INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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mercoledì 28 febbraio 2018

Approfondire la religiosità


Approfondire la religiosità




  Il 2 febbraio 1970 la Commissione episcopale per le dottrina della fede e la catechesi, articolazione della Conferenza episcopale italiana oggi presieduta dall’arcivescovo di Oristano mons. Ignazio Sanna, diffuse il documento Il rinnovamento della catechesi, definito già nella presentazione che ne fece il card. Carlo Colombo, che presiedeva la Commissione, documento di base, in quanto destinato a orientare la redazione di nuovi catechismi in linea con i principi proclamati nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
 Si legge in quella presentazione:
  Anzitutto, è doveroso rifarsi alla impostazione generale, secondo la quale è stato concepito e voluto il lavoro per il rinnovamento della catechesi in Italia.
Questa impostazione prevede, sostanzialmente, due momenti collegati tra di loro: la elaborazione di un “documento base” e, in armonia con esso, la compilazione di veri e propri “catechismi”.
  Il testo, che presentiamo, chiude il primo momento ed apre il secondo. Non è e non vuole essere un catechismo; né, perciò, una completa ed organica somma delle verità, da cui trarre, quasi con criteri quantitativi, il contenuto dottrinale dei catechismi; né, infine, un “direttorio” nel senso pieno della parola, anche se ricco di orientamenti e indicazioni per una incisiva azione catechetica.
  Pur non essendo tutto questo, il documento è a tutto questo inseparabilmente legato, rappresentandone come la necessaria premessa, la base, la ispirazione. L’Episcopato italiano, cioè, ha ritenuto che il problema dei nuovi catechismi dovesse essere affrontato e risolto in una prospettiva più ampia: quella di un autentico rinnovamento di tutta la catechesi. Ecco perché, prima di compilare i nuovi catechismi in più viva aderenza al magistero del Concilio Vaticano II e alle esigenze odierne, s’è preoccupato di tracciare le grandi linee del “quadro” entro il quale collocare con i nuovi catechismi la rinnovata azione pastorale.
  Il  Documento di base  del 1970 si apriva con questa introduzione:
Il popolo di Dio nel mondo...
1. La storia del popolo di Dio è storia dell’amore divino. Le ragioni dell’esistenza di questo popolo singolare sono le misteriose ragioni per cui Dio “ha cosi amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna”. Sono le ragioni della missione stessa di questo popolo, sempre ricca e feconda di fermenti rinnovatori e vivificanti per la umanità.
... cresce nella pazienza e nella speranza
2. Sospinto dagli avvenimenti e dalle tensioni del secolo, nel quale è inserito, il popolo di Dio cresce nella pazienza e nella speranza, maturando la coscienza di sé e della propria missione, in “adesione fedelissima alle parole e al pensiero di Cristo, nel ricordo riverente dell’insegnamento autorevole della tradizione ecclesiastica e
nella docilità alla interiore illuminazione dello Spirito Santo”.
È un’esperienza di continua conversione, di purificazione e di carità, che muove la Chiesa a una fedeltà sempre più piena al suo Signore e sostiene la sua missione di pace e di salvezza per gli uomini.
Il rinnovamento della pastorale catechistica
3. Anche il proposito di rinnovare la pastorale catechistica conduce la Chiesa a questa esperienza di vita interiore, che le consente di “ritrovare in se stessa, vivente ed operante nello Spirito Santo, la parola di Cristo” e di proclamarla con ferma fiducia agli uomini del nostro tempo.
  Alcuni anni dopo mio padre in estate mi mandò a Dublino a familiarizzarmi con l’inglese, che studiavo a scuola con risultati mediocri. Il viaggio di studio era organizzato dai Fratelli Maristi che gestivano l’Istituto San Leone Magno, dove avevo fatto la prima elementare. A Dublino studiavamo in una scuola di quei religiosi, il Marian College, dalle parti di Ballsbridge, e per il resto del tempo eravamo ospiti di una famiglia irlandese. Si era nel bel mezzo dei Troubles,  i  disordini  che travagliavano la parte dell’Irlanda ancora rimasta nel dominio britannico, quella settentrionale dell’Ulster. Vi era attiva l’I.R.A., sigla che significava esercito repubblicano irlandese, organizzazione che aveva le sue origini storiche nel conflitto anglo-irlandese combattuto tra il 1919 e il 1921, per l’indipendenza nazionale irlandese, ma che successivamente si era trasformata sostanzialmente in un’organizzazione armata segreta un po’ come le nostre brigate rosse, con lo scopo di compiere attentati e altri atti di violenza contro i britannici e gli unionisti, i protestanti irlandesi che si opponevano all’irredentismo irlandese e volevano che l’Irlanda del nord rimanesse unita alla Gran Bretagna. Anche in Italia si erano cominciate a manifestare organizzazioni di quel tipo che avevano come obiettivo da colpire lo stato democratico, per trasformarlo in una repubblica di tipo sovietico o per tornare ai tempi del fascismo mussoliniano. Il dibattito era molto acceso intorno alla loro attività, perché avevano iniziato a costituire una minaccia molto seria. Cercavano aderenti tra i più giovani. C’era, nelle scuole, chi dava loro credito. La vita dei giovani era più violenta di quella di adesso. Ci si picchiava dentro e fuori scuola. Quando arrivai per la prima volta a Dublino quelle faccende dell’I.R.A. mi interessarono e volli capirci di più. Farlo non era facile come adesso, per quanto ai più giovani possa essere difficile figurarselo si viveva senza essere connessi a internet, non ci si poteva informare rapidamente come adesso. Bisognava leggere i libri. Così feci. In una libreria in O’Connell street, una delle strade principali della città, a due passi dal  General Post Office, le Poste centrali, dove era stata firmata la prima Dichiarazione della Repubblica d’Irlanda, comprai il libro di cui qui sopra ho attaccato la copertina, una storia dell’IRA scritta da Tim Pat Coogan e pubblicata proprio nel 1970, l’anno del Documento di base.
   Vi lessi che la Dichiarazione della Repubblica d’Irlanda  si apriva con queste parole:
 Irlandesi, nel nome di Dio e delle generazioni passate da cui  ha ricevuto la sua antica tradizione di nazionalità, l'Irlanda,  mediante noi, convoca i suoi figli intorno alla sua bandiera e combatte per la sua libertà.
   Sulla copertina del libro c’erano il calcio di un fucile e un rosario. Me ne scandalizzai. Avevo infatti cominciato ad assimilare, in famiglia e a catechismo, i principi del Concilio Vaticano 2°.
 In Italia le guerre per l’indipendenza nazionale si erano combattute nell’Ottocento tra cattolici. In Irlanda invece si combatté tra cattolici e protestanti. L’uso di recitare il Rosario la sera era molto diffuso tra le famiglie cattoliche fino agli anni Cinquanta circa. Era un costume specificamente cattolico, per cui il rosario, inteso come la coroncina di perline che serve per pregare il Rosario, poteva servire come simbolo di parte in quella guerra, ed in  effetti era usato in Irlanda come tale senza problemi religiosi. Il Rosario è una preghiera di meditazione intorno a importanti fatti evangelici che comprende una serie di Ave Maria, Padre Nostro, Gloria al Padre  e Salve Regina  e una lunga litania di invocazioni ai santi. Anche in Italia la corona del Rosario e la stessa preghiera del Rosario sono state usate qualche volta nelle manifestazioni politiche, al mondo degli irlandesi, in genere in polemica con le correnti politiche anticlericali e antireligiose. Non lo si era mai fatto contro principi proclamati dalla dottrina sociale. Sarebbe stato considerato blasfemo. Ai tempi nostri sembra diverso. La religione ha meno presa sociale. Il rinnovamento della catechesi aperto nel 1970 ha prodotto cambiamenti importanti, ma, in genere, confinati all’interno degli ambienti religiosi. Da qui una certa disinvoltura. Non si ha più chiara consapevolezza, ad esempio, di ciò che è la preghiera del Rosario, un po’ come accaduto per il  presepe. Molti, l’ho constatato, si trovano in difficoltà se si cerca di richiamare alla loro memoria le parole delle preghiere usate nel Rosario, insomma addirittura non sanno più l’Ave Maria e via dicendo. Ma la difficoltà si estende ai principi religiosi che ci sono dietro la preghiera e mi pare che non ci si scandalizzi più di tanto di certe imprecisioni in merito, diciamo così. I vescovi se ne lamentano, così come di altro in materia di valori che non segue il loro insegnamento.
Leggo sul sito dell’agenzia di stampa SIR che ieri, nel corso di una conferenza stampa, mons. Nunzio Galantino avrebbe dichiarato:
“Esiste l’alternativa allo sciacallaggio economico e politico, anzi pseudopolitico” ed è la “bella lezione” che viene dall’esperienza dei corridoi umanitari. Lo ha detto oggi all’aeroporto di Roma-Fiumicino mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, accogliendo i 113 profughi dai campi etiopici arrivati tramite i corridoi umanitari promossi dalla Chiesa italiana grazie ad un protocollo d’intesa con lo Stato italiano. “A quelli che fanno sciacallaggio economico chiedo: come fate a sfruttare queste situazioni? Queste persone? Queste storie?”, si è chiesto. Rivolgendosi poi a chi fa “sciacallaggio politico anzi pseudopolitico” sui migranti, soprattutto in vista delle elezioni, ha lanciato una proposta: “Dopo che avete raccattato quei quattro voti in più, andate in giro per l’Italia a visitare i centri Caritas, i centri dello Sprar o della Comunità di Sant’Egidio e guardate negli occhi queste persone e bambini: ditemi se potete continuare a speculare ancora sulla storia di queste persone”.
  Come si fa a conciliare propositi violenti con i principi religiosi? Ma è cosa che si è fatta a lungo e senza tanti problemi! La storia ce lo insegna. La pace come obiettivo politico dell’azione religiosa, quindi come principio di dottrina sociale, è cosa piuttosto recente. Una pedagogia religiosa di pace è tra gli obiettivi indicati dal Documento di base. Vi si legge:
La Chiesa è missionaria
8. Tutta la Chiesa è missionaria, in forza della stessa carità con la quale Dio ha mandato il suo Figlio per la salvezza di tutti gli uomini. E unica è la sua missione, quella di farsi prossimo di tutti gli uomini e di tutti i popoli, per diventare segno universale e strumento efficace della pace di Cristo.
  Sono passati ormai quasi cinquant’anni del Documento di base. Colpisce che ancora non ci si scandalizzi dall’accostamento tra violenza sociale e religione. Sembra che ci sia ancora molto da fare in questo campo per approfondire una religiosità che qualche volta appare un po’ superficiale.
  Nel frattempo la lotta armata in Irlanda sembra cessata, anche se sono ancora molto vive le tensioni sociali che la originarono e la alimentarono tanto a lungo. E’ stato molto difficile uscirne. Cacciarsi nei Troubles  era stato, tutto sommato, molto più semplice.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

lunedì 26 febbraio 2018

Macchine pensanti

Macchine pensanti





[dal WEB: la tecnologia, con l'automazione, libera la donna dalla fatica spaventosa di lavare i panni a mano]

 Che cos’è il pensiero? Ognuno se ne fa un’idea, perché noi pensiamo. Siamo inclini a riconoscere il pensiero anche agli esseri viventi che ci sono più simili e, in particolare, a quelli con i quali più frequentemente interagiamo e sembrano capirci, ai nostri animali domestici. E’ una facoltà che ci appare collegata alla nostra vita biologica. La scienza ne riconduce l’origine al sistema nervoso. Le piante, gli animali più semplici, gli organismi unicellulari non ci sembrano poter pensare. Eppure certe volte ci riferiamo a loro come a esseri pensanti. Ma lo facciamo anche con le cose. Ce le immaginiamo pensanti. «L'opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia.», si legge nel salmo 18.
 Il pensiero ci caratterizza, ci crea un volto, manifesta un’anima. Quando la nostra biologia si arresta, col pensiero sembra che s’involi anche l’anima.  Se sezioniamo l’interno dell’essere vivente, come si fa nella autopsie, nelle quali un corpo che fu vivente viene smembrato nelle sue parti per studiarlo, non si coglie né il pensiero né l’anima. Il corpo di un individuo, all’interno, non appare diverso da quello di un altro, nei suoi fondamentali. Visto così diviene impossibile ricondurlo alla precisa individualità del  vivente che fu, dargli un nome, se era il corpo di un umano. Un allevatore può arrivare a chiamare per nome le bestie che cura, ma quando sono sul banco del macellaio, divise nelle varie loro parti, non ne è più capace. Così noi appariamo sul tavolo autoptico, dopo la sezione. Eppure quelle parti che osserviamo separate sul tavolo settorio, funzionavano, lavorando insieme, esprimendo pensiero e anima. Costituivano la parte materiale di ciò che era immateriale. Accade anche per i nostri computer elettronici. Abbiamo difficoltà a pensare i nostri organi come parti di una macchina, perché di quest’ultima parliamo a proposito dei congegni costruiti e non degli esseri vivi prodotti dall’evoluzione naturale. In futuro questa distinzione, per la quale ci viene facile dividere le macchine dagli organismi viventi potrebbe sfumare abbastanza. Sotto certi profili macchine pensanti sono già tra noi: siamo noi. Ma la scienza appare impegnata a perfezionare quelle costruite in modo che ci siano abbastanza simili nelle facoltà superiori, ma con competenze, abilità, molto superiori a quelle degli organismi viventi. Lo scopo, ci avvertono, non è  però quello di sostituire l’umanità, di rendere indipendenti da noi le macchine pensanti. Si tratterebbe di una specie di apocalisse, non in senso religioso ma in quello di resa dei conti, catastrofica per noi, tra umani e macchine, che non trova fondamento nella realtà scientifica e tecnologica come oggi la si osserva. Lo scrive Jerry Kaplan, nel libro Intelligenza artificiale - Guida al prossimo futuro, del 2006, oggi pubblicato in Italiano da LUISS University press, €14,00, una lettura interessante che vi consiglio, adatta a chi sta frequentando la scuola secondaria o l’abbia terminata. Gli argomenti? Che cos’è l’intelligenza artificiale (abbreviata in AI), come si è giunti a pensarla, quali sono gli obiettivi di coloro che la stanno progettando, quale legge sociale dovremo darle, se toglierà il lavoro agli umani, chi ne beneficerà, se potrà provare a sostituire l’umanità, se quest’ultima potrebbe utilizzarla per raggiungere l’immortalità.
  Il nostro pensiero è confinato nella nostra mente, ha limiti biologici da cui ne derivano di cognitivi. Siamo macchine pensanti limitate. Quelle artificiali che si stanno progettando dovrebbero innanzi tutto aiutarci a superare quei limiti. Di fatto utilizziamo stampelle di questo tipo utilizzando i nostri smartphone (=parola che significa telefono intelligente), i dispositivi che stanno piuttosto rapidamente evolvendo verso l’intelligenza artificiale, integrandosi molto strettamente con noi. Usandoli ci sembra di superare noi stessi, e sotto certi profili è vero. Però, a nostra volta, ne siamo limitati e, in particolare, condizionati. Il tempo in cui siamo connessi artificialmente è sottratto ad altri tipi di relazioni. E le relazioni filtrate dai dispositivi che abbiamo tra le mani sono organizzate da altri, nelle mani dei quali mettiamo sempre più larga parte di noi stessi. Questo accresce il loro controllo su di noi. I sistemi di intelligenza artificiale daranno più potere a chi riuscirà a controllarli. Questo richiederebbe un intervento dei poteri democratici per regolarne l’uso e questo è molto difficile da realizzare. I poteri telematici si presentano come un perfezionamento della democrazia, perché consentono relazioni di tipo nuovo e molto veloci, ma, in quanto difficilmente limitabili, sono l’antitesi dei processi democratici, che si basano su limiti fondati su valori. Ma attualmente lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, seppure molto veloce, è ancora lontano dalle potenzialità raggiungibili. Però, ad esempio, sistemi di intelligenza artificiale interagiscono nei mercati finanziari. E l’esercizio di un potere di tipo telematico è stato, secondo molti commentatori, all’origine della sorprendente affermazione dell’attuale presidente statunitense Donald Trump nella campagna elettorale del 2016. Un potere potenziato integrandovi un’intelligenza artificiale e strumenti telematici arriva a sapere delle masse molto più di quello che qualunque altro potente abbia mai saputo di esse e a controllarle in maniera molto più invasiva che mai. Esso in genere opera senza essere percepito da coloro con i quali entra in contatto. Questi ultimi ritengono di esserne potenziati, nel mentre in realtà ne risultano controllati. Chi ha interagito in rete negli ultimi anni, praticamente gran parte di chi abita nelle nazioni sviluppate, ad eccezione dei più anziani, si è abituato a subire questo condizionamento lieve nelle forme ma incisivo nei risultati. Ci siamo abituati, ad esempio, a vederci sottoposti libri su temi affini a quelli che abbiamo già comprato in rete: questo lavoro, che viene fatto automaticamente non da piazzisti umani, richiede una capacità sofisticata di conoscerci e capirci; in molti casi le proposte che ci vengono fatte sono azzeccate. Se dal commercio si passa alla politica i risultati sono analoghi.
  Si pensa che il problema più rilevante che deriva dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale e dalle sue applicazioni nei processi industriali e amministrativi sia quello della perdita di posti di lavoro di coloro le cui competenze sono superate dall’automazione, come è accaduto dalla prima rivoluzione industriale, quella dalla fine del  Settecento. Ma si tratta di molto più di questo. Sono i processi politici quelli che appaiono più suscettibili di esserne influenzati. Sono sviluppi che furono immaginati in due romanzi di fantafuturi, che consiglio di leggere, o di rileggere, per farsi un’idea di ciò che potrebbe essere in gioco: Il mondo nuovo,  di Aldus Huxley, e 1984, di George Orwell. Narrano storie pessimiste nei confronti di ciò che verrà. In realtà, ci avvertono i sociologi, i risultati sociali delle innovazioni dipenderanno dal controllo politico che si riuscirà ad ottenere su di esse. Come è successo per le macchine più semplici, a partire dalle nostre automobili e dagli elettrodomestici di uso comune, i progressi dell’automazione ci libereranno dai lavori più faticosi e noiosi, come era quello del lavare a mano i panni in casa sull’asse di legno applicata alla vasca da bagno o al lavatoio pubblico dei paesi, al quale ancora le nostre bisnonne, o madri e  nonne per i più anziani, non borghesi erano asservite (le altre avevano chi faceva per loro quel lavoro, che comunque andava fatto in quel modo).  Ricordo, da bambino, le donne di Palestrina, qui vicino a Roma, che perdevano alcune ore della mattina per recarsi alla vasca  pubblica in paese con i panni da lavare tenuti in una tinozza metallica che portavano in equilibrio sulla testa.
 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


domenica 25 febbraio 2018

Ambiguità della via religiosa. La religione che fa soffrire ingiustamente va corretta

Ambiguità della via religiosa. La religione che fa soffrire ingiustamente va corretta 

  Gli antichi europei, prima di venir pervasi dalla nostra fede, erano già molto religiosi, come anche gli altri popoli del mondo di quei tempi di cui abbiamo notizia. Costruivano grandi templi e statue alle loro divinità, diverse dalla nostra. Parlavano dei loro dèi nelle loro tradizioni orali, nei poemi, nelle opere teatrali  e anche nei loro scritti filosofici. Le divinità adorate dai nostri progenitori erano piuttosto simili agli umani, con i loro stessi difetti e virtù. I loro capricciosi dèi accordavano il favore a chi volevano, arbitrariamente, e pretendevano non solo fedeltà rituale, liturgica, ma gravi contraccambi, come erano i sacrifici, la distruzione di beni e vite per offrirli alle divinità, per placarne la rabbia e assicurarsene la benevolenza. Non si metteva in dubbio l’esistenza di quegli dèi, come oggi non si dubita del potere del fato, definito anche fortuna o sfortuna, nel determinare gli eventi umani (ne invocano il favore i giocatori alle varie lotterie istantanee, ogni volta che gli offrono il loro obolo  comprando un biglietto, e quelli che si travagliano l’esistenza con le macchinette mangiasoldi). C’era una certa coerenza tra le cose del Cielo e quelle della Terra. La legge della natura era tutto sommato anche quella del mondo soprannaturale. Tutto si complicò con l’affermarsi della nostra fede.
   La concezione di una divinità  misericordiosa artefice e regolatrice dell’universo, quindi della natura e dell’umanità, della storia e di ogni altro evento, contrastava con l’esperienza, che appariva dominata dalla spietata legge della forza. Da qui uno sforzo per cambiare la società e, mediante essa, per cambiare anche quella parte della natura che costituiva l’ambiente di vita dell’umanità, e la necessità di provare  l'esistenza della divinità, che prima era apparsa evidente, vale a dire non bisognosa di prova. Le grandi cattedrali europee del Medioevo sono la rappresentazione di questo grande anelito ideale di trasformazione del mondo. Le democrazie contemporanee rimangono il punto più avanzato di questo processo. Poterono affermarsi solo dopo aver liberato le religione dall’ultimo servaggio, quello del potere politico, desacralizzando quest’ultimo e rendendone possibile la libera critica anche su base religiosa. In questa prospettiva la religione, e la società in cui vive e che anima, sono vie di liberazione: dai limiti della finitezza umana, dalla crudele legge di natura, dal bisogno, dalla tirannia della forza, da ogni tirannia che voglia affermarsi mediante la politica, l’economia, la sudditanza psicologica o sociale e anche mediante la religione. L’unica legge suprema riconosciuta ha un nome: misericordia. Si tratta però di un ideale ancora non completamente raggiunto, e anzi sempre minacciato dal regresso verso il passato. Infatti, storicamente, le antiche religioni  non sono mai morte, ma hanno subìto una metamorfosi venendo inglobate nelle nuove liturgie. Da ciò un’apparente ambiguità della via  religiosa. Si cerca di risolverla ragionandoci sopra, mediante la teologia, ma quest’ultima è cosa da intellettuali, la gente ne è  poco toccata, ha difficoltà a comprenderla e ne diffida anche, perché le appare divisa, portatrice di concezioni diverse e a volte opposte. E tutte le prove  dell'esistenza della divinità si sono mostrate non veramente convincenti, di fronte all'evidenza  che si stava cercando di provare colui che, è scritto, nessuno ha mai visto.  Di fatto, ogni concreta esperienza religiosa deve risolvere in qualche modo questi problemi.
  Si è nel campo dell’antica religione tutte le volte che ci si aspetta uno sviluppo prodigioso degli eventi come conseguenza meccanica di riti o sacrifici. Si è fuori della religiosità della misericordia quando si asservisce la gente alla forza, ad esempio mediante la pressione sociale  e il dominio psicologico. In questo quadro, la via comunitaria presenta diversi rischi. La comunità può infatti dominare le persone tirannicamente e, al suo interno, possono emergere poteri arbitrari in quanto, di fatto, senza limiti. La comunità vale finché rimane strumento. Se ne può accertare sperimentalmente la natura buona o deviante: va bene se uscendone si può comunque rimanere religiosi. Se invece l’unica religiosità ammessa è quella vissuta al suo interno, si è di fronte ad una comunità tirannica, che va in direzione divergente a quella della fede di liberazione. Una comunità di questo tipo ammetterà solo iniziati, vale a dire persone che si siano solennemente impegnate alla fedeltà verso di essa all’esito di un vaglio iniziale. L’uscita da essa, che realizza una liberazione della persona dalla tirannia comunitaria, verrà vissuta con sentimento di emarginazione sociale perché i suoi membri tenderanno a rompere i rapporti con il fuoriuscito. Questo modo di vivere comunitariamente la religione va corretto. Nella nostra confessione è compito che spetta ai vescovi e ai sacerdoti loro collaboratori e a nessun altro. E’ un lavoro tanto più urgente nel caso di coabitazione di vari tipi di comunità in un ambiente comune, come è una parrocchia. Ma le cronache periodicamente raccontano brutte storie di sopraffazione accadute in comunità esclusive che facevano vita separata; ne ho letta proprio ieri una sul quotidiano. Il giornalista lamentava una certa disattenzione dell’autorità religiosa. In effetti, in una confessione come la nostra, ordinata gerarchicamente, certe cose possono accadere solo per trascuratezza o  addirittura tolleranza da parte dell’autorità.
  Di fatto sono esistite ed esistono esperienze religiose che nei principi organizzativi e nei metodi contrastano con l’ideale della misericordia. C’è stata e c’è ancora, ad esempio,  una religiosità di tipo razzista. Gli adepti dello statunitense Ku Klu Klan usano radunarsi intorno a grandi croci infuocate. Nell’Europa orientale è stato, ed è ancora, vivo un antiebraismo su base religiosa. C’è chi sacralizza la proprietà e ne considera irreligioso ogni limite a fini sociali. Ci sono quelli che sacralizzano la propria nazione a discapito delle altre. Wikipedia ricorda che nel 1953 il papa Eugenio Pacelli, Pio 12°, concesse al generalissimo falangista spagnolo Francisco Franco, dal 1938 capo dello stato dopo aver vinto una crudele guerra civile con l’appoggio dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi, l’Ordine supremo di Cristo, la massima onorificenza pontificia. Diversi spietati despoti fascisti latino-americani sostennero di agire in difesa della religione, minacciata dal socialismo ateo.  In Italia ci sono correnti religiose che considerano con sfavore gli immigrati giunti tra noi, in particolare quelli islamici, e in questo non vedono alcun problema per la loro fede: furono appunto questioni di questo tipo che, a Bologna, mi parvero motivare la lunga emarginazione di mio zio sociologo Achille Ardigò, un tempo ascoltato profeta, da parte della Chiesa cittadina, avendo egli, fra l’altro,  polemizzato su un quotidiano con l’Arcivescovo, scrivendo  nel 2001, su La Repubblica:
«Sebbene non invitato da anni a portare un contributo ai convegni culturali e religiosi della diocesi di Bologna, sento di dover raccogliere comunque con questa lettera aperta affidata alla cortesia di questo giornale alcune parziali aperture al dialogo del card. Biffi.
Eminenza! Mi riferisco al testo del suo intervento al convegno su Multiculturalità e identità oggi.
[…]
Tale suo riconoscimento alla complessità del tema immigrazione induce pure alcuni di noi che abbiamo dissentito pubblicamente dalle sue precedenti posizioni a dare più attenzione alle sue raccomandazioni circa i doveri dello Stato per maggiori responsabilità selettive nei confronti degli immigrati. Con un solo dissenso, che rimane forte: la Chiesa cattolica non può esigere dallo Stato che introduca la preferenza per gli immigrati di religione cattolica. Semmai può chiedere che lo Stato non discrimini gli immigrati cattolici.
Mi permetta in proposito una citazione. Lei nel 1997 ha concluso la presentazione di un prezioso volume di discorsi e scritti di Giuseppe Dossetti, con queste parole: "tutto quello che è di don Giuseppe è prezioso." Ebbene , in quel volume La parola e il silenzio, Giuseppe Dossetti a p.223 diceva tra l'altro: "Bisogna ascoltarli, gli immigrati... anche se molto diversi da noi. Se voi accogliete un uomo come uomo e come fratello non vi verrà altro che del bene; se voi lo accogliete con riserva e mettete una certa barriera e vi volete difendere da lui, preparate la disgrazia per voi..".»
 Ieri, al Seminario arcivescovile, la Diocesi e l’istituto De Gasperi hanno organizzato un convegno per ricordarne la figura. La frattura ora sembra quindi superata.  Di casi simili è però piena la nostra storia religiosa, fin dall’antichità. Farne memoria a distanza di tanto tempo dopo la morte di chi li subì  è utile per cercare di non ripeterli, ma sarebbe più virtuoso intervenire prima, per fare le correzioni che servono, evitando tanta sofferenza.
 La religione può far soffrire ingiustamente? Certo. E’  l’esperienza storica che ce lo conferma. Una religione così va corretta e, se non si riesce a correggerla, va combattuta apertamente.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


sabato 24 febbraio 2018

Negare il conflitto non è la soluzione

Negare il conflitto non è la soluzione

  Nella pratica ecclesiale si è portati a negare i conflitti, perché ritenuti sconvenienti. In questo modo ne diviene impossibile la soluzione. In una parrocchia si finisce così per essere nelle mani del parroco, che diviene l’unico artefice del precario equilibrio tra i gruppi. Può andare bene, può andare male. Se va male ci si trasferisce, si migra altrove. Questo appunto è accaduto nella nostra parrocchia in anni passati, dai quali però ci stiamo velocemente distanziando.
  Non è possibile risolvere i conflitti lasciando tutto com’è. E’ infatti proprio questo che li ha generati.
  Il problema di solito è il poco rispetto per le persone. Si tende ad andare per le spicce, a tagliare corto. Certo, a lasciar  fare si può arrivare a punti morti, perché in religione c’è molta immaginazione, e quando le si lascia campo libero crea problemi. Ciascuno immagina la sua, come si fa a creare unità? Ci si schiera per questo o per quello, come si legge che accadeva anche ai tempi apostolici. Emergono i più disinvolti e appena conquistano spazi di potere diventa difficile contenerli. Il potere corrompe a tutti i livelli, se non si è imparata una severa disciplina morale.
  Che cosa si cerca in religione? Ognuno ha le sue esigenze. Consolazione, esaltazione, amicizia, arricchimento culturale, una guida morale nella vita, addirittura la guarigione spirituale o fisica, il miracolo. E fin qui sono cose destinate a sé stessi.  Se si punta solo a quello, in genere si rimane delusi. La religione ci  è indispensabile perché siamo esseri finiti, di breve durata, ma per tirare avanti come società abbiamo necessità di ragionare come se non lo fossimo. Per via religiosa ci affranchiamo dalla brutale legge di natura, secondo la quale prevale il forte, finché rimane tale. Ci siamo elevati dal mondo animale a quello spirituale. L’anima è ciò che ci distingue. I teologi ne hanno un’idea, che si è evoluta. Ma ognuno può capire sperimentalmente che cos’è. E’ ciò che manca al cadavere rispetto all’essere vivente che era. Ci pervade, ma pervade anche l’ambiente intorno a noi. Entrando nella stanza di uno che è morto la si percepisce diversa. Se non diamo spazio all’anima, soffriamo, soffre la nostra anima prima che il corpo. La religione è questo. Trasforma la società intorno nel lavoro che fa, in modo da fare spazio all’anima. Non ogni società le è adatta. E’ per questo in religione si cerca di trasformare ciò che non va.
  La religione è un lavoro collettivo, altrimenti non funziona bene. Ecco perché si deve cercare di andare d’accordo. Storicamente  è stato molto difficile. E’ dipeso dalla politica, naturalmente, ma anche dalla gente, dalle loro anime. Se ci si riesce a convincere che è la misericordia la via giusta, si incontrano meno difficoltà. L’apporto della nostra fede nel panorama delle antiche religioni fu sostanzialmente questo, e lo è ancora. Gli antichi erano molto religiosi, anche se noi, presuntuosamente, diamo loro dei pagani.  Ma i loro dèi in genere non erano misericordiosi, li tiranneggiavano, richiedevano gravi sacrifici per accordare il loro favore, a volte crudeli, omicidi.
 Misericordia  è uno dei significati che si può dare al termine del greco antico agàpe, il lieto convito in cui ce n’è per tutti e nessuno è escluso. La nostra fede non è questione di parole, ce ne rimproverava Paolo di Tarso quando la si riduceva a questo, ma innanzi tutto agàpe. Così, per cominciare a conoscersi e a fare pace, non c’è nulla di meglio, per cominciare, che ritrovarsi in una vera festa. Quest’ultima dovrebbe avere  una sua liturgia, per fare in modo che ognuno vi si senta accolto. Se fate memoria delle feste che si sono fatte da noi, non sempre è accaduto. Se ne occupa anche il galateo. Ci dovrebbe essere un maestro di cerimonia, che fa il lavoro di un direttore del coro, facendo in modo che nessuno rimanga isolato.
  Ma come fare quando si ragiona sui grandi numeri, nella dimensione delle centinaia, non più delle decine?  Non è sbagliato, allora, organizzare incontri per gruppi più piccoli. Purché non diventino sedi per iniziati, ad accesso limitato. Ora che siamo in tanti di più, capiamo che non sarebbe stato sbagliato, negli anni ’90, pensare a una chiesa parrocchiale un po’ più grande. E’ vero però che, quando si è in troppi, come nei grandi raduni nei quali  si va dal Papa, non ci si incontra veramente. Chi guarda la massa non ne riesce a cogliere le individualità. Chi guarda l’uomo per il quale si è convenuti insieme ha l’illusione di avere una relazione con lui, ma non è così. La via d’uscita potrebbe essere quella di introdursi in vari incontri amicali, una certa circolarità nelle esperienze associative, non stare sempre tra le stesse persone. Questo però richiede, come nei cori, nella musica polifonica, uno spartito che sia come una linea guida, dia l’orientamento. In genere non si fa così, ciascuno sta tra i suoi e finisce per diffidare degli altri, non conoscendoli a sufficienza. L’equilibrio sociale dovrebbe sorgere dalla base, dalla mutua conoscenza e stima, non essere legato solo all’autorità. Questo  è ciò che definiamo un processo democratico.
  Democrazia è stata a lungo una parolaccia in religione, sospetta di eresia. “La Chiesa non è una democrazia!”,   sbotta  qualcuno, pensando che sia ovvio e un bene, non una tara sociale. Eppure la concezione moderna della democrazia, come sistema di limiti basati su diritti e valori umani universali, ha chiara matrice religiosa. Nessuno deve finire completamente in mani altrui. Perché? La legge di natura non avrebbe obiezioni: per essa il grosso e forte mangia il piccolo e il debole. L’anima soffre in una società organizzata così. Oggi, poi, può toccare agli altri soccombere, ma un domani potrebbe toccare a noi. Un animale finisce per rassegnarsi, un umano no.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

venerdì 23 febbraio 2018

L’origine della frattura e le vie della pace

L’origine della frattura e le vie della pace

   Ho cercato di descrivere il problema della nostra parrocchia: la compresenza di due società religiose separate e non comunicanti. La parrocchia come realtà sociale della gente di fede del quartiere si era andata annichilendo e si era sviluppata l’altra, composta di una confraternita di  circa trecento persone, tra le quali molte di fuori. La nuova chiesa parrocchiale era stata pensata per loro, infatti ora che sono tornati gli altri ci appare piccola. Addirittura, ad un certo punto, si decise di ridurre i posti a sedere costruendo l’attuale grande altare in mezzo ai fedeli, non più nel presbiterio.
  Dall’ottobre 2015, nel nuovo corso, si è ridato spazio alla gente del quartiere, che è tornata numerosa. C’è l’oratorio per i più piccoli, ci sono gli scout e l’Azione Cattolica Ragazzi, un nuovo coro che ha introdotto un  nuovo canzoniere, c’è il gruppo giovani, il lavoro del catechismo è stato rimodellato  e ci sono  tante altre iniziative, tra le quali ora gli incontri in Quaresima per cercare di guarire i mali spirituali della comunità. Si sono fatti, e si stanno facendo, lavori per recuperare spazi che erano stati sostanzialmente dismessi perché inutili per la poca gente che veniva. In definitiva si è visto che l’idea di una generale apostasia del quartiere, per cui occorresse sostituire e non sostenere, non era realistica.  Per circa trent’anni ci si è mossi immaginando di dover adottare l’ideologia tribale degli antichi israeliti giunti nella Terra promessa, quella appunto della sostituzione.
   La situazione ora è iniziata a cambiare. Tuttavia è rimasto il problema della coabitazione, in equilibrio precario, di due collettività distinte, diffidenti l'una dell'altra, quella fatta prevalentemente della gente del quartiere animata da un certo risentimento verso l’altra e quest’ultima con diversi  e radicati pregiudizi negativi verso la prima. La gente del quartiere trova ora in parrocchia quello di cui ha bisogno e che per tanti anni non ha avuto, quello che, ad esempio, io ho avuto e le mie figlie no, ma quando le due società compresenti sono costrette ad accostarsi, perché non possono non farlo in quanto vi sono esigenze liturgiche che costringono a ritrovarsi insieme, sprizzano scintille. In questo quadro la principale occasione di conflitto è la Settimana Santa, che la confraternita vorrebbe improntare ai suoi particolari costumi liturgici, mentre gli altri ne sono fortemente insofferenti. I contrasti sono molto accesi riguardo alla Veglia pasquale. Due  cose urtano molti: il cercare di prolungarla eccessivamente, tendenzialmente dal tramonto all’alba del giorno successivo, e i costumi troppo chiassosi, che ostacolano la meditazione. Comprendono anche una sorta di balletto collettivo, ad imitazione di un costume ebraico. Ma, tutto sommato, questi sono dettagli, particolarità, che in sé, con un po’ di buon senso e di tolleranza, semplicemente con un po’ di buona educazione, si potrebbero superare. E’ quello che si è tentato di fare dalla Pasqua del 2016. La questione, in realtà, è molto più seria. In genere non se ne ha più chiara consapevolezza. L’approfondimento storico non rientra ancora nel percorso di formazione religiosa, e invece dovrebbe.
  Bisogna capire che, fino agli anni  Trenta del secolo scorso, si riteneva che il  Cielo scendesse sulla Terra attraverso la gerarchia del clero. Al vertice: il Salvatore. Poi c’era il suo plenipotenziario terreno, il Papa. E poi, a scendere, in un ordine rigido basato sull’impegno di obbedienza e dedizione verso i superiori, tutto il clero e i religiosi laici, suore e frati, monaci e monache. La salvezza soprannaturale si diffondeva per quella via. Il popolo, tutta l’altra gente, il laicato, doveva appiccicarsi alla gerarchia per beneficiarne, superando in tal modo i guasti di un’esistenza considerata in sé imperfetta, in particolare perché permeata di avidità di potere e ricchezza   e  di  lussuria. I poteri civili erano considerati legittimi se trovavano un’intesa con quelli religiosi. Raggiuntala, si esercitava una sorta di condominio sul popolo e quest’ultimo doveva fedeltà e obbedienza  ad entrambi. Questo il quadro ideologico del compromesso raggiunto nel 1929 dal Papato con il Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano, a chiusura di un’estenuante controversia apertasi con la conquista militare di Roma e la fine del piccolo Regno pontificio nel 1870. Infine, si pensò all’ordine famigliare come a un severo contenimento delle cattive inclinazioni del laico: gli si diede carattere gerarchico ad imitazione di quello del clero, centrato intorno ad un maschio dominante, il padre, al quale gli altri componenti della famiglia, moglie e figli, si dovevano sottomettere. Dovunque, l’autorità garantiva i buoni costumi.
  Dagli anni ’30 del secolo scorso, a seguito del prodursi, nel ventennio precedente, di potenti dinamiche di massa che resero evidente l’importanza che avevano i popoli per la conquista e il mantenimento  del potere, e quindi l’importanza di un indottrinamento della gente, non bastando più la pretesa di obbedienza ma essendo necessario promuovere un intenso attivismo, si prese coscienza di quella che fu chiamata una crisi di civiltà, di un cambiamento di fase storica. Si capì che, non adeguatamente formate, le masse finivano nelle mani dei despoti. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale si comprese che, se masse adeguatamente formate avessero avuto voce nel quadro di  processi democratici, probabilmente si sarebbe evitato un disastroso conflitto generale. Anche in religione si aprì la riflessione sulla democrazia e sulle sue dinamiche. La dottrina sociale ne fu profondamente influenzata e rivista. Si dichiarò il senso religioso delle attività sociali, ma anche della vita laicale. Lavorare per trasformare in meglio la società fu visto come una via religiosa di perfezione, addirittura di santità. Non bastavano direttive dall’alto del clero, per via gerarchica, occorreva che i laici collaborassero secondo la loro particolare competenza. La famiglia non fu più vista come forma di contenimento dell’avidità e della lussuria, ma anch'essa come via di perfezione, nonostante che la sessualità, vietata a clero e religiosi, vi avesse una parte importante tra i coniugi. Poiché il lavoro in società era necessariamente collettivo, se voleva valere a qualcosa in particolare attraverso le dinamiche democratiche, ne conseguì una rivalutazione del valore della società civile, non più vista come forma di condominio tra poteri religiosi e civili di tipo autarchico e autocratico, vale a dire che trovavano in sé stessi l’unica giustificazione, ma come ambito di svolgimento della personalità umana. Infine, dopo il Concilio Vaticano 2°, la grande svolta: il collegamento tra evangelizzazione e promozione umana, quest’ultima vista come modalità attuativa della prima. La Chiesa iniziò a cambiare, come molte volte era accaduto nella sua ormai bimillenaria storia e, come sempre, insorsero componenti reazionarie e conservatrici, di chi voleva tornare a ciò che c’era prima e di chi voleva che non si andasse oltre. In questo quadro si inserisce il lungo regno del papa Giovanni Paolo 2° , il polacco Karol Wojtyla, iniziato nel 1978 e prolungatosi fino al 2005.
  In Polonia, dall’affermazione del regime comunista, nel 1947, la Chiesa aveva costituito un contropotere politico. La sua organizzazione e azione erano state scarsamente permeate dalla svolta prodottasi in religione nell’Europa occidentale. Isolata e perseguitata da una politica civile ostile, la Chiesa era rimasta sostanzialmente quella di prima, stretta intorno alla gerarchia del clero, in particolare intorno al suo Primate e ai suoi vescovi. La sua pretesa fondamentale era di poter mantenere spazi sociali separati e auto-organizzati, liberi dall’ingerenza dei poteri civili. Per resistere si era organizzata come realtà di popolo caratterizzata da un’assoluta e plateale fedeltà ai principi religiosi e alla liturgia. La resistenza coinvolgeva anche moltissimi giovani: era tutto un popolo che appariva schierato dietro alla gerarchia religiosa, in opposizione ad un’ideologia atea, anticlericale, antireligiosa, autoritaria in politica, permissiva per quanto riguardava i costumi sociali. Questa realtà popolare, che poi negli anni ’90 rapidamente mutò, tornata la democrazia, trasformandosi nell’antico nazionalismo, affascinò i reazionari religiosi dell’Europa occidentale, in particolare in Italia: vi videro la realizzazione degli insegnamenti della prima dottrina sociale, quella marcatamente anti-socialista, e la possibilità di rigenerare, per quella via, la società religiosa occidentale, nella quale la sperimentazione post-conciliare sembrava avere come risultato la dispersione del gregge e l’inquinamento della fede. Vi furono movimenti che all’esperienza polacca si ispirarono, da noi, ad esempio, Comunione e Liberazione, vivacemente contrastati da altre componenti del ricco mondo cattolico italiano. Si parlò di cultura della presenza, la via polacca, e di quella della mediazione, la via dei cattolici democratici. La prima voleva ricostruire una società organica intorno alla religione, fatta di modi di pensare e d costumi, per resistere  contro una società civile fattasi ostile e per influirvi con la forza del numero, la seconda pensava di migliorare la società intorno infondendovi valori religiosi cercando di far capire quanto di essi c’era in quelli civili, ad esempio in quello della pace o in quelli che erano alla base dell’affermazione dei diritti fondamentali della persona costitutivi delle democrazie avanzate contemporanee.
   Sotto il regno di papa Giovanni Paolo 2° tutti i movimenti che si ispiravano alla cultura della presenza apparvero largamente preferiti. All'inizio degli anni '80, al momento del pensionamento del parroco don Vincenzo Pezzella, che aveva retto la parrocchia dalla sua costituzione negli anni '50, si ebbe da noi la svolta di cui ora vediamo gli effetti. Si trattò di un processo durato una decina d'anni. 
  Ora, la confraternita che da noi affianca la parrocchia, e coabita con essa, segue una particolare via della cultura della presenza, una via estrema, quella della completa separazione dalla società intorno e della sfiducia verso di essa. Mentre un movimento come Comunione e Liberazione si propone di influire sulla società politica mediante la presenza di una cultura, intesa come insieme di modi di pensare, di vivere e di relazionarsi, con forte base popolare, essa vorrebbe separare per preservare. Vede il mondo intorno come animato da pulsioni di morte, il regno del male. Si è fortificata, corazzata, blindata, insomma chiusa, in una federazione di famiglie ordinate intorno ad  autorità paterne, secondo le antiche indicazioni. Come gli antichi israeliti vede nelle relazioni sociali con gli altri una fonte di contaminazione e di impurità. Questo rende assai difficile ogni mediazione, il dialogo, ogni relazione non puramente formale. Anche perché le persone che si sono affidate a quella via ne sono divenute dipendenti, per via dell’intensa solidarietà che la permea, e per questo temono i cambiamenti, in particolare quelli che possano incidere sulla coesione fraterna. Perché non è riuscita ad affermarsi nel quartiere? Fondamentalmente perché è una via estrema e non le riesce bene di integrare le differenze che si presentano in società. Pretende una certa uniformità. Legittima in sé, come via di perfezione, come altre esperienze analoghe del passato, ad esempio quelle degli ordini religiosi più rigidi, non ha funzionato quando la si è proposta come unica via per tutti, come non funzionerebbe quella seguita dai monaci trappisti se la si volesse estendere a tutti.
  La vita di noi che viviamo una diversa religiosità appare a quelli della confraternita insipida e manchevole, e non mancano di ricordarcelo quando periodicamente ci fanno i loro appelli a seguirli. Ci raccontano in genere di come prima vivevano come noi e poi hanno incontrato il Maestro in una delle loro comunità e allora la loro vita è cambiata. E’ implicito in questo discorso che la nostra è una fede meno valida. Noi, che ad esempio usiamo farci battezzare e far battezzare i nostri figli per aspersione e non per immersione come loro. E’ come se fossimo un po’ meno battezzati. La vita di noi semplici parrocchiani appare priva di quelle intense emozioni che li motivano e li sorreggono comunitariamente. Siamo, in un certo senso, un pericolo per la loro integrità, che è sorretta da una comunità molto esigente. Vedono in noi, gente che non ha aderito alla loro via, una minaccia, come la vedevano gli antichi israeliti nella contaminazione con le culture intorno. E probabilmente lo siamo, nel senso che ciò che per loro è essenziale, fondativo, motivante, la comunità fortificata nella quale sola, nella loro prospettiva, si può incontrare veramente il soprannaturale, per noi non lo è e seguendo un po’ anche la nostra via, accostandosi e quindi  contaminandosi con noi, probabilmente diventerebbero effettivamente  diversi, come sempre accade in ogni vera e sincera relazione sociale, nella quale si impara gli uni dagli altri, e maggiormente quando si riesce anche a volersi bene.
  Inutile cercare un’intesa per via teologica o ideologica. I modi di pensare in base ai quali i gruppi si autodefiniscono e si caratterizzano  ci separano irrimediabilmente. Non è per quella via che si potrà fare pace.
  Si  potrebbe cominciare da un piano più semplice, e più umano, da quello puramente della buona educazione e della cortesia, che regola le relazioni civili impedendo che le differenze finiscano per provocare continue liti. Nelle occasioni in cui si è insieme: non cercare di egemonizzare e di avere il boccone più grosso, anzi fare spazio agli altri, non cercare di escluderli, e in particolare di scomunicarli di fatto, esercitare tolleranza capendo le ragioni dell’insofferenza altrui, cercare di trovare una via mediana senza colpi di mano, rispettando le intese raggiunte, cercare di raccontarsi con sincerità, da persona a persona, dismettendo ideologie e partiti presi, abbassando un tantino la guardia. La via che ci è proposta quest’anno negli incontri di Quaresima è quella di provare a mischiarci, uscendo dai rispettivi gruppi di appartenenza. Che accadrà? Non lo so. So poco degli altri e penso che anche per loro sia lo stesso. Ciò che ho raccontato di loro qui sopra li ritrae fedelmente o anch’io mi sono lasciato prendere dai pregiudizi? Ho avuto una lunga consuetudine con quegli altri, ma sempre dall’esterno. E’ diverso quando si riesce ad avvicinarsi.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli




giovedì 22 febbraio 2018

Vivere il conflitto sociale in modo non distruttivo

Vivere il conflitto sociale in modo non distruttivo

  Il conflitto sociale non è eliminabile perché dipende da come siamo fatti. Esso consente l’evoluzione sociale e quindi il progresso, ma  può produrre anche regresso, un peggioramento delle condizioni di vita. Accade sempre quando diventa distruttivo. Ciò avviene quando viene a mancare una base di valori condivisi che metta le persone al riparo dell’arbitrio di quelli che di volta in volta riescono ad essere più forti. La religione può contribuire a crearla, ma si è dimostrata insufficiente da sola. La soluzione al problema è la democrazia, il sistema di limiti basato su valori ad ogni potere che tenda al dispotismo, a farsi assoluto e incontestabile.
  In democrazia si vive il conflitto sociale in modo non distruttivo: si salva la società consentendone però l’evoluzione. L’insufficiente assimilazione dei processi democratici ha creato in Italia i problemi di fronte ai quali ancora ci troviamo in religione. Di fronte al conflitto, manifestatosi nel periodo successivo al Concilio Vaticano 2°, tra reazionari e riformatori, si è scelta la via del congelamento dei contrasti, del rifiuto di un dialogo aperto che consentisse il franco confronto, e quindi la coesistenza, delle varie posizioni. La scelta fu imposta dal papa Giovanni Paolo 2°, profondamente diffidente verso il pluralismo religioso che trovò in Europa occidentale all’inizio del suo regno. Riuscì ad affermare su base carismatica una sua autorità di tipo paternalistico, un  papismo  di tipo nuovo, e noi tutti che vivemmo insieme a lui quella stagione ne fummo affascinati e la seguimmo. Il conflitto fu sopito, ma rimase latente. La mancanza di vero dialogo portò i gruppi a trincerarsi. Come accadde nei conflitti etnici nei Balcani, ciascuno fu spinto a migrare verso i suoi simili. Anche le parrocchie soffrirono questo sviluppo, venendo spesso connotate dai gruppi o dal gruppo prevalente. Naturalmente tesero ad affermarsi i gruppi e le spiritualità più apprezzati dal Papa. Alcune parrocchie furono affidate ai movimenti emergenti come prima lo erano state agli ordini religiosi, e si presentarono gli stessi problemi causati da questi ultimi in quell’ambito. Tuttavia, in un certo senso, la situazione talvolta si presentò anche peggiore, per il fondamentalismo di certi metodi. Per circa trent’anni la nostra parrocchia visse una situazione estrema di questo tipo. Non si sarebbe potuta produrre senza l’assenso dell’autorità religiosa, che ne è quindi corresponsabile. Il risultato fu la separazione dell’organizzazione parrocchiale dal quartiere. Ma la parrocchia non è solo organizzazione: è la gente di fede che vive vicina. Quindi, più precisamente bisogna parlare di separazione dell’organizzazione della parrocchia, fatta da chi era rimasto dentro, dalla parrocchia, fatta da chi era rimasto fuori. La gente della parrocchia, in senso sociale, la  gente di fede del quartiere, venne sostituita da gente di fuori e si disse che la parrocchia era di chi ci andava e che quindi andava bene così. La formazione alla fede venne impostata in modo che, ad un certo punto, bisognava decidere se rimanere dentro  o migrare, e molti migrarono nelle parrocchie vicine. Alla fine fu evidente che la gente del quartiere non ci mandava più nemmeno i bimbi per il primo catechismo. Fu a quel  punto che dalla Diocesi si decide di cambiare, con l’occasione dell’avvicendamento per limiti d’età tra parroci. Ho sintetizzato trent’anni di storia senza fare nomi perché so che i fedeli che hanno seguito la spiritualità a lungo favorita in parrocchia hanno molti e accaniti nemici e non voglio mettere parrocchiani, che nonostante le differenze considero comunque amici, nelle loro mani. Ci si odia molto in religione e odia di più chi è fuoriuscito da un gruppo in cui ha creduto. In genere si odia quando si prescinde dalle persone e ci si concentra su questioni di parole, sui costumi, sull’esteriorità, i quadri che si affiggono alle pareti, come si costruiscono e arredano le chiese, come si canta, certe particolarità liturgiche e, infine, su una specie di teologhese, un gergo di aspetto teologico che della vera e grande teologia è solo una brutta copia. Io sono ben consapevole che le persone in parrocchia dalle quali mi divide una certa spiritualità sono comunque persone buone e non voglio fare a meno di loro, né far loro del male, farle soffrire. La nostra dovrebbe essere una religione che salva: se induce solo ad odiare, non serve nulla, e allora avrebbero  ragione i suoi critici sulla base di una lunga esperienza storica negativa. Si tratta, allora, di costruire un’altra storia.
  Prendere atto del conflitto, farlo emergere, è il primo passo per superarlo, ma non basta. Bisogna anche volere la pace. Per fare pace occorre smobilitare l’ideologia e incontrarsi tra persone cercando di conoscersi meglio. L’ideologia serve ad avere una visione sommaria della società, non potendola conoscere nei dettagli per i nostri limiti cognitivi: come persone siamo infatti confinati in gruppi piccoli, ma dobbiamo governare una grande complessità sociale, una società che, ai diversi livelli in cui si manifesta, è fatta di gruppi via via più grandi, con relazioni che ormai, a livello globale, coinvolgono circa otto miliardi di esseri umani. Da qui l’utilità di visioni sommarie, riassuntive. Ma per fare pace occorre potersi sedere intorno ad un tavolo, guardandosi faccia a faccia,  in quella che religiosamente immaginiamo come  agàpe, il convito amichevole in cui ce n’è per tutti e nessuno rimane escluso. Conoscendosi da vicino si finisce in genere per apprezzarsi, se si riescono a superare pregiudizi e partiti presi. Si cerca di evitare di fare quello che dà fastidio agli altri, ma anche di tollerare un certo fastidio che gli altri possono dare. Questa è la vera base di ogni convivenza sociale, quando si capisce che stare insieme è comunque meglio che separarsi o addirittura combattersi. Non è scontato che questo progresso accada: le cose possono anche finire male, è l’esperienza che lo insegna. In religione si possono trovare le risorse morali perché vadano bene: «Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli altri, come vi incoraggiate mutuamente e come vi accompagnate: ‘Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri’ (Gv 13,35)», ha scritto papa Francesco nell’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium. Naturalmente c’è chi in religione ha trovato anche argomenti per odiare. Accade, ad esempio, nella Polonia di oggi. Il modello  polacco,  quello ci venne proposto tanto a lungo, non ha funzionato proprio dove originò. Ma il problema non è nella teologia, bensì nelle persone. Quando si è decide di odiarsi si cerca in religione ciò che serve e lo si trova. Così come quando si decide di fare pace. Non è la teologia a convincere: essa serve solo a fare ordine nei pensieri quando si è già persuasi. La fede, si dice, precede, e nella mia esperienza è così,
  Nel nostro complesso parrocchiale, fatto della chiesa e degli edifici intorno, abitano due società: la parrocchia e una confraternita religiosa organizzata su base famigliare, sull’esempio delle  antiche tribù israelitiche. Queste due realtà si conoscono poco, e, conoscendosi poco, diffidano l’una dell’altra. Fanno vita separata, con costumi e liturgie diversi. La pace tra loro è come quella tra le due Coree: si basa su un armistizio, su una precaria sospensione delle ostilità. Come nelle riunioni di condominio, si cerca di prevalere nelle decisioni comuni. Si vorrebbe migliorare la convivenza, cercando innanzi tutto di conoscersi meglio e, così facendo, di apprezzarsi a vicenda, imparando dal bene che gli altri fanno.
  Le ragioni di conflitto non sono superficiali, hanno un fondamento propriamente teologico. C’è in questione una visione della società e del suo destino. Si sa che il male c’è, ma tra questa consapevolezza e il ritenere che la società non sia emendabile se non sostituendola integralmente o ritirandosene c’è una grande differenza. Se uno pensa che tutto è peccato al di fuori del suo gruppo, lo penserà anche di coloro che sono meglio integrati nella società e quindi vi vedono anche del bene. In questa prospettiva uno come me, che vuole imparare dai cattolici democratici, può essere visto come un eretico. Il primo passo per fare pace potrebbe essere questo: negarsi il potere di scomunica fai-da-te, l’arbitrio dell’esclusione. Nessuno deve essere messo nella condizione di scegliere tra il sottomettersi ad una via che proprio non può accettare o di prendere la prendere la porta in uscita. E non sarebbe male seguire la via proposta da Sant’Ignazio di Lojola: parlare innanzi tutto del bene che c’è negli altri. Nessuna vita è totalmente malvagia, questa è l’esperienza che in genere si fa conoscendo gli altri, ma questo è vero particolarmente in religione, dove ci si trova tra persone che sinceramente cercano di essere buone.  Proviamo a seguire l’esortazione del Papa: prendersi cura gli uni degli altri, incoraggiarsi mutuamente,  accompagnarsi amichevolmente.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli 

mercoledì 21 febbraio 2018

Non più guerra tra noi

Non più guerra tra noi

Il prossimo venerdì, il 23 febbraio, alla 20:30, in parrocchia, con inizio in chiesa, si terrà il secondo degli incontri di riflessione comunitaria alla luce del Convegno Diocesano del 2017. Il tema sarà No alla guerra tra noi. Ci viene proposto per la meditazione il brano che segue dell’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium, del 2013, che è stata considerata il documento programmatico del papato di papa Francesco:

No alla guerra tra di noi
98. All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! Nel quartiere, nel posto di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani! La mondanità spirituale porta alcuni cristiani ad essere in guerra con altri cristiani che si frappongono alla loro ricerca di potere, di prestigio, di piacere o di sicurezza economica. Inoltre, alcuni smettono di vivere un’appartenenza cordiale alla Chiesa per alimentare uno spirito di contesa. Più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale.
99. Il mondo è lacerato dalle guerre e dalla violenza, o ferito da un diffuso individualismo che divide gli esseri umani e li pone l’uno contro l’altro ad inseguire il proprio benessere. In vari Paesi risorgono conflitti e vecchie divisioni che si credevano in parte superate. Ai cristiani di tutte le comunità del mondo desidero chiedere specialmente una testimonianza di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa. Che tutti possano ammirare come vi prendete cura gli uni degli altri, come vi incoraggiate mutuamente e come vi accompagnate: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). È quello che ha chiesto con intensa preghiera Gesù al Padre: «Siano una sola cosa … in noi … perché il mondo creda» (Gv 17,21). Attenzione alla tentazione dell’invidia! Siamo sulla stessa barca e andiamo verso lo stesso porto! Chiediamo la grazia di rallegrarci dei frutti degli altri, che sono di tutti.
100. A coloro che sono feriti da antiche divisioni risulta difficile accettare che li esortiamo al perdono e alla riconciliazione, perché pensano che ignoriamo il loro dolore o pretendiamo di far perdere loro memoria e ideali. Ma se vedono la testimonianza di comunità autenticamente fraterne e riconciliate, questa è sempre una luce che attrae. Perciò mi fa tanto male riscontrare come in alcune comunità cristiane, e persino tra persone consacrate, si dia spazio a diverse forme di odio, divisione, calunnia, diffamazione, vendetta, gelosia, desiderio di imporre le proprie idee a qualsiasi costo, fino a persecuzioni che sembrano una implacabile caccia alle streghe. Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?
101. Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che buona cosa è avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! Sì, al di là di tutto! A ciascuno di noi è diretta l’esortazione paolina: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21). E ancora: «Non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Tutti abbiamo simpatie ed antipatie, e forse proprio in questo momento siamo arrabbiati con qualcuno. Diciamo almeno al Signore: “Signore, sono arrabbiato con questo, con quella. Ti prego per lui e per lei”. Pregare per la persona con cui siamo irritati è un bel passo verso l’amore, ed è un atto di evangelizzazione. Facciamolo oggi! Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!

 La litigiosità sociale è un fatto naturale, dipende da come siamo fatti. La si osserva anche nelle altre comunità di primati, i viventi di cui noi esseri umani siamo considerati, da punto di vista biologico, una specie.
  Creiamo delle società che ci sono utili, ma vogliamo prevalere in esse, in modo che ci siano più utili che ad altri. Ognuno è più debole in certe fasi della sua vita, in genere all’inizio e verso la fine, la sua capacità di influenza sociale non rimane sempre la stessa e poi, di generazione in generazione, e anche da fuori, arriva gente nuova: ragionando su grandi numeri, si capisce quindi che questo rende instabili le nostre società. Il diritto e le istituzioni cercano di rimediare e fino ad un certo punto ci riescono. Tuttavia nella storia osserviamo che anch’essi sono cambiati. Nessuna istituzione sociale è rimasta la stessa dalle origini, che si perdono nella notte dei tempi, in epoche delle quali sappiamo poco perché risalgono a quando le culture umane non producevano ancora memoria storica. Tendiamo ad averne una visione mitologica e in molti miti sulle origini troviamo narrate liti omicide.
 Il mito è una narrazione di tipo simbolico, che non rappresenta esattamente i fatti come sono andati ma il loro senso complessivo, accompagnata da molte emozioni, al modo in cui una colonna sonora accompagna le immagini in un film. E’ questo il principale strumento cognitivo degli individui umani. Ciascuno, in questo quadro, ragiona come un dio, inconsapevole dei propri limiti individuali. Ognuno, inconsapevolmente, si pensa come immortale e onnipotente. Questa è l’origine delle religioni. Ma anche altri aspetti sociali sono permeati da questo modo di ragionare e, in particolare, lo è la politica, secondo la quale sono rette e organizzate le società civili. Il ragionare come dei esaspera i conflitti. Tutto ciò rende possibile trovare ai vertici supremi persone incolte, irrazionali, aggressive ed emotivamente instabili, ma che funzionano bene, come riferimenti sociali, nel campo del mito e delle emozioni. Infatti, per nostri limiti cognitivi di specie, per come siamo fatti dentro, le masse ci sfuggono, non possiamo rappresentarcele mentalmente, ci appaiono indistinte, magmatiche, prive di chiare connotazioni,  così come accade per la morte: viviamo costantemente immersi in piccoli gruppi, in scenari limitati,  quindi abbiamo necessità di organizzarci socialmente in massa, per avere ragione della complessità sociale di un mondo che ora comprende circa otto miliardi di individui,  prendendo come riferimento certe persone che assumono contorni mitologici, e che diciamo dotate di carisma, proprio per la loro capacità di attrarre l’attenzione sociale.
  Crescendo la complessità e la potenza delle società umane e il numero di individui la cui vita dipende da esse è molto aumentato il costo in vite umane dei contrasti sociali. Le guerre sociali e il crollo di sistemi sociali fanno molte vittime. Fin dall’antichità si è quindi presa consapevolezza della litigiosità sociale come di un male e della pace sociale come di un bene.
     La via seguita fin dall’antichità per pacificare le società è stata quella di istituire un potere prevalente e di tipo paterno, quindi non esclusivamente egoistico. La concezione del re come padre  del suo popolo è molto radicata e ancora presente nelle immagini contemporanee del potere. In questa visione il conflitto sociale è moderato perché il potere supremo, affermandosi, limita ogni altro potere nelle sue ambizioni, prospettive e potenzialità distruttive ed esso stesso è limitato dalla sua vocazione paterna. La stabilità sociale dipende da quella del potere supremo che, per questo, si tende a sacralizzare, vale a dire a collegare con concezioni religiose, presentandolo come voluto da un dio.
  Più recentemente si è affermata la via democratica che consiste nel porre dei limiti ad ogni potere, anche a quello delle masse  come istituzione suprema. Limiti di durata e di intensità. Si cerca di rendere stabile questo sistema di limiti collegandolo alla visione religiosa dell’individuo come portatore di diritti fondamentali incomprimibili, quindi come  persona. Il conflitto sociale non è abolito, ma regolato in modo che non sia distruttivo. In questo modo le società evolvono ma senza crollare. Si supera così il problema della concezione paterna  del potere supremo, che si esprime in dinastie regnanti, che rende possibile l’evoluzione sociale solo mediante il rovesciamento violento dei potenti dai troni, e quindi per mezzo di ciclici accessi di violenza rivoluzionaria.
  Anche le religioni, come ogni altra istituzione sociale, sono state coinvolte nei conflitti e, anzi, ne hanno promossi di molto intensi, crudeli e costosi in termini di vite umane. Anche la nostra, basata sul principio dell’agàpe, della condivisione misericordiosa delle risorse. Questo perché sono fatti sociali, quindi umani, quindi, in quanto umani, instabili e pervase dal conflitto. La sacralizzazione del potere al loro interno è molto forte e questo rende spesso irriducibili i contrasti.
  La via seguita nella nostra confessione per la pacificazione religiosa è ancora quella paterna. Più di recente si vanno affermando con molta difficoltà e prevalentemente in ambito laicale processi democratici. Ci si divide e si lotta per ogni cosa, su piccola e grande scala. La desacralizzazione sociale prodotta dai processi politici democratici rende molto meno distruttivi questi contrasti, che però rimangono. Il papato è il principale oggetto della contesa: ciascuna fazione tende a insediare un papa proprio, come accadeva a Roma nel Medioevo e nel Rinascimento. Il conflitto si colora teologicamente: ciascuno è convinto di fare la volontà divina. Su grande scala gli orientamenti che ai tempi nostri si combattono sono quelli pro e anti conciliari, riferendosi come discrimine ai principi proclamati nel Concilio Vaticano 2°, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965. Quel Concilio ha segnato un passaggio di fase storica nell’evoluzione delle nostre istituzioni religiose, ha innescato cambiamenti piuttosto veloci. C’è chi vorrebbe tornare a come si era prima, chi vorrebbe lasciare tutto com’è adesso e chi vorrebbe andare più avanti nell’affermazione di processi e principi democratici: ci sono quindi reazionari, conservatori e riformatori. Questi ultimi osservano che senza un costante processo di riforma la presa sociale della religione nel mondo contemporaneo tende a svanire.  I reazionari obiettano che sono stati proprio i processi di riforma, per loro troppo rapidi e pretestuosi, a  produrre questo risultato. I conservatori, timorosi degli sviluppi di ogni tipo di evoluzione, all’indietro come in avanti, preferirebbero innanzi tutto pacificare, contenere, sopire i contrasti, riportando tutti sotto un’autorità di tipo paterno. Questo orientamento è a lungo prevalso sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2°, dal 1978 al 2005, favorito dal grande carisma personale del Papa.
 Nella nostra parrocchia, durante il papato di Giovanni Paolo 2°, è stato tentato per circa un trentennio un esperimento sociale estremo, un monocultura religiosa che mescolava reazione e riforma. Obiettivamente non ha avuto buoni risultati, al di là delle intenzioni e dell’indole dei suoi promotori, persone buone. Si è concluso il 17 ottobre del 2015, con l’insediamento del nuovo parroco, don Remo. Su questo blog potete leggere il resoconto dell’evento. Il nuovo corso ha trovato una comunità profondamente divisa. Si è cercato di rimediare, ma è stato ed è difficile. Molto, anzi moltissimo, è stato fatto. Non si tratta di sopprimere, ma di consentire la convivenza tra persone animate da diverse concezioni e di far emergere ciò che vi è di comune, ed è molto. Deposte le armi ideologiche rimangono persone che cercano sinceramente di essere buone e questo è senz’altro un buon inizio. Ma i contrasti si fanno sentire in particolare intorno alla Settimana Santa, che nel vecchio corso era stata permeata di accentuazioni caratterizzanti molto sensibili. Negli anni scorsi si è combattuta, purtroppo, la battaglia di Pasqua. Chi non ha avuto animo di farsi il sangue cattivo nel periodo più santo dell’anno ha preferito, in fondo, ritirarsi, e io sono tra questi. L’anno scorso ho invocato la presenza del vescovo ausiliare di settore a presiedere la Veglia di Pasqua per aiutarci a recuperare l’unità: è la via dell’autorità paterna. Essa è condizionata dall’essere legata a una sola persona, limitata, che non può essere ovunque e con tutti: è la condizione di fragilità in cui si trova ogni monarchia. Le autorità paterne finiscono in genere per deludere, come ogni padre in fondo. La via più produttiva può essere quella di un recupero di un’unità culturale, che implica conoscersi meglio e capirsi, senza cercare di prevalere e sottomettere. E’ quella che mi pare si stia tentando.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli