali non ne hanno bisogno, mentre in realtà sono organizzate per proteggere
le minoranze dall’arbitrio assoluto
delle maggioranze, pur consentendo a queste ultime di prevalere, entro certi
limiti.
Si sono
sviluppate anche forme nonviolente di lotta, che appaiono particolarmente
affini alla cultura religiosa di pace che nella nostra Chiesa ha iniziato a
svilupparsi dagli scorsi anni Sessanta (venendo da tutt’altri orientamenti, ciò
che permise la disonorevole intesa con il fascismo mussoliniano).
Non dobbiamo pensare che il fatto di agire in
ambienti ecclesiali ci risparmierà di dover attuare qualche forma di lotta per
dar corpo alla nostra decisione di ritenere inaccettabile l’umiliante condizione delle donne tra noi.
Dovremo impegnarci a non collaborare a forme
di emarginazione femminile. Di resistervi anche protestando. Ad esempio contro
l’incredibile criminalizzazione pubblica come omicida, anche dai pulpiti
purtroppo, della donna che, accedendo alle procedure sanitarie previste dalla
legge italiana, esercita il suo diritto di ottenere in sicurezza, in strutture
sanitarie del Sistema sanitario nazionale, l’interruzione di una gravidanza che,
cito la legge (art.4 della legge 194 del 1978), “comporterebbe un serio pericolo per la sua salute fisica o
psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni
economiche, o sociali o familiari, o
alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsione di anomalie
o malformazioni del concepito”.
Nonostante
la crudele diffamazione che la colpisce in ambito ecclesiale, la donna che
decide ed attua l’interruzione volontaria della gravidanza, nonostante gli
sproloqui e gli anatemi teologici, non è di fatto realmente trattata
come omicida nemmeno dal diritto canonico, che, come ogni diritto, cura di dare
a ciascuno il suo, come da antico principio, e quindi di far conseguire ad
ogni condotta la conseguenza che le si addice secondo la sua reale consistenza.
Per cui le si apre la via al rapido rientro nella comunità ecclesiale.
Ci siamo evoluti da mammiferi, e, come
avvertono i biologi, l’ontogenesi, cioè lo
sviluppo intrauterino, è anche una filogenesi, un ricapitolo di quella storia
evolutiva, e, come ad un certo punto di quella storia evolutiva individuiamo,
convenzionalmente, l’essere umano, distinguendolo dagli altri primati, così il
diritto, ad un certo punto distingue, convenzionalmente, ad esempio a fini
successori o di attribuzioni di responsabilità genitoriali o per integrare
fattispecie di reato, quando si diventa uomini e donne in società,
ed è così anche nel diritto della nostra
Repubblica. E su questo presupposto che il diritto penale della Repubblica
definisce il delitto di omicidio.
Una cosa, poi, è dire che si pecca tenendo
una certa condotta, altra è dire che si commette un crimine e che, quindi, si è
criminali. Si pecca contro la volontà divina, si delinque contro la legge della
società di riferimento. E’ essenziale non confondere le situazioni. Che fare
però se nel diritto della Chiesa una situazione è (ancora) considerata crimine e
non è (più) tale nel diritto della
Repubblica? L’aborto volontario era considerato un delitto anche dal diritto
penale statale italiano fino al 1978 e poi si è cambiato, a seguito di un
mutamento della società. Un referendum, svoltosi nel 1981, confermò che la
maggioranza di chi all’epoca poteva votare, comprese un numero notevole di
persone cattoliche, non voleva cambiare
la legge che lo consentiva, a determinate condizioni e con certe procedure. Non credo che la situazione sia cambiata tra
la gente.
Ora l’aborto volontario è ancora un delitto in Italia, quando lo si
pratica non osservando le procedure previste dalla legge, ma senz’altro non è comunque
equiparato ad un omicidio volontario.
Anche nel diritto canonico si dovrebbe cercare
di indurre un analogo cambiamento per evitare la spietata criminalizzazione
delle donne che vi ricorrono.
E
comunque, fin da ora, ci si dovrebbe opporre alla loro diffamazione pubblica e
all’emarginazione ecclesiale che dovrebbe conseguire, nel caso di aborto volontario,
alla scomunica senza necessità di specifico provvedimento gerarchico (una pena
canonica, di assurda gravità, comminata, oltre che nel caso di aborto
volontario, a eretici, apostati e a chi attenta alla vita del Papa). Di fatto
ciò già avviene, a dimostrazione che le cose sono già molto cambiate. La pastorale, vale a dire il
modo in cui si tratta la gente in chiesa, è molto diversa dalla ferocia della
teologia morale in materia, e la cacciata non avviene, si cerca anzi di far
superare la situazione di peccato in cui una donna, e chi le ha prestato aiuto,
risulti coinvolta per aver voluto e
richiesto di interrompere la gravidanza.
La mia posizione sulla legge in questione è
quella esposta qualche giorno fa da Marco Tarquinio: non voglio che cambi,
perché non sono sicuro che ne verrebbe una migliore e non si può tornare a
quando le donne in Italia, anche quelle cattoliche, abortivano clandestinamente
rischiando la vita.
L’integrità personale delle persone di fede è
garantita dal diritto di obiezione di coscienza: non si è costretti a
collaborare alle procedure sanitarie di interruzione della gravidanza.
La
decisione di non avere una discendenza o di averla meno numerosa di un tempo non
coincide comunque con quella di porre fine alle gravidanze iniziate, ma la
precede.
In genere si sceglie di non avere figlie e
figli non per egoismo, secondo la diffamatoria accusa mossa nella predicazione,
ma perché non si vedono buone prospettive per la propria discendenza, e non la
si vuol fare soffrire.
Non
si tratta solo del fatto che mancano aiuti in gravidanza e nella maternità, ma
di ciò che in economia si definisce outlook e che lì, nel caso di outlook negativo, disincentiva ad investire. La
discendenza è un investimento, e che investimento! Il lavoro si è fatto
precario, la casa non si trova, non si
sa dove lasciare figlie e figli quando si è al lavoro, e il reddito non basta
ad assicurar loro ciò che serve a non farli soffrire in società. Ora poi ci
sono anche pericoli concreti di una grande guerra europea, per la quale ci si
sta preparando sprecando tante risorse. E ciò che si spreca, poi manca per fare
altro.
A
Napoleone Buonaparte, lo stragista imperatore dei francesi, fecero notare
quanti morti erano costate le sue guerre ed egli replicò che si era vinto e
conquistato e che poi le “donne di Francia”, in un ventina d’anni, avrebbero riempito
i vuoti, generando altri soldati da spingere in battaglia. Le coppie
(ricordiamo sempre che si genera in due), e in particolare le donne, non accettano più questa prospettiva.
Si
decide di non generare perché si è persone responsabili e non si accetta di
prendere la cosa secondo l’assurda roulette russa raccomandata dalla teologia morale e dal magistero
ecclesiastico.
Una
volta presa responsabilmente la decisione di non generare, i metodi utilizzati
dovrebbero essere moralmente indifferenti, in particolare se reversibili, non
dannosi per la salute e non imposti in qualche modo alla coppia. E’ più o meno
questo che venne consigliato a papa Montini quando, negli anni Sessanta si volle
nuovamente dettar legge in merito ed egli invece, contro il parere della
maggior parte dei suoi consiglieri, decise di vietare del tutto quelli più
sicuri raccomandando quelli meno sicuri, con l’enciclica Humanae vitae –
Della vita umana, del 1968, che causò tanta sofferenza soprattutto tra i
coniugi cattolici, per i quali il magistero era ancora importante.
La
genitorialità responsabile è mal tollerata dalla nostra gerarchia
ecclesiastica, ma in particolare quando a farsene carico sono le donne.
Si
sopravvive, nella nostra Chiesa, praticando una certa ipocrisia, perché
naturalmente anche i coniugi praticanti hanno una discendenza molto meno numerosa di una
volta, salvo che in piccole cerchie comunitarie in cui ci si propone di dar
corso alla natura accada quel che accada, e quindi in qualche modo si fa ma non si dice. Ma è cosa che umilia, in particolare le donne,
alle quali, nonostante siano state finora la parte più assidua e fedele del
gregge, sembra sempre che si debba
rimproverare qualcosa. Però ora le statistiche avvertono che la situazione sta
cambiando: anche loro stanno staccandosi.
Prendiamo sul serio, dunque, l’orientamento di giudicare inaccettabile
certe vessazioni contro le donne e agiamo di conseguenza, apertamente, in
particolare nei processi sinodali che sono in corso.
Invece di criminalizzare le donne, tampinandole fin nei consultori dove
obbligatoriamente si recano per le procedure previste dalla legge per ottenere
l’interruzione volontaria della gravidanza, è invece apprezzabile la linea di chi si
propone la riforma sociale per rendere nuovamente favorevoli le prospettive che
si presentano alle coppie in età fertile, come si fece nel secondo dopoguerra,
da cui il cosiddetto baby boom (io sono appunto un baby boomer). Ma
questo richiede una seria critica sociale, in particolare delle dinamiche del
capitalismo liberista che impera in Occidente e che spinge per rendere
deteriore la condizione dei lavoratori alle dipendenze altrui, non più contrastate
dalle politiche di benessere sociale cosiddette di Welfare state. Le retribuzioni dei dipendenti, sotto questo
profilo, sono costi che si cerca di ridurre, aumentando il lavoro e riducendo i
corrispettivi, in modo da essere più competitivi in termini di rendimenti del capitale e di
prezzi dei prodotti. La precarizzazione legale del lavoro dipendente riduce la
sua capacità di resistenza nelle trattative sindacali.
Lo predicava Giorgio
La Pira: il pane è sacro, il lavoro è sacro, la casa è sacra. Sacro significa sicuro o anche, con la
terminologia della nostra Costituzione, inviolabile. Se non si fa in
modo di assicurarli alle coppie in età fertile, parlare di inviolabilità
della vita e di natalità sono
solo vane chiacchiere.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli