Fede, società, azione
sociale, desacralizzazione e secolarizzazione
1, La fede nel soprannaturale non origina dalla società, è un fatto
psichico profondo della persona. Dalla società origina la religione, che dà
alla fede una sua liturgia, vale a dire le parole e le azioni. La fede può
essere strumentalizzata dalla società mediante la religione. Allora viene
utilizzata per rendere stabile il governo della società, sacralizzandolo, vale a dire
collegandolo al soprannaturale. Dagli anni Sessanta in Italia è in atto un
processo di desacralizzazione della politica. Si è reso possibile, e anzi
necessario, per l’importante ruolo che i cattolici hanno avuto nella
costruzione della democrazia italiana. Attraverso l’Azione cattolica hanno
organizzato le masse che hanno sostenuto i processi democratici, secondo la
linea di Alcide De Gasperi. Le masse erano la dote che il Papato portò nel
patto con i democristiani di De Gasperi, cattolico-democratici tacciati di
eresia modernista all’inizio del Novecento. I democristiani garantirono al
Papato l’oblio sul precedente patto con il fascismo mussoliniano, che era stato
determinante per l’affermazione politica e sociale di quest’ultimo. Gli accordi
con il Mussolini finirono in Costituzione, con i privilegi che garantivano e la
Città del Vaticano. Ma il Papato ha legittimazione sacrale: da qui la
sacralizzazione dell’accordo politico con i democristiani. Questi ultimi furono
determinanti nel confermare la collocazione dell’Italia nell’Occidente
capitalistico dominato dagli Stati Uniti d’America concordata nella conferenza
di Jalta, in Crimea, nel febbraio del 1945 tra le maggiori potenze alleate
contro i nazifascisti nella Seconda guerra Mondiale, Regno Unito, Stati Uniti
d’America e Unione Sovietica. Ne derivò, in Italia, una sorta di sacralizzazione del sistema capitalistico
Occidentale. Da questa situazione si cercò di uscire dopo il Concilio Vaticano
2°, che confermò un recente magistero fortemente critico di quell’ordine. La
scelta religiosa dell’Azione Cattolica, fatta dal 1964 sotto la
presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, consistette sostanzialmente in
questo. Si cercò di inculturare la democrazia tra i cattolici,
desacralizzandola e liberando l’adesione ad essa dall’obbligo di sostegno
sacrale al sistema capitalistico occidentale. Non si trattò di un distacco
dall’azione politica in favore di quella catechistica:
infatti nel nuovo statuto l’Azione Cattolica venne definita palestra di democrazia. La desacralizzazione consiste sostanzialmente
in una critica della legittimazione dei poteri esistenti, in particolare di
quelli politici. In Italia, per la presenza del Papato, essa riguardò anche il
potere religioso e quindi l’assetto delle comunità religiose. Fin dagli inizi,
addirittura a fine Settecento, il cattolicesimo democratico ebbe una componente
anche di riforma religiosa, che in Italia si fece molto forte a partire dagli
anni Sessanta del secolo scorso. E’ in quest’epoca che, nel progettare le
comunità, si cominciò a pensare più alle società dei fedeli che all’azione
della gerarchia religiosa. Questa idea fu riconosciuta precocemente, a cavallo
tra Ottocento e Novecento dai teologi della corte pontificia: da qui la
sostanziale scomunica del cattolicesimo democratico. La situazione, in Italia,
iniziò a mutare dal 1940, quando il Papato ebbe necessità dei
cattolico-democratici per sganciarsi dal patto con il fascismo mussoliniano.
2. La desacralizzazione, che è critica del potere, non va confusa
con la secolarizzazione, che è la
sfiducia nel soprannaturale. La modernità, con l’idea che sia possibile una
spiegazione razionale del mondo, ha comportato una certa secolarizzazione.
Anche la critica dei poteri religiosi la implica, quando se ne mette in luce il
loro carattere storico e quindi contingente, non eterno e soprannaturale,
quindi riformabile. Nel cristianesimo la riforma
religiosa, nella sua desacralizzazione dei poteri religiosi, ha sviluppato
effettivamente, dal Cinquecento, una secolarizzazione, che però non ha mai
compromesso l’intera religione. La fiducia nel soprannaturale è rimasta,
sopravvivendo alla liberazione dalla sottomissione sacrale ai poteri religiosi.
I processi di secolarizzazione sono stati particolarmente intensi in Europa, perché
nel continente era stata più forte, e molto antica, la sacralizzazione dei
poteri pubblici. I sociologi osservano che la secolarizzazione è in recesso in
tutto il mondo, salvo che in Europa. La ragione è che qui la desacralizzazione,
spiegata e intesa giuridicamente come
laicità dei poteri pubblici e posta alla base delle democrazie avanzate
europee, delle loro costituzioni, ma
anche della pacificazione europea, ha
comportato livelli di secolarizzazione più elevati, per la dura resistenza
opposta dai poteri religiosi, in particolare dal Papato romano. Quest’ultimo
non ha mai rinunciato alla legittimazione sacrale del suo potere nella società,
in senso propriamente politico. La rivendicazione di essa fu alla base della
dura contrapposizione con la politica democratica del Regno d’Italia dalla sua
fondazione nel 1861. Sono state fondamentalmente centrate sulla contestazione della
desacralizzazione in religione le ultime due persecuzioni religiose attuate dal
Papato romano, agli inizi del Novecento contro il modernismo e negli ultimi
trent’anni contro la teologia della liberazione. Entrambe quelle correnti di
pensiero ebbero valenza politica, la seconda più esplicita.
La rivendicazione sociale della
legittimazione sacrale del Papato, come potere religioso, quello delle chiavi, si esprime con forme di papismo più o
meno intense, indotto nei fedeli. Una ripresa del papismo si ebbe durante il
lungo pontificato di Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, dal 1978 al 2005. Da
questo regno religioso l’Italia è uscita molto più clericale che, ad esempio,
negli anni ’70. Ne è prova l’ampio spazio dedicato dai mezzi di comunicazione
di massa alle pronunce papali, anche sui giornali un tempo più laici, intesi come più coinvolti nella
desacralizzazione e anche nella secolarizzazione. Questo ha consentito alla
Chiesa italiana di mantenere la propria forza politica anche dopo la
disgregazione del partito cristiano,
la Democrazia Cristiana. Si è visto in modo spettacolare dall’autunno 2011,
quando una prolusione, vale a dire il
discorso introduttivo, del cardinale Angelo Bagnasco in occasione del Consiglio
permanente della Conferenza Episcopale Italia tenutosi dal 26 al 19 settembre
2011 fu uno degli elementi decisivi per la delegittimazione e caduta del governo italiano di allora, prova
questa che la Chiesa era sostanzialmente parte dell’accordo politico di
governo. Bagnasco tracciò sostanzialmente un programma per il passaggio di fase politico.
Iniziò parlando del senso di insicurezza diffuso nel corpo sociale, rafforzato da un
attonito sbigottimento a livello culturale e morale (e in quest’ultimo
accenno i più colsero un esplicito
riferimento ad un importante politico di centro-destra del momento) e dicendo
che la crisi economica e sociale, che
iniziò a mordere tre anni or sono, era in realtà più vasta e potenzialmente più
devastante di quanto potesse di primo acchito apparire, pesanti conseguenze
sulla vita della gente e gli effetti interiori di questa crisi che, a tratti,
sembra produrre un oscuramento della speranza collettiva. Criticò l’individualismo esasperato e possessivo.
«Prendo quello che voglio, perché posso». Era necessario, disse, condurre
con onestà la disanima meno ipocrita. Quanti, a quel temo, nel mondo che contava,
volteggiavano come avvoltoi sulle esistenze dei più deboli per cavarne vantaggi
ancora maggiori che in altre stagioni? Questo «individualismo esasperato e
possessivo» non era forse alla radice di tanti comportamenti rapaci in chi può,
o ritiene di potere, a prescindere da ciò che è legittimo, giusto, onesto?
Crescere
senza ideali e senza limiti, in balia di un falso concetto di libertà,
significa ritrovarsi insicuri, impacciati nel giudicare secondo razionalità,
affidati a mere emozioni.
Più volte e da varie parti la popolazione del Nord del mondo era stata
avvertita e sensibilizzata sul fatto che l’Occidente viveva al di sopra delle
proprie possibilità. Ed era ragionevole pensare che la crisi esplosa tra il
2008 e il 2009 inducesse non solo a tamponare le falle che si erano infine
aperte, ma a introdurre elementi virtuosi per raddrizzare progressivamente il
sistema dell’economia mondiale. Ma così non era stato. E quando infine si
sperava di cominciare a vedere la luce, la crisi aveva dato segnali di
inequivocabile persistenza e per alcuni aspetti di pericolosa recrudescenza. La
globalizzazione restava non governata, e sempre più tendeva ad agire
dispoticamente prescindendo dalla politica. La finanza era tornata a praticare
con frenesia dei contratti di credito che spesso consentivano una speculazione
senza limiti. E fenomeni di speculazione dannosa si verificavano anche con
riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo con
impoverire ancor di più quelli che già vivono in situazione di grave
precarietà. L’Italia, disse, non
si era mai trovata tanto chiaramente dinanzi alla verità della propria
situazione. A questo punto colpì duro, pronunciando parole che risultarono
decisive per la crisi politica che immediatamente si aprì:
«Conosciamo le
preoccupazioni che pulsano nel corpo vivo del Paese, e non ci sfugge certo quel
che, a più riprese, si è tentato di fare e ancora si sta facendo per
fronteggiarle. L’impressione tuttavia è che, stando a quel che s’è visto, non
sia purtroppo ancora sufficiente. Colpisce
la riluttanza a riconoscere l’esatta serietà della situazione al di là di
strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a
tratti si procede, dando l’impressione che il regolamento dei conti personali
sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto
dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità. Rattrista il
deterioramento del costume e del linguaggio pubblico, nonché la reciproca,
sistematica denigrazione, poiché così è il senso civico a corrompersi,
complicando ogni ipotesi di rinascimento anche politico. Mortifica soprattutto
dover prendere atto di comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma
intrinsecamente tristi e vacui. Non è la prima volta che ci occorre di
annotarlo: chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole
«della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che comporta,
come anche la nostra Costituzione ricorda» (Prolusione al Consiglio Permanente
del 21-24 settembre 2009 e del 24-27 gennaio 2011). Si rincorrono, con mesta sollecitudine, racconti che, se comprovati, a
livelli diversi rilevano stili di vita difficilmente compatibili con la dignità
delle persone e il decoro delle istituzioni e della vita pubblica. Da più
parti, nelle ultime settimane, si sono elevate voci che invocavano nostri
pronunciamenti. Forse che davvero è mancata in questi anni la voce responsabile
del Magistero ecclesiale che chiedeva e chiede orizzonti di vita buona, libera
dal pansessualismo e dal relativismo amorale? Annotava giorni fa il professor
Franco Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale: ‘L’unica voce
che denuncia i guasti della società della politica è quella della Chiesa
cattolica’ (Corriere della sera, 20 settembre 2011). Lo citiamo non per vantare
titoli, ma per invitare tutti a non cercare alibi.»
Va ricordato che su diversi giornali all’epoca era stata invocata
espressamente una pronuncia della
Conferenza Episcopale Italiana su stili di vita piuttosto liberi della politica
di allora.
Si legge ancora nel documento:
«8.
[…]Tornando allo scenario generale, è l’esibizione talora a colpire. Come colpisce
l’ingente mole di strumenti di indagine messa in campo su questi versanti,
quando altri restano disattesi e indisturbati. E colpisce la dovizia delle
cronache a ciò dedicate. Nessun equivoco tuttavia può qui annidarsi. La
responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a
prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano. I comportamenti
licenziosi e le relazioni improprie sono in se stessi negativi e producono un
danno sociale a prescindere dalla loro notorietà. Ammorbano l’aria e
appesantiscono il cammino comune. Tanto più ciò è destinato ad accadere in una
società mediatizzata, in cui lo svelamento del torbido, oltre a essere compito
di vigilanza, diventa contagioso ed è motore di mercato. Da una situazione
abnorme se ne generano altre, e l’equilibrio generale ne risente in maniera
progressiva. È nota la difficoltà a innescare la marcia di uno sviluppo che
riduca la mancanza di lavoro, ed è noto il peso che i provvedimenti economici
hanno caricato sulle famiglie; non si può, rispetto a queste dinamiche, assecondare
scelte dissipatorie e banalizzanti. La collettività guarda con sgomento gli
attori della scena pubblica e l’immagine del Paese all’esterno ne viene
pericolosamente fiaccata. Quando le congiunture si rivelano oggettivamente
gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati
e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono
né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili.
La storia ne darà atto.
Solo
comportamenti congrui ed esemplari, infatti, commisurati alla durezza della
situazione, hanno titolo per convincere a desistere dal pericoloso gioco dei
veti e degli egoismi incrociati.
9. La questione morale, complessivamente intesa,
non è un’invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro
ambito privato o pubblico, essa è un’evenienza grave, che ha in sé un appello
urgente. Non è una debolezza esclusiva di una parte soltanto e non riguarda
semplicemente i singoli, ma gruppi, strutture, ordinamenti, a proposito dei
quali è necessario che ciascuna istituzione rispetti rigorosamente i propri
ambiti di competenza e di azione, anche nell’esercizio del reciproco controllo. Nessuno
può negare la generosa dedizione e la limpida rettitudine di molti che operano
nella gestione della cosa pubblica, come pure dell’economia, della finanza e
dell’impresa: a costoro vanno rinnovati stima e convinto incoraggiamento. Si noti tuttavia che la questione morale,
quando intacca la politica, ha innegabili incidenze culturali ed educative.
Contribuisce, di fatto, a propagare la cultura di un’esistenza facile e
gaudente, quando questa dovrebbe lasciare il passo alla cultura della serietà e
del sacrificio, fondamentale per imparare a prendere responsabilmente la vita.
Ecco perché si tratta non solo di fare in maniera diversa, ma di pensare
diversamente: c’è da purificare l’aria, perché le nuove generazioni – crescendo
– non restino avvelenate. Chi rientra oggi nella classe dirigente del Paese
deve sapere che ha doveri specifici di trasparenza ed economicità: se non
altro, per rispettare i cittadini e non umiliare i poveri. Specie in situazioni
come quella attuale, ci è d’obbligo richiamare il principio prevalente
dell’equità che va assunto con rigore e applicato senza sconti, rendendo meno
insopportabili gli aggiustamenti più austeri. È sull’impegno a combattere la
corruzione, piovra inesausta dai tentacoli mobilissimi, che la politica oggi è
chiamata a severo esame. L’improprio sfruttamento della funzione pubblica è
grave per le scelte a cascata che esso determina e per i legami che possono
pesare anche a distanza di tempo. Non si capisce quale legittimazione possano
avere in un consorzio democratico i comitati di affari che, non previsti
dall’ordinamento, si auto-impongono attraverso il reticolo clientelare, andando
a intasare la vita pubblica con remunerazioni – in genere – tutt’altro che
popolari. E pur tuttavia il loro maggior costo sta nella capziosità dei
condizionamenti, nell’intermediazione appaltistica, nei suggerimenti interessati
di nomine e promozioni. Al punto in cui siamo, è essenziale drenare tutte le
risorse disponibili – intellettuali, economiche e di tempo – convogliandole
verso l’utilità comune. Solo per questa via si può salvare dal discredito
generalizzato il sistema della rappresentanza, il quale deve dotarsi di
anticorpi adeguati, cominciando a riconoscere ai cittadini la titolarità loro
dovuta.
Parlò quindi, Bagnasco, della presenza
dei cattolici nella società civile e nella politica, dicendosi convinto che, anche quando non risultavano sugli spalti, essi erano sempre per lo più là dove vita e vocazione li
portano. Gli anni da cui di proveniva, disse, potrebbero
aver indotto talora a tentazioni e smarrimenti, ma avevano indubbiamente spinto
i cattolici, alla scuola dei Papi, a maturare una più avvertita coscienza di sé
e del proprio compito nel mondo. Un
nucleo più ristretto ma sempre significativo di credenti, sollecitati dagli
eventi e sensibilizzati nelle comunità cristiane, aveva colto la rinnovata
perentorietà di rendere politicamente più operante la propria fede. Sono così
nati percorsi diversi, a livelli molteplici, per quanti intendono concorrere
alla vitalità e alla modernità della polis, percorsi che hanno dato talora un
senso anche di dispersione e scarsa incidenza. Qui fece riferimento a
un movimento politico che all’epoca stava prendendo forma tra varie componenti
dell’associazionismo cattolico. Parlò di incubazione politica che stava determinando una situazione nuova. Citò il sociologo Giuseppe De Rita, il quale alcune settimane prima
aveva annotato: «Chi fa politica non si rende conto che milioni di fedeli
vivono una vicinanza religiosa che si fa sempre più attenta ai “fatti della
vita politica”, con comuni opinioni socio-politiche, e con ambizioni di vita
comunitaria di buona qualità» (Corriere della sera, 6 agosto 2011). Fece
riferimento a una partecipazione che si sarebbe
fatto fatica a non registrare, e una nuova consapevolezza che la fede cristiana
non danneggiava in alcun modo la vita sociale. Anzi! A dar coscienza ai
cattolici oggi non era anzitutto un’appartenenza esterna, osservò, ma i valori dell’umanizzazione: chi è l’uomo,
qual è la sua struttura costitutiva, il suo radicamento religioso, la via aurea
dell’autentica giustizia e della pace, del bene comune… che si stava imparando
a riconoscere e a proporre con crescente coraggio, e che in realtà finiscono
per far sentire i cattolici più uniti di quanto taluno non vorrebbe credere.
Nel contempo, sempre di più richiamavano anche l’interesse di chi
esplicitamente cattolico non si sente. A un tempo, c’è un patrimonio di cultura
fatto di rappresentanza sociale e di processi di maturazione comunitaria. C’era,
disse, un giacimento valoriale ed
esistenziale che rappresenta la bussola interiormente adottata dai cattolici, e
da esso si sprigionavano ormai ordinariamente esperienze che erano un vivaio di
sensibilità, dedizione, intelligenza che sempre più si metterà a disposizione
della comunità e del Paese. Sembrava
rapidamente stagliarsi all’orizzonte, concluse sul tema, la
possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la
politica, che – coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita
– sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni.
Il Governo all’epoca in carica rassegnò le dimissioni il 16 novembre
2011.
3. In Italia, la scelta
religiosa attuata nel laicato
italiano dagli anni Sessanta ha liberato la religione dal dovere di sacralizzare il capitalismo, e in particolare la sua
versione neoliberista, all’origine della grave crisi prima finanziaria e poi
economica prodottasi dal 2008 a partire dagli Stati Uniti d’America. Parole
come quelle di Bagnasco sarebbero apparse sovversive alla politica degli anni
Sessanta. E, riferendosi ai fatti dell’autunno del 2011, c’è ora chi parla di colpo
di stato, sentendosi tradito. Ma quella scelta ha liberato il laicato anche dall’obbligo
di fare acriticamente blocco, in particolare con i conservatori sociali.
Adriano Ossicini, anziano politico della
sinistra sociale cristiana, concesse nel 1980 una intervista pubblicata con il
titolo Cristiani non democristiani: all’epoca
suonava ancora un po’ strano. Oggi non più. La libertà nelle opzioni politiche
dei cattolici è stata una conquista faticosa, anche se forse chi ha meno di cinquant’anni non se ne rende
bene conto.
Non si è trattato, tuttavia, di un ritiro
dalla politica. Si è reso necessario un impegno politico più consapevole,
informato, competente a patire da quei nuclei più ristretti ma sempre significativi di
credenti, sollecitati dagli eventi e sensibilizzati nelle comunità cristiane, che
sanno e vogliono cogliere a rinnovata perentorietà di rendere politicamente più
operante la propria fede, di cui
parlò Bagnasco nel 2011. Questo
è stato, in particolare, il senso dell’esperienza dell’Azione Cattolica
dagli anni Quaranta e più intensamente dagli anni Sessanta del secolo scorso. La
sua scelta religiosa non fu una
trasformazione in istituzione catechistica, ma una svolta nel senso di un impegno più
marcato nella formazione politica, dopo il processo di desacralizzazione del blocco moderato democristiano.
In quest’ottica, il senso comunitario dell’esperienza
di Azione Cattolica significa innanzi tutto fare tirocinio di costruzioni sociali, sperimentare la società
nelle relazioni quotidiane, a partire dai più piccoli e dagli ambienti
scolastici, la prima forma di socializzazione delle persone. Non si tratta di sostenere la fede con la società, ma di cambiare in meglio la società, anche quella religiosa, in base all’ispirazione della fede. Si illude
chi pensa che sia la società che crea la fede. La società, fatto umano e quindi
contingente, tende sempre a deludere: è una legge della vita. Va sempre
rivitalizzata e in questo soccorre la fede. Quest’ultima ha un aspetto sociale
nella religione: anche quest’ultima però, come fatto sociale, tende a deludere.
La riforma è quindi sempre necessaria, a partire da una sincera e veritiera
autocritica. E’ il processo di conversione.
La fede religiosa sopravvive anche in ambienti sociali ostili: è esperienza
storica. Però essa, a volte, non sopravvive alla religione. La riforma diventa
necessaria quando la religione danneggia la fede. Ogni autentico processo di
riforma sociale è sorretto da una fede: la razionalità non basta. La
razionalità, da sola, porta ad accomodamenti, al compromesso. La fede è fiducia
in un assoluto, in un principio sottratto alla legge dell’esperienza, secondo
la quale, ad esempio, pesce grosso mangia pesce piccolo e va bene così. La
grande scoperta del valore sociale della persona umana, che in religione si
fece a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, è principio di riforma
sociale e religiosa e si fonda su un assoluto del genere.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli