Popoli
1. I grandi problemi
dell’umanità sono spesso proposti e affrontati da noi in modo bambinesco. Questo
fa presa soprattutto tra i più anziani, di solito meno scolarizzati. E’ la
cattiva politica che usa quel modo di argomentare. Cerca di spaventare la gente
per avere mano libera e le riesce tra chi è più fragile e sa di meno. Poi però
utilizza male il potere che ha, sprecando tempo e risorse nel migliore dei
casi, andando a cacciarsi, e a cacciare la nazione, in seri guai, se va peggio.
Va nel pallone, entra in contraddizione, suscita il caos. Ad esempio: lamenta
che l’Italia sia stata lasciata sola,
e poi è proprio il fare da soli che propone come soluzione. Isola l’Italia
mentre dovrebbe integrarla meglio tra gli altri europei. Disperde un patrimonio
di credibilità faticosamente conquistato in tanti anni, ed è certamente vero
che talvolta in venti giorni fa quello che non si era riusciti a produrre in
vent’anni, ma non c’è d’andarne fieri.
La dottrina sociale ragiona
diversamente ed è un buon punto di partenza per chi voglia migliorare la
comprensione del proprio tempo e collaborare a contrastarne i mali
sociali. A volte viene presentata come
un tutto unitario, come se fosse un manuale di istruzioni scritto una volta per tutte e valido per ogni
tempo. Invece ha avuto una evoluzione. Così come le istituzioni della nostra
Chiesa, ad esempio il Papato. Quest'ultimo si sviluppò nei primi quattro secoli della
nostra era, fino a diventare un importante organismo politico-religioso nella
parte occidentale dell’antico Impero romano, soprattutto dopo che il centro
imperiale si trasferì a Costantinopoli, nella parte greca dello stato. Dopo la
rovina dell’Impero d’Occidente, e dopo un breve periodo in cui fu integrato
nell’Impero romano d’Oriente, divenne
vassallo dei nuovi sovrani invasori giunti dal nord riuscendo a plasmare la
cultura e le istituzioni dei loro regni. Da loro ebbe, nell’Ottavo secolo, un piccolo regno territoriale nell’Italia
centrale. Nell’Undicesimo Secolo il
Papato fu riorganizzato come impero politico-religioso, cercando di affrancarsi
dal vassallaggio feudale verso l’Impero germanico. Dal Cinquecento si trasformò
in un stato tra altri stati, regno tra altri regni. Sempre di più affidò al
possesso di uno stato la garanzia di libertà della sua missione spirituale.
Nell’Ottocento venne coinvolto nei moti nazionalisti italiani, venendo
spodestato come sovrano territoriale dal nuovo Regno d’Italia, nel 1870. Entrò
allora, in Italia, nella politica di massa, esprimendo una potente formazione
politica antisistema, che agli inizi del Novecento ristrutturò per partecipare
alle elezioni politiche con suffragio universale maschile (le prime furono nel
1913). Questa azione sociale gli consentì di conciliarsi con il Regno d’Italia,
riavendo, a seguito dei Patti Lateranensi del 1929, un piccolo regno
territoriale a Roma. Dal ’39, entrato in crisi il rapporto con il fascismo
mussoliniano, prese a trasformarsi velocemente, aprendosi sempre più al mondo, e questo sempre più rapidamente dalla fine
degli anni Cinquanta, fino ad assumere l’aspetto di una ONU religiosa. Immaginò
la nostra nuova Europa, che ideologicamente dipende da principi della dottrina
sociale, in particolare nel fondamentale principio di sussidiarietà che ne
regge il sistema istituzionale. La troviamo tratteggiata fin dal radiomessaggio
del papa Eugenio Pacelli - Pio 12° del 24 agosto 1939 diffuso nell’imminente
pericolo della guerra mondiale.
Vedete? Per parlare di Chiesa ho
dovuto riassumere in poche righe oltre venti secoli di storia europea. Il
credente ha grandi orizzonti. La cattiva politica ne è incapace.
2. Nell’evoluzione della situazione
internazionale, in particolare di quella europea, la dottrina sociale è stata
modificata, adattandola, per fronteggiare i
problemi che si presentavano.
E’ rimasta costante la
prospettiva di fare dell’intera umanità un’unica famiglia umana. Ma essa preesiste o va costruita? La fede ci rassicura che
preesiste, per volontà soprannaturale; la sociologia ci avverte che va
costruita, perché non è mai veramente esistita prima in epoca storica; unificando
le visioni si può arrivare a concludere che vada costantemente restaurata, perché l'abbiamo nell'anima prima che sia realizzata in società. Per farlo occorre una
cultura adeguata. E' appunto quella che manca ai nostri tempi.
Tra tutti gli esseri umani si
avverte effettivamente una certa aria di famiglia. Fondamentalmente siamo fatti
nello stesso modo e ragioniamo in modi simili. La genetica ci ha confermato in
questa convinzione. Dal punto di vista biologico differiamo per inezie. Ma le
differenze culturali e sociali sono molto grandi, in particolare tra i maggiori
aggregati di gente, i popoli.
Avere una visione realistica di
moltitudini quali sono i popoli supera le nostre capacità cognitive, i nostri
limiti di specie. Accade anche per quanto riguarda il nostro corpo, fatto di
miliardi di cellule, ognuna con una sua vita e con le sue relazioni con le
altre che la circondano. Viviamo, ma
senza avere precisa consapevolezza di ciò che accade alle nostre singole
cellule: ora
cominciamo a saperne di più della nostra vita biologica, ma le conoscenze che
sono implicate superano largamente la possibilità di sapienza anche di più
sapienti, figuriamoci quella della gente comune.
Insomma, di come va il mondo
abbiamo una consapevolezza approssimativa, basata su elementi culturali che
prevalgono tra certe popolazioni, ad esempio la lingua o la religione, e,
secondo criteri più precisi, facendo ricorso a osservazioni e valutazioni di
tipo statistico. Quest’ultimo criterio è usato, in particolare dai sociologi e
dagli economisti, che utilizzano comunque anche il vaglio delle culture. Le
culture sono maggiormente utilizzate, come fonte di comprensione dei popoli, dalla politica
e dalle religioni. Spesso però si cercano scorciatoie bambinesche, favolistiche, del tipo di quelle propinate dalla cattiva politica a chi le vuole credere. Come accorgersene? Fanno tutto troppo semplice, troppo simile al nostro micromondo di prossimità, alla nostra vita di tutti i giorni, in cui, ad esempio, basta dare una mandata alla porta di casa per pensare di essere (relativamente) al sicuro.
Una moltitudine stanziata su un
certo territorio e caratterizzata da più intense relazioni culturali, sociali,
economiche e politiche costituisce una popolazione.
Quando però si parla di popolo si ha presente essenzialmente la dimensione
politica. Un popolo è un insieme di popolazioni che si è organizzato per
dominare un certo territorio e certe risorse economiche e ci è riuscito. Questa
è anche, sostanzialmente, la concezione giuridica prevalente quando si parla di
popolo. Anticamente era la soggezione ad un sovrano che faceva un popolo. Si
cercò di rendere stabile il potere del sovrano, sacralizzandone la dinastia,
riconducendo il suo potere alla volontà divina. In questa prospettiva il
sovrano vanta ascendenza e poteri divini. Caratteristica del cristianesimo,
derivante dal particolare ambiente politico e multiculturale in cui si
sviluppò, il Vicino Oriente sotto dominazione dell’Impero Roma in cui il potere religioso locale cercava spazi di autonomia verso quello politico-religioso degli occupanti, fu la desacralizzazione
della politica, che lo portò nei
primi tre secoli in rotta di collisione con le autorità pubbliche romane. In
questa prospettiva, nessun potere politico può obbligare se non rispetta la
legge divina. Quest’ordine di idee, che risale alle origini della nostra ideologia religiosa tanto da essere documentato addirittura negli scritti sacri derivati dalle nostre prime comunità di fede, si ritrova, ad esempio, in questo brano dell’enciclica
La
pace in terra - Pacem in Terris del
papa Angelo Roncalli, del 1963 (che ho sintetizzato lo scorso 23 giugno) :
L’autorità non è una forza incontrollata: è invece la
facoltà di comandare secondo ragione. Trae quindi la virtù di obbligare
dall’ordine morale.
L’autorità che
si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla
promessa e attrattiva di premi, non muove efficacemente gli esseri umani
all’attuazione del bene comune; e se anche, per ipotesi, li movesse, ciò non
sarebbe conforme alla loro dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e
liberi. L’autorità è, soprattutto, una forza morale; deve, quindi, in primo
luogo, fare appello alla coscienza, al dovere cioè che ognuno ha di portare
volonterosamente il suo contributo al bene di tutti.
L’autorità,
come si è detto, è postulata dall’ordine morale. Qualora pertanto le sue leggi
o autorizzazioni siano in contrasto con quell’ordine, esse non hanno forza di obbligare la
coscienza.
3. Nell’Alto Medioevo europeo, nella
seconda metà del Primo millennio della nostra era, i re presero a non occuparsi
in dettaglio di tutto ciò che accadeva nei loro regni, ma principalmente della
riscossione dei tributi e del mantenimento di un esercito, oltre che di ciò che
serviva alle loro corti. Lasciarono che i loro feudatari, monarchi meno potenti
e legati da loro da un vincolo di fedeltà, e le società civili si dessero
autonomamente le loro regole di vita: questo creò una realtà sociale molto
articolata che durò fondamentalmente fino al Settecento e da cui il Papato
prese l’idea della sussidiarietà, che è quando, appunto, i poteri superiori non
comprimono l’ordine che le società inferiori si sono date, ma anzi le
promuovono e sostengono, intervenendo solo dove si manifestano insufficienti. Questa idea fu
al centro della prima enciclica sociale dell’età moderna, Le novità - Rerum
Novarum, del papa Vincenzo
Gioacchino Pecci - Leone 13°, del 1891.
1
- Necessità della collaborazione di tutti
36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono
contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate
a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi
tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni
private destinate a prendersi cura dell'operaio, della vedova, dei figli
orfani, nei casi d'improvvisi infortuni, d'infermità, o di altro umano
accidente; i patronati per i fanciulli d'ambo i sessi, per la gioventù e per
gli adulti. Tengono però il primo posto
le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi
tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i
vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come
attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti
medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti
bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni
attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere,
sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che
crescano di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci
piace ritornarvi sopra per mostrarne l'opportunità, la legittimità, la forma
del loro ordinamento e la loro azione.
Questa estesa articolazione
sociale avvolgeva gli individui, li sorreggeva e li proteggeva. Non le era più
essenziale la soggezione al sovrano, ma trovava fattori unificanti in diversi
elementi culturali, primo fra tutti la religione cristiana. Quando i papi
parlano di radici cristiane dell’Europa è a questo che si riferiscono.
Dal Cinquecento si cominciarono
a formare, da società magmatiche, molto articolate e differenziate ma unificate
su basi culturali, gli stati come li conosciamo: il motore di questo processo
furono alcune monarchie europee che vollero farsi nazionali, esprimere quindi la volontà politica di una nazione, intesa come l’insieme delle
popolazioni unificate da un progetto politico di costituzione di una stato, da un ordine politico unitario che non riconosceva nessuno sopra di sé entro i
confini del proprio dominio e che era impersonato da un sovrano e dalla sua dinastia. Quando si parla di sovranità è a questo che ci si
riferisce. Premetto che l’attuale ordine internazionale non riconosce più a
nessuno stato e a nessun potere una sovranità di quel tipo.
In questo quadro di rafforzamento
del potere del sovrano nazionale furono depotenziate le comunità minori e il
diritto da esse espresso, a favore delle leggi del sovrano e, più avanti, dei
suoi codici, documenti legislativi che
intendevano regolare settori molto ampi della società nazionale, come il
diritto civile, quello penale e quello commerciale. Sviluppandosi dal
Settecento processi democratici, nel quadro di essi fu teorizzato un popolo sovrano, in sostituzione o affiancamento delle dinastie sovrane, privo però di tutti gli elementi culturali che ne caratterizzavano le popolazioni, fatto sostanzialmente di individui solitari che esaurivano il
loro potere nel delegare i propri rappresentanti, liberi da qualsiasi vincolo a
comunità intermedie. Individui così non esistono in natura: si è sempre inseriti in comunità intermedie che costituiscono i nostri mondi vitali, che ci sorreggono e motivano. Faccio notare che questa, del popolo composto da individui solitari, è l’ideologia che sta sotto
alcune concezioni contemporanee di democrazia diretta telematica.
Creandosi quegli stati nazionali, essi presto vollero
anche sacralizzarsi in modo da far corrispondere la volontà del
sovrano a quella del Cielo, perché anche di questa i sovrani erano insofferenti
in quanto in teoria a loro superiore. Ognuno segua la religione del proprio sovrano,
fu deciso nel Cinquecento e nel
Seicento, a chiusura di lunghi e sanguinosi conflitti tra i sovrani europei. Nei processi democratici si seguì la
stessa strada, anche dove si presero vie irreligiose o addirittura
antireligiose, costruendo sostanzialmente religioni politiche alternative. I primi a farlo furono, a fine Settecento, i rivoluzionari francesi. Ma anche vari fascismi e comunismi e altri regimi politici costruirono proprie religioni politiche, con propri culti, liturgie e una classe sostanzialmente sacerdotale.
Questa idea della religione come
elemento culturale unificante dello stato, quindi sostanzialmente legata al
dominio del sovrano civile e in questo senso religione civile, di rafforzamento del potere politico, contrastava
con quella del Papato che rivendicava il monopolio del potere religioso. Questo
creò, tra il Settecento e l’Ottocento quello che venne definito conflitto di civiltà e che il Papato affrontò, in particolare con la propria
dottrina sociale diffusa dalla seconda metà dell’Ottocento, proponendo un
proprio modello di civiltà. In ogni documento della dottrina sociale del
Papato ne è proposta una versione. Il
passaggio di fase storica prodottosi nel
mondo all’inizio degli anni Sessanta è segnalato con tutta evidenza dal fatto
che il papa Angelo Roncalli - Giovanni 23° diffuse nel giro di pochi anni ben
due encicliche sociali: la Madre e Maestra - Mater et magistra, del
1961, e La pace in terra - Pacem in
terris, del 1963.
4. Il conflitto di civiltà divenne
più acuto quando, affrontandolo sullo stimolo dei problemi che gli erano causati
dal nazionalismo italiano, il Papato iniziò a riflettere sul problema della
guerra. La prima occasione storica fu quando, nel 1848, il papa Giovanni Mastai
Ferretti - Pio 9°, uno dei sovrani italiani dell’epoca in quanto monarca
politico dello Stato pontificio nell’Italia centrale, decise di inviare un contingente
militare contro l’Impero d’Austria che occupava Lombardia e Veneto. La guerra
era stata iniziata dal regno piemontese detto Regno di Sardegna, della dinastia
Savoia, a sostegno dei nazionalisti italiani che erano insorti a Milano. Il 29
aprile del 1948 il Papa ordinò il ritiro delle sue truppe (che in gran parte
non obbedirono), con un’allocuzione in cui disse:
Inoltre non potrebbero poi
lamentarsi di Noi i sopraddetti Popoli della Germania se non Ci fu possibile frenare
l’ardore dei Nostri sudditi che vollero applaudire alle imprese compiute contro
di loro nell’alta Italia, e vollero con gli altri popoli d’Italia far causa
comune, infiammati anch’essi, come gli altri, dell’amore verso la propria
Nazione. Tanto è vero che molti altri Principi d’Europa, di gran lunga a Noi
superiori nella forza militare, non poterono neppur essi resistere alla
commozione dei loro Popoli.
In tale situazione Noi però ai Nostri Militi mandati ai confini
dello Stato non volemmo che fosse ordinato altro che di difendere l’integrità e
la sicurezza dei domini Pontifici.
Ma siccome ora alcuni desidererebbero che Noi
unitamente agli altri Popoli e Principi d’Italia entrassimo in guerra contro i
Germanici, abbiamo ritenuto Nostro dovere dichiarare chiaramente e palesemente
in questo solenne Nostro Convegno che ciò è del tutto contrario alle Nostre
intenzioni, in quanto Noi, benché indegni, facciamo in terra le veci di Colui
che è Autore della pace e amatore della carità, e per dovere del Nostro Supremo
Apostolato Noi con eguale paterno affetto amiamo ed abbracciamo tutti i popoli
e tutte le nazioni. Ché, se nonostante ciò non mancassero fra i Nostri sudditi
coloro che sono trasportati dall’esempio degli altri Italiani, in qual modo
potremmo Noi frenare il loro ardore?
Qui poi, al cospetto di
tutte le genti, non possiamo non rigettare i subdoli consigli, manifestati
anche per mezzo dei giornali e dei libelli, di coloro che vorrebbero il Romano
Pontefice Presidente di una certa nuova Repubblica da farsi, tutti insieme, dai
popoli d’Italia. Anzi, in questa occasione, per la Nostra carità verso i popoli
d’Italia li esortiamo caldamente e li ammoniamo a guardarsi da questi consigli
astuti e perniciosi per la stessa Italia, e di stare fedeli ai loro Principi,
dei quali hanno già sperimentata la benevolenza, e di non lasciarsi staccare
dal debito ossequio verso di loro. Infatti operando altrimenti non solo
mancherebbero al proprio dovere, ma incorrerebbero anche nel pericolo che
l’Italia di giorno in giorno finisse divisa da discordie ed intestine fazioni.
In quanto a Noi, però, di nuovo dichiariamo che il Romano Pontefice dirige ogni
suo pensiero, ogni cura, ogni studio perché si accresca ogni giorno il regno di
Cristo, che è la Chiesa; ma non perché si dilatino i confini del Civile
Principato che Iddio volle dato a questa Santa Sede per la sua dignità e per
difendere il libero esercizio del Supremo Apostolato. Errano dunque grandemente
coloro i quali ritengono che il Nostro animo possa essere lusingato
dall’ambizione di più largo temporale dominio, al punto che Noi Ci gettiamo in
mezzo ai tumulti delle armi. Per certo
al Nostro cuore paterno sarebbe carissimo se Ci fosse dato con l’opera Nostra,
con le cure, con gl’impegni di far qualche cosa per estinguere i fomiti delle
discordie, per conciliare gli animi che si guerreggiano e per ristabilire fra
loro la pace.
Il magistero sulla pace è il cardine della
dottrina sociale contemporanea. L’altro è il bene comune. Quest’ultimo è così definito nell’enciclica Madre
e Maestra - Mater et Magistra, del
papa Angelo Roncalli - Giovanni 23°, del 1961:
"il bene comune
consiste nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono
negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona".
In quest’ottica c’è un bene comune
nazionale che comprende anche elementi culturali che
caratterizzano gruppi etnici della popolazione, comprese alcune tradizioni religiose, e un bene comune universale in cui quegli elementi non devono trasformarsi in
uno scompartimento stagno in cui degli esseri umani vengano impediti di
comunicare con gli esseri umani appartenenti a gruppi etnici differenti (come
insegnato nell’enciclica La pace in terra
- Pacem in terris, del medesimo
Papa, del 1963); infatti, ciò sarebbe in stridente contrasto con un’epoca come la
nostra, nella quale le distanze tra i popoli sono state quasi eliminate. Nessuna
persona, né nessuna nazione, deve poi ritenersi superiore alle altre per quegli elementi culturali (sempre nell'enciclica La pace in terra -Pacem in terris). La Patria è ritenuta, nella dottrina sociale, un bene
comune nazionale, ma essa non deve impedire di fare dell’intera umanità un’unica
famiglia, realizzando una Patria mondiale, prefigurazione di quella Celeste, la sola, cantò Agostino d'Ippona, nella quale un fedele può intonare l'alleluia della Patria. In questo mondo si è sempre per via, tutto rapidamente si trasforma, e ci è possibile cantare solo l'alleluia della strada.
Gli elementi che caratterizzano un gruppo etnico non
devono trasformarsi in uno scompartimento stagno in cui degli esseri umani
vengano impediti di comunicare con gli esseri umani appartenenti a gruppi
etnici differenti: ciò sarebbe in stridente contrasto con un’epoca come la
nostra, nella quale le distanze tra i popoli sono state quasi eliminate. [il
brano dell’enciclica La pace in terra -
Pacem in terris citato sopra]
5. Ad un magistero sociale fortemente universalista dei papi Angelo
Roncalli - Giovanni 23° e Giovanni Battista Montini - Paolo 6°, centrato sul bene comune universale, fece seguito
quello più nazionalista del papa Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°, sulla base
dell’esperienza sociale polacca di resistenza al regime comunista. La cultura
nazionale e nazionalista, comprensiva di un certo modo di essere religiosi, era
stata utilizzata per contrastare la cultura cosmopolita del comunismo di
impronta sovietica imposto in Polonia. In Italia questo orientamento produsse i movimenti
della cultura della presenza, che
pensavano che la religione dovesse essere restaurata a noi innanzi tutto
ricostruendo un popolo religioso caratterizzato e animato da consuetudini culturali, vivendo
religiosamente prima di ragionarci sopra. L’universalismo religioso si
esprimeva invece nella cultura della mediazione, che riteneva
via giusta quella di far emergere, nel dialogo, quindi ragionandoci sopra, i valori religiosi che c’erano nelle culture
che vivevano in Italia, anche se non o non ancora espressamente religiose. Questo
orientamento era stato incoraggiato nell’enciclica La pace in terra- Pacem in terris. Nella prima via l’evangelizzazione avveniva
per contatto sociale e imitazione, nella seconda mediante il dialogo. Nella prima via il dialogo è sentito come contaminante l'integrità culturale, nella seconda ogni cultura, anche quella religiosa e in particolare quella delle tradizioni religiose, è sottoposta ad un vaglio critico nel dialogo, ma se ne possono far emergere valori di rilevanza religiosa. Con tutta evidenza l'impostazione del Wojtyla risentiva del duro scontro con il regime comunista polacco, che aveva tentato, con le buone o con le cattive, ma più spesso con queste ultime, l'annichilimento per assimilazione delle tradizioni religiose locali, fortemente permeate di elementi politici, in particolare dal culto delle antiche dinastie polacche. In quel contesto il dialogo era possibile solo in una forma che conduceva alla perdita della propria identità culturale. Divenuto sovrano religioso universale Wojtyla affrontò con il medesimo ordine di idee anche altri ambiti culturali, profondamente diversi, ad esempio quello italiano, nel quale il dialogo aveva potentemente preso piede sullo stimolo della distinzione tra errore ed errante del magistero di Angelo Roncalli, in particolare nell'enciclica La pace in terra - Pacem in terris, del 1963, di cui trascrivo un brano molto importante:
Non si dovrà però mai confondere l’errore con
l’errante, anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della
verità in campo morale religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere
umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre
considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. Inoltre in ogni
essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua natura, di
spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della verità. E l’azione di Dio in lui non viene mai meno.
Per cui chi in un particolare momento della sua vita non ha chiarezza di fede,
o aderisce ad opinioni erronee, può essere domani illuminato e credere alla
verità. Gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra
credenti e quanti non credono, o credono in modo non adeguato, perché
aderiscono ad errori, possono essere occasione per scoprire la verità e per
renderle omaggio.
Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare
false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e
dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e
politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e
da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una
volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti
suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non
possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a
mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella
misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno
interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi
positivi e meritevoli di approvazione?
Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento
o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo,
oggi invece lo sia o lo possa divenire domani. Decidere se tale momento è
arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi dell’eventuale consonanza di
attività al raggiungimento di scopi economici, sociali, culturali, politici,
onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi che si possono risolvere soltanto con la virtù
della prudenza, che è la guida delle virtù che regolano la vita morale, sia
individuale che sociale.
Il lungo prevalere della cultura della
presenza in religione, in particolare in Italia, ci ha fatti trovare impreparati davanti ai problemi suscitati dalla
globalizzazione dell’economia e dalle grandi migrazioni intercontinentali. In
un certo senso, il magistero di papa Jorge Mario Bergoglio - Francesco, per
quanto sotto molti aspetti differente da quello di Karol Wojtyla - Giovanni
Paolo 2°, sulla questione del popolo si muove ancora nello stesso ordine di idee,
ad esempio nella critica del cosmopolitismo livellatore delle culture, e questo
sostanzialmente per l’ambiente di origine di papa Francesco, l’America Latina,
che non conosce le differenze culturali che caratterizzano gli europei (basti
pensare che fondamentalmente si parlano due lingue, lo spagnolo e il portoghese,
e prevale largamente la religione cattolica), né fenomeni migratori recenti
quali quelli sperimentati in Europa.
Nell’era della globalizzazione
spostarsi è divenuto meno costoso e, soprattutto, possibile alle masse. Quindi le
masse hanno ripreso a spostarsi, come sempre avvenuto tra gli umani, fin dalle
epoche preistoriche. Gli europei sono stati sorpresi da questo movimento, quando
il processo di superamento delle aggregazioni politiche nazionali non era stato
ancora concluso, in particolare per il rilevantissimo sforzo di assimilazione
degli stati europei usciti dal comunismo. Ma anche la religione è stata
sorpresa. La Polonia del Wojtyla e l’Ungheria, in maggioranza cattolica, stati
dove il nazionalismo culturale era stato fonte di resistenza contro il
comunismo, hanno prodotto un movimento politico contrario all’integrazione dei
migranti, sulla base di una cultura nazionalista comprendente anche elementi
religiosi. I cattolici italiani, indirizzati sulla via polacca durante il regno
del Wojtyla, li stanno istintivamente seguendo, anche se la via della chiusura
delle frontiere non è fisicamente possibile quando, come da noi, le frontiere sono marittime.
Non riusciamo a riconoscere nei
migranti, in particolare nelle culture degli africani, gli elementi culturali
che ce li accomunano, e questo anche se la loro prima o seconda lingua è una
lingua europea. Ci dimostriamo conseguentemente incapaci di dialogo e quindi di vera
integrazione. La reazione istintiva è quella del rifiuto e del tentativo
(destinato a fallire nella maggior parte dei casi) di respingimento. Un problema molto serio che si presenta a
livello delle masse e anche tra i più giovani, che sono molto più colti delle generazioni
precedenti. Leggiamo un documento importantissimo della dottrina sociale quale
l’enciclica Lo sviluppo dei popoli - Populorum progressio,
del papa Giovanni Battista Montini - Paolo 6°, del 1967, e lo sentiamo
estraneo. Anche l’intera dottrina sociale sta divenendo estranea alle masse, e
quindi ininfluente, sia perché parla un linguaggio colto, che in particolare i
più anziani faticano ad intendere, sia
perché prospetta un mondo fatto di un’unica famiglia umana che non risponde all’esperienza
di vita dei più, in cui si dà molta importanza ai micromondi sociali in cui
ciascuno è inserito e confinato. Anche molti dei discorsi sulle comunità evangelizzatrici che si fanno in religione presentano questo
problema. Per questa via non sarà possibile mantenere la pace fra i popoli, il
grande anelito della dottrina sociale contemporanea. Fatalmente, in
particolare, si sarà spinti verso un
impegno militare per il contenimento delle migrazioni. L’esperienza storica
dovrebbe convincere dell’inutilità e anche della pericolosità di questa
impostazione.
Come italiani ci sentiamo lasciati soli per aver dovuto fronteggiare, in sessanta milioni,
in uno stato tra i più ricchi del mondo e con istituzioni forti, solo una parte
della migrazione che ha coinvolto la vicina Libia, abitata da sei milioni di
persone, con istituzioni deboli e ancora preda di ciclici episodi di guerra
civile, con un’economia nel caos per la concomitante crisi politica, ed infine con
larga parte del suo immenso territorio incontrollabile in quanto situato nel deserto del Sahara. Vorremmo che fossero la Libia, o Malta, uno
stato-arcipelago molto piccolo di mezzo milione di persone in mezzo al mare, a
bloccare le moltitudini che sono riuscite a superare il Sahara. Forse, in
definitiva, vorremmo che fossero proprio il Sahara e il Mar Mediterraneo a
continuare a decimare i migranti. E si sta parlando di far allontanare dalle coste africane le nostre navi militari impegnate nella missione di sorveglianza per il soccorso dei migranti, mentre sta avendo successo l'azione di contrasto all'azione delle navi mandate da organizzazioni non governative. A differenza dei mercantili di passaggio, si trattava di navi mandate con lo scopo di salvare la gente in mare. Arretrandole o impedendone l'azione, i migranti non tenteranno più la via del mare? L'esperienza insegna che non sarà così. Si tornerà alla situazione di prima. Tenteranno e molti moriranno affogati. Questo sembra non fare più scandalo, nemmeno in ambito religioso. Sembra che si possa seguire il cattivismo di certa politica cattiva e fare ogni domenica la Comunione, pregando il Padre Nostro. Del resto non era lo stesso in tempo di guerra? Stiamo tornando indietro. Stiamo prendendo congedo dal magistero sociale di pace e la pace pare non rientri più nel bene comune nazionale, né in quello universale. L'Europa, ad un certo punto, seguendo la via indicata dai Papi, volle la pace e la ebbe; ora ha iniziato ad andare per altra via. Però non raccontiamoci e non crediamo alle favole: avremo la guerra.
Siamo nel bel mezzo di un
passaggio di fase storica, in cui il nostro
mondo e la nostra stessa civiltà stanno cambiando. Purtroppo sembra che la
dottrina sociale abbia oggi poco da dire e che, quando lo dice, non sia presa sul
serio. C’è stata una carenza di formazione che va sanata. Ma c'è anche, e molto serio, un conflitto non risolto tra le visioni che approssimativamente possiamo ricondurre al Montini e al Wojtyla.
Mario Ardigò -
Azione Cattolica in San Clemente papa -
Roma, Monte Sacro, Valli.