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https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/monsignor-lorecife-omelia-di-santa-rosalia-noi-i-predoni-dell-africa
Avvenire.it
ha pubblicato il testo del discorso alla città pronunciato domenica sera 15-7-18 dall'arcivescovo di Palermo Corrado
Lorefice in occasione del Festino di Santa Rosalia.
Care
Palermitane, Cari Palermitani,
è la sera della nostra festa, della festa di
Palermo – la nostra Palermo – e il mio primo pensiero è quello di salutarvi con
affetto: da padre, da fratello, da cittadino di questa Città, con voi e come
voi. Benvenuti in questa piazza!
Vengo qui a parlarvi da padre e da pastore,
ma sento profondamente di essere sulla vostra stessa barca, toccato dai tanti
dolori della nostra terra, in cerca come voi di speranza e di verità. Da questo
punto di vista, il Festino deve rappresentare per noi un momento di gioia, di
condivisione, ma non di evasione e di estraneazione dalla realtà. Non è tempo
di dormire, ma di stare svegli! È tempo di guardare con gli occhi ben aperti a
quelli che Papa Giovanni XXIII chiamava “i segni dei tempi”. Che cosa sono i
segni dei tempi? Sono gli eventi della storia concreta delle donne e degli
uomini d’oggi che ci parlano, ci chiamano ad un cambiamento, interpellano la
Parola di Dio che delle nostre esistenze custodisce il senso e la speranza.
Vorrei stasera comunicare a tutti voi l’appello che riguarda noi, credenti
della Chiesa di Palermo, e – perché no? – tutti voi, convenuti qui, donne e
uomini di buona volontà uniti in una ideale assemblea della nostra Città,
nell’affetto antico e sempre nuovo per Rosalia.
Ecco, c’è un’immagine tipica della
festa della nostra Santa che stasera mi pare illuminante. È l’immagine
della nave, del vascello che portiamo per le strade di Palermo e che
ci ricorda la salvezza dal flagello della peste grazie ad un volto, apparso ad
una donna semplice, in un momento terribile della vita della nostra Città.
Sentiamoci stasera tutti ‘imbarcati’ su questa nave di Rosalia e alziamo lo
sguardo verso coloro che possono rappresentare un punto di riferimento,
offrirci una guida nella tempesta epocale del nostro tempo. Sono testimoni del
passato che hanno ancora parole buone per il presente. Il vascello è uno solo,
ma ha tre forme che vorrei mettere in luce separatamente, con voi, stasera.
1.
La prima nave a cui penso, la prima forma del vascello è quella della nostra
Città: è la nave di Palermo. Care Amiche, Cari Amici: quanto
si avverte la fatica della navigazione su questo nostro veliero! Il mare è
perennemente agitato, e ci sentiamo come i discepoli sulla barca sorpresa dal
turbine durante la traversata verso l’altra riva, mentre Gesù se ne sta
tranquillamente in un cantuccio, a dormire (cfr. Mc 4, 35-41). È proprio così.
Abbiamo paura. Siamo angosciati. E Dio dorme, Dio sembra assente, lontano. E
anche se lo sfidiamo, come fece Pietro sulla barca agitata dalle onde, vedendo
Gesù camminare sull’acqua (“Signore, se sei tu, comanda che io venga da te
sulle acque”, Mt 14, 27), poi ci sentiamo affondare in mezzo ai marosi, e la
paura prevale (“ma per la violenza del vento si impaurì e, cominciando ad
affondare, gridò”, Mt 14, 30). Vedete: il Vangelo non nega la paura. Non è un
libro per superuomini. È bellissimo come i racconti che riguardano Gesù di
Nazareth tengano sempre conto della nostra fragilità. In un biglietto, l’altra
sera in cattedrale durante la veglia dei giovani, sulle orme della giovane
Santa Palermitana, – celebrata con gioiosa determinazione, nonostante
l’irruzione di ‘iene’ arroganti e mistificanti – uno di loro ha scritto: “Ho
paura della paura”. Non è della paura che dobbiamo avere paura.
Non sono la paura e l’angoscia che dobbiamo
negare, facendo finta che non ci siano. È vero, siamo impauriti qui, in questa
nostra patria meravigliosa, perché il lavoro manca, drammaticamente e, a volte,
tragicamente; perché i nostri giovani perdono la speranza e si sentono costretti
a partire, privandoci della loro presenza, della loro giovinezza forte e
creativa; perché nelle nostre periferie cresce il disagio, aumentano i poveri.
Ma è così difficile dare voce alle periferie… Il giogo della mafia e di tutte
le mafie – penso alla malavita, alla mentalità mafiosa – stringe il nostro
territorio, penetra nelle nostre case, inquina la vita sociale, si incunea
nella politica, persino in alcuni ambienti ecclesiali, con una tracotanza che
ci lascia attoniti. È vero, abbiamo paura, ma dobbiamo dircelo insieme, perché
le paure non vissute assieme provocano frammentazione e aggressività.
Cari Cittadini, Care sorelle, Cari fratelli
di Palermo, guardiamo in faccia la paura, poiché il vero grande pericolo non è
la paura, ma è la rabbia, è la rassegnazione, è l’evasione. Se infatti
assumiamo da adulti le nostre paure, potremo assieme costruire qualcosa,
anzitutto riconoscendo chi punta a cavalcarla questa paura, ad approfittarne
per il suo misero successo personale. E sono tanti! Pronti a fare dei reali
bisogni della nostra terra un uso interessato, ideologico, al fine di creare il
nemico da combattere, al fine di condurre battaglie inesistenti per ergersi a
capi e a paladini. Cari Amici, non lasciamo in mano a nessuno il nostro
destino, non lasciamoci manipolare, prendiamo in mano la nostra vita, la vita e
il futuro della nostra Città! Chiunque ha a cuore tutto questo non cerchi
risposte semplici, salvatori di comodo, cesari di passaggio. Da questo vascello
guardiamo ai nostri testimoni, ai nostri martiri, che possono davvero indicarci
le strade per soluzioni creative e partecipate.
Lo sappiamo tutti: è il 25esimo
anniversario della morte di don Pino Puglisi. Il suo messaggio deve
risuonare a Palermo. Don Pino diceva che “è tempo di rimboccarsi le maniche”,
di passare “dalle parole ai fatti”, di fare una proposta diversa rispetto alla
“cultura dell’illegalità” promossa dai mafiosi, di adottare un nuovo “stile di
vita”. E Libero Grassi, morto come lui per mano della mafia, da testimone umile
e forte della verità, ricordava che non è la quantità del consenso elettorale
che fa la democrazia: non si è uomini della polis, uomini ‘politici’ forti solo
se si prendono tanti voti alle elezioni. Ciò che conta – diceva Grassi – è la
qualità del consenso: ovvero la sua libertà, la sua convinzione, il suo essere
frutto di una scelta e di un pensiero. Per questo sono morti i martiri
palermitani della mafia, per questo è morto Piersanti Mattarella, che stasera
vorrei ricordare con affetto e gratitudine.
Mi rivolgo anzitutto alle giovani e ai
giovani di questa piazza: ad aiutarvi nella verità non è il politico che vi
promette favori, il prete che vi raccomanda, il potente che vi chiede in
contraccambio il sacrificio della vostra libertà, non è chi vi dice che risolverà
in modo semplicistico e sommario i vostri problemi! Ad aiutarvi è
chiunque vi ricordi la bellezza di essere giovani, chiunque abbia rispetto e
fiducia in voi, chiunque sia disposto a fare un passo indietro per cedervi
strada, chiunque rinnovi in voi la forza dello stare assieme, la speranza di
trovare vie nuove, la gioia di vivere passioni non tristi ma vibranti perché
fatte di partecipazione e di dono. A darvi una mano sono coloro che vi dicono
che un mondo diverso è possibile e che la forbice tra chi ha e chi non ha può
essere annullata da un pensiero di autentica condivisione.
Care Palermitane, Cari Palermitani, alziamoci
in piedi! Non restiamo curvi, perché la nostra terra avrà un futuro se avremo
la pazienza, il coraggio, la forza di costruirlo assieme. Questo deve
significare ‘Palermo capitale della cultura’. Dobbiamo essere il baluardo della
cultura, della nostra grande tradizione, contro l’anti-cultura della mafia che
scommette sul fatto che la Sicilia, come temeva e gridava Leonardo Sciascia, sia
“irredimibile”. Ma guardando il volto di don Pino (e dei tanti suoi fratelli
ideali) facendoci carico della paura e del bisogno, mettendoci assieme, creando
nuovi spazi di cura della polis, oltrepassando le secche dell’individualismo e
della sfiducia, possiamo arrivare in porto. Coraggio!
2.
La seconda nave. Sì, assieme, in porto. È una parola questa che vale anche per
il vascello della nostra Italia. Come Palermo, pure l’Italia soffre.
Lo dicevamo. La paura e la povertà, se non ascoltate, se non interpretate e
raccolte, creano diffidenza, isolamento, disillusione, frattura. Questo
dovrebbe essere il compito della politica, della scuola, delle nostre
parrocchie: rompere l’isolamento, ascoltare il grido, raccontare il dolore, la
fatica di vivere, e darle senso. Oggi a questo compito spesso veniamo meno:
viene meno la politica, che usa il disagio e non se ne fa carico; viene meno la
Chiesa, quando riduce la fede ad una devozione individuale, che non investe
tutta la vita e non si fa fonte di autentica comunità. Un’illusione pericolosa
si sta diffondendo: che la chiusura, lo stare serrati, la contrapposizione
all’altro siano una soluzione, siano la soluzione. Ma una civiltà che si fondi
sul “mors tua, vita mea”, una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché
un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine. È questo che vogliamo? In
verità, la fortissima globalizzazione, contro le sue stesse intenzioni, ha reso
l’umanità una totalità in cui il destino di uno, di un gruppo, di un popolo,
condiziona la vita e il destino di tutti. Come in una famiglia. E chi di noi,
chi di voi vorrebbe star bene dentro la sua famiglia al prezzo del disagio
degli altri suoi familiari? Quale madre, quale padre potrebbe sentirsi felice,
sereno, se gli altri membri della famiglia soffrono e vivono nell’indigenza! La
felicità costruita e mantenuta sull’infelicità degli altri è perversa e
menzognera, pronta in breve a rivelarsi tale. Lo sappiamo bene, per esperienza.
Emmanuel Levinas in una intervista dichiarava: «L’altro uomo, che innanzitutto,
fa parte di un insieme, che sostanzialmente mi è dato come gli altri oggetti,
come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in
qualche modo da tale insieme precisamente con la sua comparsa come volto, che non
è semplicemente una forma plastica, ma è immediatamente un impegno per me, un
appello a me, un ordine per me di trovarmi al servizio di questo volto, non
solamente questo volto, servire l’altra persona che in questo volto mi appare
contemporaneamente nella sua nudità, senza mezzi, senza protezioni, nella sua
semplicità, e al tempo stesso come il luogo dove mi si comanda. Questa maniera
di comandare, è ciò che chiamo la parola di Dio nel volto».
Il patrono della nostra Italia, Francesco
d’Assisi, a cui vogliamo guardare stasera dal nostro vascello, propugnava e
difendeva la fraternitas. Per Francesco, nel Cristo fratello, diventano
fratelli sia il lebbroso esiliato fuori dalla città, sia il vicino di casa, il
prossimo più prossimo. Per Francesco, cioè, la fraternità significa che siamo
tutti figli, tutti sullo stesso piano, responsabili gli uni degli altri, legati
reciprocamente con un vincolo inscindibile. Quello che ci raduna in nome di un
Padre e ci raccoglie alla fine tra le braccia di una terra madre. La paternità
di Dio per Francesco infatti era il principio di una nuova nascita: non la
nascita di un popolo di figli omologati, ma di un popolo di diversi, di donne e
di uomini che si riconoscono diversi e per questo si rispettano, per questo si
accolgono, per questo imparano anche a dissentire, a discutere, sapendo che la
relazione è l’unica strada. Fratelli diversi, ma fratelli. E quanto questa
parola bellissima – fratello! – appare settaria se non indica una apertura
totale a tutti, al più vicino e al più lontano! Ripartiamo da qui, dalla parola
e dall’esempio del Patrono d'Italia Francesco d’Assisi. Non per nulla l’attuale
vescovo di Roma, il Santo Padre Francesco, ha scelto questo nome come programma
del suo pontificato. E a lui stasera va il nostro pensiero grato e affettuoso
per la visita a cui vogliamo prepararci con un ‘salto’ di fraternità e di
attenzione ai poveri, ai fratelli ‘minori’, a tutti i bambini di Palermo. Sono
convinto, d’altronde, che non c’è facinoroso, non c’è politico, non c’è uomo pubblico
catturato da slogan e da semplificazioni, che non porti dentro di sé quel
tesoro di pace e di bene che Francesco augurava, quel nucleo profondo di
umanità che ci rende legittimamente diversi, ma mai nemici. San Francesco – ci
ricorda il Santo Padre – è stato un grande missionario di speranza”.
3.
La terza nave. È il messaggio che dobbiamo portare anche sulla nave
dell’Europa, la nave che tutti ci comprende in virtù di una geniale intuizione
dei nostri padri. La logica del ‘prima noi’ mostra in questa Europa
tutta la sua fallacia. Rischiamo fratture insanabili proprio perché ogni paese
europeo comincia a ritenere che il suo benessere venga prima, senza capire che
se la casa comune si distrugge tutti resteremo all’addiaccio, privi di un
tetto. È la miopia dell’egoismo politico, propugnato da governanti e da
politici europei che spesso si vantano – soprattutto nell’Est – di costruire
regimi privi delle garanzie e fuori dai confini minimi della democrazia. Di
fronte a tutto questo, care sorelle e cari fratelli, la Chiesa non può
restare in silenzio, io non posso restare in silenzio. Perché la Chiesa non ha
alternative. Essa è stata collocata dal suo Signore accanto ai poveri e ai
derelitti della storia, e tutte le volte che è uscita – e quante volte è
successo – [è uscita] da quel posto per mettersi accanto ai forti, ai ricchi,
ai potenti, ha perso il senso stesso del suo essere.
Da giovane padre costituente, uno dei
sognatori dell’Europa e del mondo uniti, Giorgio La Pira, nostro conterraneo,
nato a Pozzallo – a cui vi invito a guardare stasera dal vascello dell’Europa –
faceva delle “attese della povera gente” il suo faro e la sua guida, contro
ogni esaltazione del mercato senza regole, dell’individualismo economico. E
questa convinzione, animata in lui da una fede profonda nell’Evangelo, se la
portò appresso a Firenze, dove fu il sindaco dei poveri, dei disoccupati, degli
ultimi. Oggi La Pira ci inviterebbe a guardare alle tante navi che dirigono la
loro prua verso l’Europa come alle navi della speranza. La speranza della
povera gente che cerca protezione e vita buona, ma soprattutto la nostra
speranza. Perché se fermiamo le navi dei poveri, se chiudiamo i porti, siamo
dei disperati. Disperiamo della nostra umanità, disperiamo della nostra voglia
di vivere, del nostro desiderio di comunione. Purtroppo l’informazione che ci
giunge attraverso i mass media è spesso monca e distorta. Voglio essere chiaro
con voi, stasera. Tutti dobbiamo sapere che lungo i decenni e soprattutto in
questi ultimi trent’anni l’Africa – che è il continente più ricco del mondo – è
stata sfruttata dall’Occidente, depredata delle sue materie prime. Ce le siamo
portate via, anzi le multinazionali l’hanno fatto per noi, senza pagare un
soldo. E abbiamo tenuto in vita governi fantoccio, che non fossero in grado di
difendere i diritti della gente. Le potenze occidentali mantengono inoltre in
Africa una condizione di guerra perenne che rende più facile lo sfruttamento e
consente un fiorente commercio di armi.
Care Amiche, Cari Amici, siamo noi i predoni
dell’Africa! Siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni
di poveri, li costringiamo a partire per non morire: bambini senza genitori,
padri e madri senza figli. Un esodo epocale si
abbatte sull’Europa, che ha deciso di non rilasciare più permessi per entrare
regolarmente nel nostro continente. E allora questo esercito di poveri, che non
può arrivare da noi in aereo, in nave, in treno, prova ad arrivarci sui barconi
dei trafficanti di uomini, dopo due anni di viaggio allucinante nel deserto e
di detenzione in Libia.
Cari Cittadini, devo gridare stasera questa
verità: quelli che vengono chiamati centri di smistamento, di detenzione, quei
centri che i nostri governi sollecitano e finanziano per ‘bloccare’ il flusso
migratorio, spesso richiamano i campi di concentramento. E se settant’anni fa
si poté invocare una mancanza di informazione, oggi no. Non lo possiamo fare,
perché ci sono le prove, nella carne martoriata di questa gente, nei filmati,
nei reportage di giornalisti coraggiosi (mentre giornali e telegiornali di
altra fatta parlano dei migranti sulle navi come di un ‘carico’ alla maniera
delle merci e delle banane!). Noi sappiamo, e siamo responsabili. E dobbiamo
levarci! Giorgio La Pira era un uomo del Sud e non si scordò mai di esserlo. Noi, qui da Palermo, stasera, alziamo la nostra
voce. Noi che sappiamo che cosa vuol dire essere migranti. Noi che abbiamo
visto i nostri padri e i nostri nonni costretti a lasciare la loro casa,
rifiutati, umiliati, buttati fuori da case e locali perché siciliani, perché
italiani. Noi sappiamo e non taciamo. Cosa abbiamo fatto e cosa faremmo al
posto di queste donne, di questi uomini, di questi bambini, in fuga dal nulla e
dalla morte? Se fossero i nostri
figli, i nostri parenti ad essere in pericolo di vita, senza cibo e assistenza,
se fossero torturati e stuprati, che cosa faremmo? Una nuova epocale
trasmigrazione dei popoli sta accadendo davanti ai nostri occhi, e abbiamo
bisogno di chiarezza e di umiltà per capire quale società vogliamo costruire,
quale risposta intendiamo dare ai segni dei tempi.
L’Europa è la
civiltà della contaminazione. Geograficamente non esiste. Il Mediterraneo è la
sua culla. La Pira lo sapeva e a rendere il Mediterraneo un lago di pace dedicò
gran parte della sua opera lucidissima e visionaria. Perché credeva che il
Vangelo non è un’utopia, ma una regola, una forma di vita. Paolo VI, ormai
santo, diceva che l’Eucaristia contiene la forma vitae dei popoli. La stessa
cosa di cui era convinto Benedetto da Norcia, patrono d’Europa: “Benedetto da
Norcia – dichiara Benedetto XVI – con la sua vita e le sue opere ha esercitato
un impulso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea”.
Il Vangelo rivela il suo DNA se diventa forma vitae, se diventa una carta dei
diritti che garantisce la difesa degli ultimi. Ed è questo messaggio che
stasera vogliamo lanciare dal vascello di Palermo verso le navi d’Italia e di
Europa. Non è questione di accoglienza, non si tratta di essere buoni, ma di
essere giusti. Non di fare opere buone, ma di rispettare e, se necessario,
ripensare il diritto dei popoli. È in nome del Vangelo che ogni uomo e ogni
donna hanno diritto alla vita e alla felicità, perché “non c’è più giudeo né
greco, non c’è più schiavo né libero in Cristo Gesù” (Gal 3,28), perché il
nostro Signore, morendo sulla croce, ha abbattuto – dice ancora Paolo – ogni
muro di separazione tra gli uomini. È questa la forma di vita in cui il Vangelo
deve incarnarsi per non perdere la sua concretezza storica, quella che gli
viene da Gesù di Nazareth, figlio di Maria, custodito da Giuseppe. Gesù di
Nazareth nostro fratello che è venuto ad annunciarci che Dio è Padre suo e
Padre nostro e che ci ha donato il Suo Spirito, il vero amore che unisce ogni
diversità’. Lo Spirito, infatti, tutti unisce perché comprende ogni linguaggio.
È questa la
‘forma’ del Vangelo che deve diventare sostanza viva, e che proprio in Italia
lo è diventata, settant’anni fa, nei principi fondamentali della nostra
Costituzione. Forse vi ricorderete che due anni e mezzo fa, rivolgendomi a voi
per la prima volta, ritenni di dover citare il terzo articolo della nostra
Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”. Cari Amici, care Amiche, quel che i padri avevano intuito,
oggi deve diventare il nostro manifesto, la nostra carta fondativa di cittadini
e di cristiani. Giuseppe Dossetti, il 21 novembre 1946, propose all’Assemblea
Costituente di scrivere così nella Costituzione della Repubblica: «La
resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino
le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è
diritto e dovere di ogni cittadino».
Riprendendo la
sua ispirazione, leviamo stasera la nostra voce perché si scriva finalmente
l’articolo 3 della Costituzione Europea, l’articolo del diritto di ogni uomo ad
essere uguale, ad essere membro della città degli uomini, ad essere libero di
vivere e di stare nel mondo, con dignità e fierezza. Scriviamolo questo
articolo noi, sin d’ora, nelle nostre vite e nei nostri atti quotidiani, e
chiediamo che al posto della miopia dei piccoli diritti esclusivi, riservati a
pochi, che preparano un futuro di dolore e di guerra, si scriva il grande
diritto della pace e del bene per tutti, l’unico diritto che ha la forma del
Vangelo.“Il tema che si è voluto dare al Festino di quest'anno ‘Palermo
bambina’ ci indirizza perché possiamo guardare la città degli uomini a partire
dai più piccoli, cioè dai bambini”. Ed è questa la
scommessa di una nuova civiltà: una civiltà dove nessun bambino venga educato a
vedere nel diverso un nemico, una civiltà dove i governanti abbiano la passione
per gli ultimi e per il rispetto della vita, di ogni vita, una civiltà dove
ogni uomo impari, al termine della sua giornata, della sua esistenza, ad
ascoltare la voce che viene da lontano, la voce del cuore, che grida: Adam, tu,
uomo, dimmi dov’è tuo fratello!
Maria Santissima,
la madre di Gesù, costretta a fuggire in Egitto a causa del despota Erode, la
prima madre profuga col primo bambino profugo dell’era cristiana, con S.
Rosalia ci precedano verso una ritrovata rotta di solidarietà e di pace. Viba
Palermo e Santa Rosalia!
Arcivescovo
metropolita di Palermo