In una nicchia della
storia
Per capire le istituzioni fondamentali di uno
stato bisogna conoscere un po’ la sua storia.
In un certo senso è la storia che disegna le costituzioni. Da che storia
viene la riforma costituzionale sulla quale dovremo decidere nel referendum del
prossimo 4 dicembre?
Per conoscere la storia recente i più giovani potranno riprendere in
mano l’ultimo volume del corso di storia delle superiori. Per i meno giovani
consiglio il volume 3 del corso Nuovi Profili Storici di Giardina - Sabbatucci - Vidotti, edizione
Laterza.
Il problema è però che la riforma
costituzionale di quest’anno non nasce molto lontano nel tempo, ma in un
periodo che non è ancor finito nei libri di storia, anche se processi di
riforma della struttura della Repubblica furono avviati dall’inizio degli anni
’80, per rispondere a quella che all’epoca veniva definita crisi di legittimazione della politica, espressione con la quale si
intendeva che la gente non credeva più alle parole nobili della politica
democratica ed era disposta a dare consenso politico solo in cambio di una
qualche partecipazione alle risorse pubbliche ricavate essenzialmente dai
tributi e dal debito pubblico, in un processo di scambio politico. Questa
tendenza ebbe anche un risvolto regionalistico, quando si produsse un movimento
politico per limitare o eliminare del tutto il contributo di solidarietà che le
regioni più ricche davano a quelle meno ricche attraverso la politica di
perequazione dello stato. Negli anni ’90 si giunse anche a proporre la secessione delle prime dalla Repubblica, e quindi la fine
della Repubblica, o, almeno, la ristrutturazione della Repubblica in senso
federale, ampliando l’autonomia regionale fino ad arrivare a quella degli stati
federati, come in Svizzera, Germania o negli Stati Uniti d’America, riducendo
al minimo le competenze dello stato federale.
L’attuale fase storica è molto più recente e nasce nel 2011.
Qualche volta l’attuale Presidente del Consiglio viene accostato al
personaggio politico più significativo della fase storica che va dal 1994 al
2011, Silvio Berlusconi, nel senso che si colgono tratti simili nelle loro politiche
e nelle loro personalità, ma il paragone è errato. E lo è perché il Berlusconi
lavorò innanzi tutto sul Parlamento, federando forze politiche di impostazione
molto diversa, facendone una coalizione di governo, mentre l'attuale Presidente del Consiglio segue l'ideologia del partito con vocazione maggioritaria, di cui tratterò più avanti. Nel campo opposto, quindi in quello del centro-sinistra, in reazione,
si produsse un movimento politico analogo e un'analoga coalizione. Questo, sotto il vigore della legge
elettorale per Camera dei deputati e Senato del 1993, creò quello che agli
inizi degli anni ’90 si pensava fosse il sistema politico migliore sull’esempio
britannico, vale a dire il bipolarismo,
con due coalizioni politiche, di centro-destra e di centro-sinistra, che si
alternavano al governo. Il bipolarismo politico nelle maggioranze di governo
nazionale durò dal 1994 al 2011, un lungo periodo, diciassette anni, che nei
libri di storia verrà detto del berlusconismo,
perché l’ideologia politica e soprattutto lo stile politico personale del leader
del centro-destra costituì in quegli
anni il modello di riferimento, sia pure per opporvisi in qualcosa, anche per i
politici dello schieramento opposto. In quegli anni i temi principali del dibattito politico furono infatti quelli posti da Silvio Berlusconi.
La legge elettorale del 1993 prevedeva un sistema maggioritario, con
gruppi di elettori (collegi elettorali) molto piccoli in cui veniva eletto il
candidato che aveva riportato il maggior numero di voti, temperato da una quota
di parlamentari eletti con il sistema proporzionale, come si era fatto fino al
1992. Questo fu il motore del bipolarismo, che però non si sarebbe potuto
produrre senza che la politica creasse due grandi coalizioni di opposte
tendenze politiche. Quel nuovo sistema elettorale fu catalizzato da un referendum
tenutosi nel 1991 che introdusse il sistema della preferenza unica, rafforzando il collegamento dell’elettore con un
candidato e impedendo che, attraverso la collocazione dei voti di preferenza
sulla scheda elettorale, divenissero riconoscibili, e quindi contrattabili in una sorta di mercato, i
voti elettorali.
In definitiva nel 1991, come verosimilmente accadrà quest'anno, un referendum istituzionale fu alla base di un mutamento di fase della storia nazionale.
