Un popolo incapace di compassione
Un popolo è fatto di moltitudini,
difficile dire quale sia la sua volontà. Essa si manifesta in coloro che lo guidano
e in democrazia le moltitudini ne hanno la responsabilità: devono saper essere,
collettivamente, un limite politico agli abusi dei potenti. Nel popolo ci sono
i buoni e i cattivi e c’è sempre una lotta tra gli uni e gli altri. Riconoscere
qual è il bene e qual è il male e decidersi per il bene è il lavoro di ogni giorno di ciascuno.
E’ il tema della morale personale, ma anche di quella collettiva. Interagendo,
le moltitudini creano la realtà dell’azione sociale, nella quale può prevalere
il bene, ma anche il male se non viene contrastato efficacemente. In questo
aiuta la religione. L’azione sociale è l’oggetto della dottrina sociale, l’insegnamento
autorevole del papa e dei vescovi su quell'aspetto della vita umana. Ne trattano perché c’è un
collegamento tra l’organizzazione della società e la religione. Scegliere il
bene significa anche indirizzare la società verso certi valori, certi principi
orientativi. In società la religione è ancora considerata un valore proprio
perché è capace di orientare al bene. Il bene è la misericordia, la
compassione. Le società che ne sono
incapaci sono sostanzialmente atee. Se la contrastano sono anche empie. A volte
contrastano apertamente la religione, altre volte cercano di trovare con essa
un accomodamento, in modo da avere da essa quella pietà che negano ad altri, in
genere a chi sta peggio. Se la religione cede, diventa inutile, ma, di più,
diventa empia anch’essa, una contraffazione dell’autentica fede. E questo anche
se si è ancora capaci di proclamare i medesimi dogmi, che però perdono
sostanza, rimangono solo parole, parole ipocrite.
In fondo, sta in quello che ho scritto il problema della religione oggi
in Italia. Sta diventando inutile, perché ci manifestiamo collettivamente privi
di compassione. E’ per questo che la dottrina sociale, e l’azione politica che
ne dipendeva, stanno diventando irrilevanti. E’ bruciante il contrasto tra gli
alti principi ancora inutilmente proclamati dal papa e dai vescovi e l’azione sociale come si va manifestando
tra la nostra gente. Certo, collettivamente le persone realmente religiose sono
ancora masse di una certa consistenza, ma appaiono confinate nei loro
micro-mondi di prossimità e forse, quando si prospetta loro la visione di una nuova Gerusalemme, pregano che la loro
realtà non sia mai sconvolta fino a tal punto. In quest’ottica la religione è più che altro medicina dell’anima e serve a sentirsi bene,
a posto. La tentazione tremenda è allora quella di riconoscere francamente che, sì, tutti i
critici della religione avevano e hanno ragione, nessuno è veramente capace di
compassione e la nostra fede non è per questo mondo: ma, di più, ogni fede
religiosa è inganno sociale e abbaglio individuale. Inganno innanzi tutto per
chi sta peggio e confida religiosamente nella liberazione. E' ipocrita e inutile
consolazione per chi si salva gettando a mare gli altri e vorrebbe tuttavia
sentirsi riconoscere giusto, buon padre di famiglia.
In questi giorni mia madre sta morendo in un letto di ospedale, non
lontano da casa mia. E stata una persona molto, molto religiosa. Negli ultimi
trent’anni è vissuta pregando, in
particolare il Rosario. Da lei ho appreso come essere persona di fede. Mi
ha detto che sta dimenticando l’Ave Maria: è la conseguenza di un ematoma cerebrale che non si sa se potrà riassorbirsi o essere svuotato. Ha voluto che gli ricordassi quella preghiera e ieri
pomeriggio l’abbiamo recitata insieme diverse volte. Ha il rosario tra le mani,
quello stesso rosario che talvolta compare anche tra mani empie, di gente empia
perché incapace di compassione. Quanti di quelli che strumentalizzano la nostra
fede ricordano ancora l’Ave Maria? Ma il loro cattivo esempio non è nulla, per
me, rispetto alla testimonianza di fede di mia madre che, giunta alla fine
della sua vita, si abbandona alla sua fede di una vita, la mia stessa fede. C’è ancora qualcuno veramente capace di compassione tra noi. Basterà per
salvare la società? Gli antichi temevano Nèmesi, la dea che dava agli ingiusti
ciò che meritavano per la loro ingiustizia, il giusto castigo. Una società
incapace di compassione cadrà vittima della sua stessa spietatezza. Nella
Bibbia si narra che un destino simile ebbe Sodoma, nonostante l’intercessione
di Abramo, persona pia.
Leggo da una catechesi di Joseph Ratzinger - Benedetto 16° del 18 maggio
2011 che ho trovato sul WEB:
[http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347958.html]
Il primo testo su cui vogliamo riflettere si
trova nel capitolo 18 del libro della Genesi; si narra che la malvagità degli
abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario
un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male
distruggendo quelle città.
È qui che si inserisce Abramo con la sua
preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e
gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché
Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la
benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che
deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell’uomo; attraverso di lui
il Signore vuole riportare l’umanità alla fede, all’obbedienza, alla giustizia.
E ora, questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega
per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati.
Abramo imposta subito il problema in tutta la
sua gravità, e dice al Signore: "Davvero sterminerai il giusto con
l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi
sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che
vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il
giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la
terra non praticherà la giustizia?" (vv. 23-25).
Con queste parole, con grande coraggio,
Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria: se
la città è colpevole, è giusto condannare il suo reato e infliggere la pena, ma
– afferma il grande Patriarca – sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato
tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono
essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire
così, dice Abramo giustamente a Dio.
Se leggiamo, però, più attentamente il testo,
ci rendiamo conto che la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda,
perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede
il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice,
infatti, al Signore: "E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta
giusti che vi si trovano?" (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una
nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come
fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea
attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva.
Con la sua preghiera, dunque, Abramo non
invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che,
tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli.
Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare
così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo
sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti,
mettendo in atto una giustizia "superiore", offrendo loro una
possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e
confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male,
diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.
È questa la richiesta di giustizia che Abramo
esprime nella sua intercessione, una richiesta che si basa sulla certezza che
il Signore è misericordioso. Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla
sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà.
Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la
giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza
del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di
Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha
altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il
perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con
Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare
la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione
comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina. Abramo – come
ricordiamo – fa diminuire progressivamente il numero degli innocenti necessari
per la salvezza: se non saranno cinquanta, potrebbero bastare quarantacinque, e
poi sempre più giù fino a dieci, continuando con la sua supplica, che si fa
quasi ardita nell’insistenza: "forse là se ne troveranno quaranta… trenta…
venti… dieci" (cfr vv. 29.30.31.32). E più piccolo diventa il numero, più
grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza
la preghiera, l’accoglie e ripete ad ogni supplica: "perdonerò… non
distruggerò… non farò" (cfr vv. 26.28.29.30.31.32).
Così, per l’intercessione di Abramo, Sodoma
potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti. È
questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l’intercessione, la
preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il
desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l’uomo peccatore. Il male,
infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso
la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il
Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (cfr.
Ezechiele 18, 23; 33, 11); il suo desiderio è sempre quello di perdonare,
salvare, dare vita, trasformare il male in bene.
Ebbene, è proprio questo desiderio divino
che, nella preghiera, diventa desiderio dell’uomo e si esprime attraverso le
parole dell’intercessione. Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria
voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è
misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato
in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto
all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di
grazia. Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di
Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al
peccatore convertito.
È questo che il Signore vuole, e il suo
dialogo con Abramo è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo
amore misericordioso. La necessità di trovare uomini giusti all’interno della
città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare
la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è
detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo
(ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica
ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di
bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si
trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione
paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera
d’intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà
salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le
città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi
innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio
questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non
vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male
che ci abita.
Non è il castigo che deve essere eliminato,
ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo.
Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: "La tua stessa malvagità ti
castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste
e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio" (Geremia 2, 19). È da questa tristezza
e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma
serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un
inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la
vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e
Abramo continuamente ripete: "forse là se ne troveranno…".
"Là": è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene
che può risanare e ridare la vita. È una parola rivolta anche a noi: che nelle
nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non
solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e
per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio. E nella
realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.
Ma la misericordia di Dio nella storia del
suo popolo si allarga ulteriormente. Se per salvare Sodoma servivano dieci
giusti, il profeta Geremia dirà, a nome dell’Onnipotente, che basta un solo
giusto per salvare Gerusalemme: "Percorrete le vie di Gerusalemme,
osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che
pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò" (5,1). Il
numero è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure
questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la
risposta di bene che cerca, e Gerusalemme cade sotto l’assedio del nemico.
Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto.
E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto egli stesso si
fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è lui: bisogna però che Dio stesso
diventi quel giusto. L’infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente
manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto
Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce,
perdonando e intercedendo per coloro che "non sanno quello che fanno"
(Luca 23, 34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora
ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita.
Cari fratelli e sorelle, la supplica di
Abramo, nostro padre nella fede, ci insegni ad aprire sempre di più il cuore
alla misericordia sovrabbondante di Dio, perché nella preghiera quotidiana
sappiamo desiderare la salvezza dell’umanità e chiederla con perseveranza e con
fiducia al Signore che è grande nell’amore.
“Bisognerà che Dio stesso diventi quel
giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto egli
stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è lui: bisogna però che Dio
stesso diventi quel giusto.”: è questo il fondamento della nostra speranza
anche in tempi bui come quelli che stiamo vivendo.
Ricordo
le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° in una storica omelia tenuta a
Sarajevo, in Bosnia, al termine del massacro nazionale, il 13 aprile 1997:
«Abbiamo un avvocato presso il
Padre: Gesù Cristo giusto» (1 Gv 2, 1).
1. Abbiamo un avvocato che parla a
nome nostro. Chi è questo avvocato che si fa nostro portavoce? L'odierna
liturgia offre una risposta esauriente: «Abbiamo un avvocato presso il Padre:
Gesù Cristo giusto» (1 Gv 2, 1).
Leggiamo negli Atti degli Apostoli:
«Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha
glorificato il suo servo Gesù» (At 3, 13). Egli è colui
che è stato tradito e rinnegato dai suoi connazionali, persino quando Pilato
voleva liberarlo. Essi chiesero che fosse graziato al suo posto un assassino, Barabba.
In tal modo fu condannato alla morte l'autore della vita (cfr At 3, 13-15).
Ma «Dio l'ha risuscitato dai morti» (At 3, 15). Così parla Pietro che fu testimone diretto della passione,
morte e risurrezione di Cristo. Come tale fu inviato ai figli di Israele e a
tutte le nazioni del mondo. Nel rivolgersi ai propri connazionali, tuttavia,
egli non soltanto accusa, ma anche scusa: «Fratelli, io so che voi avete agito
per ignoranza, così come i vostri capi» (At 3, 17).
Pietro è testimone consapevole della
verità sul Messia che, sulla croce, ha portato a compimento le antiche
profezie: Gesù Cristo è diventato avvocato
presso il Padre, l'avvocato del popolo eletto e di tutta l'umanità.
Aggiunge san Giovanni: «Abbiamo un
avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli infatti è vittima di
espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli
di tutto il mondo» (1 Gv 2, 1-2). Questa
verità viene oggi a ripetervi il Successore di Pietro, giunto finalmente in
mezzo a voi. Popolo di Sarajevo e di tutta la Bosnia ed Erzegovina, io vengo
oggi a dirti: Tu hai un avvocato presso Dio. Il suo nome è: Gesù Cristo giusto!
2. Pietro e Giovanni, come pure gli
altri Apostoli, divennero testimoni di questa verità, poiché videro con i loro
occhi il Cristo crocifisso e risorto. Si era presentato in mezzo a loro nel
Cenacolo, mostrando le ferite della passione; aveva permesso loro di toccarlo,
affinché potessero convincersi dal vivo che egli era quello stesso Gesù che
avevano prima conosciuto come "il Maestro". E per confermare fino in
fondo la verità sulla sua risurrezione, egli ha accettato il cibo che gli
avevano offerto, mangiandolo con loro come aveva fatto tante volte prima di
morire.
Gesù aveva conservato la propria
identità, nonostante la straordinaria trasformazione operatasi in lui dopo la
risurrezione. E quella identità conserva tutt'ora. Egli è lo stesso oggi come
ieri e rimarrà il medesimo per i secoli (cfr Eb 13, 8). Come tale, come vero Uomo, è, presso il Padre, l'avvocato
di tutti gli uomini. Anzi, è avvocato di tutta la creazione da lui e in lui
redenta.
Egli si presenta davanti al Padre come
il testimone più esperto e più competente di quanto, mediante la croce e la
risurrezione, si è compiuto nella storia dell'umanità e del mondo. Il suo è il
linguaggio della redenzione, cioè della liberazione dalla schiavitù del
peccato. Gesù si rivolge al Padre come Figlio consustanziale, ed insieme come
vero uomo, parlando il linguaggio di tutte le generazioni umane e di tutta la
storia umana: delle vittorie e delle sconfitte, di tutte le sofferenze e di
tutti i dolori dei singoli uomini ed insieme dei singoli popoli e nazioni di
tutta la terra.
Cristo parla con il vostro linguaggio,
cari Fratelli e Sorelle della Bosnia ed Erzegovina, così a lungo e dolorosamente
provata. Egli ha detto: "Sta scritto: il Cristo dovrà patire"; ma ha
aggiunto: "Dovrà risorgere dai morti il terzo giorno . . . Di questo voi
siete testimoni" (Lc 24, 48-49). Abitanti
di questa terra provata, coraggio! Voi avete un avvocato presso Dio. Il suo nome è: Gesù Cristo giusto!
3. Sarajevo: città divenuta un
simbolo, in un certo senso il simbolo del ventesimo secolo. Nel 1914, al nome
di Sarajevo venne a legarsi lo scoppio del primo conflitto mondiale. Al termine
di questo stesso secolo, al nome di questa città si è unita la dolorosa
esperienza della guerra che, nel corso di cinque lunghi anni, ha lasciato
dietro di sé in questa regione una impressionante scia di morte e di
devastazione.
Durante questo periodo, il nome di
questa città non ha cessato di occupare le pagine della cronaca e di essere
tema di interventi politici da parte di capi delle nazioni, di strateghi e di
generali. Il mondo intero ha continuato a parlare di Sarajevo in termini
storici, politici, militari. Anche il Papa non ha mancato di levare la sua voce
su tale tragica guerra e più volte e in diverse circostanze ha avuto sulle
labbra e sempre nel cuore il nome di questa città. Già da alcuni anni egli
desiderava ardentemente di poter venire di persona tra voi.
Oggi finalmente il desiderio s'è
avverato. Sia ringraziato il Signore! La parola con cui vi porgo il mio saluto
affettuoso è la stessa che Cristo rivolse, dopo la risurrezione, ai discepoli:
"Pace a voi" (Lc 24, 26). Pace a voi,
uomini e donne di Sarajevo! Pace a voi, abitanti della Bosnia ed Erzegovina!
Pace a voi, Fratelli e Sorelle di questa amata terra!
[…]
La pace che Gesù dona ai suoi discepoli non è quella imposta dai
vincitori ai vinti, dai più forti ai più deboli. Essa non trova la sua
legittimazione sulla punta delle armi, ma, al contrario, nasce dall'amore.
Amore di Dio per l'uomo e amore dell'uomo per l'uomo. Risuona forte oggi il
comando di Dio: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore . . .
amerai il prossimo tuo come te stesso" (Dt 6, 5; Lv 19, 18). Su questi
saldi presupposti si può consolidare ed edificare la pace raggiunta. E
"beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5, 9).
Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina, hai un
avvocato presso Dio, Gesù Cristo giusto!
4. Come servitore del Vangelo, il
Papa, in unione con i Pastori della Bosnia ed Erzegovina e con tutta la Chiesa,
vuole svelare una dimensione ancora più profonda che si cela nella realtà della
vita di questa regione, della quale il mondo intero si occupa da anni.
Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina, la tua
storia, le tue sofferenze, le esperienze dei trascorsi anni di guerra, che
speriamo non tornino mai più, hanno un avvocato presso Dio: Gesù Cristo, il
solo Giusto. In Lui, hanno un avvocato presso Dio i tanti morti, le cui tombe
si sono moltiplicate su questa terra; coloro che sono rimpianti dalle madri,
dalle vedove, dai figli rimasti orfani. Chi altro può essere, presso Dio,
avvocato di tutte queste sofferenze e di tutte queste prove? Chi altro può
leggere fino in fondo questa pagina della tua storia, Sarajevo? Chi può leggere
fino in fondo questa pagina della vostra storia, nazioni balcaniche, e della
tua storia, Europa?
Non si può dimenticare che Sarajevo è
diventata simbolo della sofferenza di tutta l'Europa in questo secolo. Essa lo
è stata all'inizio del Novecento, quando la prima guerra mondiale ebbe qui il
suo inizio; lo è stata in un modo differente la seconda volta, quando il
conflitto si è consumato totalmente in questa regione. L'Europa vi ha preso
parte come testimone. Ma dobbiamo domandarci: testimone sempre pienamente
responsabile? Non si può eludere questa domanda. Occorre che gli statisti, i
politici, i militari, gli studiosi e gli uomini della cultura cerchino di darvi
una risposta. L'auspicio di tutti gli uomini di buona volontà è che quanto
Sarajevo simboleggia rimanga confinato nell'ambito del ventesimo secolo, e non
abbiano a ripetersi le sue tragedie nel millennio ormai alle porte.
5. Per questo volgiamo lo sguardo con
fiducia alla divina Provvidenza. Preghiamo il Principe della Pace, per
intercessione di Maria sua Madre, così amata dai popoli dell'intera regione,
perché Sarajevo diventi per tutta l'Europa un modello di convivenza e di
pacifica collaborazione fra popoli di etnie e religioni diverse.
Riuniti nella celebrazione del
sacrificio di Cristo, non cessiamo di ringraziare te, Città così provata, e
voi, Fratelli e Sorelle che abitate questa terra di Bosnia ed Erzegovina,
perché in qualche modo, con il vostro sacrificio, vi siete assunti il peso di
questa tremenda esperienza, nella quale tutti hanno la loro parte. A voi
ripeto: Abbiamo un avvocato presso Dio, è Cristo, il solo Giusto.
Davanti a te, Cristo crocifisso e
risorto, si presentano oggi Sarajevo e tutta la Bosnia ed Erzegovina, con il
pesante bilancio della sua storia. Tu sei il nostro grande avvocato. Questa
umanità Ti invoca affinché Tu permei la dolorosa storia qui vissuta con la
potenza della tua redenzione. Tu, Figlio di Dio incarnato, come Uomo cammini
attraverso le vicende degli uomini e delle nazioni. Cammina attraverso la
storia di questa gente e di questi popoli più strettamente legati al nome di
Sarajevo, al nome della Bosnia ed Erzegovina.
6. Carissimi Fratelli e Sorelle!
Quando nel 1994 desideravo intensamente venire qui tra voi, facevo riferimento ad
un pensiero che s'era rivelato straordinariamente significativo in un momento
cruciale della storia europea: «Perdoniamo e domandiamo perdono». Si disse
allora che non era quello il tempo. Forse che quel tempo non è ormai giunto?
Ritorno oggi dunque a questo pensiero
e a queste parole, che voglio qui ripetere, affinché possano discendere nella
coscienza di quanti sono uniti dalla dolorosa esperienza della vostra città e
della vostra terra, di tutti i popoli e le nazioni dilaniate dalla guerra: «Perdoniamo
e domandiamo perdono». Se Cristo deve essere il nostro avvocato presso il
Padre, non possiamo non pronunciare queste parole. Non possiamo non
intraprendere il difficile, ma necessario pellegrinaggio del perdono, che porta
ad una profonda riconciliazione.
«Offri il perdono, ricevi la pace», ho
ricordato nel Messaggio di quest'anno per la
Giornata Mondiale della Pace; ed aggiungevo: «Il perdono, nella sua
forma più vera e più alta, è un atto d'amore gratuito» (cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata
mondiale della Pace, 8 dic. 1996: Insegnamenti di
Giovanni Paolo II, XIX, 2 (1996)
933), come lo fu la riconciliazione offerta da Dio all'uomo mediante la croce e
la morte del suo Figlio incarnato, il solo Giusto. Certo, «il perdono, lungi
dall'escludere la ricerca della verità, la esige», perché «presupposto
essenziale del perdono e della riconciliazione è la giustizia» (Ibid.).
Ma resta sempre vero che «chiedere e donare perdono è una via profondamente
degna dell'uomo» (Ibid., 4).
7. Mentre oggi appare chiaramente la luce
di questa verità,
i miei pensieri si rivolgono a Te, Madre di Cristo crocifisso e risorto,
a Te che sei venerata e amata in tanti santuari di questa terra provata.
Impetra per tutti i credenti il dono di un cuore nuovo!
Fa' che il perdono, parola centrale del Vangelo, divenga qui realtà.
Saldamente aggrappata alla croce di Cristo,
la Chiesa riunita oggi a Sarajevo Ti chiede questo,
o Clemente, o Pia,
Madre di Dio e Madre nostra,
o dolce Vergine Maria!
Amen.
Mario Ardigò
- Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli