Rovelli
teologici
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[da Riccardo
Battocchio – Livio Tonello (a cura di), Sinodalità. Dimensione della Chiesa,
pratiche nella Chiesa, - Edizioni Messaggero Padova, 2020], Carismi e
sinodalità di Severino Dianich
Il carattere sinodale delle procedure
decisionali della Chiesa e della sua
missione, come forma di rispetto dei diversi carismi dei fedeli e delle
loro responsabilità, è tutt’altro che un’aspirazione del popolo di Dio del
nostro tempo. Se oggi si tratti di una questione molto sentita, è perché la
grande tradizione sinodale dei secoli passati, gradualmente, lungo l’età
moderna, è venuta meno. Anche a causa della travagliata storia delle frequenti
eresie, di volta in volta insorgenti, si è verificato un processo di crescente
protagonismo dei pastori e di un progressivo estendersi dell’esercizio della
loro autorità. Il fenomeno è stato così dilagante da produrre quella forma del
linguaggio, ancora oggi molto diffuso per cui, quando si dice: «La Chiesa ha detto…la Chiesa ha fatto…» si intende il papa o i vescovi hanno detto, hanno fatto.
La tradizione antica e medievale era molto
meno esclusiva e ha sempre riconosciuto valido il principio Quod omne tangit
debet ab omnibus approbari («Ciò che
riguarda tutti deve essere approvato da tutti»), che
appare, lungo la storia, a tutti i livelli della vita ecclesiale e, in maniera
particolarmente significativa, in ordine alla questione della nomina dei
vescovi. Papa Celestino 1° nel 428 disponeva che «mai si
dia un vescovo ai fedeli che non lo vogliono», così
come Leone magno nel 445 stabiliva che «chi deve
presiedere a tutti sia eletto da tutti». Sono
affermazioni che vengono accolte nel Decretum Gratiani [raccolta di
leggi ecclesiastico del 12° secolo] e nella canonistica medievale. Innocenzo
3°, convocando il concilio Lateranense 4° (1215), per la «recuperatio Terre Sanctae» [per promuovere
una guerra contro i “mori” che in Palestina avevano occupato la cosiddetta
“Terra Santa”] e la «reformatio universalis Ecclesiae», ne giustificava la
convocazione adducendo che «questi temi riguardano lo stato comune di tutti i
fedeli». Anche i sovrani venivano invitati a parteciparvi o inviare «idonei
rappresentanti», poiché in concilio si sarebbe discusso di molti temi che attengono
all’ordine delle cose temporali. Il principio sarà anche codificato nelle Regulae
iuris di Bonifacio 8° [vissuto tra
il 13° e il 14° secolo]. Oltre a questo, non bisognerebbe dimenticare che la
stessa elaborazione delle procedure per le decisioni collegiali nella società
civile ha trovato proprio nella prassi sinodale della Chiesa antica uno dei
luoghi più determinanti per il loro
sviluppo successivo.
Il
Codice [di diritto canonico, il diritto della nostra Chiesa], per fedeltà al
dettato conciliare di AG 2 [ Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Alle
genti – Ad gentes, del Concilio Vaticano 2°] e di LG 9 [Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti – Lumen gentium, del Concilio
Vaticano 2°], attribuisce a ogni fedele, come diritto e dovere, il compito di
evangelizzare: canone 211 «Tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di
impegnarsi perché l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre più fra
gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo» (vedi anche il canone 781). Essi sono
caricati quindi della responsabilità più decisiva di tutto l’operare della
Chiesa: la comunicazione della fede a coloro che non la conoscono o non la
condividono. Quando però si tratta delle decisione da prendere nella comunità,
sia per la sua vita interna che per la sua missione, l’ordinamento attuale non
dà ai fedeli alcun ruolo specifico che ne determini gli esiti, salvo il
riconoscimento della libertà di dare il proprio giudizio e il diritto di essere
ascoltati. Escluso, inf atti, il caso dei vescovi nel concilio ecumenico,
quello dei membri degli istituti di vita consacrata nelle loro comunità e
quello dei membri delle associazioni private di fedeli per la loro vita
associativa, i quali prendono decisioni con procedure sinodali, non si dà
alcuna istanza nella quale il fedele, sia un fedele laico che un diacono o un
prete, debba assumersi la responsabilità
di pervenire a una sua decisione, con la quale determinare sinodalmente, al di
là della facile espressione di un suo parere, una qualche decisione che si prende nella vita della Chiesa. Non
manca naturalmente nelle comunità una circolazione di giudizi e pareri sui
problemi esistenti, la quale influenza le decisioni dei pastori. Recentemente
la pratica della consultazione ha
assunto una sua particolare rilevanza in occasione dei sinodi dei vescovi nella
Chiesa universale. Con tutto ciò, a mio
giudizio, l’attuale ordinamento canonico non risponde in maniera adeguata
all’esigenza della partecipazione responsabile dei fedeli con il loro carismi,
alle decisioni che vengono prese per la vita della Chiesa.
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Una delle decisioni della mia vita di cui
non mi pento è di non aver mai voluto studiare teologia. Apprezzo, però, quando
un teologo raffinato come Severino Dianich scrive chiaro sul gravissimo
problema della mancanza di sinodalità ecclesiale senza tirare in ballo le
immaginifiche elucubrazioni della sua disciplina: a parte i gerarchi e i loro
delegati nessuna persona, nella nostra Chiesa, può partecipare a decidere
nulla, anche nelle minime cose. E questo non si riesce proprio a correggere. E’
la realtà. Ed è sbagliato, dicono molti.
Noi persone laiche, comunque, in genere ci
siamo piuttosto emancipati dalle pretese dei nostri gerarchi e dalla loro
efferata teologia, che, prima dell’affermarsi dei processi democratici europei,
nel corso dell’Ottocento, giustificò i tremendi e mortiferi costumi della
nostra Chiesa. E dobbiamo continuare così, almeno finché non ci sarà dato modo
di partecipare realmente.
Un teologo cattolico è assillato dalla
questione dell’infallibilità, che ha notevoli riflessi sulla sinodalità.
Va detto che noi cattolici siamo obbligati a
sperare solo nell’infallibilità del Papa, quando decide di enunciare in modo
solenne certe definizioni di fede, e di nessun altro. Dicono che il popolo,
vale a dire tutti noi insieme, avremmo una sorta di infallibile intuizione per cui saremmo portati a credere ciò che è
giusto credere. Francamente non è cosa che mi risulta molto evidente (ma,
appunto, non ho studiato teologia): mi pare che, noi popolo, istintivamente
siamo piuttosto portati a credere le cose più strane e fantasiose, salvo poi
talvolta ripensarci sopra e mutare avviso. Lo dico più esplicitamente: ci
beviamo tutto. Non è poi molto difficile prenderci per il naso. E quando
sembriamo recalcitrare ci incatenano con le questioni di verità, con
minaccia di sanzioni eterne. Questa sarebbe la Chiesa della misericordia? Io
nella misericordia del Cielo confido reamente e quindi non temo nulla per
questioni di verità. Mi confesso fallibile, fallibilissimo.
Decidere insieme che fare, cercando di mantenere
la pace tra noi, ciò che è al centro della sinodalità, significa
confrontarsi, senza cercare di prevalere di forza, con la mentalità di molti, e
anche preferire il compromesso alla rottura. Si decide, mantenendo però il
proposito di correggersi se risultasse necessario, ripensandoci meglio. Si
cerca di capire il proprio ambiente e le esigenze di una comunità, non si
tratta di dedurre qualcosa dai massimi principi, per via di razionalità logica.
Il vantaggio è che più persone hanno in genere una visuale più vasta di una
sola. La molteplicità aiuta, perché noi siamo viventi limitati, per natura. Ciò
che definiamo unità non deve significare pensarla come uno solo,
ma cercare di mantenere l’agàpe, la coesistenza pacifica, benevola,
solidale, misericordiosa, negli affari sociali. Quando si riesce a parlarsi in
tanti ci si accorge quanto bisogno abbiamo di correggerci continuamente, o,
come è stato detto in uno degli scorsi incontri di riflessione del MEIC
Lazio, della nostra indigenza. Altro che infallibilità!
Cercare di introdurre procedure sinodali in
una parrocchia come la nostra, una grossa parrocchia anche se la gente intorno
va indubbiamente scristianizzandosi, lo capiamo bene, appare attualmente impossibile.
Ogni richiesta viene semplicemente ignorata. Uno volta andava peggio, certo, ti
prendevano a brutto muso. Abbiamo affisso la lapide in ricordo di don Miraldi
vicino al portone della Chiesa: nel suo epistolario si capisce che se ne andò
missionario in Brasile anche per le difficoltà che sulla via del rinnovamento
sinodale dovette affrontare anche nella nostra parrocchia. Però nell’America
latina gli andò anche peggio.
Questo blog, che dura da oltre dieci anni, è
un’iniziativa autonoma di persone laiche che vorrebbero essere utili alla
parrocchia. Probabilmente utile lo è effettivamente stato. Ma è come se non esistesse,
per la parrocchia.
La nostra parrocchia aveva aperto un sito sul
Web, ma è stato chiuso. Non si è ritenuto di dar conto del perché.
Si fanno le cose senza sentire il bisogno di
rendere conto di nulla. D’altra parte come si potrebbe farlo? Il Consiglio
pastorale parrocchiale, obbligatorio nella nostra Diocesi, da anni non si
riunisce. In Diocesi certamente lo sanno, perché periodicamente vengono inviate
relazioni, ma penso che lo si tolleri, perché anche chi comanda là è stato formato
così, a diffidare della sinodalità. Il male meno grave, forse si pensa, è farne
a meno. E, certo, da ciò che mi è stato narrato, le esperienze nel nostro
povero Consiglio pastorale parrocchiale erano di quelle forti, diciamo così: tra noi
vi sono divisioni radicate e radicali.
Intendiamoci: i nostri preti sono persone
buone. Fanno così come sempre si è fatto e non ci vedono alcun male. E’ stato
loro insegnato a diffidare di chi propone di fare diversamente. D’altra parte
non possono essere considerate persone libere, soggette come sono ai
capricciosi rivolgimenti della gerarchia, che, se la prende male, può privarli
in un attimo del ministero e del lavoro, vale
a dire della loro vita. La comunità parrocchiale non conta nulla in
queste cose. Dianich ricorda che non è sempre andata così, in particolare nei
primi secoli, quelli che spesso si vuole (troppo) idealizzare. Ma non starei
troppo a prendere esempi sulla sinodalità del lontano passato, nonostante la
teologia che ci si è costruita sopra: troppa violenza.
Il Maestro morì sulla croce, lo sappiamo: esaminando
superficialmente la storia stragista delle nostre Chiese si sarebbe tentati di
dire che i nostri gerarchi presero esempio da chi lo spedì al Calvario,
piuttosto che da lui stesso.
Perché ho iniziato manifestando una certa
disaffezione per la teologia, che pure è
capace di affascinanti costruzioni intellettuali? Perché storicamente ha
giustificato ogni genere di atrocità. La giudico dai suoi frutti. Eppure,
certo, essa serve anche se vogliamo migliorare, per discostarci da quelle vie.
Ma io non ho mai avuto cuore di collaborare
a quest’opera. Forse perché, da pratico del diritto, questa è stata la
professione che mi ha dato da vivere finora, voglio cercare di capire bene i fatti, le persone, le
situazioni, dando udienza, l’attività fondamentale di questo mestiere. In
teologia si parla di ascolto. E anche di ascolto reciproco. Proviamo
a inscenarlo!
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.