Quel sistema politico del bipolarismo divenne
instabile dopo l’entrata in vigore, nel 2005 di una nuova legge elettorale che
abolì il sistema maggioritario, introdusse le liste di candidati bloccate,
formate dai partiti e proposte agli elettori senza possibilità di esprimere
voti di preferenza, e introdusse il premio di maggioranza, una quota
aggiuntiva di parlamentari che andava alla coalizione che, su scala nazionale
per la Camera dei deputati e su scala regionale per il Senato, avesse ottenuto
il maggior numero di voti, fino ad assegnarle una solida maggioranza assoluta
di parlamentari. Questo modo di scegliere i membri del Parlamento staccava i
candidati dagli elettori e li collegava molto più strettamente ai capi delle
maggiori coalizioni. Questi ultimi, però, trovarono sempre più difficoltà a
mantenere la disciplina politica tra i parlamentari da loro sostanzialmente nominati. Si manifestò in maniera
crescente un problema che era stato caratteristico del sistema politico
liberale della prima fase del Regno d’Italia, dal 1861 all’emergere dei grandi
partiti politici di massa, dopo la Prima Guerra Mondiale, quello del trasformismo, quindi di parlamentari che cambiavano con una
certa libertà gli schieramenti politici. E, soprattutto, il differente sistema
di attribuzione del premio di maggioranza tra Camera dei Deputati e Senato creò
un’asimmetria tra le due Camere, per cui le maggioranze di governo furono molto
meno solide al Senato rispetto alla Camera dei Deputati. L’esperienza di questo
problema spiega anche il perché nell’ultima riforma ci si sia tanto occupati di
riformare il Senato. Con la legge elettorale del 2005 fu sempre più difficile
produrre e, soprattutto, mantenere stabile il bipolarismo. Ideata dal centro-destra, nelle elezioni politiche del
2006 la riforma favorì, contro le aspettative, il centro-sinistra. Ma quest’ultimo entrò rapidamente in crisi e
alle elezioni politiche anticipate del 2008 vinse la coalizione di
centro-destra, che però a sua volta entrò in crisi terminale dopo soli tre
anni, nel 2011, passando la mano, a seguito dei problemi creati dalla durissima
fase di depressione economica globale manifestatasi proprio a partire dal 2008,
con inizio negli Stati Uniti d’America
per il crollo del valore di prodotti finanziari collegati al mercato
immobiliare, e nonostante che la coalizione di governo potesse ancora contare su una maggioranza parlamentare
di governo piuttosto solida. Questo dimostra che non basta rafforzare, per così
dire artificialmente, agendo sui
sistemi elettorali, le maggioranze di governo, per avere governi stabili e politiche di governo di lungo periodo. E’ appunto nel 2011 che inizia l’attuale fase
politica, caratterizzata da una eclisse del Parlamento e dall’intento di fare del Governo il cardine dell’intero sistema costituzionale.
Nel 2011 l’impotenza di fatto dimostrata dalla maggioranza parlamentare
di governo produsse anche la crisi del governo da essa espresso. Bisogna
ricordare che nelle dinamiche della crisi incise anche un pronunciamento nel
settembre 2011, invocato anche da diversi organi di stampa, del Presidente
della Conferenza Episcopale Italiana, che richiamava l’attenzione della
politica sulla questione morale [testo in http://www.focl.it/index2.php?option=com_docman&task=doc_view&gid=198&Itemid=9]. Al vertice della Repubblica rimaneva
integra, in definitiva, un’unica istituzione fondamentale ancora capace di
indirizzo politico ed era la Presidenza della Repubblica. Quest’ultima scelse
ed accreditò, con la nomina a senatore a vita, quindi al di fuori di elezioni
politiche, un nuovo Presidente del Consiglio dei ministri, a capo di un governo
tecnico, con il limitato compito di
fronteggiare l’emergenza economica, sostenuto da entrambi i maggiori
schieramenti politici, ma non sulla base di un accordo organico di lungo
periodo tra di essi. È in questo periodo che iniziarono i processi di riforma
costituzionale che hanno portato nell’aprile di quest’anno all’approvazione
della più estesa revisione costituzionale dal 1948, con la modifica di 50
articoli su 138. Prima fu nominata, dal
Presidente della Repubblica, una commissione di esperti composta da Valerio
Onida, Mario Mauro, Gaetano Quagliarello e Luciano Violante, con il compito di
dare indicazioni su una riforma costituzionale. Sotto il successivo Presidente
del Consiglio, nel giugno 2013, il Governo, che ancora fondava la sua autorità
essenzialmente sull’autorità del Presidente della Repubblica in quanto dalle
elezioni politiche del 2013 era scaturita una maggioranza politica parlamentare
instabile, nominò poi una Commissione per le riforme costituzionali di 35
esperti non parlamentari, con un
comitato di redazione di sette professori di diritto. Da questo momento la
riforma costituzionale entrò nel programma di governo e ebbe nel Governo il suo
primo motore. L’attuale Presidente del Consiglio, in carica dal febbraio 2014
sulla base di un accordo politico con il leader
del centro-destra denominato Patto del Nazareno che prevedeva nel
programma di governo la riforma costituzionale, ha mantenuto questa
impostazione, vale a dire di considerare la revisione costituzionale come un
affare essenzialmente del Governo, dando un forte impulso ai processi
parlamentari di deliberazione, conclusisi nell’aprile di quest’anno, con
l’approvazione della legge di riforma da parte del Parlamento in seconda
votazione, secondo la procedura prevista dall’art.138 della Costituzione. La
legge di riforma costituzionale approvata quest’anno risente del clima
emergenziale, di patto per la salvezza nazionale, in cui è maturata, con le due
maggiori coalizioni politiche che, sotto il magistero del Presidente della
Repubblica, si accordavano per riforme indifferibili richieste per superare la grave
crisi che da economica si era fatta sociale, a causa della crescente perdita di
posti di lavoro, in particolare nelle fasce dei più giovani, e per la necessità
di ridurre, per esigenze di finanza pubblica, le prestazioni di stato sociale.
Essa presenta infatti significative assonanze, per quanto riguarda la struttura
del Parlamento, con quella varata dalla coalizione di centro-destra nel 2005 e
respinta nel referendum costituzionale tenutosi l’anno successivo, proprio
dieci anni fa. Va invece in direzione contraria alla riforma del 2005 quanto
all’autonomia regionale.
In
politica stiamo vivendo in conclusione, in una specie di nicchia della storia, in una fase di transizione. Infatti, tutti i maggiori
protagonisti dell’attuale fase politica, sia nel centro destra che nel centro
sinistra, come anche nel nuovo movimento che è venuto a costituirsi come terzo polo, in una classifica che nei
sondaggi lo vede a volte al primo posto
o comunque al secondo sul podio della politica nazionale, sono convinti
che a breve inizierà un’altra fase storica, sciogliendo il patto emergenziale che fu all’origine di quella attuale. La
convinzione di essere alle soglie di quello che gli storici chiamano passaggio di fase è quindi abbastanza condivisa.
Quali sono state le caratteristiche dall’attuale fase della politica?
Al centro delle preoccupazioni di tutti è
stata la dinamica della depressione economica globale che non sembra ancora
dare segni di risolversi, caratterizzata in particolare dalla rilevante perdita
di posti di lavoro. Tutte le manifestazioni, finora effimere, di miglioramento
indicano che se, ad un certo punto, ci sarà una ripresa, essa sarà, come dicono
gli economisti, job-less, senza
aumento di posti di lavoro. A fronte di questa situazione gli stati dell’Unione
Europea hanno adottato misure emergenziali, tra le quali un accordo molto
impegnativo per la stabilità della
finanza pubblica, nel 2012, che richiede, oltre al mantenimento di una
proporzione definita e obbligatoria tra debito pubblico e la produzione annuale
di ricchezza nazionale, anche la riduzione della pressione tributaria
sull’economia e una corrispondente riduzione delle prestazioni di benessere
sociale al fine di contenere la
spesa pubblica nel limite delle entrate di finanza pubblica, ad esempio di
quelle per sanità e pensioni. Inoltre le politiche dell’Unione spingono verso
un recupero della competitività del fattore di produzione costituito dal costo
del lavoro, riducendo i meccanismi legali di protezione della stabilità del
posto di lavoro e di fissazione di limiti salariali. Si pensa che queste ultime
misure potranno rendere più conveniente produrre in Europa e che quindi portino
ad un aumento dell’occupazione: previsione questa finora non avveratasi, in
quanto il costo del lavoro europeo, gravato di oneri sociali, per garantire ai lavoratori dignità e protezione nelle
malattie, gravidanze e vecchiaia, non
potrà mai competere con quello di altri stati del mondo in cui quegli oneri
o non ci sono o sono molto più bassi. La crisi globale dell’economia può essere
affrontata dall’Europa solo in unità di intenti tra tutti gli stati membri dell’Unione,
perché la crisi è globale e non può essere affrontata se non con
risposte e soluzioni globali. Ma le
soluzioni finora escogitate sono fortemente impopolari perché comportano la
forte diminuzione di servizi e altre
prestazioni sociali. In un sistema politico come quello italiano che, dagli
anni ’80, si era sempre più basato sullo scambio tra consenso elettorale e
vantaggi corporativi ottenuti presso i politici favoriti da quel consenso, questa situazione ha comportato la necessità
dei governi nazionali di affrancarsi da quel tipo di consenso. Questo ha portato alla crisi politica, nell’autunno
del 2011, dell’ultima formazione
politica di governo di quella che viene chiamata Seconda Repubblica (per distinguerla da quella di De Gasperi,
Fanfani, Moro, Andreotti, Togliatti, Berlinguer, Nenni e Craxi, La Malfa,
Malagodi e Almirante per intenderci), quella caratterizzata dal sistema dell’alternanza
bipolare. I governi, dal 2011, non potevano più promettere alla maggioranza degli
elettori se non, e parafraso un celebre detto di Winston Churchill in una fase
drammatica del Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale, lacrime e sangue. In un certo senso i
governi della fase di nicchia apertasi alla fine del 2011 sono stati spinti
dall’emergenza nazionale a rendersi autonomi dal Parlamento e dal corpo
elettorale che l’esprimeva. Tanto che, al prodursi della crisi politica del
2011, non si andò a nuove elezioni politiche. L’autorità dei governi, che
possiamo definire di salvezza nazionale,
si basò sull’autorità morale del Presidente della Repubblica e sull’apprezzamento
delle autorità dell’Unione Europea. La gestazione della riforma costituzionale,
dalla fine del 2011 all’aprile 2016, riflette il tentativo di rendere stabile
questa nuova situazione e, infatti, la riforma costituzionale modifica il
sistema delle istituzioni fondamentali della Repubblica centrandolo sul
governo (mentre prima era centrato sul Parlamento), intorno al quale ruotano gli altri vari centri di decisione: le Camere del
Parlamento, le Regioni, le Città Metropolitane e i Comuni, tutto il sistema
economico, insomma, secondo un’espressione che si trova nella legge di riforma,
“l'unità
giuridica ed economica della Repubblica”. E’ questo il senso effettivo
della riforma costituzionale ed è pertanto su questo, essenzialmente, che
dovrebbe basarsi, a mio parere, la valutazione dei votanti nel prossimo
referendum.
Come è stato osservato da molti esperti di diritto pubblico, il disegno
della riforma è stato anticipato dalla nuova legge elettorale per la Camera dei
deputati, approvata nel 2015. Il disegno politico che sta alla base della
riforma costituzionale, in effetti, non può veramente funzionare se non insieme
a quella precedente riforma elettorale. La nuova legge elettorale per la Camera
dei deputati assegna una solida maggioranza di controllo, in quella che con la
riforma costituzionale diventerà la Camera prevalente, quella da cui dipenderà in
particolare la legittimazione dei governi mediante i voti di fiducia, al partito, non più alla coalizione, di maggioranza relativa, quindi, come è stato osservato al maggiore dei partiti di minoranza. E il premio di maggioranza è in effetti un premio di minoranza (così l'ha definito Gustavo Zagrebelski). Il
governo quindi sarà espresso da quel partito, non più da una coalizione di partiti. L’impostazione di quella legge elettorale per la Camera dei deputati dipende dall'ideologia politica cosiddetta "del partito
a vocazione maggioritaria" promossa da alcuni settori del centro-sinistra nel corso ed a fronte delle difficoltà politiche, paralizzanti, emerse durante la legislatura 2006-2008 nella
maggioranza di centrosinistra. In base a quell'ideologia ci si propone di realizzare un governo espressione di un solo partito, maggioritario nella Camera dei deputati in base ai voti ricevuti o per effetto del premio di maggioranza, non di una coalizione, superando in tal modo i problemi creati al governo dalle divergenze insanabili ciclicamente manifestatisi all'interno delle coalizioni e anche il potere di ricatto di partiti minori facenti parte di esse e decisivi per il mantenimento della maggioranza parlamentare.
ll partito di maggioranza relativa e il suo
governo, con elezioni condotte con i nuovi criteri, saranno posti così al
centro del sistema politico italiano, quindi di una specie di sistema solare
nel quale essi saranno al posto del sole, con intorno, ad orbitare come pianeti satelliti, gli
altri centri di decisione politica. Per l’effetto della legge elettorale, che
darà a quel partito una solida maggioranza parlamentare, non sarà più
necessario contrattare ulteriormente
con le parti sociali il consenso politico. Ma nella nostra epoca i partiti non
sono più quelli, solidi, che ci sono stati fino alla fine degli anni ’80:
sono invece definiti liquidi, basati
più su un consenso instabile ottenuto mediante strategie analoghe a quelle utilizzate per
la vendita dei prodotti commerciali che su un forte radicamento sociale sul
territorio nazionale. E, infatti, come i prodotti commerciali, i partiti
nazionali contemporanei cambiano spesso, con molta disinvoltura, le denominazioni
e i profili proposti al corpo elettorale. In una situazione così, sarà il governo espresso dalla
maggioranza politica al centro di tutto
il sistema politico, perché, in definitiva, il partito sarà tenuto coeso dapprima
dal gruppo politico candidato al governo e poi, vinte le elezioni, dal governo
in carica. Quindi invece che ruotare intorno ai 730 (più gli ex Presidenti
della Repubblica) parlamentari del Parlamento riformato, il sistema politico
nazionale ruoterà intorno alle circa venti persone, o meno, che, presidente del
Consiglio dei ministri compreso, comporranno, il governo, ma, in definitiva,
intorno al presidente del Consiglio, che verosimilmente continuerà ad essere
anche il leader del partito di
maggioranza, l’unico in grado di dare coesione sia al sistema di governo che a
quello di partito.
Le prime elezioni politiche
della Camera dei deputati condotte con la nuova legge elettorale e dopo l’entrata
in vigore della riforma costituzionale determineranno la fine della fase di nicchia della politica nazionale apertasi a fine 2011.
In quel momento, infatti, l’autorità del governo in carica non dipenderà più da
una informale legittimazione aggiuntiva, potenziante, concessa dal Presidente della Repubblica e dall’Unione
Europea, per gestire un fase emergenziale.
Difficile prevedere chi vincerà
quelle elezioni, che potrebbero riservare notevoli soprese, secondo gli attuali
sondaggi. E’ però verosimile che il leader
del partito vincente avrà in mano la
Repubblica, per la posizione rafforzata che il Governo avrà nella Costituzione
rafforzata. Ma per fare che? E’ un bel problema capirlo.
Finita la fase emergenziale gestita in accordo con le
autorità dell’Unione Europea, che in qualche modo tracciavano quella via di lacrime e sangue di cui ho parlato, e quindi un preciso programma di governo, quali saranno le nuove
politiche nazionali?
I maggiori partiti nazionali, e
i loro leader, parlano di riforme, genericamente, quindi si
propongono di essere attivi, ma i loro programmi politici non sono per ora
intelligibili in dettaglio, perché in genere ci si limita alla propaganda, mediante la quale,
sostanzialmente si propone agli elettori di accettare, in cambio del consenso
politico, una cambiale in bianco a lunga scadenza. Si chiede il
consenso politico, ma anche mani libere. Il nostro futuro nazionale sarà, in
definitiva, affidato alla buona volontà e alle capacità di quella ventina di
persone che, sulla base di quel consenso, avranno raggiunto il potere. Di lì,
per effetto anche della riforma costituzionale, potranno cambiare veramente l’Italia,
come mai a un governo del passato è stato concesso. E i cambiamenti potrebbero
essere difficilmente reversibili. Le remore poste dal Parlamento non saranno
più sufficienti a impedirli, perché la Camera dei deputati sarà controllata
dalla maggioranza di partito che sostiene il Governo e il Senato sarà Camera minore,
destinata a soccombere in molti affari di stato. Il Governo, infine, attraverso
la Camera da esso controllata potrà invadere piuttosto liberamente il campo che
in Costituzione è assegnato alla Regioni e nel nuovo Senato, espressione
tendenzialmente di particolarismi territoriali locali, potrebbe non essere facile
coalizzare, tra gli esponenti eletti da tante Regioni, la maggioranza assoluta dei suoi componenti necessaria per tentare di bloccare
l’invasione da parte di una legge dello stato delle competenze legislative di una Regione (le leggi statali che invadono il campo legislativo regionale sono
soggette a una procedura di approvazione rafforzata che potenzia il ruolo del Senato, restando comunque l'ultima parola alla maggioranza assoluta della Camera dei deputati).
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte
Sacro, Valli