Capire religiosamente
Ciò che è più importante per noi lo viviamo in società e quindi ci interessa capire che accade. I più mi sembrano convinti che, però, in questo la religione sia inutile, anche quelle espresse dai nostri cristianesimi, che si svilupparono praticamente solo per quello. Al massimo sembra che si ritenga che servano ad esprimere un sommario orientamento etico, utile quando ci si presenta in società come abbellimento personale, ma con l’intesa che, al dunque, nei cosiddetti dilemmi morali ci si adeguerà a quello che c’è e a come si fa di solito, salvo quando in questo si ha la peggio, ad esempio nell’età anziana quando le forze cedono, e allora si utilizza il lessico dell’etica religiosa per maledire chi prevale, invocando la rivalsa in suo danno in un aldilà.
È l’ipocrisia sociale duramente condannata nei Vangeli. A quello che raccontano le cronache, viene ampiamente praticata negli ambiti ecclesiali, e anche dagli ecclesiastici.
Stando così le cose, non mi meraviglia che le persone nelle fasce d’età attive e fertili abbandonino la pratica religiosa, che non significa tanto e solo non accostarsi ai sacramenti, ma nel non fare più Chiesa, in chiesa, in cui si va sempre meno, e altrove. E non so nemmeno dar loro torto.
Del resto, in genere, la formazione religiosa somministrata ai più non va molto oltre il catechismo dell’infanzia, che spesso rimane l’unico della vita. Da qui un certo atteggiamento bambinesco che si nota in chi continua a praticare. E una connotazione “spiritistica” nell’esprimere atteggiamenti religiosi, del resto ripetendo confusamente le parole e le idee trasmesse da una predicazione che praticamente solo a quell’aspetto si riferisce. Per finire, un ingenuo papismo sacrale per il quale, in particolare, l’Italia appare (ma solo a uno sguardo superficiale) il Paese più clericale dell’universo. Non è nemmeno più tanto di far mostra di apprezzare i sermoni papali pur continuando a fare il contrario, come si diceva ai tempi del Papa Wojtyla, ma di mostrarsi affascinati più che altro dall’apparenza di sovranità sacrale della persona, immersa in certe spettacolari liturgie, nonostante il virtuoso intento di quel sovrano di mantenere un profilo basso.
Sono consapevole, tuttavia, che si può essere persone religiose in tantissimi modi: lo si è sempre, in qualche modo, a modo proprio, e non ci vedo nulla di male. In particolare, in un cristianesimo non si tratta tanto di adeguarsi a un modello, ma di lasciarsi trasformare, in un processo con molte analogie con la biologia della vita per cui, proseguendo, si diventa una persona unica, come mai c’era stata prima e mai ci sarà dopo. Agli inizi si è molto simili, come per i neonati, ma verso la fine le diversità prevalgono.
In genere, però, negli ambienti ecclesiali è più utile far mostra di uniformità, perché l’originalità viene vista con sospetto. Tuttavia questo è umiliante, fa male all’anima e non ci si abitua mai.
Lo storico Pietro Scoppola, che ci ha lasciati nel 2007, fu una grande anima e un protagonista del cattolicesimo democratico italiano, un sapiente e affascinante formatore di persone giovani. I clericali ne diffidavano in quanto democratico e quindi coscienza critica. Negli anni Settanta, nella fase preparatoria del primo Convegno ecclesiale nazionale “Evangelizzazione e promozione umana”, che poi si svolse nel ’76 a Roma, venne proposto a far parte del comitato organizzatore. Fu sconsigliato al Papa, che era Giovanni Battista Montini, in quanto cattolico del dissenso, come si diceva allora (ai tempi nostri il dissenso non si pratica quasi più), ma Montini approvò la nomina, osservando che Scoppola era un cattolico a modo suo, ed evidentemente per lui andava bene così. Con quel titolo, Un cattolico a modo suo, Morcelliana publicò un suo libretto, scritto al tempo della malattia che poi gli risultò fatale, con la storia della sua vita (si trova ancora in commercio, ma solo usato).
Ebbene, lo scopo di una vita cristiana mi pare proprio quello di essere una persona cristiana a modo proprio.
Quindi, in definitiva, assolutamente non dico che chi esprime una religiosità in modo diverso dal mio sbagli. Faccio solo osservare che, nei cristianesimi, e in particolare nella nostra Chiesa, non si è obbligati allo spiritismo e al papismo, come anche all’uniformità.
La mia fede, ad esempio, non è legata allo spiritismo né al papismo, e nemmeno al prodigioso, diciamo agli effetti speciali, ad eccezione della Resurrezione.
L’unico prodigio che mi riluce è quello dell’essere umano che vive, secondo la celebre frase che scrisse Ireneo di Lione «la gloria di Dio è l’uomo che vive» [Contro le eresie, 4, 20,5-7 - https://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20030314_ireneo-lione_it.html ]. In base ad esso riesco a riporre la speranza nella Resurrezione, l’unico prodigio che nella nostra fede ci è essenziale pur senza aver visto.
Ma tolte quelle altre cose, spiritismo, papismo, effetti speciali, che rimane?
Rimane la società. La religione è una via molto potente per capirla, orientarsi in essa e progettarne la costruzione e il cambiamento. Nonostante quello che si pensa, i cristianesimi si sono occupati quasi del tutto di questo, e fin dalle origini.
Per convincersene è utile studiarne (realisticamente) la storia.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli