Ripubblico di seguito
una serie di miei appunti sul tema "Azione Cattolica, fede e
democrazia". Si tratta, sostanzialmente, di un piccolo libro su quegli argomenti.
E' quindi un testo abbastanza lungo. A coloro che sono interessati, consiglio
di fare "copia-incolla" e di leggerlo a tappe.
Ci volesse
continuare ad approfondire, può farlo ad esempio su testo di Pietro Scoppola
"La democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico nell'Italia
unita" - Intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, 2005, ancora in
commercio.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Azione Cattolica: fede religiosa e democrazia
riflessioni per il
gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente papa Roma, Monte Sacro,
Valli
di Mario Ardigò
1
Azione Cattolica F.A.Q.
2
Azione Cattolica è azione nella
società democratica
(26
settembre 2012)
3
Agire da gente di fede nella società
democratica di oggi
(29
settembre 2012)
4
Libertà e democrazia come esperienze
collettive di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza. Esse contrastano con la nostra
esperienza religiosa? (30 settembre 2012)
5
Fede religiosa, uguaglianza e
democrazia: relazioni in veloce
evoluzione (1
ottobre 2012)
6
La libertà come opportunità religiosa
in democrazia (1
ottobre 2012)
7
L’uguaglianza come pari dignità
sociale è alla base delle democrazie di
popolo contemporanee
(3 ottobre
2012)
8
Un appello per ripartire insieme
(4 ottobre
2012)
9
Le ragioni di un lavoro insieme
(5 ottobre
2012)
10
Azione Cattolica: un’esperienza di
Chiesa
(7 ottobre
2012)
11
Noi cattolici: cittadini o stranieri
nella società in cui viviamo?
(8 ottobre
2012)
12
Europa, pace, diritti umani. E noi?
Abbiamo vinto il premio Nobel.
(13 ottobre
2012)
13
Insieme per agire da gente di fede
(14 ottobre
2012)
14
Costruire nella società per narrare
il fondamento della nostra speranza
(12 ottobre
2012)
15
Noi: popolo di Dio
(15 ottobre
2012)
16
Essere popolo unito da una fede
religiosa
(16 ottobre
2012)
17
Unire le genti per una vita buona
(17 ottobre
2012)
18
Un popolo nuovo
(19 ottobre
2012)
19
Micro-Macro e la ricerca della
felicità
(20 ottobre
2012)
20
Uguale dignità nella Chiesa tra tutti
i fedeli
(21 ottobre
2012)
21
Città di Dio, città dell’uomo, città
del diavolo
(22 ottobre
2012)
22
Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!
(24 ottobre
2012)
23
E pluribus unum: quale fondamento per l’unità?
(25 ottobre
2012)
24
Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella
società
(27 ottobre
2012)
25
Fare memoria di un’alleanza
(30 ottobre
2012)
26
Azione Cattolica: insieme per
promuovere la pace universale
(1 novembre
2012)
27
Un nuovo modello globale di
organizzazione e convivenza dell’umanità. Il modello della famiglia umana.
(2 novembre
2012)
28
Realtà invisibili
(3 novembre
2012)
29
A occhi aperti
(5 novembre
2012)
30
La città dell’uomo
(7 novembre
2012)
31
Una lunga storia
(8 novembre
2012)
32
Sentirsi responsabili di tutto
(10 novembre
2012)
33
Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò
che di vitale si è ricevuto dal passato
(14 novembre
2012)
34
La fede fa scandalo?
(16 novembre
2012)
35
Fede e promozione umana
(19-11-12)
36
Conflitto come esperienza religiosa
(19 novembre
2012)
37
Una riunione “politica”
(23 novembre
2012)
38
Noi e la storia. Chi siamo veramente?
(28
novembre 2012)
39
La parrhesia* evangelica
(29
novembre 2012)
40
Eterno presente o apertura verso un
futuro diverso
(30 novembre 2012)
41
Sollecitudine nel lavoro relativo
alla terra presente e rilevanza religiosa della democrazia
(1 dicembre
2012)
42
La pace universale come finalità
religiosa
(3 dicembre
2012)
43
Che fanno i laici cattolici nel
mondo?
(3 dicembre
2012)
44
Laicità dello stato: nuovo fronte
religioso?
(9 dicembre
2012)
45
Civiltà cristiana e Azione Cattolica
(15 novembre
2012)
46
L’incontro della Chiesa col mondo
(23 dicembre
2012)
47
Cattolicesimo forza di progresso?
(29 novembre
2012)
48
Fede religiosa, forza di progresso
(4 gennaio
2013)
49
Noi, la Chiesa e la società nella
crisi
(7 gennaio
2013)
50
Un processo continuo di liberazione
(8 gennaio
2013)
51
Pace come promozione umana
(13-1-13)
52
Unita’/comunione nella Chiesa e
promozione umana
(13 gennaio 2013)
53
Scrutare
i segni dei tempi
(15 gennaio
2013)
54
Fede cristiana: speranza credibile
e onesta o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19 gennaio
2013)
56
Democrazia, difficile virtù
(22-3-16)
57
Dottrina sociale,
liturgia e Concilio Vaticano 2°
(23-3-16)
58
Convincersi della democrazia
(24-3-16)
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1
Azione Cattolica – F.A.Q.
(domande più frequenti)
(le risposte alle
F.A.Q. che seguono sono frutto di una elaborazione fatta da Mario Ardigò, sulla
base di quello che pensa di aver capito dell’Azione Cattolica. Non esprimono
necessariamente il pensiero dei vertici associativi, né rappresentano
un’interpretazione autentica dell’ideologia associativa – I lettori sono quindi
invitati a verificarne personalmente la
correttezza e fedeltà e a far pervenire eventuali rettifiche o integrazioni
all’account <marioardigo@yahoo.com>; di esse si darà atto nel blog)
1. L’Azione Cattolica è Chiesa
cattolica?
L’Azione Cattolica è una delle
associazioni di laici inserite nell’organizzazione della Chiesa cattolica italiana.
Il suo statuto è approvato dal Consiglio
Episcopale Permanente della Conferenza
Episcopale Italiana. Vi sono diverse altre associazioni che hanno analoghe
caratteristiche di particolare legame con l’organizzazione della Chiesa
cattolica italiana.
2. Chi è il laico?
Il laico è il fedele
cattolico che non è né diacono, né prete, né vescovo (vale a dire membro dell’ordine sacro) e che non appartiene a un
ordine religioso o a una congregazione religiosa (che non è, ad esempio, frate
o suora; monaco o monaca) (si veda la definizione che del termine laico si dà nella Costituzione dogmatica
del Concilio Vaticano II Lumen Gentium,
al n. 31).
3. Per essere un fedele cattolico laico è indispensabile aderire
all’Azione Cattolica?
No.
4. Se un fedele cattolico laico ha già aderito ad un altro gruppo
religioso laicale o ha il proposito di farlo, può associarsi all’Azione
Cattolica?
Sì. L’adesione all’Azione Cattolica non è esclusiva. Si può
far parte di altri gruppi laicali.
5. L’Azione Cattolica è un gruppo di spiritualità?
No. Ciò che caratterizza l’Azione Cattolica non è un particolare tipo di spiritualità, anche se i
gruppi locali e le altre articolazioni associative esprimono anche una vita
spirituale. Ciascun associato manifesta poi la propria, liberamente scelta.
Alla vita associativa partecipano i Sacerdoti Assistenti per contribuire ad
alimentare la vita spirituale e il senso apostolico.
6. L’Azione Cattolica è un gruppo di preghiera?
No, anche se nelle riunioni associative vi sono momenti di
preghiera.
7.L’Azione Cattolica è un gruppo di approfondimento biblico?
No, anche se associandosi ci si impegna ad approfondire le
tematiche bibliche.
8. L’Azione Cattolica è un gruppo di approfondimento culturale?
No, anche se associandosi ci si impegna a conoscere e capire
di più del mondo in cui si vive.
9. L’Azione Cattolica è un gruppo per il catecumenato?
No. La conversione, il catechismo per il Battesimo e il Battesimo sono dati per presupposti. In
ogni parrocchia dovrebbe essere costituita un’organizzazione specifica per
queste esigenze.
10. L’Azione Cattolica è un gruppo per il catechismo?
No, anche se associandosi ci si impegna ad approfondire le
verità di fede. In ogni parrocchia dovrebbe essere costituita un’organizzazione
che si occupa specificamente del catechismo, per i fedeli di tutte le età.
11. L’Azione Cattolica è un gruppo di propaganda religiosa?
No. Essa infatti vuole stabilire con i propri interlocutori
una relazione molto più profonda.
12. L’Azione Cattolica è un gruppo che lavora per il proselitismo
religioso o associativo?
L’Azione
Cattolica è certamente impegnata, in diretta collaborazione con il Papa e i
vescovi, a far conoscere il Vangelo, ad esporre le verità di fede, a far
comprendere gli ideali religiosi cristiani, a presentare correttamente il fine
e l’azione della Chiesa nel mondo e il significato della sua liturgia, a
raggiungere gli altri nel loro bisogno di religiosità, ad aiutare tutti a
migliorarsi secondo la fede professata
e, in particolare, a capire come fare per meglio favorire l’accettazione nel
mondo di quegli ideali. Ma il proselitismo religioso o associativo, l’obiettivo
di “far numero”, di “distribuire tessere”, non è tra le sue finalità dirette, anche se il
riavvicinamento alla vita della parrocchia e adesioni associative possono
effettivamente conseguire dalle sue attività.
13.L’impegno degli associati all’Azione Cattolica parrocchiale è
principalmente in parrocchia?
L’Azione Cattolica ha
come primo impegno la presenza e il servizio nella Chiesa locale, quindi anche
nella parrocchia. Tuttavia, in quanto associazione di laici, in essa è
fondamentale l’impegno nella società civile, luogo privilegiato dell’azione
laicale, per favorire l’affermazione dei valori religiosi.
14. Associandosi all’Azione Cattolica si è sottoposti ad un giudizio
sulla propria vita?
No.
15. L’adesione all’Azione Cattolica richiede un cambiamento di vita?
No. L’associazione si ritiene arricchita dai doni che le
provengono dalle diverse condizioni ed esperienze di quanti partecipano alla
sua vita.
16. L’adesione all’Azione Cattolica comporta particolari pratiche
religiose?
No.
17. L’adesione all’Azione Cattolica comporta particolari pratiche di vita, oltre quelle raccomandate a
tutti i fedeli laici?
No.
18. L’adesione all’Azione Cattolica richiede un particolare livello
culturale o scolastico?
No.
19. L’adesione all’Azione Cattolica si sviluppa per gradi iniziatici,
vale a dire da livelli inferiori a livelli superiori di perfezione?
No. Si è membri a pieno titolo fin dal primo giorno e fin
quando si vuole.
20. Per chi è l’Azione Cattolica?
L’Azione Cattolica è per
tutti i fedeli laici cattolici e di
tutti i fedeli laici cattolici.
21. L’Azione Cattolica risolve i problemi personali degli associati?
Gli associati si impegnano anche a
favorire la comunione fra di loro, quindi anche all’aiuto reciproco, ma non è
detto che dall’associarsi in Azione
Cattolica derivi la soluzione dei propri problemi personali. Non farei quindi molto affidamento su questo
aspetto.
22. L’Azione Cattolica risolve, in particolare, i problemi affettivi o
di socialità?
Può accadere. Ma non
è scontato che accada. Non vi farei molto affidamento.
23. Le persone che, associandosi, si spendono per le finalità
dell’Azione Cattolica devono aspettarsi riconoscimenti o corrispettivi, anche
solo morali o affettivi?
No. Ci si associa perché si sente bisogno di agire in gruppo
in relazione a certi obiettivi che si pensa di non poter raggiungere
individualmente. Ma, come tutte le esperienze sociali umane, anche quella nei gruppi di Azione Cattolica finisce in genere
per deludere certe alte aspettative, almeno sotto il profilo umano. Solo
alla lunga e considerandola complessivamente, specialmente verso la fine di una
vita, se ne può essere in fondo soddisfatti, soprattutto se la si considera con sguardo soprannaturale,
andando contro le apparenze, in spirito evangelico.
24. Chi comanda in Azione Cattolica?
L’Azione Cattolica
è retta su basi democratiche. Tuttavia i
suoi presidenti, a tutti i livelli (nazionale, diocesano, locale) sono
nominati dall’autorità ecclesiastica, su proposta dei rispettivi consigli. A
livello della parrocchia, l’Azione
Cattolica è presente con un’associazione
parrocchiale, che è un’articolazione di quella diocesana. Gli organi
dell’associazione parrocchiale di Azione
Cattolica sono: l’assemblea parrocchiale (programma la
vita associativa e verifica l’attuazione del programma; elegge il consiglio
parrocchiale); il consiglio parrocchiale
(promuove lo sviluppo della vita associativa secondo le linee del programma
approvato dall’assemblea; assicura la presenza dell’associazione nelle
strutture di partecipazione ecclesiale; mantiene i rapporti di amichevole
collaborazione con le gli altri gruppi della parrocchia; propone al parroco la
nomina del presidente parrocchiale); il/la presidente
parrocchiale (nominato/a dal parroco, sentito il vescovo ausiliare
territorialmente competente - promuove e
coordina l’attività del consiglio parrocchiale; convoca e presiede l’assemblea
parrocchiale; insieme al consiglio tiene costanti rapporti con il parroco; si
fa garante degli amichevoli rapporti con l’associazione diocesana; rappresenta
l’associazione parrocchiale).
25. Ma, insomma, quali sono le caratteristiche per le quali l’Azione
Cattolica si differenzia da altri gruppi laicali?
Non è né facile né
semplice rispondere a questa domanda. Bisogna considerare non solo gli statuti
associativi, ma anche la storia dell’Azione
Cattolica italiana. E, per quanto riguarda gli statuti associativi, bisogna
saper intendere bene il sofisticato gergo
teologico con cui sono stati scritti.
Nello statuto
nazionale (articoli 1 e 2) è scritto che l’Azione
Cattolica è fatta di laici che si impegnano liberamente, per impregnare
dello spirito evangelico le varie comunità e i vari ambienti. Più avanti
(art.3) è scritto che gli associati si impegnano in particolare anche ad informare dello spirito cristiano le scelte
da loro compiute con propria responsabilità personale, nell’ambito delle realtà
temporali (cioè, traducendo dal gergo teologico, nella società civile). E, ancora, (art.11) che quella in Azione Cattolica è un’esperienza popolare e democratica. Essa poi è presentata come rivolta alla crescita della comunità
cristiana e si dice animata dalla tensione verso l’unità, da costruire partendo da diverse
esperienze e condizioni di vita. Nell’Atto
Normativo Diocesano della Diocesi di
Roma è scritto che l’esperienza in Azione
Cattolica è una palestra di democrazia e di responsabilità civile.
La storia. Dalla fine
del Settecento cominciano a diffondersi e ad essere attuati, a partire
dall’Europa, ideali democratici di organizzazione sociale. Si produce una
profonda e tragica frattura tra l’organizzazione di vertice della Chiesa
cattolica, espressa dal clero, e i movimenti democratici. Essa attraversa i popoli
evangelizzati. In Italia si complica per l’interferenza del potere temporale
dei Papi con la questione dell’unità nazionale. L’esperienza storica dell’Azione Cattolica è stata la manifestazione di vari tentativi
di realizzare, senza rompere l’unità ecclesiale, una partecipazione di popolo alla missione
della Chiesa attuata con maggiore responsabilità laicale e secondo criteri di
non esclusiva soggezione gerarchica, sia ideale e programmatica che pratica,
almeno nelle cose che riguardano l’organizzazione della società civile. In ciò
consiste appunto la sua tendenziale democraticità.
L’impegno nel sociale è venuto poi assumendo anche il significato di un tentativo di comporre la
plurisecolare diffidenza dei vertici ecclesiali, e quindi anche della teologia
ritenuta ortodossa dall’autorità, verso le acquisizioni delle scienze
contemporanee, sia naturali che umane. Infine, dal punto di vista politico,
quello di mediare per giungere al superamento del risentimento storico del
papato per la perdita del potere temporale in Italia e della storica
indifferenza dei vertici ecclesiali verso i regimi politici democratici
rispetto a quelli non democratici o addirittura antidemocratici (venuta meno
solo nel 1944 con il radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII, mentre ancora
agli inizi del secolo il Papa allora regnante aveva condannato l’idea di una
democrazia cristiana). Con ciò è
chiaro che si è trattato di un’azione che ha riguardato non solo la società
civile, ma anche la stessa Chiesa. Essa si inquadra in un movimento storico di
pensiero e di azione i cui ideali hanno trovato ampia espressione nei documenti
del Concilio Vaticano II (svoltosi a Roma, nella Città del Vaticano, dal 1962
al 1965). A partire da tale evento l’Azione Cattolica, sotto la presidenza di
Vittorio Bachelet, ha fatto della piena attuazione, nella Chiesa e nel mondo,
dei principi stabiliti da Concilio Vaticano II
uno dei suoi principali obiettivi.
26. Vediamo che nel gruppo di Azione Cattolica in San Clemente Papa
prevalgono gli elementi più anziani. Perché?
Il gruppo si trova in
una fase di passaggio. In realtà è composto da persone di diverse età, dai
vent'anni ai novanta. E' portatore di una tradizione culturale importante che
deve passare da una generazione all'altra: questo è il lavoro che attualmente è
in corso. Nei decenni passati l'attenzione del laicato si è forse concentrata
su altri temi, ritenuti più urgenti, e su altre esperienze religiose. Oggi dai
vescovi italiani viene un rinnovato appello ai laici cattolici per un impegno che
corrisponde a quello tipico di Azione Cattolica.
La partecipazione
alla riunione del martedì alle cinque del pomeriggio può risultare difficoltosa
a chi lavora e si deve occupare di figli ancora bambini o molto giovani. Ci
sono altre modalità per tenersi in contatto. I più giovani possono pensare a
incontri a loro specificamente dedicati. E' importante tuttavia mantenere
un'occasione periodica di incontro per tutti gli associati, appunto per
favorire il passare di una tradizione di generazione in generazione.
Nell'organizzazione nazionale e diocesana dell'Azione Cattolica vi sono settori
distinti per le varie età e condizioni della vita. Tuttavia il lavoro che si fa
parte dall'idea che c'è un unico popolo
che attraversa la storia dell'umanità.
27. Che fa l’Azione
Cattolica per la parrocchia?
L’Azione Cattolica opera principalmente nella
società del suo tempo, come un fermento, come il lievito in un impasto. Di
questa società fa parte anche la parrocchia.
Due sono i campi in
cui un gruppo di Azione Cattolica parrocchiale può dare un proprio
caratteristico contributo: l’approfondimento dei temi del Concilio Vaticano 2°
e la pratica della democrazia nella vita di fede. Questo può servire per fare
spazio agli altri, per aprirsi agli altri, per convivere serenamente con il
pluralismo della società del nostro tempo, che si riflette anche nelle nostre
collettività religiose. L’esperienza dell’Azione Cattolica nacque
nell’Ottocento proprio con queste finalità, scegliendo una strada diversa da
quella dell’intransigentismo dell’epoca, della dura opposizione contro ogni
moto di progresso sociale: oggi si direbbe del fondamentalismo. Essa si propose di far uscire le collettività
religiose da una condizione di arretratezza culturale, sociale e politica e di
separatezza dal contesto nazionale. Un impegno che appare sempre attuale.
Infatti è sempre viva in religione la tentazione di bastare a se stessi, la
paura di perdersi in un contesto in cui ogni opzione di vita ha lo stesso
valore e vengono a mancare solide fondamenta. In realtà si tratta di
ricostruire pazientemente, di epoca in epoca, le città degli esseri umani, secondo l’auspico di Giuseppe Lazzati,
dove essi possano vivere liberi e felici. Senza una visione di fede è arduo
riuscirci, anche se storicamente le religioni sono state anche fonte di
oppressione e di infelicità. Eppure l’era delle democrazie contemporanee si
apre, nel nord America di fine Settecento, con rivoluzionari che affermano
solennemente che tutti gli uomini sono “creati” uguali e per questo hanno diritto alla ricerca della
felicità: ecco la fede religiosa che libera. Lo ha ricordato papa Francesco nel
suo viaggio negli Stati Uniti d’America
di quest’anno.
Per chi vi volesse
approfondire segnalo i seguenti link:
Statuto AC Nazionale:
http://www.acroma.it/sites/default/files/allegati/1/statuto%20AC.pdf
Atto normativo diocesano:
http://www.acroma.it/sites/default/files/allegati/1/Atto%20Normativo%20Diocesi%20di%20Roma.pdf
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2
Azione Cattolica è azione nella società democratica
(26 settembre 2012)
Le associazioni e i
movimenti ecclesiali hanno sempre qualcosa che è comune a tutti e qualcos’altro
che è peculiare di ciascuno di essi. Qual è lo specifico dell’Azione Cattolica?
L’Azione Cattolica
nasce nel Novecento per confrontarsi con le democrazie popolari di massa da
persone di fede. Essa venne costituita dal papato, quindi dall’autorità
ecclesiale, sulla base di un vivace movimento sorto tra il laici cattolici
italiani nel corso dell’Ottocento. L’ “azione” che c’è nella sua denominazione
è dunque essenzialmente quella nella società.
Si tratta di
un’associazione di laici convinti della propria fede e persuasi che democrazia
ed esperienza religiosa non siano in antitesi. L’idea fondamentale alla base
dell’esperienza associativa è che i valori della fede possano plasmare la
società civile attraverso l’opera di laici che cooperano democraticamente con
le altre forze sociali, in un contesto istituzionale democratico. L’Azione
Cattolica non ha scopi puramente difensivi degli interessi della Chiesa come
istituzione, né è volta ad assoggettare la società civile al governo
dell’autorità ecclesiastica. Non mira a ritornare ai tempi passati, non è
quindi una forza reazionaria. E’ non è nemmeno una forza conservatrice, perché,
in particolare dopo il Concilio Vaticano 2°, è impegnata nella riforma sociale
secondo gli ideali evangelici: in questo senso è un movimento che punta a un
miglioramento, quindi a un progresso, della società civile.
Nell’esperienza di
Azione Cattolica è molto importante l’approfondimento delle verità di fede come
parte di una spiritualità che cerca un’adesione consapevole e informata alla
religione professata. E tuttavia quello in Azione Cattolica è un impegno che
presuppone una formazione catechistica precedente. Non è quindi caratterizzata
da un percorso di iniziazione religiosa. Si entra già persuasi della propria
fede.
Gli associati
nell’Azione Cattolica partecipano alle attività liturgiche e di formazione
della Chiesa, ma ciò che caratterizza veramente il loro impegno, quello che è
loro peculiare, è l’impegno collettivo e individuale nella società in cui
vivono da laici, con piena cittadinanza. L’Azione Cattolica non è quindi
un’aggregazione che vuole costituire un’alternativa a quel tipo di impegno, un
mondo chiuso in sé stesso dove sviluppare la propria socialità e la propria
personalità. I momenti di incontro che si hanno nell’associazione sono diretti
a migliorare l’azione nella società che c’è fuori, in cui gli aderenti vivono,
da laici, nella famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella politica.
Detto ciò, è chiaro
che nei gruppi spesso si sperimenta una certa distanza tra gli ideali
associativi e la realtà particolare. Accade anche a noi, in San Clemente Papa?
L’età media del
nostro gruppo è piuttosto alta: in che cosa ci differenziamo da un “gruppo
anziani”?
Giovani e anziani
possiamo riscoprire di avere tra noi, nella nostra esperienza associativa, un
tesoro prezioso da preservare, che è quel modo di impegno nella società, da
gente di fede, di cui dicevo. Qualcosa che ci è proprio e che non ha
attualmente sostitutivi. Qualcosa che è ancora necessario alla Chiesa di oggi.
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3
Agire da gente di fede nella società democratica di oggi
(29 settembre 2012)
In una società
ordinata democraticamente le moltitudini dei cittadini hanno la possibilità di
influire di più sul corso delle cose. E ci sono valori da definire, perché,
quando si comanda in molti, bisogna trovare un accordo per rispettarsi a
vicenda e poi su quello che deve essere fatto e su come farlo, e infine per
stabilire come si forma la volontà di tutti, che necessariamente deve, alla
fine, essere unitaria. In una monarchia assoluta, come ce ne sono state in
passato e come ce ne sono ancora (poche,
non so se si arriverebbe a cinque volendo fare l’inventario), è diverso. Decide uno solo, o meglio, spesso, decide la
famiglia reale o la corte che ruota intorno ad essa e gli altri devono attuare,
con una discrezionalità più o meno ampia. Come una volta si provvedeva a
istruire e formare i giovani rampolli delle famiglie regnanti, così ora questo
lavoro si fa su più larga scala, perché vanno formate all’esercizio della
sovranità le masse dei cittadini. Il sistema dell’istruzione pubblica serve
anche a questo.
L’avvento, dalla fine
del Settecento, delle democrazie, non è stato indolore per la Chiesa cattolica,
mentre non vi sono stati problemi per altre Chiese cristiane, come quelle che
sorressero fin dagli inizi le idealità del nuovo stato federale uscito dalla
rivoluzione nordamericana contro il Regno Unito (“In God we trust – Confidiamo in Dio” fu ed è uno dei suoi motti). Quale ne è stata
la ragione? Il problema è che la Chiesa cattolica era (ed è ancora) ordinata
come una monarchia assoluta. E una di quelle monarchie assolute contemporanee
di cui dicevo l’abbiamo proprio qui a Roma ed è la Città del Vaticano, che la
Santa Sede ha ordinato come un vero e proprio stato, con una propria
costituzione, propri uffici e servizi amministrativi e giudiziari, una propria
polizia e un piccolo (ma molto motivato) esercito.
Con l’avvento, in
Europa, delle democrazie, i cattolici, laici e clero, si posero il problema di
come e su che basi influire in esse. I Papi, nell’Ottocento e fino a metà del
Novecento, considerarono con preoccupazione la politica democratica. Una
pronuncia in questo senso la troviamo ancora agli inizi del Novecento,
rispondendo a che pretendeva di conciliare democrazia e valori esplicitamente
cristiani. Diciamo così i Papi che non si fidavano tanto dei nuovi “sovrani”,
delle masse elevate alla cittadinanza, anche se anche gli antichi monarchi
assoluti avevano dato problemi. In Italia le cose furono complicate dalle
caratteristiche specifiche del nostro processo di unificazione nazionale che,
per il fatto che il Papa era sovrano temporale nel Centro Italia, e soprattutto
possedeva Roma, si svolse anche “contro” la Santa Sede, il cui stato, ad un
certo punto, fu invaso militarmente, con
morti e feriti (Nella Chiesa di San Luigi dei Francesi una lapide li
commemora). La prima presa di posizione pubblica di un Papa che in cui fu
dichiarato che la democrazia il regime politico preferibile risale al 1944
(radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII): la trovate sul WEB al seguente
indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
La riflessione della Chiesa sui problemi
creati dall’avvento delle democrazie e sulle opportunità determinate
dall’elevazione di moltitudini alla sovranità, con piena cittadinanza, si è
espressa in quel vasto corpo di insegnamenti che va sotto il nome di “dottrina
sociale della Chiesa” e che si suole far partire dall’enciclica Rerum Novarum, del 1891, del Papa Leone
13°. La trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father//leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html
Gli insegnamenti i questa materia vengono
promulgati con autorità dai pontefici e dai vescovi, ma hanno sempre avuto l’ampia
collaborazione dei laici nella loro ideazione e, più di recente, anche nella
loro formulazione. Infatti, quando si deve trattare del mondo fuori dei templi,
quello che nel gergo ecclesiale viene definito “il temporale”, gli specialisti
sono, in fondo, i laici. Questo è stato riconosciuto formalmente in alcuni
importanti documenti normativi del Concilio Vaticano 2°, ma era già una realtà
anche prima.
Oggi la dottrina sociale della Chiesa
cattolica comprende un corpo veramente molto esteso, tanto che se ne è fatto un
compendio, una sorta di testo unico, che sintetizza dichiarazioni solenni che
si sono avute in un arco temporale ormai più che centenario. Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html
Come risulta da quello che ho scritto prima,
il ruolo dei laici, per quanto riguarda l’azione nel sociale negli ordinamenti
democratici, è primario e comprende anche la fase ideativa. Non si tratta solo
di eseguire decisioni prese da altri. Il Papa e i vescovi ci chiedono
espressamente di collaborare con loro a capire i tempi in cui viviamo. Mi fece
molto impressione, quando il mio gruppo F.U.C.I. (gli universitari cattolici)
venne ricevuto dal cardinal Vicario Poletti), sentire che il mio vescovo
dichiarava che noi giovani eravamo i suoi occhi e le sue orecchie
nell’Università. Me ne sentii lusingato ma mi resi anche conto della mia
insufficienza. I tempi nuovi richiedono un impegno maggiore di noi laici: non
possiamo limitarci a farci trascinare da un clero eroico.
E il lavoro nella società richiede soprattutto
un impegno continuo. Le cose non possono essere pensate una volta per tutte. La
dottrina “sociale” della Chiesa, a differenza di quella “teologica”, è infatti soggetta necessariamente a continui
aggiornamenti, perché i nuovi problemi, in particolare nel mondo contemporaneo,
si producono continuamente. Ma su certe cose è necessario riflettere insieme.
Nessuno, come scrisse Hannah Arendt, da solo, senza compagni, arriva ad avere
una visione sufficientemente completa delle cose. Questa è appunto una delle ragioni per associarsi
nell’Azione Cattolica: dare continuità all’impegno di fede nella società civile
democratica e vedere le cose da più punti di vista.
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4
Libertà e democrazia come esperienze collettive di elevazione delle
moltitudini alla piena cittadinanza. Esse contrastano con la nostra esperienza
religiosa?
(30 settembre 2012)
Da Strada
verso la libertà di Paolo Giuntella, Paoline Editoriale Libri, 2004, a
pag.36 (ancora disponibile in commercio ad € 12,00) :
“…presentare una verità che
vi farà liberi come una
religione repressiva è quanto di meno evangelico si possa immaginare. I tarli
dell’integralismo e della mentalità normativa possono ridurre il Vangelo in
polvere. No. Tutto al contrario di quello che dicono i detrattori, il
cristianesimo è una grande esperienza di liberazione interiore. Le Beatitudini
sono scritte in positivo, indicano un modello, una strada: ‘Beati…’.
Un’esclamazione di gioia, una speranza. Il comandamento cardine del Nuovo
Testamento, l’amore, indica la forza
d’amare, non la forza di non fare.
A me piace usare l’espressione di Martin Luther King, la forza d’amare (che è poi
una delle possibilità di tradurre il vocabolo indiano non violenza; l’altra è la
forza della verità), proprio perché c’è una proiezione dell’amore in fare,
in azione, in forza, appunto, e non in sdolcinatezza, in sentimentalismo.
Dunque amore come energia creativa, come forza della creatività, come
costruire, tessere, unire: una coppia di innamorati, un gruppo di persone (una
comunità), un popolo, il genere umano”.
Quando, in occasione di incontri religiosi, si affronta il
tema della libertà, molte volte si comincia con l'elencarne i danni, si
prosegue con il fissarne limiti precisi e si conclude che la vera libertà sta
nel decidere liberamente di obbedire. Non è così? Questa impostazione crea
qualche problema nel trattare dell’esperienza religiosa nelle società ordinate
come democrazie di popolo e, in particolare, per stabilire se democrazia e
religione possano andare d’accordo. Un argomento in contrario viene tratto dal
fatto che, pur se oggi riconosce che la democrazia è il regime politico
preferibile per la società civile, la nostra Chiesa al suo interno non è ordinata democraticamente e non vuole
esserlo.
La libertà di tutti, dei popoli interi, è uno
degli aneliti fondamentali delle democrazie moderne e, in particolare, delle
democrazie di popolo contemporanee, che si propongono di elevare alla piena
cittadinanza le masse, senza distinzione tra le persone che le compongono.
E’ scritto nell’art.3, 2° comma, della nostra Costituzione, legge fondamentale
della Repubblica italiana:
“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
In questa norma è chiaramente espresso
l’impegno democratico, che in Italia è un obbligo di legge per tutti, di
elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni
personali e sociali, che è come dire alla sovranità comune. Un bel rovesciamento di prospettiva rispetto, ad
esempio, alla condizione degli ultimi nelle monarchie feudali, nelle quali il
potere emanava dall’alto, e poi veniva, come dire, delegato in parte a persone
inserite in diverse posizioni decrescenti di una scala gerarchica in cui, più
in basso di tutti, c’erano moltitudini fatte di chi non contava nulla ed era
semplicemente dominato da quelli che stavano sopra!
In una preghiera di origine evangelica che
recitiamo ogni giorno nella liturgia delle Ore, ai Vespri, il Magnificat, c’è qualcosa che richiama
quell’idea. In greco fa kazèilen dinàsta
apò trònon/ kài ùpsosen tapinùs, che viene tradotto nella Bibbia CEI 2010
con ha rovesciato i potenti dai troni/ha
innalzato gli umili. La diversità di questa concezione rispetto a quella
democratica sta nel fatto che in quella biblica il risultato è soprannaturale mentre nell’altra è
prodotto da un’azione collettiva e consapevole, da una rivoluzione, dal basso. Rivoluzione ha significato spesso violenza
tra le persone e per questo motivo la Chiesa cattolica, tanto più in quanto
storicamente, fin dalla rivoluzione francese della fine del Settecento, ha
fatto le spese di simili moti, ha posto un’obiezione morale contro di essa. E
tuttavia in un ordinamento democratico contemporaneo certi cambiamenti, certe
riforme anche radicali, possono essere attuati senza violenza, anzi questa è
una delle caratteristica salienti dei regimi politici di questo tipo. Ciò
avviene perché, nella concezione contemporanea, la democrazia integra in sé
anche un sistema molto esteso di valori, che viene definito come quello dei diritti umani: non è fatta solo della
regola per la quale decide la
maggioranza. Molte cose sono infatti sottratte all’arbitrio delle
maggioranze. Ad esempio il principio supremo dell’uguaglianza tra le persone
umane. Ed è proprio per questo che ai tempi nostri l’azione democratica
costituisce un’opportunità importante anche per chi abbia una concezione
religiosa della vita e, in base ad essa, ritenga che le società umane di oggi
possano essere migliorate. Uno dei più importanti auspici che troviamo nella
dottrina sociale della Chiesa espressa dal Concilio Vaticano 2° in poi è quello
che i laici cattolici, cooperando con altre formazioni nella società civile,
riescano a introdurre nei principi fondamentali degli ordinamenti democratici valori tratti dalle idee religiose, mediati, quindi, come dire, tradotti in modo che possano essere
compresi e accolti anche al di fuori della Chiesa, con l’impiego del discorso
razionale e della cultura nel dialogo con le altre componenti della società. Per
riunire intorno ad essa le forze sociali, i popoli e, al limite, l’intero
genere umano, come scrisse Giuntella. Questo
lavoro è centrale in Azione Cattolica. Esso non è altro che
l’espressione della missione della Chiesa nel mondo, tra le genti.
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5
Fede religiosa, uguaglianza e democrazia: relazioni in veloce evoluzione
(1 ottobre 2012)
dal Catechismo della
Chiesa cattolica (1992) n.1934 e 1935 (nella Parte terza: La vita in Cristo; Sezione
seconda: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito; Capitolo secondo: La
comunità umana; articolo 3: La
giustizia sociale; paragrafo 2°: Uguaglianza e differenze tra gli uomini:
1934. Tutti gli uomini, creati ad immagine dell’unico Dio e
dotati di una medesima anima razionale, hanno la stessa natura e la stessa
origine. Redenti dal sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a partecipare
della medesima beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una eguale dignità.
1935. L’uguaglianza tra gli uomini poggia essenzialmente
sulla loro dignità personale e si diritti che ne derivano:
“Ogni genere di
discriminazione nei diritti fondamentali della persona […] in ragione di sesso, della stirpe, del
colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere
superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio” [dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano
2°, 29],
Dunque il principio dell’uguaglianza
universale degli esseri umani, fondamento delle democrazie popolari
contemporanee, è oggi legge anche della Chiesa cattolica, in quanto sancito
dalla Costituzione pastorale Gaudium et
spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e dal Catechismo della chiesa cattolica, il quale è molto di più di un
semplice sussidio per l’iniziazione religiosa, ma è anche un documento
normativo, promulgato dal papa Giovanni Paolo 2° con la Costituzione Apostolica
Fidei depositum, dell’11 ottobre 1992 (alcune modifiche furono
apportate in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, il 15
agosto 1997).
La formulazione di quell’ideale di uguaglianza
sociale che troviamo nella Gaudium et
spes è simile a quella che si legge
nell’art.3, comma 1° della nostra Costituzione (deliberata dall’Assemblea
costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948), la cui
elaborazione iniziò durante i lavori della prima sottocommissione della Commissione
per la Costituzione dell’Assemblea costituente (luglio 1946 – gennaio 1948) in
cui i cattolici erano ben rappresentati, in particolare dai democristiani
Umberto Tupini, che la presiedeva, Giorgio La Pira (al quale si deve la
formulazione dell’art.2 della Costituzione), Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e
Camillo Corsanego. E sostanzialmente essa richiama l’analoga formulazione che
troviamo nell’art.2, 1° comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
(approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-12-1948):
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà
enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni
di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o
di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di
altra condizione.
Ora, vi propongo un lavoro comune, perché, in
tutta sincerità non ho la sapienza necessaria per fare asserzioni sicure sul
tema: cercate nella storia ormai bimillenaria della nostra Chiesa dichiarazioni
normative (atti dei papi, dei concili, dei vescovi) analoghe a quella che trascrivo nuovamente,
della Gaudium et spes, in
materia di uguaglianza:
“Ogni genere di discriminazione nei
diritti fondamentali della persona […]
in ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della
lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al
disegno di Dio”.
Vi sarò grato se mi farete conoscere il
risultato della vostra ricerca.
Intanto ricordo che il 12 marzo
del 2000, durante il Grande Giubileo
dell’anno 2000, il papa Giovanni Paolo 2° presiedette una solenne liturgia
penitenziale denominata Preghiera
universale – Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che comprese
la seguente parte:
[…]
VI. CONFESSIONE DEI PECCATI CHE HANNO FERITO
LA DIGNITÀ DELLA DONNA E L'UNITÀ DEL GENERE UMANO
Un Rappresentante della
Curia Romana:
Preghiamo per tutti quelli che
sono stati offesi
nella loro dignità umana e i cui diritti sono stati conculcati;
preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate,
e riconosciamo le forme di acquiescenza
di cui anche cristiani si sono resi colpevoli.
Preghiera in silenzio.
II Santo Padre:
Signore Dio, nostro
Padre,
tu hai creato l'essere umano, l'uomo e la donna,
a tua immagine e somiglianza
e hai voluto la diversità dei popoli
nell'unità della famiglia umana;
a volte, tuttavia, l'uguaglianza dei tuoi
figli non è stata riconosciuta,
ed i cristiani si sono resi colpevoli di atteggiamenti
di emarginazione e di esclusione,
acconsentendo a discriminazioni
a motivo della razza e dell'etnia diversa.
Perdonaci e accordaci la grazia di guarire le ferite
ancora presenti nella tua comunità a causa del peccato,
in modo che tutti ci sentiamo tuoi figli.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
Viene accesa una lampada
davanti al Crocifisso.
…
Orazione
conclusiva
Il Santo Padre:
O Padre misericordioso,
tuo Figlio Gesù Cristo, giudice dei vivi e dei morti,
nell'umiltà della prima venuta
ha riscattato l'umanità dal peccato
e nel suo glorioso ritorno chiederà conto di ogni colpa:
ai nostri padri, ai nostri fratelli e a noi tuoi servi,
che mossi dallo Spirito Santo
ritorniamo a te pentiti con tutto il cuore,
concedi la tua misericordia e la remissione dei peccati.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
Il Santo Padre in segno di
penitenza e di venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso.
BENEDIZIONE
E INVIO
12
marzo 2000
Il Santo Padre:
Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.
Vi benedica il Padre che ci ha
generati alla vita eterna.
Amen.
Vi benedica il Cristo che ci ha
fatti suoi fratelli.
Amen.
Vi benedica lo Spirito Santo
che dimora nel tempio dei nostri cuori.
Amen.
Vi benedica Dio onnipotente,
Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.
Fratelli e sorelle,
questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore
e ha voluto purificare la memoria
del cammino dei cristiani nei secoli
susciti in tutta la Chiesa e in ciascuno di noi
un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo:
mai più contraddizioni alla carità
nel servizio della verità,
mai più gesti contro la comunione
della Chiesa,
mai più offese verso qualsiasi
popolo,
mai più ricorsi alla logica della
violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni,
oppressioni,
disprezzo dei poveri e degli ultimi.
E il Signore con la sua grazia
porti a compimento il nostro proposito
e ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Amen.
La proclamazione
dell’uguaglianza universale degli esseri umani è oggi quindi parte della
dottrina sociale della Chiesa, un principio promulgato con la massima autorità:
quella di un Concilio ecumenico e di un papa. Il papa Giovanni Paolo 2°, con le parole pronunciate nel 2000 al termine
della preghiera universale di confessione delle colpe e richiesta di perdono ha
anche assegnato a tutti noi fedeli, e in particolare a noi laici che operiamo nel “temporale”, cioè al di
fuori della sfera liturgica di competenza canonica dell’autorità ecclesiastica
e del clero, un compito molto chiaro, da
svolgere con determinazione e senza cedimenti
o arretramenti (“mai più…”),
anche in materia di realizzazione dell’uguaglianza sociale universale.
C’è ancora
molto da fare, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, ideativo.
Ma molto indubbiamente è stato fatto.
Considerate
ad esempio quante volte nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992 –
1997) ricorre il tema dell’uguaglianza. E’ una ricerca che possiamo fare
agevolmente mediante l’indice tematico. Dunque il termine ricorre cinque volte
ai numeri:
n.369:
riguarda l’uguaglianza tra uomo e donna;
n.872: non riguarda l’uguaglianza nella società civile, ma il
contributo all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi alla missione della
Chiesa;
n.1935
(sopra citato)
n.2273:
se ne parla con riguardo ai diritti del nascituro;
n.2377: se ne parla con riferimento alle pratiche di inseminazione e
fecondazione artificiali omologhe.
In sostanza il tema dell’uguaglianza è considerato
nel senso a cui vi si riferiva il citato brano della Gaudium et spes
solo nel n.1935, poche righe.
Molto di più
vi è nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel
giugno 2004, che raccoglie precedenti dichiarazioni del magistero dei pontefici
e dei concili. Si tratta di uno strumento molto utile per avere una visione
d’insieme e coordinata dei temi in esso trattati, tra i quali, appunto, quello
dell’uguaglianza e soprattutto per collegare certe importanti affermazioni alle
fonti da dove derivano.
1965 – 1992
– 1997 – 2000 – 2004: mi pare che si possa rilevare una veloce (tenendo conto
dei tempi occorrenti solitamente nelle cose di religione) evoluzione della
concezione delle relazioni della nostra fede con i temi dell’uguaglianza
sociale e, conseguentemente, della democrazia che anche su di essa di fonda.
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6
La libertà come opportunità religiosa in democrazia
(1 ottobre 2012)
Il nuovo colosso
Non come lo sfacciato gigante di bronzo della gloria greca,
piantato a soggiogare la terra da un confine all’altro,
qui sulle rive della terra d’Occidente si ergerà
una donna potente con una torcia, la cui fiamma
racchiude il fulmine, e il suo nome è
Madre degli Esuli. Dal faro che ha in mano
lampeggia il benvenuto a genti di tutto il mondo;
gli occhi suoi dolci dominano il ponte sospeso
che unisce due quartieri della città.
“Tenetevi pure, terre
antiche, il vostro fasto leggendario!” ella grida
con labbra silenziose. “Datemi
chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che
si accalcano nell’anelito di libertà,
i miseri rifiuti della vostre popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli
sventurati,
innalzando la mia
luce mostrerò loro la porta d’oro!”.
Emma Lazarus, 1883 (traduzione mia)
Avvicinandosi dal
mare e dal cielo alla città statunitense di New York, risalta la gigantesca
statua eretta a fino Ottocento alla foce del fiume Hudson per celebrare
l’indipendenza degli Stati Uniti
d’America, conosciuta come la Statua
della Libertà: raffigura una donna coronata che innalza una torcia con il
braccio destro e nell’altro tiene un libro sul quale è incisa la data
dell’indipendenza americana dal Regno Unito, il 4 luglio 1776; ai suoi piedi vi
sono catene infrante; è la raffigurazione della Libertà che illumina il mondo.
Sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa
americana Emma Lazarus, che sopra ho evidenziato in neretto (l’antico colosso
greco menzionato nel primo verso della lirica era quello, raffigurante il dio Sole – Helios, eretto nel porto della città di
Rodi nel terzo secolo dell’era antica). Comunemente quel monumento è ritenuto
un simbolo degli Stati Uniti d’America, ed è vero, ma rappresenta anche
qualcosa di molto più profondo: infatti ricorda che la guerra di indipendenza
delle colonie nordamericane combattuta nel Settecento contro i britannici fu
una vera e propria rivoluzione, motivata non solo dalla volontà dei coloni di
comandare a casa propria, ma anche da quella di creare un mondo nuovo, con
altri principi rispetto a quelli che dominavano la monarchia europea che
pretendeva di continuare a dominarli; quel proposito che nella poesia è
espresso con il voler aprire la “porta
d’oro” a quelli che oltremare erano considerati rifiuti umani. La Libertà
simboleggiata in quella statua è quindi quella che è associata alla giustizia
sociale ed è molto di più del solo conquistare il potere di decidere che cosa
fare di sé e delle proprie cose, liberandosi in questo dal giogo altrui; non è
solo la liberazione da una lontana monarchia,
è liberazione dal giogo della
diseguaglianza e della discriminazione sociale e anelito ad un nuovo ordine
sociale, ad una nuova condizione di cittadinanza, per dare a tutti
l’opportunità della ricerca della felicità, poiché
gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti
(così è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana). La Statua
della Libertà e la dichiarazione di
indipendenza che essa celebra manifestano una caratteristica delle democrazie
moderne che spesso non è bene intesa: esse sono fondate sul desiderio della
libertà dall’ingiustizia sociale e sull’affermazione di diritti umani sottratti
all’arbitrio umano, sia esso quello di un monarca come anche quello di una
maggioranza. Essa ha quindi sostanzialmente carattere religioso perché non
dipende dall’osservazione e accettazione di come vanno le cose di solito, e
infatti di solito vanno diversamente, ma da principi proclamati, attuati e
difesi come assoluti: nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense ciò è
detto chiaramente, vi sono infatti menzionati esplicitamente Dio e altri ideali
religiosi.
Quando si dice che il
cristianesimo è all’origine di importanti valori della nostra civiltà questo è vero anche per quanto riguarda le
democrazie contemporanee, anche se non bisogna dimenticare che esse si sono
spesso imposte contro gli insegnamenti e i divieti delle autorità
ecclesiastiche e che ciò risalta particolarmente nel caso della Chiesa
cattolica. Una delle epoche più problematiche sotto questo profilo fu quella
del ventennio fascista italiano. Ma oggi siamo in un’era diversa, qui in Italia
e ce ne dobbiamo rallegrare. Possiamo parlare di democrazia e religione senza
dover superare divieti della autorità
civili e di quelle religiose. Ci può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. E’
stata una faticosa conquista, dalla quale non dobbiamo mai accettare di
recedere. Abbiamo quindi, ai tempi nostri, la possibilità, ma anche il compito
e il dovere, di approfondire il tema dell’influsso che come fedeli cattolici
possiamo esercitare per la crescita della società civile e in particolare per
la piena affermazione di quei diritti inalienabili, di quei valori, che sono all’origine delle
idealità democratiche. L’obiettivo, condivisibile anche con coloro che non
hanno le nostre convinzioni di fede, è quello di realizzare, mediante vite
buone, una società in cui sia veramente bello vivere, in libertà e giustizia.
Ciò è parte cruciale dell’impegno in Azione Cattolica.
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7
L’uguaglianza come pari dignità sociale è alla base delle
democrazie di popolo contemporanee
(3 ottobre 2012)
Nel Compendio della dottrina sociale della
Chiesa (2004) si legge una interessante citazione alla nota n.793, a proposito
dell’amicizia civile da intendere
come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale:
« “Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione francese. In fondo sono idee cristiane » ha affermato
Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia a
Le Bourget (1º giugno 1980).
Quelle parole di un papa colpiscono tenendo
conto del carattere marcatamente anticlericale della Rivoluzione francese del
Settecento (1789-1799). E certamente esse non vollero intendere una
giustificazione delle violenze politiche di massa che quei moti espressero o
delle misure restrittive e delle espropriazioni adottate contro la Chiesa
cattolica di allora o degli altri
provvedimenti contro il clero cattolico, ma riconoscere che alcune delle
principali idealità di convivenza sociale manifestate da quei rivoluzionari di
allora corrispondevano anche a principi religiosi cristiani. Naturalmente ai
nostri tempi ci siamo abituati ad una libertà
di espressione del pensiero che nel
Settecento ci sarebbe costata cara. All’epoca non si potevano dedurre liberamente dai principi religiosi certe
conseguenze quanto a riforme sociali.
Quindi dobbiamo capire che certe cose vengono dette talvolta con il senno del poi. E, certo, giudicando con
quel senno del poi, ci possiamo dispiacere che la Chiesa cattolica abbia
espresso non di rado nei secoli passati posizioni arretrate rispetto ad altre
della sua contemporaneità, e lo riconosciamo perché poi ha appunto dichiarato pubblicamente di pentirsene. La
situazione ai nostri giorni è piuttosto cambiata. Mi riferisco ad esempio alla bioetica in cui il pensiero cattolico,
stimolato dal magistero, è all’origine di un importante e fecondo filone
speculativo che ha portato ad approfondire il tema di quando cominci l’umano
che deve essere riconosciuto nella dignità sua propria, o all’etica
dell’economia e dello sviluppo, come quella espressa nell’enciclica pontificia Caritas in veritate (2009), in cui si è presa consapevolezza
dell’esigenza che dall’interdipendenza umana planetaria discenda la necessità
di un nuovo spirito di fraternità globale.
Soffermandoci sul principio di
uguaglianza, è senz’altro vero che esso è alle fondamenta della democrazie
popolari contemporanee, per intenderci quelle basate sul suffragio universale (alle elezioni politiche votano tutti gli
adulti, maschi e femmine, senza distinzione di istruzione, reddito, condizione
sociale o di stirpe) e sui quei principi assoluti, proclamati solennemente
dalla Nazioni Unite nel 1948 nella Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, che si indicano come diritti umani. Il principio di uguaglianza è uno di essi e viene
così enunciato in quella solenne Dichiarazione,
all’art.2:
1. Ad ogni individuo spettano
tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione,
senza distinzione alcuna, per ragioni di razza,
di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra
condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto
politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona
appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto
ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra
limitazione di sovranità.
Una delle principali eccezioni al
principio di uguaglianza universale è stata storicamente quella della
condizione di schiavitù, superata solo nel corso dell’Ottocento dagli stati europei
ed americani. Dai film western
sappiamo, ad esempio, che una delle motivazioni che furono alla base del
sanguinoso conflitto detto guerra di
secessione (1861-1865) nordamericana fu la
questione dello schiavismo in danno dei deportati dall’Africa. Lo schiavismo fu
istituzione molto antica ed era molto praticato anche ai tempi delle primitive
comunità cristiane, che non vi videro vero motivo di scandalo. Così, in
particolare, per la gran parte della storia della Chiesa cattolica le autorità
ecclesiastiche non vi videro veramente un problema da punto di vista religioso
se praticato da popoli cristiani (al contrario, ad esempio, di quello praticato
dai predoni saraceni che comportava
l’abbandono della pratica religiosa cristiana). Per quanto ho letto, se ne
cominciarono a occupare dal Cinquecento, di fronte alle morie di massa dei
nativi americani costretti in schiavitù dai colonizzatori europei. Monarchie
cattoliche come quella spagnola e portoghese consentirono la deportazione di
massa di schiavi dall’Africa e la riduzione in schiavitù di masse di nativi
americani. I cristiani europei non furono in genere particolarmente sensibili
al tema fino al Settecento, salvo che nel caso di alcuni spiriti illuminati
(anche del clero) e di alcuni filosofi. Lo schiavismo attuato da cristiani
influenzò profondamente il profilo demografico americano, come si può
constatare facilmente in particolare negli Stati Uniti d’America, nei Caraibi e
in Brasile.
L’uguaglianza tra gli esseri umani
non è del resto un dato evidente (un dato è evidente quando esso ci si impone senza che ci si debba ragionare
molto su). La scienza contemporanea ci dice che gli umani condividono tutto il
profilo genetico, tranne però una piccolissima parte che denota importanti
caratteristiche etniche, familiari e individuali. E certe comuni
caratteristiche fisiche e mentali degli umani erano già chiare ai popoli
dell’antichità, come anche però le differenze tra le persone e i popoli. E’
insomma da sempre esperienza comune che ognuno di noi nasce e si sviluppa
diverso dall’altro, benché simile
agli altri. Si tratta di differenze di stirpe, ma anche di altre particolarità individuali nella costituzione
fisica e di caratteristiche psichiche, come quelle relative alla struttura e
all’orientamento sessuali, alle quali si aggiungono differenze derivate dalla
storia individuale e sociale della persona. In definitiva si può dire che l’uguaglianza non è in natura, questo
sicuramente è evidente, mentre certamente gli umani si assomigliano
gli uni gli altri, anche questo è evidente,
e inoltre che gli umani sono viventi sociali che hanno bisogno gli uni degli altri e quindi si sono reciprocamente
complementari e cercano di organizzare le loro società in modo da sfruttare al
meglio questa loro qualità. Nel mondo di oggi, molto complesso e molto più
abitato da esseri umani che nelle epoche passate, riteniamo generalmente che a
questo fine si debba promuovere l’uguaglianza universale tra gli esseri umani per realizzare società in cui le
opportunità di cooperazione pacifica siano potenziate al massimo. Ci figuriamo
infatti che un conflitto su scala mondiale, data la profonda interdipendenza
della società umane e la potenza degli strumenti di distruzione a disposizione,
porterebbe a una catastrofe che metterebbe addirittura in pericolo la
sopravvivenza dell’intera specie umana sulla Terra.
Faccio un esempio tratto dalla
vita quotidiana di oggi: il mio IPAD è stato ideato negli Stati Uniti
d’America, prodotto nella Repubblica popolare di Cina (lo stato che domina
nella Cina continentale) e venduto in Italia: che succederebbe se scoppiasse un
conflitto tra americani e cinesi motivato dall’annosa rivendicazione di
sovranità dei cinesi sull’isola-stato di Taiwan? Naturalmente possiamo fare un
esercizio simile di previsione anche con riferimento ad altri prodotti di cui
non potremmo fare facilmente a meno, mentre tutto sommato all’IPAD si potrebbe
rinunciare.
In che cosa quindi siamo uguali e, innanzi tutto, da dove deriviamo questa pretesa di uguaglianza?
In realtà quella all’uguaglianza
tra gli esseri umani è un’aspirazione e un obiettivo, non (ancora) una realtà, né in natura né nelle
società umane, e si fonda sull’idea che essi abbiano pari dignità, vale a dire
che a tutti loro vadano riconosciuti nella
stessa misura alcuni diritti umani
fondamentali. Questa idea, per quanto ho capito, è di origine
specificamente cristiana.
Si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, al n.144:
144 « Dio non fa preferenze di persone » (At 10,34; cfr. Rm 2,11; Gal
2,6; Ef 6,9), poiché tutti gli uomini hanno la stessa dignità di creature a Sua immagine e somiglianza.
L'Incarnazione del Figlio di Dio
manifesta l'uguaglianza di tutte le persone quanto a dignità: « Non c'è più
giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna,
poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28; cfr. Rm
10,12; 1 Cor 12,13; Col 3,11).
Poiché sul volto di ogni uomo risplende
qualcosa della gloria di Dio, la dignità di ogni uomo davanti a Dio sta a
fondamento della dignità dell'uomo davanti agli altri uomini. Questo è, inoltre, il fondamento
ultimo della radicale uguaglianza e fraternità fra gli uomini,
indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine, cultura, classe.
Quindi: in primo luogo viene in rilievo l’essere
stati tutti creati da Dio, che ci si è manifestato come Padre, e in secondo luogo la fraternità comune in Cristo.
E, quanto alla condizione di creature, c’è un altro elemento importante: la
convinzione di essere stati creati da Dio a
sua immagine, a sua somiglianza (Genesi 1,26).
Riconoscere la pari dignità degli
umani è quindi, nella concezione cristiana, materia di un dovere religioso,
anche se nella storia cristiana sono state riconosciute lecite molte
distinzioni ulteriori, ad esempio quella fra uomo e donna, che sono state poste
alla base di vere e proprie discriminazioni.
Quello che viene espresso nella terminologia biblica, può anche essere detto
così: tutti gli esseri umani devono essere considerati uguali nei
diritti fondamentali. In un caso come nell’altro, sia che la si esprima in
termini religiosi che con altri termini, a questa realtà si crede in modo
religioso, vale a dire a prescindere da quello che si ricava dall’osservazione
delle cose come vanno di solito e, in particolare, della natura, in cui, come ho detto,
l’uguaglianza non esiste e la regola fondamentale è pesce grosso mangia pesce piccolo e sopravvive il più adatto alla
condizioni ambientali e biologiche. Insomma per uno spirito religioso
cristiano l’affermazione della pari dignità creaturale degli esseri umani e
tutto ciò che se ne fa conseguire non è un problema, mentre chi vuol far
discendere quel principio dalla semplice natura,
vale a dire dal nostro essere viventi prodotto della natura, deve affrontare un’insufficienza nel fondamento di quella
pretesa.
Gli illuminati artefici della rivoluzione
nordamericana (1776) della fine del Settecento non trovarono infatti alcun
ostacolo nel proclamare:
We hold these truths to be self-evident, that all men are created
equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable
Rights, that among these are Life, Liberty and the
pursuit of Happiness.
(trad.mia: Crediamo fermamente nell’evidenza di queste verità: che
tutti gli esseri umani sono creati uguali, provvisti dal loro Creatore di alcuni Diritti
inalienabili, e tra essi il diritto alla Vita, alla Libertà
e alla ricerca della Felicità.)
La lotta contro le discriminazioni tra gli
esseri umani nei loro diritti umani è
alla base di molte delle costituzioni delle entità politiche contemporanee, in
particolare di quelle europee e americane e di quelle che a queste ultime si
sono ispirate. L’Unione Europea è tra quelle entità. Bisogna riconoscere che
questa è una materia in cui ci sono state alcune prese di posizione divergenti
tra le autorità civili e quelle religiose. A volte l’affermazione dei diritti
umani è stata considerata antireligiosa. In campo civile si è presa ad esempio
coscienza di forme di discriminazione che la dottrina religiosa non riconosce
come tali. Segnalo solo un problema che è, come si dice, di stringente
attualità. Una di quelle questioni è venuta in rilievo nell’ultima riunione del
nostro gruppo e riguarda la disciplina giuridica delle unioni delle persone
omosessuali. Su di essa ai laici cattolici è lasciata poca autonomia, perché
rientra in quelle riguardanti i valori
non negoziabili, sui quali l’autorità ecclesiastica, con vincolo di
obbedienza canonica, chiede che si segua la sua linea. Ma comunque bisogna
ragionarci su, perché come fedeli laici dobbiamo pur sempre rendere ragione al mondo della nostra
fede e a questo fine non è sufficiente l’argomento “ci è stato ordinato di pensare e di fare così”. Si tratta del resto
di problemi che rilevano ancor più in
materia di fede per la base in fondo religiosa del diritto umanitario.
Nel campo dei diritti umani, le tematiche religiose, e in particolare quelle
cristiane, stanno avendo, un po’ inaspettatamente, una particolare rilevanza
nello sviluppo dell’organizzazione delle società civili più avanzate, in
particolare in Europa. E’ un settore in cui sono chiamati a operare innanzitutto i fedeli laici,
impegnati a spendersi in quello che nel gergo ecclesiale è definita l’animazione del temporale. E’ questo, dall’inizio, uno degli ambiti
spazio in cui l’Azione Cattolica ha deciso di lavorare prioritariamente.
Infondere nelle società civili i valori,
che sono alla base del diritto umanitario, è infatti necessariamente un compito
collettivo, da affrontare insieme,
dopo essersi preparati insieme. Così
anche è da affrontare insieme il
dialogo con altre componenti della società per individuare nelle condizioni
contemporanee altri fattori, oltre a quelli storicamente già noti, che
ostacolino la piena espansione universale della dignità degli esseri umani.
Per molti versi tuttavia in molte realtà
locali il discorso di Azione Cattolica è da riavviare o anche solo da ravvivare, perché nei decenni passati ci si è spesso concentrati su altre tematiche
e altri modi di impegno religioso e si è quindi un po’ perso il senso del
nostro impegno nella Chiesa e nella società civile. Veniamo da lontano, ma
qualche volta appariamo alla gente come un’esperienza nuova, non esattamente in
linea con le altre esperienze di collettività presenti nella vita delle
parrocchie. Ad esempio può apparire che, dove altri mettono l’accento su una
disciplina individuale, noi puntiamo molto sulla libertà delle persone nelle
nostre dinamiche associative, in particolare su quella di pensiero e di
espressione. Eppure la nostra rimane una esperienza di carattere religioso, in
cui si vuole quindi rimanere legati alla fede comune, anche se effettivamente
si punta a scoprire/riscoprire/sperimentare la nostra fede anche come strada verso la libertà, secondo
l’espressione di Paolo Giuntella che ho citato nel post del 1 ottobre scorso.
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8
Un appello per ripartire insieme
(4 ottobre 2012)
Negli ultimi giorni
ho pubblicato alcuni contenuti in cui ho parlato degli obiettivi peculiari
dell’Azione Cattolica nella società civile democratica di oggi. Può sembrare
una cosa un po’ troppo grande per una realtà parrocchiale come la nostra. E per
le nostre forze in concreto. Per certi versi noi dell’A.C. in San Clemente Papa
siamo un piccolo resto, se ci
paragoniamo a come era anni fa il nostro gruppo. Non abbiamo più una nostra
stanza in parrocchia, di volta in volta ce ne assegnano una. Il nostro
assistente ecclesiastico si trova a volte a parlare a poche persone e può
domandarsi se, in fondo, ne valga ancora la pena. Avere una grande storia non
potrà salvarci a lungo dall’estinzione se
il gruppo non si rivitalizzerà con l’ingresso di nuovi soci, in
particolare di soci più giovani. E’ paradossale che questo accada in un mondo
che ha tanto bisogno di ciò che la Chiesa si propone di dare e in un Chiesa che
vuole essere tanto presente nel mondo, in particolare confrontandosi con le
democrazie europee e l’Unione Europea sul terreno dei valori. Questo è appunto da sempre il campo specifico dell’Azione
Cattolica, l’azione nella società civile
per promuovere in essa i valori
religiosi.
E’ possibile che non
si abbia ben chiaro, pensando ad un impegno in Azione Cattolica, che cosa si fa nei nostri gruppi e
soprattutto quali risultati si riescano effettivamente ad ottenere. Bene, innanzi
tutto occorre distaccarsi da una mentalità per così dire aziendalistica, per la quale si somma nei risultati positivi solo
tutto quello che si fa sotto il marchio associativo. Noi riuniamo gente che già opera nella società
nei vari ambiti in cui si può farlo: la famiglia, il lavoro, lo sport, la
cultura e via dicendo. Non dobbiamo inventarci cose nuove da fare lì come
Azione Cattolica. Però formandoci e riflettendo in Azione Cattolica, in un
gruppo che è federato in un’organizzazione che ne condivide le idealità, gli
obiettivi e il metodo, possiamo manifestare meglio nel posto che occupiamo
nella società il nostro essere cristiani
e i nostri valori, dialogando con
altri sui temi e i problemi emergenti.
Per questo occorre una preparazione, sia spirituale che culturale, e una
determinazione che scaturisce da una adesione consapevole e convinta ai valori di fede. Non è un lavoro che troviamo già fatto, come se, per ogni
situazione, la nostra Chiesa, il magistero in particolare, potesse fornirci una
sorta di manuale operativo o di catechismo, e poi a noi spettasse solo di
attuare cose decise da altri. Forse, al di fuori del mondo ecclesiale, si pensa
che tra noi cattolici vada così, che insomma si faccia quello che in dettaglio
viene stabilito più in alto nella scala gerarchica, dal Papa in giù. E’ il
pregiudizio che, da cattolico, dovette superare John Kennedy assumendo la
presidenza degli Stati Uniti d’America. In realtà ognuno di noi porta
effettivamente la personale e diretta responsabilità della porzione di mondo
che è sotto la sua sfera di influenza e le soluzioni vanno ideate e
sperimentate di volta in volta, dialogando nella Chiesa e nella società. Se
oggi si dispera di poter cambiare le cose che non vanno a partire dal basso è
perché è un po’ svanito il senso democratico, che comunque pervade sempre la
nostra società, per il quale si è capaci di individuare e capire la dinamica
dei grandi numeri, delle masse, dietro certi cambiamenti storici. Di
convincersi che in democrazia si cambiano effettivamente le cose a partire
dagli sforzi delle persone nella loro particolare, apparentemente umile e insignificante,
storia. Una parte del lavoro che si deve
fare in Azione Cattolica consiste proprio in questo: nel comprendere meglio
quello che l’azione collettiva democratica ha fatto, sta facendo e può ancora
fare per il bene di tutti, per cambiare il mondo. Democrazia è agire in una
collettività rispettando la personalità e i valori degli altri, con la fiducia
di poter cambiare in meglio la società: l’Azione Cattolica concepisce sé stessa
anche come una palestra di democrazia (Atto
normativo Diocesano di Roma). La fiducia nelle potenzialità dell’agire in
democrazia si acquista lavorando insieme ad altri, in un gruppo aperto alla
società, partecipando ad un’azione collettiva spinta da alte idealità, quali
sono quelle religiose.
La
parrocchia è la casa di tutti e tutti possono trovarvi la loro casa, il tipo di
impegno adatto a loro. L’Azione Cattolica è una stanza di quella casa di tutti,
anch’essa quindi è di tutti e per tutti. E
tuttavia il lavoro in un gruppo di Azione Cattolica può non venire incontro
alle esigenze di tutti, perché in primo luogo esso non è volto tanto ad operare
per coloro che ne fanno parte, a risanarli e sorreggerli nella loro psicologia
e nella loro fede, ma per gli altri che non
ne fanno parte, la società intorno, e poi perché non è centrato tanto su
ciò che si fa nel gruppo ma su ciò
che si deve fare fuori di esso, non
però come specifica collettività religiosa, come ditta ecclesiale, ma come parti della società civile. E l’azione
che si cerca di svolgere nella società è innanzi tutto diretta alla promozione
di valori, la specifica forma di apostolato che compete ai laici, non
tanto a suscitare nuove adesioni al gruppo, all’espansione della nostra
particolare realtà associativa. La particolarità della nostra esperienza
associativa sta proprio nell’apertura
alla società civile, non in un modo particolare di vivere la nostra fede inteso
come spiritualità e disciplina individuale o di gruppo, dal momento che esso
non differisce da quello comune della parrocchia. Mi pare di aver capito quindi
che per associarsi in Azione Cattolica occorra: 1)aver già maturato una fede
salda; 2)avere già una formazione catechistica di base; 3) avere un interesse
alla vita della Chiesa, in particolare alla la missione che in essa e fuori di
essa specificamente compete ai laici;
4)avere interesse ad approfondire i temi proposti ai laici dal magistero, per
quella specifica missione dei laici; 5) avere interesse per le dinamiche
sociali contemporanee ed essere inseriti nella vita della società civile, negli
ambiti propri dei laici (famiglia, lavoro, cultura, sport ecc.), in posizioni
in cui si può concretamente influire su di essa. Per tutto ciò che non è di interesse
specifico di un gruppo di Azione Cattolica la parrocchia offre altre forme di
impegno sociale (ad esempio: catechesi per le varie età della vita, azione
caritativa, socialità per il tempo libero, sostegno alla fede e via dicendo): l’associazione
in Azione Cattolica non è esclusiva e non è totalitaria.
Voglio
concludere osservando questo: per quanto riguarda le fasce d’età 30/50 anni il
nostro gruppo deve ripartire in pratica dall’inizio, si tratta di ripensarlo da
capo. Ad esempio, partecipare ad una riunione con inizio alle ore 17:00 può
essere difficile per persone di quell’età (io ho 55 anni e trovo difficoltà; la
mia prole a quell’ora è quasi sempre impegnata all’università). Ma si possono
escogitare alternative.
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9
Le ragioni di un lavoro insieme
(5 ottobre 2012)
Nei giorni scorsi ho
scritto sull’esperienza associativa in gruppo di Azione Cattolica. E certo ci
si possono immaginare dei risultati. Ma non vorrei dare per scontato che si
abbia chiaro perché, in definitiva, ci si debba unire per ottenerli. Qual è il
movente interiore per fare questo? Non posso vivere la mia fede
nell’interiorità nella relazione che ho saputo costruire con il soprannaturale,
secondo la mia personale concezione? Anche così poi posso manifestare con la
mia vita la fede nell’ambiente in cui vivo e opero.
Da universitario ho
partecipato alle settimane di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli
universitari cattolici – svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre
monastero di monaci di una congregazione appartenente alla famiglia
benedettina. Lì c’erano alcuni monaci che conducevano vita eremitica da
decenni, vivevano da soli nelle loro casette in cima a un monte e si
ritrovavano insieme di quando in quando di giorno e nella notte solo per la
vita liturgica. Erano persone di fede, indubbiamente, e vivevano la loro
religiosità in quel modo. Bisogna dire però che si sentivano e volevano essere
in unione spirituale con la Chiesa e l’intera umanità. Il loro isolamento era
quindi solo esteriore.
La fede cristiana in
realtà ci spinge gli uni verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente
negli scritti del Nuovo Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho
utilizzato nelle vacanze per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8) ho trovato questa citazione da un’opera di San
Basilio, una preghiera:
…noi tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice, unisci
fra noi nella comunione dell’unico Spirito Santo”.
Essa richiama le
parole di S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):
Vi è un solo pane e quindi formiamo un solo corpo, anche se siamo
molti, perché tutti insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess.
Elle Di Ci / Alleanza Biblica interconfes. 1976).
In parrocchia, prima
della Comunione, recitiamo una preghiera formulata su quelle parole:
Poiché c’è un solo pane per noi tutti, uno
solo è il corpo formato da noi che partecipiamo
al pane unico.
Insomma, mi pare di
aver capito che questa spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e
non sia qualcosa di accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che
per temperamento non sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito
arricchito dalle esperienze di fede vissute con gli altri.
In un libro dello
psicoterapeuta Bruno Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa
osservazione che ho sentito convalidare la mia esperienza di vita:
La vita interiore, e con essa la personalità, non si sviluppa allo
scopo di ottenere una sempre maggiore ricchezza di sensazioni e di esperienze
interne, ma sostanzialmente per un’altra ragione: per entrare in rapporto con
il mondo esterno nella speranza di poter agire su di esso. Se la personalità
non arriva a questo, non vi è alcuna ragione di sviluppare le strutture
interne. Esattamente come il linguaggio si sviluppa solo se desideriamo
comunicare con qualcuno o comprendere quello che egli ci dice, così la
personalità si struttura solo se desideriamo fare qualcosa a un’altra persona o
con essa o per essa.
[da Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti editore spa,
1976, pag.64].
Gli studi scientifici
di Bettelheim, in particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente
ritenuti superati da più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza
umana, prima di recluso in un campo di
concentramento nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini
autistici, rimane importante e, per
molti aspetti della vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro di noi e ciò che si muove e che facciamo fuori di noi c’è un continuo e vitale
rimando.
Ma, come ho osservato
prima, non è detto che questo movimento verso gli altri si debba esprimere
necessariamente nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una
fraternità. Esso può manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in
qualche modo debba essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità
eremitiche di cui ho detto.
Molte volte una fede
religiosa è produttiva e non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana
stimola poi alla generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere
qualcosa in sé che può essere non scambiato
ma dato gratuitamente ad altri.
A volte si
concepisce, un po’ superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni
spirituali, uno “ci entra” (nella Chiesa intesa come popolo) o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio) e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di
scambio: vado a Messa e deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che
gira al tempo dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.
Ecco, riunendoci
insieme potremmo ad esempio riflettere se quell’impressione sia corretta e
completa. Non credete che ci sia ancora qualcosa da imparare?
Anticipo la mia opinione.
Nell’esperienza religiosa siamo tutti noi, gente di fede, dispensatori,
perché è come se quello che ci arriva
poi rifluisca intorno e verso gli altri, al modo di un irraggiamento. Quindi nella Chiesa non si va solo per ricevere, ma
anche per dare, per portare qualcosa, che è importante per gli altri e li
conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe dire meglio. Chi vuole può
approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia può farlo. Ci sono i
sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo anche una biblioteca
piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18). Ne può discutere
anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto dal prezioso
apporto dell’assistente ecclesiastico.
Nell’Azione
Cattolica, che è un’associazione che si propone
di diffondere e promuovere valori
cristiani nella società civile, è importante l’esperienza di vita degli
aderenti. E’ questo il materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si
aderisce infatti per ricevere dall’alto le soluzioni ai vari problemi e
direttive su che cosa fare fuori, o peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che
è male, come se ci fossero “istruzioni” precise per ogni situazione, ma per
riflettere insieme, alla luce della comune esperienza civile e religiosa, su ciò che accade e per illuminare vie
praticabili, che poi ognuno proverà a percorrere lì dove concretamente opera,
tornando a riferire ciò che gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia
che ho trascritto in uno dei passati post,
padre David Turoldo scrisse:
Ancora
un'alba sul mondo:
altra
luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
Effettivamente il futuro è nostra particolare
e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di esploratori.
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10
Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa
(7 ottobre 2012)
Non sono di quelli
che, educati nella fede cattolica, poi l’hanno abbandonata o addirittura
rinnegata e vi si sono riavvicinati da adulti o, comunque, crescendo. Con
questo non voglio dire di essere stato una persona esemplare secondo le
esigenze etiche della mia religione. Del resto nessuno si è mai aspettato nulla
di simile da me, anche se sempre mi è stato additato l’obiettivo della santità.
Fin da molto piccolo mi è stato detto che il male nella vita c’è e che ne sarei
stato responsabile anch’io, per cui mi è stato insegnato a individuarlo, a pentirmene e a cercare sempre,
pervicacemente, di cambiare. E’ ciò che
ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella Chiesa come essi me la
presentavano, convinta, sulla parola del suo primo maestro, che il male nel
mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui io ero stato artefice.
Così la mia vita di fede in religione è stata improntata a una certa serenità.
E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la mia esperienza religiosa
di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di mezz’età. Se riprendo in
mano il libretto del catechismo della mia Prima Comunione, che feci in quarta
elementare qui nella nostra parrocchia di San Clemente Papa, e lo leggo oggi da
cinquantenne posso concludere
serenamente con un amen, condivido
ancora tutto quello che c’è scritto. Mi
è sempre venuto naturale essere una persona di fede, non vi ho trovato
alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare particolari sforzi. In questo
penso che la mia vita si differenzi un po’ da altre di cui ho saputo. Ci sono
persone che sono molto più meritevoli di me sotto questo profilo, per aver
dovuto faticare e soffrire molto per giungere dove io sono sempre tranquillamente
rimasto. Quello che ho detto vale anche per la mia esperienza di Chiesa. L’ho
considerata sempre la mia casa, la mia famiglia, dovunque sono stato. Anche nei
periodi della mia vita in cui l’ho frequentata di meno, essa rimaneva dentro di
me, perché non ho mai avuto il dubbio di non farne più parte. Sono stato scout,
fucino, aderente ai Laureati Cattolici – MEIC e all’Azione Cattolica (della
quale FUCI e MEIC un tempo facevano parte), ho partecipato a diversi gruppi di
ispirazione religiosa, parrocchiali e non,
e mi è sempre parso di muovermi
da una stanza all’altra delle medesima casa. Ricordo che una volta, da scout
(facevo le medie), condussi la mia squadriglia a Sulmona, secondo la missione
che avevo ricevuto durante un campo estivo sui monti d’Abruzzo, e chiesi
ospitalità al parroco di una chiesa vicina al centro: lui ci fece dormire, con
i nostri sacchi a pelo, nel museo della parrocchia, che conteneva tante cose
preziose; mi diede la chiave e mi disse che sarebbe ripassato il giorno dopo.
Io mi meravigliai di quella fiducia, concessa a ragazzini che non aveva mai
visto prima, e, riflettendoci su nel corso di quella notte, conclusi che lo
aveva fatto perché noi lì eravamo di casa, eravamo infatti Chiesa, e le nostre
divise da scout glielo avevano confermato, è come se lo avessimo scritto in
fronte, come si legge nell’Apocalisse dei giusti.
Il lavoro che si fa
nella società come Azione Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi
confrontarsi sulle nostre esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della
fede comune su di essa.
Ricordo ancora
quando, da bambino, il parroco mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa”
(edificio) e “Chiesa” (gente). Con il Battesimo ero entrato a far parte della Chiesa ed era per questo che venivo
in chiesa. Ne rimasi molto colpito e
per un certo tempo lo andai ripetendo in giro, ai miei coetanei. Poi,
crescendo, ho scoperto che il discorso sulla Chiesa è molto, molto più
complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via della Conciliazione, notai
un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie” (le concezioni sulla Chiesa),
lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e scoprii che in giro, sia nella
nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane, c’erano tante idee di Chiesa.
A parte questo, ci sono le varie esperienze individuali e collettive che uno fa
della Chiesa durante la propria vita, che influiscono sul modo di condursi fuori della Chiesa.
Se, ad esempio, una
persona pensa di trovarsi in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi
eroici difensori, un po’ come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo
presidio di secessionisti nordamericani tentò invano di resistere all’attacco
dell’esercito messicano mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà
portata a diffidare di tutto ciò che gli viene dall’esterno e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando
solo quello che gli viene di dentro,
dal proprio gruppo, dal proprio ambiente abituale, costruendo in tal modo una sorta di città di Dio opposta alla città
del diavolo, quella di fuori. Ci
si muove un po’ in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla città di Dio) di S. Agostino di
Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta in un tempo in cui l’ordinamento
dell’Impero romano era travolto dalle invasioni di popolazioni del nord Europa.
Sulla dottrina della
fede in merito alla Chiesa ci sono diversi testi fondamentali del magistero
mediante i quali ci si può informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), che potete leggere sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Avverto che, trattandosi di un documento normativo, esso è
scritto nel linguaggio e con il metodo della teologia, che potrebbe essere un
po’ ostico ai non iniziati.
Della Chiesa si tratta anche, in termini più
accessibili, nel Catechismo della Chiesa cattolica (Parte prima, Sezione
seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a 975). Lo trovate sul WEB a
questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM
Se ne tratta in modo più semplice nel
Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte prima, Sezione seconda,
capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate sul WEB all’indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html
Leggendo le prime due opere, potrete
constatare che nella nostra Chiesa,
quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la storia
bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da cui si
ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai da zero
e si cerca di tenere tutto insieme.
Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di
meno, ma ci sono.
Storicamente
l’Azione Cattolica ha ritenuto di potersi confrontare positivamente con la
società in cui la Chiesa italiana vive: il suo moto fondamentale è stato
quindi, ed è ancora, quello dell’apertura, non dell’opposizione, e questo
naturalmente non significa accettare tutto ciò che gira nel mondo di fuori, ma pensare che certe idee
sulla società che hanno un fondamento religioso possono (ancora) essere diffuse
utilizzando il metodo e i principi della democrazia, sui quali l’ordinamento
della nostra società si basa, e che ciò che si agita nel mondo abbia anche un
significato religioso. Viene in Azione Cattolica chi non pensa di essere nella
condizione di Fort Alamo. L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo
periodo di pace, dopo la serie storica interminabile dei conflitti armati tra i
suoi popoli, e mira ancora alla pace si
fonda su idee cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di ricordarcelo. Spinti dal magistero, in Azione Cattolica
cerchiamo di agire di conseguenza.
Costruire nella
società per narrare il fondamento della nostra speranza
Continuo le mie
riflessioni sulla base del libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e
città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo
ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli
effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il
progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso
duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in
religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il
fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti
(pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non solo
può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le
opportunità pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come testimone
ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro atteggiamento
fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che
altro quello di una pervicace e
fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato, quindi compreso con precisione, va piuttosto narrato
e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen
Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la
vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive nell’attesa dei
tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono
nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa essere sempre minacciati e caduchi, si
rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della
storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann,
citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica:
la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo
collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In
quest’ottica il profano, ciò che si
muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza
religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare
e capire quelli che sono stati definiti i
segni dei tempi.
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11
Noi cattolici: cittadini o stranieri nella società in cui viviamo?
(8 ottobre 2012)
L’Azione Cattolica
non avrebbe senso in una società in cui non fosse consentita, in qualche forma,
la partecipazione della gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più
buio della sua storia, quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò
un’altra cosa. Nel 1931 le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che
costituivano il braccio operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la
presa di distanza dei cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione della
legislazione discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa può
essere considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono diverse
eccezioni (ad esempio la FUCI e
Movimento Laureati di Azione Cattolica),
una delle organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime
fascista, il quale con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un
accomodamento con i vertici ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani
furono effettivamente, nella grande maggioranza, fascisti.
Riprendo a questo
punto alcune delle riflessioni esposte nel libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia
e città, A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento
pubblico di Dossetti del 1987).
Nella Bibbia c’è un
certa diffidenza per le città e per gli ordinamenti politici, specialmente
quelli che riunivano molti popoli diversi. La concezione ebraica di città era
molto distante da quella greca, che impronta gli ordinamenti politici
democratici contemporanei. Nella prima la città era essenzialmente un
insediamento chiuso, protetto da alte
mura, in funzione difensiva. Per i greci era principalmente il luogo in cui si
svolgeva la cittadinanza comune, la partecipazione al governo, quindi la politica (dal termine greco pòlis, che significa città). Per certi versi la città, nella
concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di violenza e di
presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero vita
travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si mostrò infedele
e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto (ne abbiamo un
esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione lo spirito
religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai centri
urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata nella
prospettiva evangelica. Il regno a cui tendono i discepoli cristiani non è di
questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano
addirittura come stranieri. Sono
infatti portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti
sociali e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a
loro è dovuto (a Cesare quel che è di
Cesare), ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre
obbedire. Loro compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il
perdono dei peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità
cristiane, un ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta
qualche affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne
concepito come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse
17,6 e 18,2).
Scrive Dossetti,
nell’opera citata (pag.45-46):
Per il regno di Dio e per la città di
Dio va ancora fatta una precisazione a
scanso di equivoci.
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non
si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non
è un bene comune, architettonicamente
sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi senza di noi. Il
pensare che noi possiamo attirarcelo e appropriarcelo
è “stoltezza umana, presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.
All’uomo compete solo la fedeltà alla Parola,
l’annunzio di essa, la pazienza longanime che
non spegne lo Spirito credendo di accelerarne le operazioni, la ferma fede che
il grano del Regno “cresce da solo” (in
greco: automàte) (Vangelo secondo Marco 4,26- 29).
Anche perché il Regno verrà,
per un decreto del Padre in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato
alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, in “ictu oculi” (Prima lettera ai Corinzi 15,52).
Un famoso passo della Lettera a Diogneto, scritto cristiano che si fa risalire al 2° o 3°
secolo della nostra era, è questo:
[I cristiani] Abitano
ciascuno la propria patria, ma come residenti stranieri; a tutto partecipano attivamente come
cittadini e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro
patria, e ogni patria è terra straniera.
[…
]
Passano
la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo.
Obbediscono
alle leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.
Insomma, concluderei che in religione non
siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle nostre costruzioni
sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non sarà dalle nostre
mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo che riteniamo di
aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere seguito da un regresso.
Ma direi anche di più. Nella Bibbia c’è
sicuramente il fondamento del concetto di dignità
dell’uomo dal quale oggi ricaviamo la convinzione giuridica e politica in
certi diritti umani inalienabili, che sono la base delle
democrazie contemporanee, ma la
democrazia non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun
problema nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha
avuto alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi,
nel passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso
naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata
elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che
volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si
dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in
queste che sono delle specie di note
operative per la nostra situazione concreta di oggi quel discorso non serve.
Io sto prendendo coscienza di questo: la
situazione in cui ci troviamo nell’Europa democratica di oggi non ha precedenti
storici, è qualcosa di totalmente inedito. E bisogna dire che questa realtà
veramente nuova è stata costruita con l’apporto fondamentale del pensiero di
cristiani sulla democrazia e della loro azione politica, di governo delle
società.
Noi, ad esempio, diamo per scontato che questo
lunghissimo periodo di pace, che in Europa si protrae ormai dal 1945, rientri
nella normalità. Ma non è così. Tanto che, quando frequentai le elementari,
nella scuola di piazza Capri, il nostro maestro era solito dirci che dopo
qualche anno saremmo diventati uomini, saremmo andati in guerra, e più o meno
la metà di noi vi sarebbe morta. Le cose, diceva, erano sempre andate così, una
guerra più o meno ogni quindici o vent’anni (e allora si era negli anni
’63-’67). Poi non andò così. L’ultima grande frontiera, edificata tra Est e
Ovest Europa dopo la Seconda guerra mondiale, è caduta nel 1991, senza la
catastrofe che per tanto tempo si era temuta.
Aver realizzato, in democrazia, una potenza di
pace sugli antichi, immensi, campi di battaglia ha un significato per la nostra
vita in religione?
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12
Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.
(13 ottobre 2012)
Non mi pare che
finora abbia fatto molta impressione il premio Nobel per la pace dato
all’Unione Europea, vale a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La
nuova Europa è infatti innanzi tutto una realtà
di popolo, e di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è
fondata, più che su un sistema di relazioni intergovernative per lasciare
libero passo all’economia (questa fu sostanzialmente la caratteristica della
Comunità Economica Europea), sulla proclamazione di un sistema di diritti umani fondamentali (è
una delle caratteristiche fondamentali della nuova organizzazione creata dal Trattato di Lisbona del 2007, entrato in
vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono stati ideati dai vertici
dell’organizzazione europea, ma, prima di essere formulati in un testo
normativo, in quella Carta dei diritti
fondamentale la quale con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è divenuta legge europea, hanno corrisposto a
un’esigenza forte posta dai popoli ora federati nell’Unione Europea. Su di essa
si è fondata la duratura pace continentale e il processo straordinario di
inclusione di nazioni che per millenni si erano combattute che ha convinto la
celebre istituzione svedese a riconoscerne il merito non a questa o a quella personalità, ma a tutti noi. “Bravi!”, ci hanno detto, “avete
fatto una cosa grande”. E noi? Noi
siamo rimasti perplessi, come è scritto che rimarranno i giusti, quando, alla
fine dei tempi e presentatisi per il giudizio su ciò che sono stati e su ciò
che hanno fatto, verrà loro indicata la porta del Regno beato. Che abbiamo fatto per meritarci questo
apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…
Ad esempio noi
cattolici siamo divenuti più tolleranti verso le altre confessioni cristiane e
verso le altre religioni che sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta
di un impegno attuato solo dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica
molto diffusa tra le nostre genti, forse anche al di là di una chiara
consapevolezza delle questioni implicate. In certi casi, come nei rapporti con
l’ebraismo, a rapporti di aspra conflittualità è subentrata una franca
amicizia. E’ uno sviluppo veramente importante, tenendo conto che la tremenda
storia europea è stata duramente travagliata da guerre e altre stragi a
fondamento religioso, in particolare nello scorso millennio. Abbiamo costruito
in tal modo una civiltà fortemente inclusiva, in cui questo e quello possono
trovare la loro patria indipendentemente dal loro rapporto con il
soprannaturale, e infatti il moto fondamentale che riguarda l’Unione Europea è
un afflusso di popoli dall’esterno verso l’interno, un moto centripeto, tanto
che addirittura gli eredi di un nemico storico come l’Impero Ottomano turco
bussano alle nostre porte nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede
islamica; è qualcosa che richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel
brano in cui si profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno
verso una Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino
e umano, vale a dire di certi principi supremi e realtà di vita. Questa cosa non c’è mai stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza.
Dispiace che non sia una cosa cattolica?
Oh, ma è anche una cosa cattolica.
Due giorni fa, con
una fiaccolata, qui a Roma abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura
del Concilio Vaticano 2°. In quella
occasione, avanzando in processione verso piazza San Pietro ci siamo
manifestati come Chiesa che vuole essere luce
delle genti, secondo l’insegnamento di uno dei documenti conciliari
fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen
Gentium (trad. dal latino: luce delle
genti). Ebbene, convinciamoci che negli anni passati lo siamo veramente
stati, tutti noi. Il papa Giovanni
Paolo 2° volle invitarci a rifletterci su durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000. Considerate come siamo cambiati in
meglio, noi Chiesa, da quando su certe cose andavamo molto per le spicce, come
si suole dire. Ho cinquantacinque anni e non sono un nativo conciliare, vale a dire che ho avuto modo di vivere la
Chiesa di prima, anche se da molto piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio.
E comunque ci si può informare sui libri di storia. Ai nativi conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente
nella nuova era, coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima
sembrano un po’ strani. Non è così?
Ma ci sarà modo di approfondire di più in questo che è stato proclamato,
innanzi tutto come obiettivo del nostro impegno, Anno della fede.
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13
Insieme per agire da gente di fede
(14 ottobre 2012)
Qualche anno fa
partecipai a una riunione del mio gruppo
del MEIC – Movimento ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella
universitaria dell’Università La Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò
dei vari modi di pensare una dimensione comunitaria della vita di fede e di
interventi nella storia dell’umanità motivati religiosamente e osservò che
spesso si erano scelte delle vie che poi avevano costretto a dire molti “si, però…”, vale a dire a cercare di
giustificare in qualche modo quelle che, con il senno del poi, venivano individuate come insufficienze in base
all’etica religiosa proclamata. Ad esempio, la cristianità medievale, in
cui indubbiamente affondano alcune di quelle che possiamo considerare come radici delle società europee di oggi e
che talvolta viene considerata un modello ancora attuale per la sua forte
integrazione culturale del cristianesimo, produsse anche l’Inquisizione e le
Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi
abbiamo preso le distanze dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò
detto, siamo portati ad aggiungere si però … l’idea di una società civile fortemente ispirata alla
religione in fondo ci piace e cose simili. Non ci si poteva pensare un po’
meglio, prima, per non dover poi essere costretti a pentirsi? E’ un
problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire nella società in
cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di determinare
collettivamente scelte ispirate a certi valori
che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe meglio non agire
affatto e limitarsi solo ad attendere
con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal disegno provvidenziale,
mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda edificandoci nelle nostre
comunità religiose con salmi, inni e canti spirituali, secondo le espressioni
di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1 Lettera ai Tessalonicesi 5,11)?
Tenuto conto di quante sono le cose di cui abbiamo sentito il bisogno di
chiedere collettivamente perdono, da quando ci siamo consentiti un simile
esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.
Riprendo a questo
punto a seguire, in queste riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
collana Le Tessere e il Mosaico, 2011,
euro 8,00, pagine 131, con prefazione di Giorgio Campanini.
Il mondo nuovo che
religiosamente attendiamo non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi
la responsabilità. I nostri progetti non possono e non devono estendersi fino
ad esso. Né possiamo immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una
società da noi edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti
(pag.45-46):
Il Regno, giunge a noi, senza di noi.
[…]
,,,il Regno verrà, per un decreto del Pare in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1, 6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in
ictu oculi [trad.:in un batter
d’occhio – greco: en ripè oftalmù] ” (1
Lettera ai Corinzi 15,52).
Quest’ordine di idee
è un bel sollievo. Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati
colpevoli di non aver saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe
approssimazioni, il Regno, la società perfetta che non ha bisogno di lampade o
di sole, “perché il Signore Dio li
illuminerà”, secondo l’emozionante profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3, e anche di non aver asciugato ogni lacrima dagli occhi dei sofferenti,
e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il lutto, il pianto e il
dolore. Fatemi sapere se condividete
questo discorso.
Ciò posto, se
guardiamo all’Unione Europea di oggi,
per la quale inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio Vaticano 2°, nella quale
abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo stati Luce delle genti, ce ne compiacciamo, pur pentendoci del male che
in esse non siamo riusciti ad evitare e sentendoci pur sempre impegnati a migliorarci,
perché non solo ad esse apparteniamo, ma anche esse ci appartengono, nel senso
che sono un nostro modo di essere e quindi riflettono coralmente nel bene e nel
male le nostre vite, e noi, lo sappiamo, non possiamo dirci perfetti, anche se in qualche modo
desideriamo, e a volte anche cerchiamo e
addirittura ci sforziamo, di corrispondere al disegno che religiosamente
pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in definitiva, quei risultati,
quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non sono tati accidentali, ma
voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi che lo volevamo fare e l’abbiamo fatto. Sono
effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo
e vediamo in esse cose buone ma anche cose
da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e
zizzania, di Città secondo Dio e di Città
secondo l’avversario di Dio che non è in
fondo in nostro potere sciogliere del tutto.
Ha un significato,
per la nostra fede, l’aver agito e costruito? Dossetti ritiene di poter
concludere di sì. Per amore infatti
abbiamo agito. Scrive (pag.103-104):
Tutto nella via del cristiano agito dallo
Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente sulla
contrapposizione fra “contemplazione” e
“azione” […] “contemplazione” per il senso originario [che aveva nell’antica filosofica greca, in particolare in
Plotino (3° sec.) – nota mia] ,,, non [è]
propriamente un concetto cristiano e [continua]
a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della
spiritualità cristiana.
In senso propriamente cristiano tutto è
azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il concetto
abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.
Azione è l’Eucaristia: prima di tutto azione
di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la celebra, del
cristiano che vi partecipa.
Ogni preghiera, se fatta come deve essere
fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.
La lettura, e ancor più la “ruminatio” della
Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.
La malattia che riduce immobile in un letto,
accettata nella fede, è azione […].
La
concentrazione dell’anima nel suo oggetto più proprio […] è azione”.
Per Dossetti, si
agisce come risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è
una carità verticale, appunto
dall’alto, che è “generante e
condizionante rispetto ad ogni altro amore, sia pure il più santo e benefico”
(pag.117).
“L’amore rivolto ai fratelli ne sarà un segno
necessario e precipuo: ma derivato…”.
Dossetti segnala l’esistenza di un paradosso della carità eucaristica,
dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento
religioso:
“L’altissima risposta d’amore
trinitario sarà tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà
e saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà
silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel
grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può
pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che se
ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria
dell’Onnipotente” [Libro della Sapienza 7,25].
Insomma: si agisce, si agisce insieme e si agisce per amore, ma amore di una specie
particolare, che è risposta ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così,
non si fa conto del risultato, che poi si è convinti che verrà in un battito di ciglia a tempo debito e
non per opera nostra: lo scopo dell’azione è infatti solo quello di diffondere
nella società un “effluvio puro della
gloria dell’Onnipotente” (Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997).
Questo equivale, detto in termini profani, a infondere nella società intorno a
noi dei valori. Tutto ciò definisce bene
il compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si
prepara, si ragiona, si fa pratica e, infine,
ci si organizza e si va in prima
linea, dove per quei valori si lotta,
e addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario,
nel senso che in esso sono avversati quei valori.
Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di
altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace,
con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione
Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli
specificamente mariani, segno
dell’anelito a valori anche
specificamente nostri, di quelle radici
cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il
richiamo alla corona di dodici stelle della donna
vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene,
l’Unione Europea di oggi ci appare
veramente un segno grandioso, anche
in senso specificamente religioso.
Ho parlato di amore e questo termine, con il quale
traduciamo tutti i termini del greco
neotestamentario con i quali specificamente si descrivono le relazioni tra i
fedeli e tra essi e il mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri
umani e il fondamento soprannaturale,
suona equivoco, e anche un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel
greco del Nuovo Testamento (per quello che ho letto – ma la mia in merito è
solo erudizione di liceale, neanche tanto studioso; non sono uno specialista)
si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di quando si sta insieme per
fare un bel pranzo; il secondo si riferisce all’amicizia, a un rapporto di
reciproca simpatia e di preferenza, il terzo richiama l’idea di quando si partecipa
ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario
del greco del Nuovo Testamento non viene riportato il termine èros, che pure rientra nei significati
della nostra parola italiana amore, e
definisce la passione sessuale, quella che trascina emotivamente dalle viscere
e acceca. Penso quindi che questa
metafora non sia stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente
nell’Antico, mentre anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di
molto più complesso, perché è insieme èros
(come base emotiva della predilezione per una persona fisica), agàpe, filìa e coinonìa, oltre a
patto ed alleanza.
Poiché la qualità e
la direzione del nostro agire dipende molto dalle ragioni e del modo del
nostro stare insieme, è interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe
sapere a quali conclusioni siete giunti,
cari lettori; come vi regolate nelle vostre vite.
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14
Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza
(12 ottobre 2012)
Continuo le mie
riflessioni sulla base del libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e
città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo
ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti
che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il progredire dei
tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile
che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene
consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra
speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non
solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le opportunità
pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro atteggiamento
fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che
altro quello di una pervicace e
fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va
piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del
teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la
vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive nell’attesa dei
tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono
nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa essere sempre minacciati e caduchi, si
rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann,
citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica:
la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo
collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In
quest’ottica il profano, ciò che si
muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza
religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare
e capire quelli che sono stati definiti i
segni dei tempi.
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15
Noi: popolo di Dio
(15 ottobre 2012)
Nella riunione di
martedì 16 ottobre 2012 ci è stata presentata la costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°.
Si tratta di un atto normativo, di una legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha
bisogno di leggi? Come ogni società di esseri umani, sì. Ma quella costituzione
conciliare è molto più di una legge. E’ l’indicazione di una strada da prendere.
Con autorità siamo stati chiamati a percorrerla, tutti noi che siamo stati
persuasi dalla fede cristiana e quindi confidiamo in Gesù, il Cristo, affidandoci a lui qui nella vita terrena e oltre, sperando in quella
eterna. Noi siamo convinti di costituire un popolo, il nuovo (rispetto all’antico popolo israelitico) popolo di Dio, non fuso in
unità sulla base di discendenza etnica (secondo
la carne), ma mediante la nostra fede (nello
Spirito).
Riconosciamo nostro
capo Cristo, che riteniamo regni glorioso
in cielo, quindi al di sopra di
tutto: il suo è un nome al di sopra di
ogni altro nome. Il nuovo popolo:
Ha per condizione la
dignità e la libertà dei figli di Dio [noi ci chiamiamo anche così],nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un Tempio [Lumen Gentium, cap.2°, n.9],
Nella fede siamo stati come rigenerati dall’alto: La nostra legge
suprema è ora di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium, cap.3°,n.9]. Siamo così popolo
costituito per una comunione di vita, di
carità e di verità [Lumen Gentium,
cap.2°, n.9].
Riteniamo che ci sia stato affidato un
compito, in particolare di essere stati inviati
a tutte le genti del mondo, come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen
Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a
tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].
Bene, ma che cosa c’è di nuovo in questo rispetto alla fede della Tradizione, dei secoli
precedenti? Ci ragioneremo su, in questo Anno
della fede. Chi ha fatto esperienza
ravvicinata della Chiesa prima del Concilio Vaticano 2° sa bene
che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma, nella nostra Chiesa, quando si
cambia si cerca comunque di tenere tutto
insieme, in particolare di collegarsi sempre alle esperienze delle origini,
dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i documenti ufficiali. Così, leggendoli
superficialmente, si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando
si parla del Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si
presenta come una sorta di svolta rivoluzionaria,
che non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo
vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?
Vi voglio però indicare un segno. Pensateci su. In parrocchia,
davanti all’altare qualche volta ho visto esposta una grande menorah, il candelabro a sette braccia
che è uno dei simboli dell’ebraismo.
Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto
caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici
e forse scomunicati, vale a dire
tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa
del tutto lecita e, anzi, ci edifica.
Insomma, da sempre abbiamo saputo di essere
stati inviati alle genti, ma dopo il
Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con esse, come
collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli del passato.
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16
Essere popolo unito da una fede religiosa
(16 ottobre 2012)
Uno dei temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
ha riscoperto nella dottrina della tradizione potenzialità meno sviluppate
nella storia bimillenaria della Chiesa è quello dell’essere tutti i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da
una missione. E, in questo parlare di popolo,
hanno influito non poco concezioni moderne della politica, intesa come organizzazione della convivenza civile, così
come quando in passato si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad
altre concezioni in merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in
quanto tale è anche opera nostra e
risente delle nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da
ultimo è sempre stato ben presente nell’idea che, riflettendosi
sistematicamente sopra, si aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da
secoli, quando iniziò il Concilio Vaticano 2°, nella ideologia ecclesiale, vale a dire in quella visione semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita
la gente in una collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si
confidava molto negli effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme
realtà umana e soprannaturale e corpo sociale sottomesso ai Pastori (il Papa
– padre universale e vicario di
Cristo, capo invisibile: viene dal greco pàpas
che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos, che significa sorvegliante), si pensava che essa
potesse sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo e nei vari luoghi
in cui viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio che c’era in un
certo momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre una società perfetta. Ma vi è di più. Una conseguenza che si traeva da
quest’ordine di idee era che la Chiesa, attraverso i propri Pastori, potesse, non solo insegnare con
autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a tutte le altre
organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva. Fin da quando, nel quarto
secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire, dalla clandestinità e
cominciò ad influire con le proprie idee sulle società politiche in cui era
immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con i capi civili, i
quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla Chiesa come essa
doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di compiti e di materie
da trattare tra le organizzazioni politiche civile e l’organizzazione della
Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello
stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La troviamo attuata per la
prima volta nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione nordamericana,
nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti d’America (“nessuna professione di fede religiosa sarà
mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una carica pubblica
degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione federale), benché
i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione
di indipendenza forti idealità religiose cristiane.
Nella storia
dell’umanità dalla fine del Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un
mutamento delle organizzazioni politiche da modelli monarchici, in cui il
potere supremo era attribuito a una persona fisica o ad essa e a suoi stretti
parenti, a modelli più partecipati da altri strati della società civile. Questo
moto è all’origine delle democrazie di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza – intesa come pari dignità
sociale – dei cittadini. In qualche modo esso si è espresso anche nella
concezione di Chiesa che è stata proclamata con autorità durante il Concilio
Vaticano 2°, anche se esso non ha avuto esiti propriamente rivoluzionari, né
nelle intenzioni, né nella volontà espressa, né soprattutto nella pratica
ecclesiale postconciliare. Bisogna però
osservare che ciò è dipeso anche dal fatto che la Chiesa ha rinunciato ad una
sovranità politica su società civili, come quello che storicamente era stato
attuato nello Stato pontificio, nell’Italia centrale, con capitale Roma. Sotto
questo profilo ebbero effetti propriamente rivoluzionari la Repubblica romana
napoleonica (1798), quella di Mazzini (1949) e la conquista e
soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che l’ordinamento
politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle
occasioni sovvertito, nel primo caso il
Papa regnante fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e
nel terzo dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.
Possiamo misurare la
rapida evoluzione di certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce
autorevoli, datate 1882 la prima e 1965 la seconda:
“[…]Presso
i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e costanti nella
religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà della Chiesa,
di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da tutte le
pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in forza dei
quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini religiosi;
confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le unioni
contratte fuori del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica
dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa
guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa
oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è
stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale,
cadde necessariamente nel potere di altri.
E Roma, la più augusta città del mondo
cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e si vede
profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio dell’eresia.
Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad accogliere i
rappresentanti e i capi della setta più ostile alla religione cattolica, i
quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È abbastanza palese
il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio che
portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al Papato,
sfidandolo nella sua stessa sede. Non è certamente da dubitare che la Chiesa
esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia certo e
manifesto che essi con siffatte arti intendono
colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e distruggere, se
fosse possibile, la religione.[…]
[Dall’enciclica Etsi
nos, del papa Leone 13°, del 1882.]
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html
“76. La comunità politica
e la Chiesa
È
di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una
giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa
e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli,
individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati
dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della
Chiesa in comunione con i loro pastori.
La
Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna
maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema
politico, è insieme il segno e la salvaguardia
del carattere trascendente della persona umana.
La
comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel
proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo
diverso, sono a servizio della
vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro
servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più
coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle
circostanze di luogo e di tempo. L'uomo infatti non è limitato al solo
orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la
sua vocazione eterna.
Quanto alla Chiesa, fondata nell'amore
del Redentore, essa contribuisce ad estendere il raggio d'azione della
giustizia e dell'amore all'interno di ciascuna nazione e tra le nazioni.
Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell'attività
umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, rispetta e
promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.
Gli apostoli e i loro successori con i
propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo
Salvatore del mondo, nell'esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza
di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei
testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola
di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in
molti punti dai mezzi propri della città terrestre.
Certo, le cose terrene e quelle che,
nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente unite, e la
Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria
missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi
offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi
diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far
dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero
altre disposizioni. “
[Dalla
costituzione pastorale Gaudium et spes,
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Concilio Vaticano 2°- 1965]
In sostanza il fattore unificante della Chiesa
intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio
ecumenico, più nella fede e nella missione
comune, vale a dire di tutti, che
nell’essere soggetti alla sovranità
del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della
Chiesa, è stato posto l’accento sulla
sua finalità di servizio della
vocazione personale e sociale delle
persone umane.
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17
Unire le genti per una vita buona
(17 ottobre 2012)
La prima e
fondamentale esperienza di una relazione con un’altra persona è quella che si
fa da molto piccoli e qualcuno, di solito la madre, si prende cura di noi. E’
una cosa che ho letto, ma che corrisponde anche a quello che è successo a me.
Da bambini piccoli non si potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro.
Quel rapporto tra un adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto
profondamente in noi. Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in
particolare approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra
la parola mamma. L’ho sentita
pronunciare da diversi morenti. In qualche modo quel legame tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne
sentiamo l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune
tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta
La Pietà, posta nella basilica di San
Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che
pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di
viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra
cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso.
Ci attraversa e, riflettendosi
in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento
religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno
verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione,
di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre
per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente da ogni condizione
esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122].
Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una
parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione
filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo
delusi. Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé
stesse come (utilizzo un termine di Dossetti) micro modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente
impegnate nel realizzare una comunità di vita amorevole. E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito
di istruire i nuovi arrivati alle costumanze di un ordine o di una
congregazione di vita religiosa, si sentivano in dovere di disilludere subito
in merito i giovani. Del resto nelle disposizioni date da alcuni fondatori di
collettività di frati e monaci ci sono esplicite disposizioni che riguardavano
questo aspetto. Non si entra in una vita
come quella per ottenere soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.
Più le dimensioni di
un agglomerato di persone che per varie ragioni devono vivere vicine crescono,
più i problemi aumentano. Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur come
individui sociali, siamo infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.
Considerate ad
esempio la situazione che si crea quando in piazza S. Pietro il Papa si
affaccia, all’Angelus della domenica, e si rivolge alle migliaia di persone
convenute ad ascoltarlo, dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto
di una relazione profonda. Ciascuno/a
ha un posto per lui nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un
cervello elettronico che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a
costruire eseguirebbe probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni
singolo individuo nella piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca
di dati. Un essere umano non funziona così. Guarda in basso e vede una folla indistinta. Il Papa per la
folla è un fattore di unità. Ma il
Papa, essere umano, non è in grado biologicamente
di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore.
Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti
alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande
folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia
accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece
in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di
enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e
l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane Papa, e via dicendo, tanto che io, pur
avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora bene e mi ci commuovo.
Ora, la Chiesa
cattolica ha preso sempre molto sul serio l’impegno a radunare i figli di Dio dispersi, per estendere il suo popolo, mantenendolo però uno e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per
farne una comunione di vita, di carità e di verità (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e 13, del
Concilio Vaticano 2° - passi riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si passa da una
comunità delle origini di poche decine di discepoli a una di diverse centinaia
di milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in crescita) occorre
porre molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi due millenni il
principale di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito dai Papi, nei
quali si concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra tuttora,
nonostante qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa, non
essendo mai stata concepita altra
autorità che, all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare
quella del Papa (altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo
profilo i Papi ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia
che, nel primo millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa
inoltre, come persona fisica, a volte con l’aggiunta di una certa
idealizzazione, che in alcuni casi confinò con una sorta di mitizzazione della
sua persona (ne era espressione il fasto che in certe epoche la
circondava), poteva agevolmente
conquistare i cuori dei fedeli.
Fin dai primi secoli
sono stati importanti, al fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati
anche fonte di divisione) anche quelle definizioni sintetiche dei principali
argomenti di fede che sono detti simboli,
due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo degli Apostoli che recitiamo
insieme nella liturgia della Messa. Queste solenni e autorevoli definizioni
sono state raccolte in un libro, il H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum [Raccolta
di simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni in materia di fede e morale],
molto utilizzato in teologia.
186. Fin dalle origini la Chiesa
apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative
per tutti. Ma molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire l’essenziale della
sua fede in compendi organici e articolati, destinati in particolare ai
candidati del Battesimo.
Il simbolo della fede non fu composto secondo
le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da
tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il
seme della senape racchiude in un granellino molti rami, così questo compendio
della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico
e nel Nuovo Testamento.
187.Tali sintesi della fede vengono
chiamate “professioni di fede”, perché riassumono tutta la fede professata dai
cristiani. Vengono chiamate “Credo” a motivo di quella che normalmente ne è la
prima parola: “Io credo”. Sono anche dette “Simboli della fede”.
188.La parola greca “Sy’mbolon”
indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva
presentato come segno di riconoscimento.
Le parti venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno
di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a
significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la
raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso
costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.
[dal
Catechismo della Chiesa Cattolica 1992-1997]
I Simboli della fede, alcuni dei quali
per la loro origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la
comprensione legando affermazioni che
riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il
legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un
gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le
persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può
facilmente tenere nel proprio cuore.
Non va infine
dimenticata l’importanza che storicamente ha avuto, come fattore unificante, la
liturgia, anch’essa regolata spesso
da leggi della Chiesa, quindi con
autorità.
Ora, per capire
l’importanza che il Concilio Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica,
bisogna comprendere questo: esso ha in qualche modo inciso su tutti e
tre quei tradizionali fattori unificanti
e ciò anche se, da un punto di vista
teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti
conciliari, di stabilire una continuità tra l’aggiornamento realizzato e la precedente
Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una cesura non c’è e non si avverte
nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I capi della Chiesa ebbero
l’impressione, nel dopo concilio di un
marcato sbandamento del corpo
ecclesiale e se ne preoccuparono. La biografia dell’attuale Papa ce ne parla.
Nel corso di quella
grande assemblea mondiali dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al
Papa, ci fu però la riscoperta di un ulteriore fattore
unificante che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto
sempre consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della
Chiesa non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche
volte aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.
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18
Un popolo nuovo
(19 ottobre 2012)
E’ possibile che
alcuni dei lettori che entrano in questo blog
non abitino nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va
sotto il nome di Valli, perché le sue
strade portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con
gli altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto
lontano, oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di
Ardigò che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò del mondo,
emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora
uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare
una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed
essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A
pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia
infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici
e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è
poi solo una potenzialità, perché una
sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente
in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un
cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che
da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo
possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari
lettori, che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa
di una piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia
di San Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa
quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11
ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza
associativa e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a proporsi nella società che la circonda e
convocare in tal nuovi amici che condividano
i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati, per cui argomenti più
generali vengono condensati e sistemati sulla base dei problemi che sono emersi
nell’attività del gruppo.
Roma è, a confronto
con le maggiori metropoli del mondo, una piccola città, che, tutto sommato,
conserva ancora una dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di
Firenze e i fiorentini se ne sono risentiti.
Ma non è una cosa negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si
vive meglio che in altre agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere
l’idea, invito a portare l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo
del Brasile, che conta una trentina di milioni di abitanti. Il nostro
quartiere, poi, è, all’interno della città di Roma, una zona periferica del
nord est senza particolari problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla
riva destra dell’Aniene, uno dei principali affluenti del fiume Tevere, non
molto distante dalla confluenza tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne
abitata da molti dipendenti pubblici, dello Stato, in particolare del Ministero
del Tesoro e di quello delle Finanze, ma anche da militari, e da dipendenti di altri enti pubblici, poi
da una popolazione più varia. I romani de Roma, quelli che discendono da
famiglie insediate a Roma da molte generazioni, non prevalgono: i primi
abitanti del quartiere arrivarono da varie parti d’Italia, dal Nord e dal Sud,
ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed erano piuttosto giovani. Poi la popolazione
si è fatta più anziana e solo negli ultimi anni sono cominciate ad arrivare famiglie
con bimbi piccoli. Si è aggiunta anche un’emigrazione dal continente indiano,
dalla Cina e dalla Romania. Nuovi poveri hanno ripreso ad abitare in rifugi
precari nelle vicinanze del fiume, dove nel primo e secondo dopoguerra e fino
agli scorsi anni ’70 c’erano i baraccati,
gli sfollati per la guerra mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal
Meridione.
Il nostro gruppo di
Azione Cattolica è composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie
che per prime si insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica
dalla metà degli scorsi anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere
difficoltà ad attirarne di nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò
che è successo. I fattori negativi si sono succeduti e sommati.
Complessivamente si può dire che la fede religiosa, come fattore sociale
aggregante, ha perduto forza e questo, paradossalmente, proprio in anni in cui
alcune convinzioni tratte dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che
riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano
poste alla base dello straordinario processo di unificazione continentale
europea, una cosa mai accaduta nella
storia dell’umanità, e determinavano
il convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione
politica per inclusione e non per
conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo
spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare
che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo
attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e
dell’Italia si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto
catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella
persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale
pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della
Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del
nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in momenti cruciali. Si è infatti trattato
innanzi tutto di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i
popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da
questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare
ancora insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il
Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori
nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.
Si osserva qualche
volta che il Concilio Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi.
Effettivamente, considerando quell’evento complessivamente, può essere
osservato che i capi ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una
certa fiducia nella gente comune, in particolare in noi laici. E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati.
Scrutarono, come scrissero, i segni dei
tempi e vi videro straordinarie
opportunità, determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in
genere succube dei propri capi politici, si era mostrata in grado di
influenzare positivamente il corso della storia.
I documenti
conciliari furono scritti da teologi cattolici. Il particolare metodo seguito
dalla teologia cattolica comporta che il
nuovo in genere non venga proposto
come trascinato dal futuro e verso di
esso in rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e spinto
verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla
tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza
soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare
cambiamenti molto significativi.
Ad un certo momento
diventò centrale, nei discorsi conciliari, l’idea di popolo animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato
come nuovo (benché iniziato quasi
duemila anni prima e animato da una missione analoga di salvezza) rispetto
a quello antico costituito
dall’Israele storico, senza che però il nuovo
privasse di senso l’antico, data
l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del cristianesimo
nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano generalmente problemi,
ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e di molto grossi, e questo sulla base di una
teologia molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della Chiesa,
dalla quale si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo) conseguenze molto
gravi dall’idea di un nuovo che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale di nuovo popolo (in senso
prevalentemente storico e religioso) al
quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il
cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto ad assomigliare abbastanza, per come veniva
caratterizzato, a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale:
nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in
italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo
l’attributo nuovo - manifestatosi
solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva
riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi
prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto
storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda
si faceva riferimento a un tipo di
società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata
storicamente nelle Nazioni Unite e in
altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in
particolare dall’affermazione dell’universalità
di certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i
cristiani, per quegli ideali umanitari
non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si
proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere
coloro che consideravano l’antico. In
questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo del popolo
di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo,
venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.
Ecco quindi
un compito che si può individuare per noi cattolici europei che viviamo in una
relativamente tranquilla periferia della
Roma di oggi: contribuire a consolidare come nuovo popolo (in senso religioso) il popolo nuovo (in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri
i quali, anche se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe
nostre idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come
dire: consolidare nella società di oggi certi valori che hanno base religiosa, come non cessano di
ricordarci i nostri vescovi.
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19
Micro-Macro e la ricerca della felicità
(20 ottobre 2012)
Riprendo la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 129, euro 8,00, formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione
di Giorgio Campanini e un pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione
alla precedente edizione del 1997 (si tratta del testo di un intervento che
Dossetti, ormai prete e monaco dopo essere stato molti anni prima professore
universitario e politico, fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso
eucaristico della diocesi di Bologna):
Come la Chiesa riunita dell’assemblea
eucaristica è l’epifania [=manifestazione. Nota mia]
anticipata del Regno, così la Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania
della “polis” [=città in senso politico, come organizzazione sociale. Nota
mia] salvata: “politicità” tutta “sui
generis” [=in un senso particolare, suo proprio. Nota mia], che non governa e non ha potere, che non
muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per
quello che sono “in mysterio” [nel mistero della loro realtà che rileva per
fede religiosa. Nota mia] (anche se
poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè incontra l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più
invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso. Nota mia], creando e divulgando ovunque – nel seno di ogni società grande o piccola,
soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni sociologi laici ora
raccomandano – un’atmosfera di rispetto,
di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo
[=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli altri, con
spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e
mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine
121 e 122].
Queste parole di Dossetti ricordano quelle che
troviamo nella costituzione dogmatica Lumen
gentium, del Concilio Vaticano 2°, al capitolo 2°, n. 19:
[…] il
popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli
uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per
tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza.
Costituito da Cristo per una comunione
di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento
di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (si
confronti Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Essere inviati
collettivamente al mondo per essere strumenti
di redenzione, vale a dire per influire
su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza
religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e
che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento
individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente
perché rifiuta di dominare gli altri
e si propone di incontrarli nel loro
intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di
relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto
un tipo di felicità, una società in
cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga
incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune
(notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore
tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).
Ora, naturalmente quest’ordine di idee
presenta già qualche problema se lo si applica a piccoli gruppi, i quali pure
vogliano impegnarsi effettivamente a realizzare quel tipo di comunità a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà
sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di
milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli
illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si limitarono prudentemente a riconoscere il
diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come
collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro
nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere
stati ad essa inviati), è
particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo
individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono
ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana
che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la
comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive, interagisce con quanto altri sono, fanno,
sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono, e può produrre determinazioni comuni su ciò
che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è
di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad
esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere
comunque vitali quelle dimensione
sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a
partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno,
orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso,
significa non incontrare l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma nel
suo “sé” più intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi
tenere insieme macro e micro. Questo lavoro di cui ho parlato è
il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.
Per oggi concludo osservando, nella linea di
Dossetti, che in tutto questo agire collettivo ben ispirato si è indubbiamente
esposti a una tentazione piuttosto forte, che è quella di ritenere che l’opera
del nostro ingegno, le costruzioni sociali che riusciamo storicamente a
realizzare, corrispondano ad un certo punto a un modello di perfezione sotto il
profilo propriamente religioso, si tratti di famiglia naturale, di comunità religiosa, di organizzazione di una città, di uno stato nazionale, di un
ordinamento pubblico sovranazionale e, al limite, di un ordinamento globale di
tutti i popoli della Terra, come nelle intenzioni vorrebbe essere
l’organizzazione delle Nazioni Unite. Questa
identificazione tra soprannaturale e naturale, espressa storicamente dal motto Dio è con noi, non la possiamo però
legittimamente mai affermare, perché ci è stato detto che il Regno beato non è di questo mondo, con tutto ciò che da questo
consegue. Nella visione di Dossetti, per quanto (giustamente) ci si dedichi a
costruire comunità amorevoli e
materne, ogni espressione della
socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e in essa elementi
positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre mescolati a elementi
negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti storicamente ad attuare e
quello che definiamo come “il Regno”. E ciò si avverte con più forza a
misura che le collettività organizzate diventano più grandi, aggregando
moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le dimensioni dell’umanità intera, e
a misura in cui esse incidono maggiormente nelle vite delle persone. Dossetti
precisa:
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si
prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo,
che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Rimane pertanto questo paradosso, che,
inviati verso gli altri per
migliorare sulla base dei nostri principi di fede le società in cui insieme ad
essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle società degli estranei, degli
stranieri, dal punto di vista
religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione. C’è sempre
infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati ottenuti e
questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle
specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera
nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo
nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere
di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da
poco nell’ottica della nostra completa integrazione
civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto
alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il
nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e
quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità
costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di
loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre
obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro
omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.
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20
Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli
(21 ottobre 2012)
Sintetizzo le
riflessioni che ho svolto nei giorni scorsi su uno dei temi ancora caldissimi del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), nel senso che in quella grande assemblea fu intuito e sviluppato
concettualmente, ma ancora la sua realizzazione è, come dire, in corso
d’opera, e si tratta di un lavoro in cui
l’Azione Cattolica è particolarmente impegnata.
Prima di cominciare
richiamo alla vostra memoria questo che segue, di cui mi sono occupato in
interventi precedenti: a)dalla fine del Settecento e in particolare dalla metà
del secolo scorso, si è prodotta nel mondo una evoluzione politica delle
istituzioni supreme per la quale si è passati da forme di governo
caratterizzate dall’accentramento del potere in poche persone, dalle quali poi
il potere veniva delegato in un scala gerarchica discendente, ad altre che
consentivano una più larga partecipazione delle genti; b) questi sviluppi erano
basati sull’idea di uguaglianza intesa come pari dignità sociale; c) la pari dignità sociale è fondata
sull’affermazione di diritti fondamentali
che devono essere riconosciuti a moltitudini di esseri umani; d) il
riconoscimento di questi diritti fondamentali è alla base del metodo democratico, quello che rende
possibile la partecipazione di masse al potere supremo e che quindi non
consiste solo nella regola secondo la quale vince la maggioranza; e) dopo il
secondo conflitto mondiale il movimento per il riconoscimento universale dei diritti umani fondamentali di tutti gli
esseri umani ha avuto il suo massimo sviluppo, producendo, ad esempio con a Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo delle Nazioni Unite,
una serie di dichiarazioni in cui quei diritti fondamentali non vennero più
legati a una condizione di cittadinanza
politica particolare (essere cittadini italiani o di un altro stato), ma
alla sola condizione di esseri umani;
f) nel mondo globalizzato (che
significa unificato dal farsi più deboli le frontiere politiche che lo
dividevano) di oggi il sistema dei diritti umani fondamentali sta avendo la sua
massima estensione ed è alla base dell’idea di cittadinanza universale, realizzata la quale non vi sarebbero più
nel mondo apolidi, genti private di
una qualche possibilità di influire sui destini comuni; g) l’idea
dell’esistenza di diritti umani
fondamentali ha fondamento religioso e, in particolare, fondamento
religioso cristiano, perché, in
fondo, non può argomentarsi per altra via l’idea della pari dignità degli esseri umani, che per i cristiani dipende
dall’essere stati tutti gli esseri umani creati
uguali sotto quel profilo della dignità, da un unico Padre.
Questi sviluppi democratici dell’ordine mondiale
trovarono eco nella gerarchia cattolica a partire dal radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12° (la Seconda Guerra Mondiale
era ancora in corso in una sua fase particolarmente cruenta):
Il
problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più
importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla
guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione —
dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse
mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri
pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della
guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
Poiché ha rinunciato ad esercitare un potere
politico diretto, salvo che su una specie di simulacro di stato nel quartiere
Vaticano in Roma, e ritiene di avere la missione di custodire inalterati alti
ideali che riguardano il senso dell’universo, il destino degli esseri umani e
la morale, la gerarchia della Chiesa cattolica, intesa come il papa e i vescovi, non ha voluto, sulla scia del
movimento democratico globale, democratizzare
anche la Chiesa
cattolica, nel senso di sottoporre certe decisioni supreme, ma anche molte di
minore spessore, al consenso della maggioranza. Paradossalmente quindi la Chiesa, pur
consigliando la democrazia al suo esterno, rimane una potenza non democratica, essendo tutto il potere canonico
(sull’organizzazione ecclesiale) concentrato nel Papa romano e nella sua
piccola corte (la Curia vaticana) e solo parzialmente decentrato ad altri
vescovi. Tuttavia gli sviluppi contemporanei dell’idea di pari dignità degli esseri umani, che del resto ha
fondamento religioso, non sono stati del tutto senza conseguenze nella Chiesa. Ciò si rileva particolarmente nei
documenti del Concilio Vaticano 2°, che per altro, secondo il metodo della
teologia cattolica, la quale si sforza di tenere
sempre insieme vecchio e nuovo,
passato, presente e futuro, l’umanità antica e quella nuova, i morti e i vivi e
i popoli di tutta la Terra, secondo il comandamento
di unità ricevuto, sono formulati in modo da evidenziare particolarmente la continuità piuttosto che la novità.
Un passo centrale lo si ritrova nel capitolo
4°, n. 32, della Costituzione dogmatica Lumen
Gentium sulla Chiesa, dove è
affermata la vera uguaglianza riguardo
alla dignità e all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di
Cristo. Questo il brano:
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La
santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile
varietà. «A quel modo, infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra,
e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un
solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm
12,4-5).
Non c'è
quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune
è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la
grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che
una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e
nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al
sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero,
non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.;
cfr. Col 3,11).
Se quindi
nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale
la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque
alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri
e pastori per gli altri, tuttavia vige
fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a
tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo.
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Che cosa comporta, per noi laici, questa pari dignità nella Chiesa?
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21
Città di Dio, città dell’uomo, città del diavolo
(22 ottobre 2012)
Il peccato che è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e
nelle forme sociali più vaste e complesse: queste ultime possono assicurare
agli uomini vantaggi sensibili in varie direzioni, ma tendono a porsi come
grandi concentrazioni di potere (le megalopoli, gli imperi) e divenire sempre
più anonime e soprattutto consentire uno sfrenamento più incontenibile delle
peggiori passioni umane: l’ambizione prevaricatrice, l’avidità di illimitati
guadagni, il lusso spettacolare, la lussuria sempre più cupida di ogni
perversione, l’adulterazione industrializzata della verità, lo spargimento
ingiusto di sangue ecc. Sicché non si può parlare di un’ambivalenza delle forme
sociali e del potere, come fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente
deve riconoscere un loro inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio
più grave di tutti è la guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a
livello planetario.
[da
Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città,
Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]
Dossetti pronunciò le parole sopra riportate
dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e l’esperienza biblica,
dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si era nel 1987, in un
mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in particolare, non si era
ancora nell’era della globalizzazione,
della interconnessione planetaria delle economie e delle società umane. L’umanità era dominata da due grandi sistemi
politici sovranazionali, quello centrato sugli Stati Uniti d’America e quello
che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e seguiva due gruppi di sistemi
economici, piuttosto articolati al loro interno, quelli di tipo capitalista e
quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse di perversione sociale
venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli schieramenti, che
concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno il rovescio
dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli universi sociali
contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti della civiltà umana in cui si trovava, poteva fare
riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno
del bene, a un modello positivo.
Ai tempi nostri quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta
da potenze umane omogenee ed è diventata così più significativa la critica
globale alle società umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo
Dossetti: il male appare come universalmente connaturato con l’esperienza delle
società umane e da esse ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una
semplice ambivalenza tra male e bene,
ma un inquinamento profondo che ora
si manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E
tuttavia, paradossalmente, il rischio di
guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle
parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei
tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un
tempo in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche opera umana. La pace ha
anche una valenza religiosa e quindi si è spinti a ragionarci su anche sotto
questa prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare le esigenze di impegno
nel mondo nuovo in cui ci troviamo a
vivere con il pessimismo biblico
sulle organizzazioni sociali umane.
Bisogna allora evidenziare un importante problema che
noi, gente di fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre persone al di fuori
della cerchia di chi condivide le nostre convinzioni religiose, le cose del
nostro mondo: i principi ai quali vogliamo riferirci per orientare le nostre
condotte individuali e collettive sono tratti da un’antica sapienza che si è
formata in un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo. Non si
tratta di una differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad esempio, il mondo è più
popolato; le armi oggi sono più
potenti e via dicendo), si tratta di una novità
profonda, strutturale e piuttosto recente. Non dobbiamo però pensare che si
tratti di un processo anche irreversibile.
I tempi nuovi in cui ci troviamo
dipendono da una certa organizzazione sociale molto complessa e quindi anche
particolarmente fragile, nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni
fa uno scrittore italiano scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli, della crisi di un’organizzazione sociale umana
moderna molto articolata e complicata. Un nuovo
medioevo, in senso negativo, una regressione
catastrofica, è quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo
prefigurare le condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche
su scala globale ne possono essere considerate in qualche modo delle
avvisaglie. Oggi più che in qualsiasi
altra precedente epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre
società, una sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e
dall’interazione solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per
preservarla dai pericoli e dal male che
sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge
verso la Città di Dio e quella che
invece tenta verso la Città del diavolo,
compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per
la costruzione della Città dell’uomo,
espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba
impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in
concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e
cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di
mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello
di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non
poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una
specie di carestia biblica che
coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico
soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane a cui ho accennato e dal concepirci sempre
come stranieri in ogni patria
terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella
della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato
che questi sforzi collettivi possono avere successo. Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca:
per ogni problema se ne possono infatti
pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono
dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è
strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno
un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani.
Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo
realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa,
che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è
più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità
di una dottrina con quelle pretese
formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a
un contesto teologico, di coerenza teologica.
Mi piacerebbe, a
questo punto, concludere anticipandovi la
soluzione delle soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in
modo rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo
apparente e che vi è ancora una via semplice
per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo,
perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre
concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga
collettivamente in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba
aspettare.
Voglio precisare che
la novità della situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su
scala globale, mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città,
quartieri, condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena
affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede,
caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra
nella nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in
essa, nella nostra vita feriale, e
può, ad esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che
chiede il riconoscimento di una cittadinanza
universale sulla base di quella nuova
organizzazione globale delle cose umane di cui dicevo. In questioni come queste anche
noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si
tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle
democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre
scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel
continente europeo.
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22
Quale impegno nell’Anno della
Fede? Andare avanti!
(24 ottobre 2012)
Nella riunione di
ieri del nostro gruppo ci siamo interrogati su quale debba essere il nostro
atteggiamento in questo Anno della Fede,
indetto dal papa Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta Fidei (trad. porta della fede) dell’11 ottobre
2011 e aperto lo scorso 11 ottobre,
cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Potete trovare il
documento all’indirizzo WEB:
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html
Leggendo le parole del Papa possiamo
individuare questi presupposti e
obiettivi dell’iniziativa:
·
entrare
nella Chiesa significa impegnarsi in un cammino
che dura tutta la vita. La fede
cristiana è come una porta che,
attraverso il Battesimo, ce lo fa
iniziare;
·
bisogna
riscoprire questo cammino nella fede,
perché la fede ai tempi nostri non è più
un presupposto ovvio;
·
dobbiamo
ritrovare il gusto di nutrirci del cibo che rimane per la vita eterna,
vale a dire della Parola di Dio
trasmessa dalla Chiesa e del Pane di vita,
per continuare a credere in Gesù, il Cristo;
·
attraverso
la propria testimonianza di vita i cristiani sono poi chiamati a far risplendere la Parola di verità che il
Signore Gesù ci ha lasciato;
·
l’Anno della Fede in questa prospettiva è un impegno a una rinnovata e autentica
conversione al Signore, unico Salvatore del mondo;
·
in
questo spirito è anche necessario un più convinto impegno ecclesiale
a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e
ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede; esso scaturisce da una fede rafforzata;
·
il percorso comune nell’Anno della Fede deve portarci a capire in modo più profondo non
solo i contenuti della fede ma anche
il senso del credere, l’atto con cui decidiamo di affidarci
totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della
sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo;
·
la professione di fede comporta anche assumersi la responsabilità sociale di ciò
che si crede: non è un fatto privato e implica
anche una testimonianza ed un impegno pubblici; essa quindi è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa,
infatti, il primo soggetto della fede;
·
per la
conoscenza sistematica dei contenuti della fede cristiana tutti possono
trovare nel Catechismo della Chiesa
cattolica (1993; 1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;
·
non
dobbiamo temere di argomentare razionalmente la fede, anche in quest’epoca in
cui molti ritengono che certezze razionali possano conseguirsi solo nell’ambito
del pensiero scientifico e tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la
scienza non vi sia conflitto, in quanto entrambe, anche se per vie diverse, tendono alla verità;
·
sarà
decisivo nel corso di questo Anno
ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile
dell’intreccio tra santità e peccato;
·
In questo tempo siamo invitati a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che
dà origine alla fede e la porta a compimento; in lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli
esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di
salvezza”;
·
nell’Anno
della fede dobbiamo vedere anche un’occasione per intensificare la nostra testimonianza della carità; la fede senza la carità non porta frutto e
la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio.
Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di
attuare il suo cammino;
·
nell’Anno
della Fede siamo inviati a scuoterci da una certa pigrizia nel conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa
comune; in particolare ciò riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di
gioventù: “Giunto ormai al termine della
sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’
(cfr 2Tm 2,22) con la stessa
costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm
3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.
·
nella fede siamo ricolmi di gioia perché, pur
vivendo anche l’esperienza della sofferenza “noi
crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la
morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a
noi, vince il potere del maligno (cfr Lc
11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui
come segno della riconciliazione definitiva con il Padre”.
Ora, uno dei modi di intendere gli impegni
proposti nell’Anno della Fede
è quello di presentarli come un cammino
di ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro, riconoscendo il male che c’è in noi e che da
noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico
Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma
esso presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora
bella e suggestiva fino a che
corrisponda a come la Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare,
questa idea del ritorno nella lettera
apostolica citata non c’è (c’è quella
di conversione, che è un’altra cosa:
è cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra
testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la
citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge
(versione CEI 2008):
Appena arrivati, riunirono la Chiesa e
riferirono tutto quello che Dio aveva fatto capire per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della
fede.
Quel passo si riferisce al ritorno di Paolo e
di altri suoi compagni da una missione in città del mondo pagano del loro
tempo.
Per quanto indubbiamente nella vita delle
persone ci possano essere momenti in cui esse si allontanano dalla Chiesa e poi le
si avvicinano nuovamente, in un movimento effettivamente di ritorno, e quindi ci sono anche dei
gruppi per così dire specializzati
nel favorire questa decisione di rientro
(anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi impegnata in questo), nella
lettera apostolica citata non è questo ad
essere centrale. Piuttosto il Papa appare preoccupato di una certa pigrizia e distrazione
di noi fedeli nel rispondere alle
esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e
teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo
dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra
fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato, a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali, culturali e politiche di esso che della sua
origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione
dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per
come io credo di aver compreso l’invito che ci è stato rivolto, deve così
servire a scuoterci da questa pigrizia e a porci nuovamente in cammino secondo l’orientamento che ci viene
dalla comune fede religiosa: appunto un cammino
nella fede. Come battezzati infatti, a prescindere da
quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre
piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne
può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.
Questo dobbiamo sempre ribadire con
la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente
purtroppo è sempre presente di quando
in quando.
Per come la vedo io,
noi, piccolo gregge dell’Azione Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno della Fede, non dobbiamo prendere
la strada per andare da qualche parte indietro,
ma siamo spinti proprio dalla nostra fede
in avanti.
La lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli
impegni per l’Anno della Fede, quello
di “ripercorrere la storia della nostra
fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.
“Mentre la prima evidenzia il grande
apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della
comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in
ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la
misericordia del Padre che a tutti va incontro.”
In questo ci indica anche quell’impegno di
purificazione della memoria, che
significa comprendere ciò che nel nostro passato ecclesiale non andava nella
direzione giusta e distaccarsene per il futuro (senza con questo volere
anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone che di quel passato furono artefici), sulla quale la
nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni Paolo 2° in
occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
La concomitanza tra l’apertura dell’Anno della Fede e il cinquantesimo
anniversario dell’inizio del Concilio
Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento
della nostra Chiesa, pur nella fede della Tradizione, rende chiaro che non è al
passato che ci viene chiesto di guardare, in particolare a modi organizzativi
che si riferiscono ad epoche che non sono più.
Ciò che del passato ci viene richiesto di riscoprire è la fede della Tradizione, la fede di sempre, che è fede in colui che
riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri, oggi e domani: egli vive e trae a sé
tutto.
Certo, cari amici, ieri contandoci e
considerando le nostre forze reali, dico noi del nostro gruppo in San Clemente
papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il quale siamo spinti in questo Anno della Fede non superi di molto le
nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci, perché, e questa è una delle cose
che possiamo riscoprire in questo Anno della Fede, noi non siamo soli:
siamo parte di un lavoro collettivo molto più grande e poi confidiamo, nella
fede, in colui che può dare successo a tutte le nostre opere.
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23
E pluribus unum: quale
fondamento per l’unità?
(25 ottobre 2012)
Sullo stemma degli
Stati Uniti d’America compare il motto latino E pluribus unum, che significa da
molti, uno. Fu proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams,
Jefferson e Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si
riferisce alla volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di
unirsi in una dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata
sulla convinzione della pari dignità umana, per essere stati gli
esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili
e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità. Perché mi riferisco spesso alla nascita degli
Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle
democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità
politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano.
Essa mostra quindi che ideali cristiani e
ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto.
Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era
tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato
un altro motto: Ribellarsi al tiranno è
obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico
nell’ideologia cristiana e fosse stato in particolare affermato, su basi bibliche, nell’ordine
concettuale di S.Tommaso D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne
approvato ufficialmente con l’enciclica Aeterni
patris del Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come è intesa oggi (con l’affermazione del diritto
politico di resistenza al tiranno che violi quei diritti umani fondamentali
inalienabili) venne accettata dalla Chiesa cattolica come regime politico
preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio natalizio del papa Pio 12°).
Anche lo stato dal
quale i rivoluzionari nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di
diversi popoli (Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso
però il fattore di unità era la
sudditanza a una dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di
precise accuse storiche esplicitate nella Dichiarazione
di indipendenza del 1776, venne
vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità
politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con
la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto
come tirannico.
La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di
quelle fortemente critiche anche
nella Chiesa cattolica, in particolare da quando, nel quarto secolo della
nostra era, essa divenne rilevante per l’unità politica dei popoli unificati
nell’impero romano e successivamente
anche per quella dei nuovi stati sorti dalla dissoluzione, nell’Europa
Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole riferire anche a questo. In questa materia ha inciso
potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.
Il punto di partenza
del nuovo ordine concettuale è la pari
dignità delle persone che formano il popolo di Dio.
...comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la
grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che
una sola salvezza, una sola speranza e una
carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa
riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché
“non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né
donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).
[…]
… vige fra tutti una vera uguaglianza
riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il
corpo di Cristo.
[Dalla
costituzione dogmatica Lumen Gentium,
sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Questa pari
dignità conduce a rispettare la varietà
nella Chiesa che raduna quel popolo
La santa Chiesa è, per divina
istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà.
[…]
Così nella diversità stessa, tutti
danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo.
[Dalla
costituzione dogmatica Lumen Gentium,
sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Il fattore di unità è
di ordine spirituale:
… infine Dio mandò lo Spirito del
Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è
principio di associazione e di unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella
comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr At, 2,42).
[Dalla
costituzione dogmatica Lumen Gentium,
sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
La realizzazione dell’unità è impegno comune
di tutti i fedeli:
…le singole parti portano i propri
doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole
parti si accrescono con uno scambio mutuo universale verso la pienezza
dell’unità.
[Dalla
costituzione dogmatica Lumen Gentium,
sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
Ad essa siamo spinti dalla legge dell’amore cristiano:
Questo popolo messianico ha per capo
Cristo […] Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel core
dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo
precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).
[Dalla
costituzione dogmatica Lumen Gentium,
sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]
Per capire a che tipo di amore ci riferisca
quando si parla della legge cristiana
dell’amore è opportuno leggere il testo greco del brano del Vangelo di
Giovanni citato nella costituzione dogmatica: “Entolèn cainèn dìdomi umìn, ina agapàte
allèlus, cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.” (trad.:Vi
do un comandamento nuovo che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato
[egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo
brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del
sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.
Riassumendo: secondo le concezioni conciliari,
l’unità non significa necessariamente uniformità
e trova fondamento dal basso, in una
comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come
quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].
Ora, non è che queste idee siano veramente
nuove, perché erano tra quelle fondamentali fin dalle origini. La loro portata
innovativa sta nel fatto che esse sono stata proclamate nel Concilio Vaticano
2° dopo che per quasi due millenni i fattori di unità nella Chiesa cattolica
erano stati visti principalmente nella
sudditanza sacrale ad un unico Pastore terreno
e
nella stretta uniformità ideologica e
liturgica (ad esempio nell’uso universale del latino liturgico).
Dove voglio andare a parare con tutto questo?
Cerco di dirlo nel modo meno “traumatico” possibile.
Il fatto che l’Anno della Fede che è appena iniziato sia stato così esplicitamente collegato al
Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto iniziare nel giorno del
cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel concilio, rende ben chiaro che
non si vuole da noi il ritorno alla
preponderanza degli antichi fattori di unità. Quell’era della nostra
confessione religiosa è finita.
Dobbiamo resistere alla tentazione di “ritornare” nel senso di
incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale
faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su
principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della
Chiesa, della quale nella lettera
apostolica Porta Fidei di indizione
dell’Anno della Fede siamo chiamati a
prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto
collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso
del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
[…]
Un Rappresentante della
Curia Romana:
Preghiamo perché ciascuno di
noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera in silenzio.
II Santo Padre:
Signore, Dio di tutti gli
uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
[Dalla liturgia
della Giornata del perdono, celebrata
il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]
Come risulta chiaramente dalla lettera
apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno
della Fede noi fedeli approfondiamo
un cammino comune nella fede, aiutandoci gli uni gli altri in unione spirituale pur nella legittima varietà di stili di vita individuali e comunitari,
anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in cui viviamo,
per influire in tal modo su di essa con rinnovata
sapienza e consapevolezza infondendo
valori cristiani, cercando di promuovere, secondo il comando ricevuto,
l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare un’unità discriminatoria,
separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente fedeli”, coloro che su alcune
cose legittimamente la pensano diversamente da altri, nel presupposto che
questi ultimi siano monopolisti della retta dottrina, della retta liturgia, dei
retti principi di vita comunitaria. Questo significherebbe in un certo
senso tornare al nostro tremendo passato,
equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.
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24
Gioia e timore alla
base dell’impegno religioso nella società
(27 ottobre 2012)
Leggo in Giuseppe
Dossetti, Eucaristia e città, Editrice
A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie
meditazioni religiose:
[…] nella … nuova
economia l’amore –motivo fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina
il santo timore filiale che, con soggezione totale e trepidante adorazione
della maestà di Dio, deve permanere a ogni livello della vita spirituale.
Perciò, anche restando nel Nuovo Testamento,
vediamo che c’è un timore di Dio che e inculcato assiduamente dagli apostoli
(la stessa Lettera ai Romani 11,10; la Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera
di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato da Gesù stesso come necessario (Mt
10,28),
[…]
Certo l’Eucaristia, se
davvero vissuta nella fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia
sensibile.
Deve esser una gioia non adolescenziale, ma da
adulto, che non presuppone … di saltare il timore, ma che nasce proprio da un
timore virile e consapevole: stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo
eterno di Dio”.
Questo discorso che Dossetti riferiva specificamente
all’Eucaristia può essere esteso all’atteggiamento che complessivamente la persona
religiosa può avere nei confronti del tempo e della società in cui si trova a
vivere. Il timore deriva dalla consapevolezza della grandezza degli ideali
professati e dalla conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della stessa
fonte e, in particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano basati
solo sulle proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso, sia
tratto da una forza irresistibile, non spinto da noi, verso un suo beato compimento. In altre circostanze,
al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva
dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla
considerazione dell’insufficienza delle proprie forze e conseguentemente la gioia, se anche c’è,
finisce per essere piuttosto precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia
nell’oggi e anzi addirittura solo
nell’ora corrente. Quella che
scaturisce dal timore religioso è invece gioia per il passato, per il presente
e per il futuro, quindi si basa su
una valutazione complessivamente positiva e fiduciosa della storia. Si fonda su
una considerazione realistica delle cose come vanno, e questa è come si dice
nel lessico attuale la sua laicità,
perché la fede non è solo immaginazione e sentimento, ma anche su una
spiritualità intima e quindi profonda che cambia molto l’atteggiamento che si
ha verso ciò che ci circonda e che, in tanti modi, ci determina, ci interroga,
ci sollecita e, a volte, ci atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di
fronte ad ogni difficoltà della vita, sia
essa di quelle proprie personali o di quelle di realtà vicine come la
famiglia o l’ambiente umano abituale, come anche su scala maggiore, di quelle
che riguardano la propria città, regione, nazione o, al limite, l’intera
umanità, innanzi tutto si raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare
il suo legame con il fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti
indica come di devozione filiale,
quindi in una familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento
di stupore e trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa
sorprendentemente animato da amore viscerale, materno, ma anche virile, paterno, nei confronti di noi
umani. Il passo successivo è quello della comprensione
del mondo intorno a sé e poi dell’azione in
esso, nel tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel
proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire
e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica,
Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di
quel fondamento religioso, nell’impegno laicale
nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte,
innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle
istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come
cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione
sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi
dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente
responsabilità globale in ciò in cui di fatto si influisce su di essa
o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio
si definisce come cattolicità attiva,
che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti
della nostra confessione religiosa (ad esempio per procurarle privilegi ed
esenzioni) o di militi o messi di una
potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio
l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.
Questo programma, che ho esposto brevemente,
non è facile da attuare e, innanzi tutto, richiede che si impari a collaborare
con gli altri. L’impegno religioso, come ci
è stato ricordato nella lettera apostolica Porta Fidei (2011) con cui è stato indetto l’Anno della Fede iniziato l’11 ottobre scorso, non è un fatto privato. Ecco che in questo può essere interessante
l’impegno in Azione Cattolica. Esso è appunto un impegno, quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del
tutto scontati e in cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una base di partenza negli esercizi di laicità che si faranno,
vale a dire nello sforzo di comprensione
realistica del mondo in cui si vive alla luce di una spiritualità
religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di Azione Cattolica
ricette di vita, personale o
comunitaria, già pronte e ammaestramenti globali su ciò che si deve fare o si deve pensare in ogni
occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui
sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione
Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di
azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui
viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta i
propri doni in un mutuo scambio che accresce
gli altri, in uno sforzo comune per
promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più
vicine fino a quella globale.
“[…] la
Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta
l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito con
lui.
[,,,] In virtù di questa cattolicità,
le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in
modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo
universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”
[dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n.13, del Concilio Vaticano 2°]
Ora è chiaro, riprendendo il discorso da cui sono
partito, che l’universalità di questo
impegno comune, la sua cattolicità,
la sua effettiva apertura a tutte le
genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal suo fondamento religioso e quindi da quel timore di cui si diceva, il quale, in particolare,
deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare
una soluzione, un modello, un’esperienza, un cammino, una ideologia, una concezione
filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione
particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto
caratterizzata, appunto, da devozione
filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente
attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo
possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e
soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità. Questo, ben lungi dallo
scoraggiare e umiliare, è anche la base
della creatività religiosa nella società e quindi dell’efficacia
della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi e determinarsi con sapienza di conseguenza,
rinnovandosi incessantemente.
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25
Fare memoria di un’alleanza
(30 ottobre 2012)
“…nell’episodio del
roveto ardente (Es 3,2-6) sul monte Horeb, l’angelo del’Eterno (malakh Adonai)
che appare a Mosè ‘in una fiamma di fuoco’ nel mezzo del roveto che non si
consuma gli dice molto esplicitamente: ‘io sono il Dio di tuo padre, il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe’. La visione dell’angelo è dunque
una teofania. […] L’Invisibile si
presenta di nuovo, sotto la forma di un angelo, per vivificare in Mosé … quella
alleanza ‘per le generazioni’ (ledorotam) (Gn 17,9).
[…]
Quella teofania rende visibile all’anima
l’alleanza immemoriale tra Dio e la Sua creazione, alleanza che abitualmente
l’anima non percepisce fintanto che guarda il mondo e le creature che vi si
trovano attraverso una morsa di paura e di collera, di anticipazione avida e
invidiosa, o fintanto che si rassegna alla protezione tragica della rinuncia e
sprezza il desiderio”,
[da: Chaterine Chalier, Angeli
e uomini, Giuntina, 2009, euro 16, pag.19, 20 e 26]
L’altro giorno discutevo di come, per quello
che so, la nostra parrocchia perde la gran parte dei giovani adolescenti e
ventenni iniziati nel catechismo alla vita religiosa e non li recupera più. E,
in effetti, viene il momento in cui, nello sforzo di approfondire i temi della
nostra fede e di ottenere un maggiore impegno, viene detto chiaramente loro,
più o meno esplicitamente, che sono sbagliati, che la loro vita è tutta da
rifare, che devono essere ricostruiti dalle basi, perché hanno toccato il
fondo, in particolare perché vogliono fare l’amore e questo è, per loro che non
sono sposati, peccato mortale. E’
chiaro che a questo punto loro scappano, perché, secondo natura, il loro
mestiere, in quell’epoca della loro vita,
è proprio fare l’amore. Non tollerano di sentirsi in questo come in libertà vigilata e di vivere con rimorso ogni soddisfazione sotto questo
profilo, dovendo immediatamente pentirsene.
Non è più come quando il prete diceva loro di “non toccarsi” e questo poteva essere accettato in un’ottica umana e
religiosa insieme, perché si sentiva che quelle consuetudini, pur nella loro
banalità, sarebbero state superate crescendo e che, anzi, crescere consisteva
proprio nel superarle. Quando poi si cresce, e di solito ad un certo punto si
trova un equilibrio nelle cose dell’amore, il problema si ripresenta sotto un
altro aspetto, perché, quando si riprende in considerazione una prospettiva di
fede, che in molti casi è la fede della propria tradizione familiare, quella
dei “propri padri”, si trova un
ostacolo nella pretesa etica religiosa di non porre ostacoli alla procreazione
e quindi di affrontare l’amore con una fiducia che, ad un animo ragionevole,
può apparire come un gioco d’azzardo, in cui però si punta tutta la propria
vita. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà che sorgono nel caso di crisi
e di fallimento dei matrimoni e di ricostituzione di nuovi rapporti coniugali.
Non sono problemi di oggi, ma di sempre, fin dalle origini, millenni fa, tanto
che si ritrovano nella Bibbia, ma un tempo ci si faceva meno caso, un po’
perché dai laici si tollerava una maggiore ipocrisia, specialmente dai maschi,
e poi perché per la maggior parte delle persone il tirare a campare, in un mondo tutto sommato molto più difficile di
quello dei nostri tempi, sovrastava tutto (con i problemi economici, le guerre,
le malattie inguaribili, la violenza sociale che c’erano). Una certa ideologia
repressiva nei confronti delle donne era poi vista come necessaria al
mantenimento dell’unità delle famiglie e, come contropartita, si era poi più
comprensivi verso di loro, viste come la parte debole e sottomessa di rapporti
personali dominati inevitabilmente dal capriccio degli uomini. Nella nostra
epoca invece, e specialmente dopo il Concilio Vaticano 2°, si pretende dai
laici un’adesione molto più consapevole e coerente in tutti gli aspetti della
vita e questo in un tempo in cui i modelli sessuali e familiari sono in veloce
evoluzione e in cui il successo sessuale viene visto, anche in tarda età, come
manifestazione di affermazione sociale in una società dominata dal consumismo e
dall’esteriorità.
Cari lettori, non
sono un sacerdote. A ognuno la sua parte. Non ho assunto il difficile impegno
di risolvervi quei problemi o anche solo
di aiutarvi in questo dandovi una direzione spirituale. E, lo dico
francamente, non ho in tasca la soluzione per tutti, non saprei proprio come
fare. Se poi volete conoscere la posizione del magistero, vi rimando al Catechismo della Chiesa cattolica. Nella
mia esperienza di solito si riesce ad un certo punto a pacificarsi sotto quei
profili ma si tratta di accomodamenti sempre piuttosto precari che vanno
rivisti di quando in quando, e in questo la pratica sacramentale della
penitenza qualche volta può aiutare. E’ più che altro un esercizio di sapienza umana, non facile, all’esito del
quale, se le cose vanno bene e fintanto che vanno così, ci si compiace anche da
un punto di vista religioso. Ognuno in questo deve essere piuttosto creativo,
non deve aspettarsi che gli altri, anche autorevoli, abbiano modelli di stili
di vita adatti alla sua propria condizione particolare. Lo sviluppo di una
spiritualità adulta, matura, con l’aiuto del sacerdote, è fondamentale in una
prospettiva religiosa. Penso in definitiva che un laico come me, nel relazionarsi
con gli altri intorno a lui, dovrebbe lasciare certi temi alla coscienza delle
persone, nel rispetto della loro dignità umana.
In Azione Cattolica,
specialmente in quest’Anno della Fede
in cui cerchiamo di approfondire le ragioni della nostra appartenenza
religiosa, sentiamo di avere molto bisogno di persone di fede più giovani d’età, che però si tengono ancora
lontane. Non possiamo assicurare loro che in parrocchia non troveranno problemi
sulle questioni delle relazioni sessuali, perché questo è un aspetto della vita
delle persone umane che interroga gli spiriti religiosi e quindi ci si discute
su. Accade anche in altre religioni. Quello che possiamo garantire è che in
Azione Cattolica sarà sempre rispettata la loro dignità umana e che non si tenterà
di imporre loro da parte nostra,
sotto sanzione di esclusione, un certo stile di vita. Come ci è stato ricordato
nel Sinodo dei vescovi che si è concluso domenica scorsa, la Chiesa è la casa di tutti i battezzati, anche di coloro che, pur
sentendosi persone di fede, per tanti motivi non riescono a vivere in tutto
secondo le prescrizioni della morale religiosa corrente. Su certe cose si
ragiona, per cercare insieme soluzioni che poi ognuno proverà ad applicare
nella propria vita, se crede. E possiamo anche dire che l’impegno in Azione
Cattolica non è principalmente diretto a dare orientamenti sessuali. Esso ha
invece maggiormente a che fare con l’idea di cercare di radunare le persone
umane in un popolo nuovo, unito intorno a certi grandi ideali, che per noi
assumono anche una prospettiva religiosa. In questo viviamo un’epoca propizia,
perché nell’Europa di oggi viene data molta importanza a questo sforzo, tanto
che si è prodotto un imponente moto centripeto di genti verso il nostro
continente. Di recente noi europei abbiamo avuto il Nobel per i tanti decenni
di pace che si è riusciti ad ottenere da noi e la pace è un tema che ha una
forte valenza religiosa. L’aspetto peculiare dell’esperienza religiosa è che
essa non cerca di federare le genti
sulla base di compromessi di interessi o di uno scambio di equivalenti, come
accade nei contratti commerciali, ma a partire da un’interiorità che per noi,
comprendendo per molti aspetti realtà soprannaturali, assume il connotato di
una spiritualità. Accade, ad un certo punto, in molte vite che, nel mondo di
tutti i giorni, si colga, nella propria interiorità ma non solo emotivamente
perché c’entra anche la ragione, un senso dello stare insieme dell’umanità che va oltre quello che ordinariamente guida
le nostre azioni e che spesso ci lascia insoddisfatti. E’, in un certo senso,
l’esperienza di Mosè sull’Horeb evocata nel libro della Chalier. Una
interpretazione di quell’episodio è che le fiamme del roveto fossero immagine
di fiamme interiori. Mosè era fuggito dall’Egitto dopo aver ucciso un
sorvegliante che vessava gli ebrei, asserviti dalla violenza del popolo in cui
si erano rifugiati. Nella paura per la propria sopravvivenza, che lo aveva
determinato alla fuga, aveva represso il desiderio di tornare per attuare la liberazione di coloro che
erano schiavi. E’ a partire dalla sua interiorità che si attua un suo
cambiamento di vita. Egli si sente in esilio nella terra di Madian, il luogo
del suo rifugio, così come l’Egitto del faraone era terra di esilio per il suo
popolo, e ora anche per lui. Egli
vorrebbe agire in favore della sua gente, ma è bloccato dalla paura. La forza
di determinarsi secondo il suo profondo desiderio, vincendo quel timore per la
propria vita, gli viene dalla memoria dell’antica alleanza, che non era un
patto tra potenze terrene, ma con l’Eterno, del quale egli, ad un certo punto,
riesce nuovamente a sentire la voce che chiama all’azione, quindi ad alzarsi e andare.
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26
Azione Cattolica: insieme per promuovere la pace universale
(1 novembre 2012)
Siccome il regno di
Cristo non è di questo mondo (cfr Gv
18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla
sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e
accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò
che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva.
[…]
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale;
a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli
cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza
eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza
[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
Nei mesi di mese di
settembre e ottobre scorso, scrivendo diverse riflessioni sulla costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
mi sono limitato a riferirmi ai soli numeri 9
e 13 di quel documento, inseriti nel capitolo 2°. Questo può dare
un’idea della vastità delle questioni affrontate in quella grande assemblea,
che segnò un punto di passaggio importante nella storia ecclesiale, dando
inizio a un gran fermento e a sviluppi ancora in corso. Prenderne sufficiente
consapevolezza non è lavoro breve né facile, dato il linguaggio teologico con
cui sono scritti i testi dei documenti che furono allora approvati e diffusi
nel mondo. E tuttavia bisogna tener
conto del monito di quel Concilio, rivolto a noi fedeli cattolici (Lumen Gentium, n.14), della necessità di
corrispondere con il pensiero, con le parole e con le opere all’azione
soprannaturale per la quale, non per nostri meriti, siamo stati pienamente
incorporati nella nostra Chiesa, e questo
sotto pena di essere giudicati più severamente degli altri nel caso di
diserzione.
Il santo
Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici.
[…]
Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata
condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo;
per cui, se non vi corrispondono col pensiero,
con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma
anzi saranno più severamente giudicati.
In quell’elenco di
doveri del fedele, prima viene il pensiero, vale a dire l’ascoltare e il comprendere,
ma anche l’ideare e progettare per il presente e il futuro,
propri e delle collettività delle quali si è partecipi. Poi viene l’interloquire
con gli altri e l’operare: nella visione conciliare questa
parte deve farsi collaborando con tutte le persone bene intenzionate, anche al
di fuori del nostro contesto religioso (“sia
i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli
uomini senza eccezione”, brano della Lumen
Gentium citato all’inizio).
Questo impegno ideale e sociale rientra in quelli in cui l’Azione Cattolica si
sente da sempre particolarmente coinvolta.
Per quanto l’Azione
Cattolica com’è oggi sia stata istituita e regolata dall’autorità ecclesiale,
quindi dai papi e dai vescovi, sia pure con l’importante partecipazione degli
associati nelle forme statutarie, essa storicamente nacque, visse e tuttora
vive per iniziativa e impulso della società dei fedeli laici, mossi in
particolare dall’esigenza di pensare e di attuare, sulla base delle idealità
religiose, modi nuovi per influire come
collettività sulle società dei tempi in cui le persone di fede si trovano
inserite e specialmente su quelle con organizzazione democratica. Essa può
considerarsi espressione di quel grande movimento di popolo che dalla fine del
Settecento si è espresso in varie forme per una più larga partecipazione delle
genti alla determinazione dei destini dell’umanità, quindi per il passaggio
delle persone dalla semplice condizione di sudditi all’altrui potere alla
condizione di cittadinanza democratica. Per altro il coinvolgimento popolare
venne visto all’inizio in funzione
essenzialmente difensiva di un ordine
sociale nel quale la Chiesa era storicamente bene inserita, con privilegi, esenzioni e uno
spazio riconosciuto di autorità e di libertà, quindi, per semplificare, contro
i fermenti liberali e socialisti che si andavano largamente diffondendo a
partire dall’Ottocento. Questa
impostazione si andò rafforzando dopo la rivoluzione sovietica attuata nei
domini dell’Impero russo. Diciamo che a lungo l’esperienza democratica venne
considerata con un certo sospetto
dall’autorità gerarchica della Chiesa. Questa posizione mutò dopo l’esperienza
storica dei fascismi europei e la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Fu
allora che i capi della nostra Chiesa cominciarono a chiedersi se la democrazia
sarebbe potuta essere un valido ostacolo a quei disastri. Come ho spesso
ricordato, questo punto di svolta si manifestò nel radio messaggio natalizio del
papa Pio 12° del 1944:
Il
problema della democrazia
[…] Queste moltitudini,
irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi
invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai
incoercibile — che, se non fosse mancata
la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il
mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che
affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre
creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
La pace universale ha
sicuramente una valenza religiosa, come è ricordato nel passo della Lumen gentium che ho citato all’inizio. Nel mondo di oggi,
ed è la prima volta che accade, si pensa concretamente di poterla attuare con
una diversa organizzazione globale dell’umanità, sfruttando le opportunità che
derivano da quattro fattori: assetto democratico delle istituzioni, miglioramento generalizzato delle condizioni
di vita determinato anche da una più equa distribuzione delle risorse
consentita in ordinamenti democratici, miglioramento
diffuso dell’istruzione ricercato anche per l’esigenza di consentire la più
larga partecipazione alla vita sociale democratica, effettività di un sistema universale di diritti umani, sul quale i
sistemi politici democratici di fondano. Anche la Chiesa dei nostri tempi crede
in queste potenzialità:
57. Il dialogo fecondo
tra fede e ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel
sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non
credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la
pace dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari affermavano: «
Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere che tutto
quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo centro e a
suo vertice ». Per i credenti, il mondo non è frutto del caso né della
necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti
hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà
di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda
effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo
del Creatore.
[Dall’enciclica Caritas
in veritate – Amore nella verità
(2009), del papa Benedetto 16°]
Non bisogna
fraintendere pensando che la straordinaria opportunità storica che ci si è
aperta sia una manifestazione dell’avvento del Regno beato che religiosamente
stiamo attendendo. Sappiamo che quel Regno non è di questo mondo. Questo
significa che esso non può in alcun modo confondersi con alcuna delle nostre
realizzazioni, anche con le più grandi. A volta si è tentati di farlo. E’
accaduto, ad esempio, nel ’91, con la fine dell’Unione Sovietica,
organizzazione politica imperiale che in tutta la sua storia ha costituito un
ostacolo micidiale per le Chiese cristiane. Ma si è visto che quello che ne è
uscito è il consueto insieme di grano e
zizzania, di bene e di male, che troviamo da sempre in ogni società umana e
in ogni persona. Ricordo ciò che sostenne Dossetti un suo celebre intervento
pubblico del 1987, pubblicato nel libretto Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011 (pagine 45 e 46):
Il regno
di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e
neppure si prepara o si affretta per
sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un
bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre
per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi, senza di noi [… ] per
un decreto del Padre, in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato
alla sua potestà (At 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, “in ictu oculi” [trad. mia
“in un batter d’occhio”] (1Cor 15,52).
Sentiamo però nostro
dovere religioso di scrutare i segni dei
tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo (espressione che si trova
nell’enciclica pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes – La gioia e la speranza – n.4)
per scoprire in concreto quale sia il
nostro dovere oggi, per noi che siamo stati mandati nel mondo per radunare
le sue genti come in un’unica famiglia
umana (encicl.Caritas in veritate, n.53)
in una comunione di vita, di carità e di
verità (cost. Lumen gentium, n.9).
Come non
cessano di rammentarci il papa e i nostri vescovi, il sistema dei diritti umani
fondamentali sul quale si basano le democrazie contemporanee ha fondamento
religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano. Su che base,
altrimenti, può essere riconosciuto che esseri umani tanto diversi per etnie,
culture, religioni, lingue, condizioni sociali, ricchezze e altre importanti differenziazioni, quali
sono gli abitanti della Terra, hanno uguale
dignità e quindi sono titolari di
quei diritti umani fondamentali? Fondamento religioso significa soprannaturale,
vale a dire a prescindere da quello che si osserva in natura. La derivazione
cristiana del fondamento sta nel fatto che l’ordine soprannaturale al quale fa
riferimento è caratterizzato da amore
oblativo e viscerale, al modo dei genitori –padre/madre- per i loro figli, e
tuttavia universale, per tutti, oltre ogni differenziazione e
ogni divisione. Ebbene, quel fondamento religioso di principi di civiltà
che si sta cercando di attuare globalmente ci indica con chiarezza una via
importante di impegno cristiano (non l’unica). Perché, come ci è stato
ricordato due domeniche fa da un sacerdote missionario, i cristiani, cattolici
e di altre Chiese, sono una minoranza sulla Terra, circa il 15% dell’intera
popolazione umana. E’ veramente impressionante quindi che, nonostante ciò e
nonostante le stragi, vessazioni, oppressioni perpetrate nei secoli passati da nazioni sedicenti cristiane, certi valori
della nostra fede improntino ancora così profondamente la nostra civiltà a
livello globale. In questo si può senz’altro vedere la manifestazione del
disegno provvidenziale, senza però nascondersi che la realizzazione storica di quei valori è seriamente minacciata. Essa
è infatti opera umana e, come tale, suscettibile di degrado e di estinzione. La
storia dell’umanità non è infatti necessariamente una storia di progresso, come
dimostra il medioevo europeo, e,
senza un valido impegno di sufficienti forze umane che amano quei valori
e sono disposte a rischiare anche la propria vita nella lotta per essi, può prendere un altro corso. L’ideologia dei
diritti umani fondamentali regge infatti
le democrazie contemporanee e queste ultime rendono credibile la prospettiva di
una pace universale, per il tramite di una giustizia sociale che mantenga in
concreto, estenda o ristabilisca l’uguale
dignità degli esseri umani. L’Azione cattolica è schierata per la pace e la
giustizia universale e intende lavorare con particolare impegno in questo
campo. La nostra Chiesa, con il Concilio Vaticano 2°, ha rimosso ogni ostacolo
che, per incrostazioni storiche, poteva ostacolare al suo interno la riscoperta
e l’attuazione di tutte le potenzialità dell’antica dottrina della paternità
divina universale. Ad esempio la grave storica inimicizia verso le persone di
altre religioni, innanzi tutto gli ebrei e i cristiani di altre confessioni,
e i non credenti. Ecco come si esprime la costituzione pastorale Gaudium et spes:
Il
rispetto e l'amore deve estendersi pure a coloro che pensano od operano
diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché
con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto
più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo.
Certamente tale amore e amabilità non devono
in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l'amore
stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la
verità che salva. Ma occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed
errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da
false o insufficienti nozioni religiose.
Solo Dio è
giudice e scrutatore dei cuori; perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza
interiore di chiunque. La dottrina del Cristo esige che noi perdoniamo anche le
ingiurie e il precetto dell'amore si
estende a tutti i nemici; questo è il comandamento della nuova legge: «Udiste
che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico:
amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per i
vostri persecutori e calunniatori » (Mt5,43).
[Gaudium et Spes, n.28]
La Chiesa, poi, pur respingendo in
maniera assoluta l'ateismo, tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli
uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di
questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: ciò, sicuramente, non
può avvenire senza un leale e prudente dialogo. Essa pertanto deplora la
discriminazione tra credenti e non credenti che alcune autorità civili
ingiustamente introducono, a danno dei diritti fondamentali della persona
umana. [Gaudium et spes n.21]
Passando a trattare della nostra
microscopica, sotto un certo profilo, realtà di gruppo di Azione Cattolica in
San Clemente papa, può sembrare che l’impegno del quale ho trattato sia
manifestamente sproporzionato alle nostra forze. E’ un’impressione sbagliata:
infatti l’apocalittica battaglia che decide le sorti dell’umanità del nostro
tempo passa anche per quella piccola parte del mondo in cui abbiamo voce, nelle
nostre famiglie, nel nostro quartiere, nei nostri luoghi di lavoro. Partecipare al nostro lavoro comune in Azione
Cattolica è uno dei modi in cui ci si può preparare per fare la nostra parte
nella direzione che in religione ci è indicata. Come ho detto si tratta infatti
di esprimere una sapienza umana, una
creativa e sapida integrazione di conoscenze profane e di spiritualità per
ideare e realizzare opere che, in quanto riguardanti il mondo fuori dello
spazio liturgico, spettano principalmente a noi fedeli laici. Ma da soli in questo si va poco lontano. Le
prospettive umane individuali sono infatti sempre limitate. Queste cose fanno
affrontate insieme, per arricchirsi
dei punti di vista, della cultura, della fede, delle strategie altrui e anche
per farsi coraggio a vicenda nelle difficoltà e negli insuccessi. E’ così che i
cristiani hanno fatto sin dalle origini.
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27
Un nuovo modello globale di organizzazione e convivenza dell’umanità.
Il modello della famiglia umana.
(2 novembre 2012)
Per molti versi
l’umanità contemporanea si viene organizzando
sulla base di principi religiosi cristiani. Religiosi perché non basati sull’osservazione di come va la natura,
quindi nel senso di soprannaturali. Cristiani perché improntati all’idea di pari dignità di ogni persona umana e ad
una solidarietà compassionevole verso chi
sta peggio. Questo può sembrare paradossale nel momento in cui le Chiese
cristiane registrano una crisi grave delle adesioni nelle società umane più
avanzate, quelle da cui scaturiscano i modelli organizzativi su grande scala.
in realtà non è la visione religiosa delle cose che ha perduto credito
popolare, ma il fondamento mitologico
dell’autorità religiosa, per cui c’è chi si presenta come autorizzato ad
imporre agli altri stili di vita parlando per conto del mondo soprannaturale.
Questo equivale a dire che ai tempi nostri ha meno forza nelle grandi religioni
storiche dell’umanità l’uniformità intesa
come sudditanza ad una autorità sacrale. Di questo fenomeno, da non confondere con la secolarizzazione, vale a dire con
l’indifferenza verso il soprannaturale, si è presa coscienza ai tempi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e si è
cercato di rimediarvi recuperando, e in un certo senso strutturando
innovativamente per renderla praticabile nella contemporaneità, la concezione
religiosa dell’umanità come popolo di Dio,
basata su un’uniformità fondata su
principi condivisi. In questo contesto l’autorità perde una certa
connotazione di arbitrarietà che era
venuta storicamente ad assumere e si propone come servizio alla verità, per promuovere quel nuovo tipo di uniformità.
Si tratta di un’esperienza che tutti noi fedeli di oggi, se ci pensiamo bene,
abbiamo vissuto nella nostra esperienza di Chiesa, anche in quella
parrocchiale.
Un modello alternativo di organizzazione globale
dell’umanità è quello basato sul riconoscimento delle differenze tra le stirpi
e le società umane e la competizione tra di esse perché emergano le migliori e,
in particolare, una umanità migliore, nel senso di fisicamente, spiritualmente
e intellettualmente più performante e società più potenti e ricche. In questa
prospettiva non tutte le persone umane hanno pari dignità. Questo modello ha
improntato di sé la colonizzazione europea dell’Africa e delle Americhe. Esso
quindi storicamente ha convissuto con il cristianesimo, che pure è fondato su
principi opposti. Il punto di conciliazione tra le due opposte visioni della
vita è stato il concepire la colonizzazione
come evangelizzazione. Il contrasto
tra di esse è emerso con forza quando, all’inizio della colonizzazione delle
Americhe, nel Cinquecento, ci si è resi conto che la colonizzazione stava portando allo sterminio degli amerindi, dei nativi
americani. Analoghi scrupoli sono emersi molto più tardi riguardo allo
schiavismo contro le popolazioni nere dell’Africa.
Il modello basato
sulla diversa dignità delle vite umane e sulla competizione tra stirpi e
società umane si ritrova nella concezione politica nazionalsocialista tedesca
tra le due guerre mondiali. Su di essa venne costruita anche una mistica
religiosa, per giustificare la pretesa di prevalenza del tipo umano
ariano-germanico.
Concezioni basate su
idee in qualche modo analoghe si rinvengono in alcune dottrine economiche
correnti anche oggi, ma senza connotati religiosi espliciti. Ci si rifà ad
estensioni del modello di evoluzione delle stirpi umane basato sulla
sopravvivenza del più adatto proposto da Charles Darwin (1808-1882): queste
ideologie sono chiamate neodarwiniane.
Dopo la catastrofe
della Seconda guerra mondiale (1939-1945) prevalse l’ideologia della pari dignità umana e della solidarietà mondiale per la pace e lo
sviluppo. Essa si rinviene nei documenti del Concilio Vaticano 2°. Ci troviamo quindi a vivere una straordinaria
opportunità per il cristianesimo, in un mondo in cui i principi religiosi cristiani
sono divenuti legge globale dell’umanità. Naturalmente ciò è avvenuto senza
che la nostra religione in sé, quindi con quella che al di fuori delle Chiese
cristiane può essere considerata la sua mitologia
e con la sua organizzazione gerarchica
sacrale, sia stata nuovamente imposta
in qualche modo alle società umane del nostro tempo. Questo
può essere spiegato in vari modi. Innanzi tutto l’esperienza storica europea
aveva dimostrato che il confessionalismo religioso era stato fonte di
sanguinose divisioni. Poi, in un mondo
in cui prendeva piede l’idea di una unità e di una pace fondata su una
solidarietà sorretta da principi diffusi
tra la gente, le autorità religiose non avevano sufficiente consenso popolare.
E, infine, l’idea di una imposizione alle
coscienze contrastava con la comune
dignità umana sulla quale si voleva costruire un futuro finalmente
pacificato, pacifico e pacificante. Può sembrare pericoloso l’aver affidato
grande idealità a fondamento religioso alle masse, ma, almeno da noi in Europa,
questa si è rivelata una buona scelta, visti i sessantasette anni di pace che
abbiamo costruito insieme, una cosa mai
vista nella storia dell’umanità e per la quale ci hanno dato il premio
Nobel.
Poiché stiamo vivendo qualcosa di veramente
nuovo, c’è il problema di pensare e attuare forme di organizzazioni
dell’umanità che rendano stabile il nuovo modello. E’ il lavoro che è in corso da molte parti e, in particolare,
da noi in Europa, verso la quale si è prodotto un gigantesco movimento centripeto
che addirittura ha coinvolto un nostro storico nemico come la Turchia, erede
dell’Impero Ottomano.
La più recente
dottrina sociale della Chiesa, diciamo dal 1944 in avanti, si è spesa molto
nello sforzo di suggerire nuovi modelli di convivenza umana in linea con i
nuovi principi diretti al mantenimento della pace mondiale e allo sviluppo
globale di tutti i popoli. Uno dei più
recenti e importanti contributi è l’enciclica Caritas in veritate (2009) del papa Benedetto 16°. In essa è
proposto il modello dell’umanità intera
come famiglia. Si veda ad esempio,al n.7 di quel documento:
Quando la carità lo anima, l'impegno
per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto
secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in
quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara
l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla
carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la
storia della famiglia umana. In una
società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non
possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle
Nazioni, così da dare forma di unità e
di pace alla città dell'uomo,
e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza
barriere di Dio.
Questo modello che possiamo dire della famiglia umana, piuttosto
evocativo, presenta alcuni aspetti critici.
Esso si presenta fin
dalle origini della dottrina sociale
della Chiesa, sebbene con minore forza dei tempi più recenti:
Dal
passato possiamo prudentemente prevedere l'avvenire. Le umane generazioni si
succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché
gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la quale volge e
indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella
creazione della umana famiglia.
[Enciclica Rerum
novarum (1981) del papa Leone 13°]
Nella Costituzione Gaudium
et spes, del Concilio Vaticano 2°:
Per questo il Concilio Vaticano II,
avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere
la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano
il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. A tutti vuol esporre come esso
intende la presenza e l'azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo
che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro
le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca
i segni degli sforzi dell'uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il
mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall'amore del
Creatore: esso è caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo,
con la croce e la risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l'ha
liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere
al suo compimento.
Un primo
problema sta in questo: il modello
dell’umanità come famiglia richiama l’esperienza della famiglia come forma
di società naturale basata sulla propensione sessuale delle persone, su
finalità di procreazione e di cura della
prole e su una gerarchia parentale
che regola la solidarietà familiare. Ora,
le società umane più vaste come le nazioni o le unioni sovranazionali si basano
su altri principi. In particolare in esse si fanno più labili le relazioni
profonde tra gli individui, per cui esse richiedono una organizzazione politica che è costruita,
non presupposta. Inoltre la solidarietà sulla quale si fonda il
loro ordinamento pacifico non scaturisce,
se non ideologicamente, da un legame di
stirpe. Infine la difficoltà più seria di tutte: la famiglia naturale non è una società democratica e si ritiene, nel nuovo ordine di idee oggi prevalente,
che la democrazia sia indispensabile per il mantenimento della pace universale.
Il problema si propone con estrema forza quando si passa a ragionare dell’intera umanità, fatta di circa otto
miliardi di individui.
E c’è dell’altro.
La nuova
organizzazione che si vuole costruire a livello mondiale deve essere stabile,
quindi destinata a durare per diverse generazioni. La famiglia come piccola
società naturale basata sulla propensione sessuale è destinata fondamentalmente
ad esaurirsi in non più di due generazioni. Delle precedenti si ha labile
memoria, salvo che, per ragioni di casta o di dinastia, ci si incaponisca a
mantenerla. Di solito solo due generazioni sono tra di loro contemporanee, raro
che lo siano i trisnonni.
Le famiglie, inoltre, non
sempre sono società pacifiche e fondate sulla uguale dignità dei propri membri.
Non si dice forse “fratelli, coltelli”? Nella mia esperienza di pratico del
diritto, certe controversie ereditarie tra parenti sono acerrime e incomponibili.
Infine: i modelli
familiari sono in rapida evoluzione. Di fatto nelle società umane contemporanee
più progredite si viene affermando un modello di famiglia parentale di durata limitata, in molti casi con un solo genitore, e, con l’affermarsi sociale
delle famiglie basate su propensione omosessuale e il diffondersi della
poligamia, si viene creando nel mondo in cui viviamo una pluralità di tipi di famiglia. Quindi la forza evocativa dell’analogia tra la famiglia parentale e la
convivenza dell’intera umanità viene
scemando. Non do qui una valutazione etica del fenomeno, ed è chiaro che
secondo la nostra morale religiosa esso è visto come negativo: sto solo
descrivendolo.
In una prospettiva
religiosa, il modello dell’umanità come famiglia presenta un pregio per la
nostra gerarchia ecclesiale. Esso consiste in questo: essa intende esprimere
una autorità paterna (“papa”, ad
esempio, deriva da un termine greco che significa “padre”); in un’ottica di
analogia familistica essa può quindi presentarsi come fondata su basi naturali,
a prescindere da un consenso della base. Esso però ha anche un altro pregio,
per tutti noi, che lo rende tutto sommato effettivamente appropriato, pur
bisognevole di precisazioni: richiama l’idea di solidarietà incondizionata e oblativa,
fino al rischio della propria vita, nella buona e nella cattiva sorte, qualcosa
di più della semplice amicizia.
Ho parlato di modelli universali, ma si tratta di cose
che vanno costruite sperimentalmente anche a partire da scale molto più piccole,
addirittura microscopiche, come ad esempio può essere considerato, a confronto
con l’intera umanità, il nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica. Come viviamo la nostra appartenenza? Parlando con diversi soci ho avvertito in loro la nostalgia di tempi in
cui le relazioni associative erano più
forti. E, d’altra parte, relazioni più forti significano anche condizionamenti più forti e, crescendo,
si diventa sempre un po’ intolleranti verso cose simili. Vale la pena di
ragionarci su?
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28
Realtà invisibili
(3 novembre 2012)
Fondamentale carattere
della scienza moderna è la capacità di varcare i confini del visibile.
Nessuno ha mai visto un fotone [particella
di energia luminosa]. Nessuno vedrà mai
un sequenza cistronica [parte dell’RNA messaggero, una molecola che svolge
funzioni nella costruzione delle cellule organiche]. Tali entità sono reali, ma ricostruite da una laboriosa indaffarata
convivenza tra prove sperimentali e attività ipotetiche della mente. Essi sono
invisibili disvelati agli occhi dell’intelletto […]. Nella sociologia ci
troviamo in una situazione terribilmente arretrata. Siamo ancora timorosi nel
compiere il salto verso l’invisibile,
già compiuto da duemila anni nella matematica e da oltre cento anni nella
fisica”.
[passo tratto da un articolo di Giorgio Prodi, Lineamenti di una sociologia degli invisibili, citato nel libretto
Giuseppe Dossetti, Eucaristia e Città,
Editrice A.V.E., 2011, a pag.66]
Può accadere che noi
persone di fede si sia presi in giro o, comunque, sottogamba perché ci
occupiamo anche di realtà invisibili. Ci sono uomini di cultura che considerano
la Bibbia e molte altre storie che circolano in religione come delle fiabe.
Altri, pur con meno scienza, fanno loro eco e ci accusano di credulità. Ma,
nella mia esperienza, l’atteggiamento dei più non è di questo tipo. Di solito
infatti la gente crede nel soprannaturale, in genere perché trova più facile
spiegare in quel modo ciò che le accade. Ma trova difficoltà nel credere in un
dio amorevole, benevolo. Pare più rispondente alla realtà di tutti i giorni
l’esistenza di geni, demoni o folletti, e simili, che possono essere favorevoli
o avversi, secondo il loro capriccio. Questa può essere considerata una
religiosità di tipo naturalistico, che risale ai primordi della vita sociale
umana, quando si riteneva che ogni manifestazione del mondo intorno agli esseri
umani fosse mossa da un dio. Essa poi si sviluppò nel politeismo dell’antica
religione latina e greca, che precedette il successo del cristianesimo in
Europa, nel Vicino Oriente e nel Nord Africa e fu da esso combattuta ed
estirpata, almeno nelle sue manifestazioni pubbliche e nelle istituzioni.
Nell’antica Preneste, l’attuale Palestrina, nei dintorni di Roma, venne edificato un grande santuario alla dea Fortuna primigenia, molto venerata dagli
antichi romani. In certi accaniti giocatori alle lotterie e simili, che vediamo
anche nel nostro quartiere, potremmo in un certo senso riconoscere dei seguaci
di quell’antico culto. Come spiegare altrimenti tanta passione in giochi in cui le probabilità matematiche di
vincita sono tanto basse?
Certamente senza un
legame con l’invisibile la nostra non sarebbe una religione. Secondo la nostra
fede, tutto ciò che esiste è stato creato
da una divinità che ama noi esseri umani con amore di padre/madre e questo
nonostante le nostre imperfezioni e, in particolare, la nostra cattiveria.
Questa convinzione trova molte smentite nella realtà naturale. E’ quindi una
fede soprannaturale, che ci porta
a rettificare abbastanza ciò che si
osserva nella natura intorno a noi e
in noi. Lì dove la vita appare ad un certo punto finire, noi, ad esempio, siamo
convinti di una vita eterna.
L’esistenza degli esseri viventi appare dominata dalla violenza. Gli animali si
mangiano gli uni gli altri e anche noi ci nutriamo di altri viventi. Le terre
emerse si spostano generando terremoti. Oceani appaiono e scompaiono. Le stesse
stelle collidono o esplodono. Noi però siamo convinti, per fede, che tutto ciò
avrà, alla fine dei tempi, un compimento beato. Il mondo in cui viviamo
sparirà, certo, ma sarà sostituito da un mondo diverso, preparato per noi e
promesso. Esso non sarà però opera nostra, ma dell’amorevole potenza creatrice
dalla quale deriviamo. Dossetti nel discorso da cui è scaturito quel libretto
che ho sopra citato, invita a non metterla troppo semplice parlando di questo
con gli altri, come se tutto fosse ovvio, chiaro, scontato. La fede, che in
genere da bambini si acquisisce con una certa facilità, confidando nei propri
genitori e nelle persone da loro accreditate, crescendo è messa alla prova. La
religione serve appunto a custodirla e a rafforzarla.
Come ho osservato in
altre occasioni, l’aspetto che va costantemente e sapientemente curato, come
quando, da bambini, si difende pazientemente un castello di sabbia costruito
sulla riva del mare, che l’acqua tende costantemente a sciogliere avanzando
verso la terraferma, non è tanto la convinzione che Dio c’è. Spesso i “non credenti” partono da questo, parlando con le
persone di fede, e trovano poca soddisfazione. Certo, noi portiamo argomenti
razionali a sostegno dell’esistenza del nostro Dio, ma egli rimane pur sempre invisibile. Chi può negarlo? E’ la
stessa Bibbia che a dircelo chiaramente.
Scrive Dossetti, nel
libretto sopra citato, a proposito
dell’Eucaristia:
Il mistero cultuale rende oggettivamente
presente l’evento del sacrificio di Cristo, ma contemporaneamente lo vela:
debbo trapassare il velo e questo mi è possibile solo nella fede, che mi fa andare
oltre le apparenze sensibili e oltre il tempo […]
Nella mia esperienza
di fede, ad un certo punto, viene una voce che noi siamo capaci di udire; viene
dalla storia umana tramite la Chiesa, che l’ha fedelmente custodita nei secoli,
e reca buone notizie. Ci parla infatti di un creatore amorevole e suscita in
noi, nel nostro animo, nella nostra interiorità, una risposta, perché appunto
quella voce è ciò che si attendeva da sempre di ascoltare. E’ stato notato che
noi, nell’evo presente, non vediamo, ma possiamo udire. Detto in termini
esplicitamente religiosi, questo denota l’importanza che attribuiamo a ciò che
sinteticamente definiamo la Parola,
vale a dire a quello che religiosamente ascoltiamo e che ci narra delle realtà
invisibili che sorreggono le nostre vite. Nell’esperienza religiosa è questo che è centrale, come spesso ci
ricorda anche il nostro assistente ecclesiastico nelle nostre riunioni:
ascoltare e comprendere la Parola.
Questa relazione che
abbiamo con il soprannaturale ci cambia e ci arricchisce nello spirito, ma non
ci aggiusta le cose nel mondo in cui
viviamo, che continua ad andare come deve andare in base alle sue dinamiche
naturali. La nostra fede infatti non ha nulla a che fare con la magia. Non
portiamo un dio dalla nostra parte negli affari che abbiamo in corso in società
e riguardo ai problemi che abbiamo con la natura, innanzi tutto con i nostri
corpi, che infatti ad un certo punto ci danno qualche dispiacere, e sempre di
più invecchiando. Attendiamo invece un beato compimento che è completamente
nelle mani di colui nel quale religiosamente confidiamo e al di là di ogni
nostra immaginazione. Non tentiamo di portare un dio sulle nostre vie, ma
cerchiamo la nostra strada verso colui che ci chiama, ci trae a sé e ci attende
alla fine della storia dell’universo.
In conclusione:
quando ci mettiamo a immaginare nuove organizzazioni sociali, anche al fine di
corrispondere a quella benevolenza
soprannaturale che ci sovrasta e ci colma, non dobbiamo dimenticare che il
punto di partenza, sia come individui che nei nostri gruppi, è nella
realizzazione di una spiritualità, lavoro questo non facile perché non si
tratta solo di tirar fuori cose da noi stessi, in particolare dalla nostra
immaginazione e dalla nostra emotività,
ma di inserirci in una tradizione molto antica dalla quale la
Parola è scaturita per noi. Per questo è
stata istituita la Chiesa della quale siamo parte viva, essa stessa realtà
visibile e invisibile, punto di contatto e di mediazione tra il visibile e
l’invisibile.
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29
A occhi aperti
(5 novembre 2012)
“Condizione di qualunque progetto da parte di gruppi cristiani
[…]
Occorre … che siano adempiute molto più di
quanto non sia stato finora tre condizioni precise:
-che questo progetto
sia non solo nominalmente, dire per una “pia fraus” [trad.: per una bugia a
buon fine], ideato e perseguito anche
praticamente, in modo totalmente distinto dalla comunità di fede;
-che esso abbia una
sua genialità creativa (cioè non sia solo una rimasticatura di dottrina e
progetti altrove nati) e abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un
momento reale della storia, interpretato non solo con scienza (cioè con
l’intelligenza), ma anche con sapienza (cioè con l’intuizione);
-e che infine esso
nasca da un senso di giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina
verso i compartecipi sociali, specialmente verso le categorie evangeliche
privilegiate (i poveri, gli umili, i piccoli).”
[da: Giuseppe Dossetti, Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011, euro 8,00, pag.57]
Nel momento in cui a
noi laici viene richiesto di influire sulla società del nostro tempo per
promuovere certi valori che hanno un
fondamento religioso, dobbiamo chiederci come farlo. Infatti i cristiani
storicamente hanno a lungo improntato della loro fede le civiltà in cui si
trovavano a vivere, in Europa almeno fin dal quarto secolo della nostra era, ma
non tutti i modi in cui lo hanno fatto sono oggi praticabili, sia da un punto
di vista oggettivo, delle forze in campo, sia da un punto di vista etico. Oggi,
ad esempio, non ci affideremmo in questo a un imperatore cristiano o anche solo a una dinastia monarchica cattolica. E non accetteremmo di imporre
alla gente la fede cristiana sotto pena di
sanzioni criminali. Né lanceremmo una crociata contro popolazioni di
scismatici. Si tratta di forme di intervento dei cristiani nelle società del
loro tempo che sono state storicamente attuate. Ai tempi nostri in genere la si
pensa diversamente. Ma non è solo questione del senso comune, dell’opinione
corrente, ma è proprio la nostra Chiesa che si è data leggi diverse, che le
vietano quelle vie. Sono regole che troviamo nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), i
quali, come ho ricordato varie volte in precedenza, non sono solo testi
edificanti e istruttivi, ma leggi. Per alcuni di essi lo rivela il nome stesso
che è stato dato loro: costituzioni,
decreti. Ma anche quelli che sono stati denominati dichiarazioni hanno la stessa natura. E si tratta di leggi che,
promanando dal Papa in unione con un Concilio ecumenico, hanno una particolare
forza. Queste leggi, nonostante che nella loro stesura si sia avuta particolare
cura nell’evidenziare la continuità con il pensiero precedente dei capi della
nostra Chiesa, con le idee dei più autorevoli scrittori religiosi dei primi
secoli, con le liturgie praticate fin da tempi molto antichi e,
naturalmente, con le Scritture sacre,
divergono molto, quanto alle indicazioni operative, concrete, con quelle che
ebbero vigore in altre epoche della nostra confessione religiosa. La fede è
rimasta sostanzialmente la medesima, ma il modo di vivere dei cristiani nella
storia è molto cambiato. Per altro, a mio parere, il Concilio Vaticano 2° non ha inventato
nulla di ciò che di nuovo si è prodotto. Nelle intenzioni del papa Giovanni
23°, il quale lo indisse, esso aveva come scopo principale un aggiornamento delle leggi della Chiesa a
una realtà che già i fedeli stavano
vivendo e praticando. Il risultato fu però qualcosa di più: quelle leggi furono
concepite in modo da imprimere un movimento
in avanti nel corpo ecclesiale, rendendo possibili ulteriori sviluppi delle
dinamiche in atto, che infatti si produssero. Il magistero e l’azione di
governo del papa Giovanni Paolo 2° ne sono stati straordinarie manifestazioni.
Ma ancora più rilevante, anche se forse meno evidenziata nelle grandi fonti
informative del nostro tempo, è stata la spinta che si è creata nella masse dei
fedeli. C’è stata, nella nostra Chiesa, un profondo mutamento della religiosità
popolare, del quale di solito si sottolineano gli aspetti negativi, ma che ne
ha avuti anche di positivi.
Vorrei evitare, in
queste mie brevi note quotidiane, di ripetere cose che potete leggere, scritte
meglio, con più scienza, in altri testi, ai quali rimando. Ragiono partendo
dalla mia personale esperienza, tenendo presenti le esigenze di lavoro del
nostro gruppo di A.C. . Quello che penso di poter dire è questo. A partire
dalla metà del secolo scorso il ruolo delle masse cattoliche, in particolare
dei laici, è diventato più importante
nella nostra Chiesa. Si richiede alla nostra gente un impegno nella società che
prima non era preteso e veniva addirittura visto con sospetto. Lo si vuole
informato e consapevole. Ma non è solo questo: lo si vuole creativo. Infatti l’assunto che i capi ecclesiali avessero il
segreto della migliore organizzazione delle società civili si è rivelato
fallace. E quando il beato Toniolo (1845-1918) scriveva che la salvezza sarebbe
venuta da una società di santi, non
da diplomatici, dotti o eroi, non si riferiva innanzi tutto alla gerarchia
ecclesiale. Questi nuovi compiti che, come laici, siamo chiamati ad assumere
comportano che si decida anche come lavorare insieme, con piena responsabilità.
Non si tratta più infatti di attuare
nel concreto decisioni di massima prese ai vertici.
In qualche modo,
quella che stiamo vivendo è un’era veramente nuova.
Si è presa, ad
esempio, maggiore consapevolezza della rilevanza religiosa delle realtà profane, di ciò che accade fuori degli
spazi liturgici. In passato si era giunti a una sorta di compromessi tra le
autorità religiose e quelle civili, che condividevano le popolazioni a loro
soggette. Certe questioni, come ad esempio le guerre, rimanevano fuori del
campo del religioso. Popolazioni cristiane
potevano essere arruolate le une contro le altre, i sacerdoti e i vescovi di
ciascuna di esse invocavano il favore divino e prestavano l’assistenza
spirituale ai combattenti e alle loro famiglie, e non si pensava che qualcuno
potesse lecitamente, anche da un punto di vista religioso, sollevare una
obiezione di coscienza in tutto questo. Una volta che, invece, si decida di
intervenire, animati da spirito religioso, bisogna decidere come farlo tenendo
conto che su certe scelte ci si può dividere, ma che, come Chiesa, bisogna
rispettare il comandamento dell’unità del credenti, ma direi di più,
dell’intero genere umano.
Anticipando quello
che mi pare di avere capito, bisogna considerare che sulle questioni sulle
quali la gente di fede ritiene ora di aver voce in capitolo anche sulla base di
moventi religiosi si deve discutere anche
in chiesa. Sarebbe strano che non lo
si facesse, che cioè ognuno su argomenti di tale rilevanza fosse lasciato solo
nel capire e nel decidere. Anche perché
nessuno, da solo, può veramente pretendere di poter ideare o scegliere la
soluzione migliore. L’intelligenza dei fatti collettivi richiede una sapienza collettiva. Ma poi l’attuazione
delle scelte deve essere demandata alla responsabilità di ciascuno, non della
Chiesa, che ha rinunciato a questo tipo di potere dal momento che è espressione
embrionale di una realtà che non è di
questo mondo, e ognuno poi agirà insieme ad altri che compongono i vari
corpi sociali implicati nelle decisioni, in modo laico, inteso come non esplicitamente religioso, in modo da
poter coalizzare il massimo consenso possibile. Pensare di attuare esigenze di
fede con lo strumento di corpi sociali civili riproporrebbe infatti la modalità
desueta e impraticabile dell’impero
cristiano. Mentre rivestire di abiti
religiosi certe soluzioni storiche, certe forme organizzative, certi modi di
trasformare la società e la natura intorno ad essa, contrasterebbe con la
libertà di coscienza.
L’Azione Cattolica,
nel suo percorso formativo, ci consiglia esercizi
di laicità, vale a dire di provare in concreto, nei nostri gruppi, a
prendere in esame le nostre relazioni di fedeli cristiani con i corpi sociali
nei quali siamo inseriti e di capire come si possa fare per esprimere
nell’azione civile le nostre idee a fondamento religioso. Questa è una parte
importante del lavoro in Azione Cattolica e che differenzia molto i nostri
gruppi da quelli molto più centrati, ad esempio, su esperienze di spiritualità
religiosa o di preghiera. In questo Anno
della Fede possiamo però sentirci chiamati a qualcosa di più. Ne parla la
lettera apostolica di indizione. Sappiamo abbastanza della storia della nostra
Chiesa, dei problemi che ha dovuto affrontare, delle soluzioni che di volta in
volta sono state attuate? Questa è una parte importante dell’attività alla
quale siamo stati sollecitati. Non si tratta, quindi, solo di conoscere meglio
il catechismo, fosse anche un’opera
piuttosto estesa come il Catechismo della
Chiesa cattolica, il quale pure è sicuramente un utile punto di
riferimento. Bisogna aprire gli occhi
sul mondo intorno a noi. Se non lo conosciamo bene, non possiamo influire su di
esso. E a volte a chi ci circonda può sembrare che la nostra esperienza
religiosa abbia la realtà di un sogno,
tanto è distaccata dalle dinamiche umane concrete. Eppure in certe storie
bibliche è proprio da certi sogni che
scaturiscono importanti decisioni nell’animo della persona di fede. Come in
ogni cosa, quando si tratta di religione, si tratta di tenere tutto insieme, prospettive religiose e prospettive profane,
il cielo e la terra, pur nella consapevolezza della loro diversità. E’ quello
che Giuseppe Lazzati (1909-1986) definiva unità
dei distinti.
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30
La città dell’uomo
(7 novembre 2012)
“… il concilio ha
fatto quello che, nella storia della chiesa, fino ad allora non era stato
fatto: ha espresso chiaramente quale sia la vocazione del fedele laico,
precisando non tanto il fine (la santità a cui tendere, di cui è pina, in
dottrina e in fatto, la storia della chiesa), quanto la via attraverso la quale
tendervi e giungervi.
Il fine è espresso nelle parole “Per loro
vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio” [ Lumen gentium, n. 31]. La via da percorrere è indicata, con
altrettanta chiarezza: “trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”[Lumen Gentium n.31]
[da: Giuseppe Lazzati, La
città dell’uomo – Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo,
Editrice A.V.E., 1984, pag.50]
“Col nome di laici si
intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello
stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè che, dopo essere stati
incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo,
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di
tutto il popolo cristiano.
[…]
Per la loro vocazione è proprio dei laici
cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli i doveri e affari del
mondo e nelle ordinarie condizioni di vita familiare e sociale, di cui la loro
esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi
all’interno e a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio del proprio ufficio e sotto la
guida dello spirito evangelico, e in questo modo, a manifestare Cristo agli
altri, principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, speranza e
carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali
sono strettamente legati, in modo che siano sempre fatte secondo Cristo, e
crescano e siano di lode al Creatore e Redentore.”
[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), cap.4° n. 31, lett.a) e b)]
Le parole della
costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen
Gentium, del Concilio Vaticano 2°,
che ho sopra citato sono uno dei punti fondamentali dei vari ragionamenti e
delle decisioni di quella grande assemblea di vescovi che si riunì tra il 1962
e il 1965. Una novità assoluta nella legislazione nostra Chiesa, come rilevò
Giuseppe Lazzati (1909-1986) nel libro che ho menzionato (purtroppo non più in
commercio). Non certo del tutto una novità nell’esperienza storica dei
cristiani. Bisogna dire però che, a mio parere, solo con i moti europei e
nordamericani di fine Settecento la
questione di un ruolo più attivo in religione della gente comune, di coloro che
quindi non erano capi religiosi riconosciuti, si pose in modo nuovo, rendendo possibili gli sviluppi
che, nella Chiesa cattolica, hanno portato alla situazione dei tempi nostri,
che manifesta ancora potenzialità non sfruttate. I problemi che in merito sono
sorti e che ancora sorgono sono analoghi a quelli che si sono prodotti
nell’evoluzione politica democratica delle società contemporanee. Questo
manifesta con una certa evidenza che si tratta di movimenti della stessa
natura, pur in ambiti diversi. Nel passaggio dalla posizione di sudditi, solo
soggetti a un potere altrui, a quella di cittadini, partecipi delle decisioni
più importanti che riguardano le collettività, c’è chi si sente disorientato,
impreparato, deluso dai risultati ottenuti, sfiduciato nelle prospettive, e
allora guarda con una certa nostalgia al passato, per altro piuttosto
idealizzato, quindi abbastanza distante dalla realtà storica. Infatti nella via
verso la cittadinanza compiuta si incontrano le masse, grandi collettività,
composte di persone che si vuole con la medesima dignità, di gente che reclama
di poter dire la propria e di essere ascoltata. Non sempre è un bello
spettacolo. Decidere insieme, ascoltando le ragioni di tutti e poi però
accettando di seguire il volere di una maggioranza, soprattutto subordinando il
bene proprio personale a quello dell’intera collettività, è difficile, a volte
sfiancante. E’ problematico in particolare avere una visione sufficientemente
affidabile delle cose, perché questo significa perdere tempo e fare uno sforzo per informarsi, cercando di
raggiungere un punto di vista realistico, anche ascoltando chi ne sa di più.
Chi ne sa di più deve da parte sua avere la pazienza di comunicare con gli altri,
anche se ignoranti di certe cose, e di dialogare con loro, anche quando pongono
obiezioni palesemente infondate. La tentazione che c’è sempre è quella di
tagliare corto e, da un lato, di seguire
la gente che pare più decisa nell’imporre la propria volontà e, dall’altro, di
forzare la mano imponendosi sugli altri
sovrastandoli e tacitandoli in qualche
modo.
Come c’entra tutto
questo nell’esperienza di un piccolo gruppo parrocchiale di laici come il
nostro? C’entra perché il lavoro per elevarsi, collettivamente, a quella nuova
dignità laicale che è espressa nelle parole della Lumen gentium è ciò che maggiormente caratterizza l’Azione
Cattolica dei tempi nostri. Come si spiega questo? Si tratta di cosa che deriva
da una realtà sociale di impegno di fede che
ha preceduto i deliberati conciliari e di cui l’Azione
Cattolica e le organizzazioni che storicamente la precedettero furono
protagoniste. Le decisioni del concilio vennero infatti viste come un aggiornamento. Ma aggiornamento di
che e verso che cosa? Ad essere aggiornata
è stata la legislazione della nostra
Chiesa; essa fu aggiornata per riconoscere
la bontà di un’esperienza laicale che già esisteva, dall’Ottocento. Questo
significa ammettere che i padri conciliari non furono veramente degli innovatori, ma, appunto degli aggiornatori, e che l’innovazione si era già prodotta e attendeva solo di essere riconosciuta.
Tornerò sulle
questioni della nuova concezione dell’impegno laicale formulata nel corso del
concilio, ma, per rendere meglio l’idea del cambiamento e della sua origine,
voglio riferirmi alla questione, molto grave, dell’antigiudaismo cristiano, una
realtà molto antica e pervasiva.
Chi oggi, tra i
fedeli cattolici, sottoscriverebbe queste parole:
“Niente è più miserabile … di questo
popolo che non ha mancato occasione per rinunciare alla propria salvezza, sono
bestie selvagge … come gli animali, anzi più feroci di loro … il profeta
espresse la insania della loro libidine con una parola che si riferisce agli
animali”
scritte
a proposito degli ebrei?
Sono citate nel libro di Gianna Gardenal, L’Antigiudaismo nella letteratura cristiana
antica e medievale, Morcelliana, 2001, a pagine 56 e 57, e attribuite a S.
Giovanni Crisostomo (344-407), il quale le scrisse in due delle sue otto omelie
contro i giudei.
L’antigiudaismo cristiano, ancora piuttosto marcato
nel corso del Novecento, fu ripudiato dalle genti cristiane dopo la tragica
esperienza della persecuzione e dello
sterminio degli ebrei perpetrati dai regimi nazisti e fascisti europei,
prima di esserlo dalla legislazione della nostra Chiesa. Anche in questo caso i
deliberati del concilio furono un aggiornamento,
un tenersi al passo con i tempi in ciò
che essi avevano prodotto di buono.
Per quanto riguarda il nuovo impegno laicale
dei cattolici nella società, in particolare dalle società rette da regimi
democratici, in cui la gente aveva più voce e possibilità di influire sulle
scelte supreme, esso iniziò a manifestarsi nel corso dell’Ottocento, molto
vivacemente, e non venne sempre assecondato dai capi religiosi. Si tratta di una
storia che presentò anche aspetti dolorosi, in particolare in Italia, dove la
frattura con l’organizzazione civile del nuovo stato unitario, retto su basi
democratiche, fu estremamente netta, a causa della cosiddetta questione romana, che riguardava le rivendicazioni
territoriali dei papi sul territorio del Regno d’Italia, in particolare sulla
città di Roma. In generale i papi furono, almeno fino al 1944, piuttosto
sospettosi sull’impegno sociale autonomo dei laici cattolici e, di solito,
ammisero un’attività sociale del laicato solo come attuazione puntuale di
deliberati pontifici, principalmente in funzione difensiva del papato e delle
organizzazioni del clero e dei religiosi.
Il fatto che i capi della nostra Chiesa siano
venuti a sancire dopo certi cambiamenti
che si erano già prodotti nel loro popolo non deve però stupire. Essi infatti
hanno formazione prevalentemente teologica
e ogni teologia, anche quando appare innovativa rispetto ad una precedente, non innova veramente, perché ragiona
sempre sulla fede della Chiesa, quindi su qualcosa che già c’è. La fede è sicuramente creativa,
di questo abbiamo sicura esperienza, non così la teologia. Innovare non è il
suo mestiere. Essa però può dare veste
teologica a un’innovazione, chiarendo, ad esempio, che certi principi, come
la comune dignità degli esseri umani,
sono presenti nella fede delle origini, quindi nel cosiddetto deposito di fede, pur se come
potenzialità storicamente poco o per nulla sfruttate e, innanzi tutto, capite.
Per oggi mi fermo qui. Vorrei invitarvi a
tenere a mente e a riflettere su queste parole della Lumen Gentium: “Per la
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio.”. Vi tornerò sopra, riassumendo quello
che in merito mi è stato insegnato in tanti anni di formazione alla fede. Vi
prego di ragionarci su anche voi e, in particolare, di correggere o integrare
quello che su quell’argomento scriverò. In particolare terrò conto
dell’insegnamento di Giuseppe Lazzati, dichiarato Servo di Dio, il primo grado
nel processo di proclamazione di uno dei
santi ufficiali della Chiesa, e del beato Giuseppe Toniolo, la cui esperienza
ho potuto conoscere fin da ragazzo attraverso ciò che ne scrisse in un libro un
mio zio professore. Invoco religiosamente la loro intercessione in questa mia
opera di divulgatore parrocchiale che faccio da ignorante colto, da persona quindi che si è un po’ familiarizzata
con certi concetti, ma senza essere veramente esperta sulla maggior parte di
essi, in particolare nella materia teologica. La mia formazione specialistica è
giuridica.
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Una lunga storia
(8 novembre 2012)
Nei miei precedenti
interventi su cose della nostra fede comune c’erano molti richiami a fatti
storici. Si tratta di un modo di procedere che non è molto diffuso, in
particolare nella fase dell’iniziazione religiosa. E’ una cosa che si può
constatare, ad esempio, nel Catechismo
della Chiesa cattolica, un’opera destinata al grande pubblico su scala
mondiale, e che pure ha avuto una evoluzione storica dalla prima edizione, nel
1993, alla seconda, nel 1997, in particolare sul tema della pena di morte. In
quel testo non emerge con chiarezza, anche se se ne parla, che la Chiesa, nella sua componente “terrestre”,
“nel secolo” come si suole dire, ha avuto una storia, quindi diverse
manifestazioni le quali hanno riguardato anche concezioni molto importanti. Del
resto si tratta di uno scritto su base teologica e la teologia, in particolare
quella cattolica, tende a lavorare per stabilire una continuità con le origini,
in primo luogo perché quella continuità accredita la verità della religione, per il legame molto stretto che nel
cristianesimo si vuole mantenere con il primo maestro, e poi perché essa è in
linea con l’idea che la Chiesa abbia anche una componente soprannaturale in
virtù della quale è sempre la stessa
in ognuna delle sue varie espressioni compresenti sulla Terra e succedutesi
nella storia. Questo qualche volta porta a mettere in secondo piano
l’evoluzione storica che c’è stata anche nelle nostre collettività religiose e,
comunque, a presentarla fondamentalmente solo come una serie di progressi verso una maggiore e migliore
comprensione del messaggio di fede nei quali il passato è comunque tutto
contenuto nei tempi successivi, ponendo così in risalto il dispiegarsi di un
disegno soprannaturale coerente che regge le cose umane. Questa visione è utile
per dare il senso complessivo dell’interpretazione della storia umana come noi
la proponiamo in religione. Può creare qualche problema se però, nel compito
che è proprio dei fedeli laici, vale a dire quello di trattare le cose temporali e di ordinarle secondo Dio, secondo
l’espressione utilizzata nella costituzione Lumen
Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
quindi, in termini correnti, di
realizzare un’organizzazione delle società umane più in linea con i nostri
ideali religiosi, noi trascuriamo certi dettagli della storia e certi
meccanismi delle cose umane e, in particolare, che il nostro presente per certi
versi ha significato il ripudio di
una parte del passato ed è fatto anche di questo. Bisogna infatti rendersi
conto che noi non costruiamo sul nulla, ma ci inseriamo in dinamiche
preesistenti e utilizziamo il materiale e le persone che ci sono. Giuseppe
Lazzati definì questo lavoro costruire la
città dell’uomo.
Egli scrisse nel
libro La città dell’uomo – Costruire da
cristiani la città dell’uomo a misura d’uomo, Editrice A.V.E, 1984, pag.19:
Tenendo presente l’immagine del
“costruire” che guida la nostra riflessione, è immediato il riferimento
all’architetto o all’ingegnere; al progettista, insomma, che, per prima cosa,
vuol rendersi conto del terreno sul quale costruire l’edificio che gli è
commissionato […] E’ questa l’immagine
di quell’indispensabile coscienza di un passato
di cui non [si]
può fare a meno […]
Il ricordato architetto elaborerà poi il
progetto dell’edificio commissionato tenendo conto dei materiali che ha a
disposizione e pensando le strutture rispondenti alle esigenza che, in quel
momento e per un certo periodo di tempo, possono soddisfare meglio coloro che
nell’edificio porranno la loro abitazione, i loro uffici, la loro industria.
Bisogna
ragionare molto su questo sapiente costruire
nel mondo che ci compete come laici e
che è quell’attività che nella Lumen
Gentium viene definita, con linguaggio teologico, ordinare le cose temporali secondo Dio. Qualche volta noi tendiamo
a concepirci più che costruttori come
dei restauratori di un edificio che
c’era già e che nel tempo ha subito danni. Interroghiamoci: questa idea è
affidabile, realistica?
Io vi propongo questa riflessione: ci sono
nel mondo in cui oggi viviamo tante cose che non c’erano nel passato. Questo
non ha influenza sul nostro lavoro di costruttori
di mondi? Tutto ciò che di nuovo si è prodotto è male?
Queste differenze con il passato non
riguardano solo gli oggetti, i materiali e gli strumenti, ma anche le persone,
le idee e le organizzazioni sociali. Ad esempio, considerate come è mutato, dai
tempi delle prime comunità cristiane, il ruolo delle donne nelle società
occidentali. Quella che nella Palestina di due millenni fa era in un certo qual
senso la regola, vale a dire la discriminazione sociale nei loro confronti, oggi è considerata come un illecito,
perché vietata dalla nostra Costituzione e da altre leggi nazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea (entrata in vigore il 1-12-09) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1955).
Poiché la nostra azione nel mondo
in cui viviamo ha anche un significato religioso e la nostra fede religiosa ha
una sua importanza nel lavoro che svolgiamo nella società civile, in
particolare come cittadini di una democrazia, anche la storia rientra nel campo
dei nostri interessi specificamente religiosi. Questo significa che, pur
attendendo la manifestazione piena di ciò che nella fede religiosa crediamo, il
nostro atteggiamento nella storia non può essere solo quello dell’attesa.
Parafrasando un simpatica espressione in romanesco che una volta pronunciò in
una udienza pubblica il papa Giovanni Paolo 2°, dobbiamo darci da fare. Questo
darsi da fare
richiede appunto di prendere coscienza di ciò che si muove intorno a noi e
delle dinamiche storiche delle società in cui viviamo, perché non sia
sconsiderato, improvvisato, superficiale e quindi vano o addirittura
controproducente. Il Concilio
Vaticano 2° ha usato per rendere questa idea un’espressione che molti
sicuramente conoscono: scrutare i segni dei tempi:
È l'uomo dunque, l'uomo considerato
nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza,
pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo Concilio, proclamando
la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe
divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine
d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la
Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere
testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad
essere servito.
[…]
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i
segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo
adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli
uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni
reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le
sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
[dalla costituzione pastorale Gaudium
et spes]
Ieri ho richiamato la vostra
attenzione sull’espressione trattare le cose temporali per ordinarle
secondo Dio (nella
costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°), che, secondo
l’interpretazione di Giuseppe Lazzati, significa costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo; oggi
faccio la stessa cosa con scrutare i segni dei tempi (nella costituzione Gaudium et spes), che significa vivere, da cristiani, ad occhi aperti nel
mondo, consapevoli della sua storia e di ciò che in esso si agita. Penso
che, addirittura, trattandosi di cose che riguardano la nostra religione, potremmo
provare a costruirci sopra una preghiera da mandare a memoria. E dovremmo
riflettere su come fare, nel nostro lavoro associativo, nelle occasioni che
abbiamo di riunirci, per dare uno spazio a questi aspetti.
Ad esempio, nella riunione del
martedì abbiamo uno spazio di meditazione biblica, utilizzando le letture della
Messa della domenica seguente, un altro spazio di riflessione e discussione su
temi ecclesiali: potremmo forse dedicare almeno qualche minuto a quell’esercizio di laicità che consiste nel
prendere coscienza del corso della storia che stiamo vivendo a partire dalla
nostra concreta esperienza, dalle nostre vite. In questo costituisce senz’altro
una ricchezza avere un gruppo nutrito di anziani tra noi, che possono riferirci
del passato non sulla base di quello che hanno letto, ma di quello che hanno
vissuto. E’ una cosa che abbiamo iniziato a fare prima dell’estate. Ricordate
quando Maria Cretella ci ha narrato della sua esperienza di giovane di Azione
Cattolica in tempo di guerra, con gli aerei che, nei tempi di plenilunio,
venivano a bombardare, partendo dalla base britannica di Malta, la ferrovia che
passava vicino al suo paese? Non abbiamo allora apprezzato meglio, a partire da
quella storia così coinvolgente, il lungo periodo di pace che, dalla fine di
quella guerra, abbiamo vissuto in Europa?
Poiché si tratta di un’opera
religiosa, anche se si tratta di
recuperare ricordi di una storia molto concreta che si è vissuta nel mondo
profano, vale a dire di quello che c’è fuori delle nostre chiese, la possiamo
affrontare senza certi assilli che guastano le cose quando le si affronta, ad
esempio, negli studi, con l’ansia degli esami, o in politica, con la premura di
sovrastare gli avversari. Si procederà anche in questo con il ritmo lento e attento
di una preghiera, cercando di far reagire
i fatti di cui facciamo memoria con la nostra fede. Certe volte, quando si
prega intensamente, pare che il tempo si dilati e che quindi basti a dire tutto
ciò che si agita in noi. Allo stesso modo, con il ritmo della preghiera,
dobbiamo ricapitolare la nostra storia e il mondo in cui viviamo, curando molto
i dettagli, senza fretta, nello sforzo di non dimenticare nulla e nessuno,
nell’anelito religioso di venire incontro a tutti. Possiamo agire così nel presupposto
di fede che il beato compimento della storia, in cui confidiamo, non sarà opera
nostra, ma verrà dall’alto. A noi compete solo assecondare questo movimento,
non perché esso dipenda da noi, ma semplicemente per continuare a farne parte,
per assentirvi (questo effettivamente dipende da noi), in quello che potremmo
riassumere con la parola amen.
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Sentirsi responsabili di tutto
(10 novembre 2012)
“Il questa solitudine,
che ciascuno ‘regala’ a se stesso, si perde i senso del ‘con-essere’ … e la
comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre
più piccole …. sino alla riduzione al singolo individuo.
[…]
C’è da chiedersi, a
questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del
pensiero occidentale, come sostiene Lévinas [Emmanuel Lévinas, 1905-1995,
filosofo francese]. A suo parere, possono
essere evitate non con il semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà;
ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla
impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza
dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento fondante
di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto: ‘Faremo e udremo (Es 24,7)’.
Cioè essi scelsero un’adesione al bene,
precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea ‘pratica’
anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la
Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via della vera conoscenza. Questa
accettazione è la nascita del ‘senso’, l’evento fondante l’instaurarsi di una
‘responsabilità irrecusabile’”.
[Dal discorso Una
sentinella nella notte, pronunciato
da Giuseppe Dossetti nel 1994 nell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe
Lazzati. Ora in Armando Oberti (a cura), Lazzati,
un cristiano nella città dell’uomo, Editrice A.V.E., 1996, pag.27]
Una delle
caratteristiche dell’esperienza religiosa cristiana è che essa non nasce da una
contrattazione con un dio, per assicurarsene i favori nelle cose della vita.
Non ha quindi molta importanza sapere che cosa si guadagnerà in concreto avendo
fede e che cosa di preciso si dovrà fare per avere un certo risultato. E, in
definitiva, rimangono in secondo piano anche le stesse questioni dell’esistenza
di una controparte soprannaturale,
quindi l’argomento “un dio c’è”, e
dei prodigi che il soprannaturale produce nella storia. Questo è paradossale
agli occhi dei non credenti, i quali invece attribuiscono molta rilevanza a
tutte quelle cose e, pensando di scuotere le convinzioni religiose, fanno
notare che il soprannaturale è invisibile, che non si manifesta nel mondo dal
momento che le cose vanno sempre come devono naturalisticamente andare e che
tutte le nostre storie religiose hanno la consistenza di fiabe, per altro
neppure costruite in modo tanto coerente. Non sono questioni che lasciano
indifferente la persona di fede, certamente la fanno soffrire; è scritto ad
esempio nei salmi, che sono parte della Bibbia: i nostri nemici ridono di noi (Sal 80,7), le lacrime sono il mio pane giorno e notte / mentre mi dicono sempre:
“Dov’è il tuo Dio?” (Sal 42,4). Ma, in definitiva, l’animo religioso sente
di non poter rinunciare a una certa visione della vita, per una questione che
riguarda la giustizia e che apre il cuore: corro
sulla via dei tuoi comandi / perché hai allargato il mio cuore (Sal 119,
32). Non accetta la violenza che vede intorno a sé e non sopporta di fuggirne
la responsabilità rispondendo a quella voce interiore che ode in sé con un “Sono forse io il guardiano di mio
fratello?” (Gen 4,9). Come argomentato da Dossetti, sulla linea di Lévinas,
la nostra adesione religiosa al bene precede qualsiasi contrattazione,
qualsiasi ragionamento di convenienza, è assoluta, non dipende in alcun modo
dal corso naturale delle cose (infatti diciamo che ha origine soprannaturale) e
per questo non è smentita dalle sconfitte, nasce da un sentimento molto forte
di giustizia che origina nello stare con gli altri e che è piuttosto duro
reprimere. Quest’ultimo ha a che fare con la felicità umana. Lo avvertiamo in
noi, ma capiamo che non ha fondamento in noi: infatti siamo cresciuti imparando
a conoscerlo, è oggetto di un insegnamento, che il più delle volte abbiamo
ricevuto fin da molto piccoli. E’ un comando interiore, ma non è costrizione:
esso infatti dà gioia e ha storicamente avuto intense espressioni sociali,
tanto da improntare di sé l’Europa fin dal tempi molto antichi. E’ a questo che
ci si riferisce quando si parla di radici
cristiane dell’Europa.
Ci sono altre forme
di religiosità? Certamente sì. Quindi pensare al fenomeno religioso come un
qualcosa di unitario, perché “si crede in
un dio” è errato. Ciascuna religione ha un suo specifico, in particolare
quelle che hanno avuto una lunga storia. Ma non è solo questo. Anche
all’interno delle singole confessioni, di ciascuna collettività religiosa
esistono molte varianti ammesse. Accade anche nella Chiesa cattolica, la cui
principale caratteristica, nonostante un’opinione corrente, non è l’uniformità.
Nell’Italia di oggi,
oltre alla storica presenza di Chiese cristiane riformate si è aggiunta, per
l’immigrazione, quella di confessioni dell’ortodossia dell’Europa orientale.
Con gli altri cristiani i cattolici condividono, in misura maggiore o minore,
quasi tutto di ciò che nella nostra concezione religiosa è essenziale.
C’è poi l’ebraismo
italiano, una presenza che è coeva con la diffusione del cristianesimo nella
penisola. Dopo oltre millecinquecento anni di discriminazioni e vere e proprie
persecuzioni subite dagli ebrei da parte dei cristiani, il cui inizio si fa
risalire al quarto secolo della nostra era in concomitanza con l’affermarsi del cristianesimo nelle istituzioni
dell’impero romano, a partire dal Concilio Vaticano 2° si sono dischiusi
ai cattolici i tesori del pensiero ebraico, che sempre più spesso vengono
menzionati dai nostri teologi e che sono stati divulgati in ambienti più vasti
da autori come il Levinas, sopra citato da Dossetti.
Sempre per via
dell’immigrazione, dall’Asia e dall’Africa, stanno affermandosi anche da noi
fedi islamiche, le quali sono piuttosto distanti dal cristianesimo, pur
condividendone alcune storie religiose.
Ma il panorama della religiosità in Italia non si esaurisce
qui: conviviamo, ad esempio, con genti che praticano l’induismo, il buddismo e
il sikhismo.
Infine, nella nostra
Italia sono abbastanza diffuse credenze di tipo magico, in cui si pensa di
poter ottenere vantaggi soprannaturali nelle cose della vita mediante certe
pratiche, in particolare certi riti. Fedi di questo tipo hanno preceduto e
accompagnato il cristianesimo e quest’ultimo in genere le ha contrastate, anche
piuttosto duramente.
Ai tempi nostri
appare anche possibile in concreto un’esistenza umana priva di esplicite convinzioni
religiose, dell’adesione a una confessione istituzionalmente costituita. Su Il Venerdì di Repubblica di questa settimana, Andrea Tarquini,
nell’articolo I senza Dio, riferisce
del fatto che, come scritto dal giornalista polacco Mariusz Szczygiel nel libro
Fatti il tuo paradiso (Nottetempo
editore), solo il 14 % degli abitanti
della Repubblica Ceca si definisce credente
nei sondaggi, questo nonostante che
in quella nazione la vita sociale sia
improntata a forti valori etici. Ma, in definitiva, quel dato non
sorprende perché è tutto sommato in linea con i dati sulla pratica religiosa
nell’Europa del nord, che per altro registra anche valori ancora più bassi.
L’Italia di oggi, con il suo circa 30% di praticanti,
di persone che vanno a Messa la domenica, costituisce in questo una eccezione
(ma la percentuale di coloro che si definiscono genericamente credenti e che mantengono un riferimento
al cristianesimo come religione è molto più alta, superando la maggioranza
assoluta della popolazione).
Dopo il Concilio Vaticano 2° e a seguito dei
principi in esso affermati, possiamo vivere da cattolici con più serenità
l’attuale pluralismo in materia religiosa e instaurare e mantenere rapporti
amichevoli con fedeli di altre religioni e con persone non religiose. Non è
stato sempre cosi, siamone consapevoli.
In particolare, l’iniziativa dell’Anno della Fede, che stiamo vivendo
nella nostra Chiesa, non è stata pensata per contrastare quel pluralismo o per
conseguire una maggiore uniformità nella nostra confessione religiosa. Non c’è
questo nella lettera apostolica di indizione Porta Fidei dell’11 ottobre 2011.
In questo Anno della Fede siamo stati invece
invitati a riflettere, acquisendone maggiore e più precisa consapevolezza, su
ciò che specificamente caratterizza la nostra esperienza religiosa. Abbiamo
infatti la convinzione che il cristianesimo abbia ancora qualcosa da dire e da
fare nel mondo di oggi, che quindi sia possibile e necessaria una nuova evangelizzazione, a partire innanzi tutto da una rinnovato
impegno pubblico nel quale la professione religiosa sia concepita e vissuta
come un atto personale ed insieme
comunitario.
Poiché è venuto ad
avere meno credito nella società, per il pluralismo di cui dicevo,
l’affidamento sacrale nelle autorità religiose cattoliche, che pure mantengono
un ruolo importante come punto di riferimento etico, e nella dottrina da esse
insegnata, sta divenendo più importante l’azione svolta dai fedeli laici nella
società per promuovere valori in linea con la nostra fede religiosa. Essa è
stata finora piuttosto efficace, consentendo una certa pervasività delle idee
religiose nella società, nonostante la diminuzione delle vocazioni sacerdotali
e di quelle religiose. E lo è stato perché non si è limitata alla mera propaganda religiosa e al proselitismo, ma ha agito in concreto per quell’azione di costruzione della città dell’uomo, di cui parlava Giuseppe Lazzati
nei brani che ho citato nei giorni scorsi. Ognuno ha sicuramente in mente
esempi di quello che dico. Questo si è
fatto in tempi che, per vari motivi, non sono stati molto favorevoli allo
sviluppo dell’azione propriamente laicale, tanto che il laicato italiano è
stato definito il brutto anatroccolo
(in Fulvio De Giorgi, Il brutto
anatroccolo, Paoline Editoriale Libri, Saggistica paoline, 2008, euro 16).
L’Azione Cattolica è
da sempre particolarmente impegnata nel miglioramento della presenza dei laici
cattolici nella società del loro tempo, non tanto con il metodo della
contrapposizione, del fare blocco sociale
o del costituire piccole isole di salvati, ma con quello del farsi
evangelicamente lievito o sale per metaforicamente fare crescere e rendere
sapidi in umanità. Una delle ragioni
che possono spingere a un impegno in un gruppo di Azione Cattolica è quella di
voler vivere in questo modo l’impegno di responsabilità religiosa di cui ci si
sente partecipi.
*********************************************
Costruire la città dell’uomo come
dovere religioso
(12 novembre
2012)
[…]
APPELLO FINALE
Cattolici
81. Noi scongiuriamo per primi tutti i
Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove, i laici devono
assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell'ordine temporale. Se
l'ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo autentico
i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro, attraverso la loro
libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive,
penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di vita. Sono
necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde: essi devono
impegnarsi risolutamente a infondere loro il soffio dello spirito evangelico.
Ai Nostri figli cattolici appartenenti ai paesi più favoriti Noi domandiamo
l'apporto della loro competenza e della loro attiva partecipazione alle
organizzazioni ufficiali o private, civili o religiose, che si dedicano a
vincere le difficoltà delle nazioni in via di sviluppo. Essi avranno senza
alcun dubbio a cuore di essere in prima linea tra coloro che lavorano a tradurre
nei fatti una morale internazionale di giustizia e di equità.
[dall’enciclica Populorum
progressio (termini latini. Traduzione: Lo
sviluppo dei popoli), del papa Paolo 6°, del 1967]
“Considero l’enciclica Populorum progressio, del papa Paolo 6°,
pubblicata il 26 marzo 1967, di gran lunga il documento del magistero
ecclesiale in materia di dottrina sociale più coinvolgente ed emozionante. Ad
essa si è esplicitamente collegato il papa Benedetto 16° nell’enciclica Caritas in veritate” [traduzione:
l’amore nella verità], del 2009, un altro testo importantissimo.
Potete leggere la Populorum progressio sul WEB a questo indirizzo:
Quando fu pubblicata ne sentii parlare in
famiglia, ma ero troppo piccolo (avevo dieci anni) per capirne l’eccezionale
rilevanza. Da adolescente, negli anni ’70, ne vissi gli ideali e gli sviluppi,
ma non mi curai di conoscerla in dettaglio. Solo da universitario, in FUCI, ne
fui come folgorato. Da allora l’Appello finale che ho sopra trascritto
sta fisso nel mio cuore. Rimpiansi di non aver cercato di capire meglio
l’anziano papa dei miei anni più giovani, che era da poco morto. Era stato
molto criticato, anche tra i suoi. Anch’io avevo avvicinato la sua figura con
un po’ di sufficienza, come spesso usano fare i ragazzi con i molto anziani,
con le persone che appartengono a un altro tempo. Può sembrare strano oggi,
dopo che con il papa Giovanni Paolo 2° ci siamo abituati a folle di giovani che
acclamano il papa. Negli anni ’70 era molto diverso. Fu un’epoca che parve
molto promettente, ma che fu anche tragica, attraversata da conflitti durissimi
e da sconsiderate esagerazioni polemiche. Il papa Montini, fine intellettuale e
profondo conoscitore delle cose del mondo, soffriva. Vedeva la Chiesa che
sembrava sbandarsi, nei contrasti accesi tra rivoluzionari e conservatori.
Intuiva meglio di altri le gravissime conseguenze che potevano derivare
dall’affermarsi di ideologie che svalutavano la famiglia come fonte di
relazioni amorevoli. Nello stesso tempo resisteva a chi proponeva di cancellare
o di neutralizzare l’aggiornamento ordinato dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Il dolore interiore che
traspariva dalla sua figura fu scambiato per incertezza dai conservatori. I
rivoluzionari videro in lui un ostacolo al progresso. Eppure egli fu il papa
della Populorum progressio. Si
pensava che fosse un uomo del passato, di un altro tempo: egli fu
effettivamente uomo di un altro tempo, ma del tempo futuro, di questo nostro
tempo che stiamo vivendo. Il gigantesco riequilibrio a livello globale tra
popoli un tempo poveri e i popoli più ricchi, che caratterizza la nostra epoca,
è infatti la manifestazione ancora travagliata e minacciata di un nuovo ordine
mondiale che potrebbe realizzare su scala globale l’era di pace sperimentata da
noi europei dalla fine della Seconda guerra mondiale. Come per ogni cosa umana
questo movimento è suscettibile di regressi e di mutamenti di direzione. La Populorum
progressio ci insegna che è nostro dovere
religioso intervenire nella sua storia per evitare che le cose si mettano
male.
Costruiamo
sulle parole di Paolo 2° una preghiera, una specie di salmo:
Noi laici rispondiamo all’appello:
assumeremo come nostro compito specifico il rinnovamento dell'ordine temporale;
di nostra libera iniziativa e senza attendere passivamente
consegne o direttive, al fine di penetrare di spirito
cristiano la mentalità delle nostre comunità di vita.
Promuoveremo cambiamenti e le indispensabili delle riforme profonde;
ci impegneremo risolutamente ad infondere in essi il soffio dello spirito
evangelico.
Porremo la nostra competenza nella
nostra attiva partecipazione, in prima
linea, alle organizzazioni ufficiali o private, civili o religiose che si
dedicano a tradurre nei fatti una morale internazionale di giustizia e di equità.
Oggi in genere c’è scarsa
consapevolezza della storia ecclesiale che precede quella del papa regnante. E’
come se la morte di un papa chiudesse un’era.
Quando morì il papa Paolo
6°, il mio zio professore di Bologna, Achille Ardigò, mi portò su Ponte Sisto,
qui a Roma, che allora era sovrastato da strutture metalliche, delle passerelle
pedonali costruite nell’Ottocento, e, guardando il “Cupolone” mi disse proprio così “E’ la fine di un’era; ogni morte di papa chiude un’era nella storia
della Chiesa”. Con una chiave incise sul parapetto metallico della
passerella la frase “E’ la fine di un’era”,
perché, ogni volta che sarei passato di lì, mi ricordassi di questo concetto.
Ma, circa vent’anni dopo, le passerelle metalliche vennero levate e con esse
anche quella frase, che tuttavia mi porto dentro molto chiaramente.
La Populorum progressio non è
una legge della Chiesa, ma un documento del magistero ecclesiale e contiene
insegnamenti particolarmente autorevoli provenendo da un papa. Quel magistero
non è stato mai revocato; è quindi ancora attuale e vive nella Chiesa di oggi
in vari modi. Quell’enciclica liberò forze potenti nella nostra Chiesa a
livello mondiale. In un certo senso costituì una sorta di ordine di esecuzione
dei deliberati conciliari. Essa conteneva un appello ai popoli della Terra che
non aveva precedenti, in quanto diretto a suscitare a partire da essi stessi un
movimento mondiale per la realizzazione nelle società civili di una pace
fondata sulla giustizia. In particolare esso coinvolgeva i laici cattolici, con
una grandissima apertura di credito nei loro confronti, chiamati ad agire nella
storia senza attendere consegne o direttive dal clero.
In Italia una delle
conseguenze più importanti di quell’appello fu il fondamentale convegno
ecclesiale nazionale tenuto a Roma nel 1976 sul tema Evangelizzazione e promozione umana, preceduto da una lunga fase di
preparazione in cui tutto il laicato italiano fu coinvolto. Dalla fine degli
anni ’60 i concetti di promozione umana e
di liberazione cominciarono ad essere
affiancati a quello di evangelizzazione,
nello spirito della Populorum progressio.
Questo segnò una discontinuità nella storia dell’impegno nella storia dei
fedeli laici italiani. In precedenza infatti essi erano stati prevalentemente
chiamati a un attivismo pubblico in difesa dell’organizzazione del clero, in
particolare in difesa delle prerogative dei papi, dei vescovi, dei sacerdoti,
degli istituti religiosi e per la tutela del patrimonio della Chiesa, ancora
imponente pur dopo le spoliazioni conseguenti all’unità nazionale dell’Italia,
in cui il papato era stato tra le monarchie italiane sconfitte.
Riassumendo molto, si può
dire che, a partire dalla Populorum
progressio, l’azione per la realizzazione della giustizia sociale venne
considerata una forma di evangelizzazione e, anzi, la più efficace tra esse. Si
noti, per avere un’idea della cosa, che l’introduzione di quell’enciclica aveva
come titolo: “La questione sociale è oggi
mondiale”.
Cercando di dare una
valutazione complessiva agli sviluppi della storia ecclesiale negli anni ’70 si
deve riconoscere che questa nuova prospettiva non entusiasmò la gran parte dei
fedeli cattolici italiani, anche indubbiamente produsse movimenti di tipo nuovo
centrati sull’idea di azione sociale per la promozione umana, in particolare
per l’elevazione degli ultimi, e della
conversione religiosa come esperienza di liberazione. Non si riuscì veramente a
cogliere il nesso tra religione e azione sociale diretta a rimuovere e
sostituire strutture sociali ingiuste. Non si trattò (solo) di resistenze nella
gerarchia ecclesiale locale, ma di una incomprensione molto più radicata e
diffusa. Si possono individuare diverse cause di questo.
La prima, a mio avviso,
per quello che ricordo, fu l’impreparazione del laicato italiano, del quale
negli anni ’70 iniziai anch’io ad essere parte attiva. Ricordo che da ragazzo,
pur militando negli scout cattolici, in cui quelle nuove idee circolavano
molto, conoscevo poco della Bibbia, della storia della Chiesa e dei concetti
teologici fondamentali. Per me Chiesa significava liturgie e Sacramenti, i
sacerdoti della parrocchia e il papa.
Una seconda causa è che i
cattolici italiani erano stati storicamente abituati, a volte sotto minaccia di
esclusione ecclesiale, a dipendere molto dalle direttive dei papi.
Infine c’era il fatto che
la democrazia italiana, che costituiva anche, indirettamente, un presidio per
l’organizzazione del clero, era fondata sull’unità politica dei cattolici nella
Democrazia Cristiana. Per realizzarla si era dovuto centrare l’impegno politico
sull’interclassismo, del resto sulla base degli insegnamenti della dottrina
sociale della Chiesa risalente all’Ottocento; tuttavia sulla via della
realizzazione della giustizia sociale emergevano conflitti sociali che
contrastavano con quell’obiettivo. Essi inoltre erano stati storicamente il
terreno dell’impegno politico delle forze socialiste, le quali, benché
nell’Ottocento avessero sviluppato punti di contatto con l’azione sociale dei
cattolici, già in quel secolo ma soprattutto a partire dalla rivoluzione
sovietica in Russia erano state considerate dalla gerarchia cattolica come
avversarie della Chiesa. Nell’Italia degli anni Sessanta, essere cattolici
significava nella maggior parte dei casi votare democristiano per dovere
religioso. La conseguenza era che, se ad un certo punto, per motivi anche
religiosi, si era insoddisfatti della politica democristiana, si era tentati
dall’abbandonare la Chiesa. Bisogna dire che a questa conseguenza si era
tentato di rimediare, intuendo con lucidità i possibili sviluppi storici del Concilio Vaticano 2°, durante la
presidenza nazionale dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet (1964-1973). In
quegli anni, in cui l’Azione Cattolica era ancora molto forte e diffusa sul
territorio, radunando la gran parte del laicato italiano, si cercò di
sciogliere il legame di collateralismo tra l’organizzazione religiosa del laicato
italiano e l’organizzazione politica della Democrazia Cristiana, centrando
l’impegno religioso sulla formazione delle coscienze e rendendo in tal modo
legittimi impegni politici su diversi fronti senza che ne fosse pregiudicata
l’appartenenza ecclesiale. I tempi erano tuttavia prematuri. Solo dopo la fine
dell’Unione Sovietica, a partire quindi dal 1991, si produsse una situazione
simile. In quegli anni si era però già realizzata nella nostra Chiesa la svolta
impressa dal papa Giovanni Paolo 2°. Diciamo che con lui l’impegno laicale
tornò ad essere molto centrato sulla figura del papa. Il papa Giovanni Paolo 2°
ripropose sostanzialmente il modello di impegno storico laicale che era stato
sperimentato nella sua Polonia, nel duro confronto con il regime comunista che
all’epoca dominava quella nazione. In esso era vista con un certo sospetto
l’autonoma azione laicale finalizzata alla realizzazione della giustizia sociale,
in particolare in Occidente, in Europa e nell’America latina. In quanto essa
tendeva ad entrare in polemica con i regimi democratici dai quali l’Est Europeo
attendeva un aiuto per la propria liberazione dal giogo sovietico, veniva vista
come oggettivamente controproducente, quando non realmente influenzata dagli
storici avversari della Chiesa.
Noi oggi viviamo in un’era
diversa. Conosciamo bene i profondi legami di stima, amicizia e collaborazione
tra il papa Giovanni Paolo 2° e l’attuale papa Benedetto 16°. E tuttavia mi
pare che, nonostante superficiali considerazioni correnti, l’attuale papato
abbia una sua particolare caratterizzazione, che, in particolare, ha portato a
riaprire via che sembravano abbandonate. Ad esempio, nell’enciclica Caritas in veritate (2009) si legge:
esprimo la mia convinzione che la
Populorum progressio merita di essere considerata come « la Rerum novarum
dell'epoca contemporanea », che illumina il cammino dell'umanità in via di
unificazione.
Potete leggere
l’enciclica Caritas in veritate sul
WEB all’indirizzo:
E’ ridiventato quindi di
stretta attualità l’appello che il papa Paolo 6° rivolse al mondo, e innanzi
tutto ai laici cattolici. Esso riguarda anche noi, del piccolo gruppo di Azione
Cattolica in San Clemente papa. Anche noi infatti abbiamo la possibilità di
fare qualcosa, nei settori di vita sociale in cui siamo inseriti, ad esempio
nella famiglia e nel lavoro, e quindi dobbiamo acquisire consapevolezza della
relativa responsabilità religiosa. La Caritas
in veritate ci mette però in
guardia: il nostro impegno per la giustizia sociale non deve essere
velleitario, deve collegarsi sapientemente con i principi di fede. Innanzi
tutto, quindi, bisogna conoscerli meglio. Ecco quindi il senso dell’iniziativa
in corso dell’Anno della Fede.
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Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal
passato
(14 novembre 2012)
Marco Ivaldo, in un
breve saggio dal titolo Lazzati, il
Movimento laureati e il MEIC inserito nell’omonimo fascicolo n.15 di Dossier Lazzati, Editrice A.V.E., 1998,
€ 6,00 (attualmente disponibile in commercio), scrive, riferendosi a un
discorso tenuto da Giuseppe Lazzati il 7 dicembre 1968 nell’Auditorio di
palazzo Pio in Roma e pubblicato sul mensile Coscienza del Movimento
laureati di A.C. lo steso anno:
Traspaiono da questo
testo il travaglio di quegli anni, ardui ma fecondi, le trasformazioni del
costume, la crisi del quadro politico degli anni Sessanta, la complessa
ricezione del Concilio nelle comunità ecclesiali, la ricerca di nuove forme
dell’apostolato dei laici, l’itinerario di ridefinizione dell’Azione Cattolica
Italiana con il nuovo statuto. Lazzati non sfugge a questa problematica.
Un’ampia parte del suo discorso è volta a riprendere esauriente e concreta
memoria dei “valori del passato”. Ma poi egli osserva: “Non possiamo
nasconderci le difficoltà innanzi alle quali l’Azione Cattolica si è
trovata e si trova in questa
situazione; talora è sembrato che fosse sopraffatta da altri tipi di
azione, forse più appariscenti o passibili di più definite misure; la
tentazione dell’efficienza immediata l’attira; un certo senso di vera e propria
crisi ha pervaso strati più o meno ampi dei suoi aderenti e l’ha condotta a
quel ripensamento di se stessa, dei propri metodi di formazione e di azione,
dal quale dovrebbe uscire sofferto ma vivo, semplice e dinamico il suo nuovo
statuto [che fu
approvato nel 1969 – nota mia]. L’ispirazione
idonea, l’atteggiamento giusto per affrontare la situazione che allora si
delineava Lazzati invita a trovarli in una celebre espressione di un sermone di
Ambrogio, il “De paradiso” [latino. Trad. “Sul paradiso – nota mia], dove il padre e dottore della Chiesa
sostiene che il compito del cristiano è “nova sempre quaerere et parta
custodire” [latino. Traduzione libera mia: “Rinnovarsi sempre, ma
custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato]. Bisogna “aprirsi al nuovo senza timori e rimpianti” e insieme occorre
mantenere “fedeltà ai valori che hanno costituito la trama” della storia
dell’Azione Cattolica e hanno “data la misura della sua validità”. Non è lecita
la “pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è stato”, ma la “smania del
nuovo” non deve “prendere il sopravvento sull’amore del vero e la ricerca di
ciò che vale”.
Cari amici del gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San
Clemente papa e cari altri amici che avete occasione di leggere queste parole,
oggi vi voglio parlare di questioni associative, che però sono legate ad
argomenti più vasti.
Quando, verso la fine degli anni ’70, entrai
nel gruppo FUCI di Roma che si riuniva a piazza S.Apollinare, eravamo una
ventina di universitari, ma ci sentivamo pronti a conquistare in mondo. Quando
il cardinal vicario Poletti ci disse che eravamo i suoi occhi e le sue orecchie
nel mondo universitario, non fummo colpiti dalla sproporzione di forze,
dall’essere noi una percentuale minima degli oltre centomila studenti romani.
Nel nostro gruppo siamo di più dei miei fucini
di allora, ma ci sentiamo un po’ in crisi. Non è così? Passando una volta per i
corridoi della parrocchia, ci ho sentiti definire gruppo anziani. E’ chiaro che può parlare così solo chi non ci
conosce bene. Però è vero che esteriormente possiamo talvolta sembrare
effettivamente un gruppo anziani. Persone più giovani ci sono, ma sono in
minoranza. A volte non vengono alle riunioni del martedì perché impegnate sul
lavoro o negli studi. Io stesso non di rado faccio fatica ad essere in
parrocchia alle cinque del pomeriggio, dopo il lavoro in ufficio, e a volte non
ci sono riuscito. Questa carenza di persone più giovani incide abbastanza anche
sul lavoro che ci proponiamo di fare in Azione Cattolica, anche qui a Monte
Sacro – Valli. Mancano infatti molti stimoli al rinnovamento, che come
sosteneva Lazzati sulla linea di S. Ambrogio, è uno dei compiti propri di noi
laici. Ma non è forse vero che anche l’altro compito, quello di custodire, ci appassiona di meno? Si va
un po’ a memoria, ma la memoria degli anziani comincia a fare difetto e non si
ha tanta voglia di rinfrescarla. Perché è quando si è chiamati a comunicare qualche cosa alle
persone più giovani che si ripensa più validamente al passato: questo è un
fatto naturale e noi siamo esseri naturali. Ma gli esseri umani sono capaci
anche di uno sguardo soprannaturale. E’ ad esso che ho chiamato le mie figlie
universitarie quando ho proposto loro di aderire al nostro gruppo di A.C. . Non
dobbiamo fidarci delle apparenze: dobbiamo essere capaci di intuire l’anima
negli altri. Questo è un esercizio fondamentale dell’esperienza religiosa:
andare oltre ciò che appare. E le vostre anime, cari amici del gruppo, sono
belle e parlano dei ragazzi e delle ragazze che eravate e che interiormente
ancora siete. Che soddisfazione sentire i più anziani parlare delle loro
esperienze di A.C. in un mondo di molti anni fa, tanto diverso, e per molti versi più
difficile, del nostro di oggi! Un’A.C.
indomita quella loro di un tempo, il cui ardore e il cui attivismo traspare ancora in certe prese di posizione nei discorsi che
si fanno nelle nostre riunioni. Cose che certamente non ci si aspetta in un
gruppo anziani. Ma direi di più: cose che oggi non ci si aspetta neppure dai
giovani. Come mi riferiscono le mie figlie, oggi gli universitari sono spesso
dei conservatori per sfiducia nel cambiamento, non si aspettano nulla di buono
dal futuro. Del resto non è quello che
nei giornali e in televisione si dice sempre loro? Paradossalmente, allora, è
proprio dalla memoria del passato che possono venire stimoli per il
rinnovamento, quello personale e quello della società in cui viviamo.
Pensare religiosamente la storia ha questo di
confortante: non è legato a tempi precisi, a scadenze inesorabili. Possiamo,
religiosamente, curare certi dettagli, così come certe preghiere vengono recitate
molto lentamente, con il ritmo della vita che scorre in noi, con il ritmo del
respiro come insegnavano alcuni maestri di spiritualità monacale. E non si è
nemmeno legati molto all’attualità, ai titoli di testa dei giornali e dei
telegiornali. Possiamo dedicare molto tempo a fatti minimi, così come i monaci
a volte dedicano molto del tempo non
impegnato nelle liturgie alla cura paziente e minuziosa di una pianta o ad
altre faccende minime o che richiedono
grande applicazione per un risultato che verrà magari oltre la loro vita
personale. Facciamolo, però! E’ esperienza comune dei più anziani che i giorni
corrano via più velocemente e che quindi giunga sempre, presto, la sera. Si finisce allora per sdormicchiare molto, lo
ha scritto Carlo Maria Martini in uno dei suoi ultimi libri di spiritualità, Qualcosa così personale, Mondadori, 2009, € 17,50. In
questo Anno della Fede ci viene un
appello forte a scuoterci, a rinnovarci, ripensando, e innanzi tutto motivando
meglio, i nostri ideali religiosi. Poi ci viene chiesto un impegno pubblico che può cominciare, ad esempio,
da questo (del resto siamo persone religiose): pregare perché persone più
giovani partecipino di quegli ideali e ci aiutino, nel nostro gruppo, stando
insieme a noi, a rinnovarci custodendo ciò che del passato merita di essere
conservato. E poi pregare perché, attingendo ai tesori del passato, anche agli
aspetti preziosi delle nostre vite, si abbia qualcosa da comunicare ai più
giovani. Non si costruisce dal nulla: i più anziani, in quanto religiosi
custodi del passato migliore e fedeli memori di quello peggiore, hanno anche,
in un certo senso, il segreto per costruire un futuro all’altezza dei nostri
grandi ideali.
Non è
lecita la pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è stato, riteneva
Lazzati ed è sorprendente che questa sua convinzione sia rimasta fortissima
anche tra i membri più anziani del nostro gruppo. E questo è ancora più
sorprendente tenendo conto dell’orientamento generalmente un po’ più nostalgico
del passato degli anziani del quartiere.
Trattare
le cose temporali per ordinarle secondo Dio: questo il compito di cui
religiosamente dobbiamo prendere consapevolezza. Si tratta di un impegno
veramente smisurato, come tutto ciò che riguarda Dio. E’ chiaro che sarebbe
anche sproporzionato alle nostre forze se non confidassimo anche in un sostegno
soprannaturale, innanzi tutto per la rigenerazione del nostro gruppo. La
dobbiamo desiderare con molta determinazione e pregare molto perché essa si
compia.
L’efficacia storica della nostra azione
dipende dai contatti che riusciamo a stabilire con la società del nostro tempo
e quindi dalla nostra capacità di influire su di essa. Serve gente. Ora, nel
nostro lavoro natura e sopranatura sono strettamente commiste, dunque non si fa
affidamento solo sull’elemento naturale, quindi sulle nostre sole forze umane, ma esse comunque contano e
devono esserci, è legge di natura questa, il mondo è stato creato così: i
nostri grandi ideali, che servono ancora al mondo di oggi, sono incarnati in
noi e hanno bisogno di nuova umanità per continuare a pervadere la società,
perché noi, ad un certo momento, finiremo.
La caratteristica del nostro atteggiamento
verso i più giovani deve avere, a mio parere, questa caratteristica,
conformemente al metodo praticato in Azione Cattolica: non cerchiamo nuove
forze per indottrinarle o per cambiare le loro vite. Noi non abbiamo
infatti la ricetta della felicità per i più giovani. Essi la devono inventare
da se stessi. Noi abbiamo una ispirazione ideale e siamo custodi di una
tradizione di fede che ci spinge avanti,
in un incessante rinnovamento.
Insieme ai più giovani vorremmo quindi ideare e attuare il nuovo che necessita
al mondo di oggi, secondo quell’ispirazione.
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La fede fa scandalo?
(16 novembre 2012)
In molti casi
l’ostacolo alla fede è costituito da una situazione di scandalo, o voluta
falsamente, ad esempio falsità diffuse contro la Chiesa e i cristiani; o per fatti reali. Non crediamo di aiutare i
lontani nascondendo o negando la verità. Se si tratta di errori storici ristabilire la verità; ma se c’è un
autentico scandalo bisogna avere il coraggio di riconoscerlo e di far capire
che la fede non consiste nel negare lo scandalo; ma far comprendere che lo
scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio che supera l’ostacolo rappresentato
dalle deficienze e dagli scandali degli uomini, siano essi laici o uomini di
Chiesa o anche Papi
da Per la catechesi ai lontani, articolo di
Giuseppe Lazzati, pubblicato nel 1967 su mensile del Movimento laureati e ora nel fascicolo n.15 di Dossier Lazzati, “Lazzati, il
Movimento Laureati e il Meic, Editrice A.V.E, 1998, € 6,00]
Verso la fine degli
scorsi anni ’60, quando Lazzati scrisse le frasi che ho citato, costituiva un
ostacolo alla vita di fede pensare che nella Chiesa c’erano stati tanti cattivi
esempi, anche da parte di capi religiosi, e che i cristiani si erano resi
responsabili collettivamente di fatti efferati, come guerre, persecuzioni,
schiavismo, predazione delle terre e dei beni di altri popoli e delle loro
stesse vite e altro. Ai tempi nostri mi pare che nel nostro popolo la religione
sia meno apprezzata più che altro perché sembra che sia inutile nelle faccende della propria vita. Le cose sembrano sempre
andare come devono, come ci si aspetta che vadano secondo natura, e non cambia
nulla se uno è religioso o non lo è. I
forti vincono e i deboli perdono, così è sempre stato, si pensa. Forse però, si
argomenta, non è la religione, in generale, a non andare, ma è la religione
cristiana e, in particolare, la sua versione cattolica, così ragionevole, così poco aperta al
prodigio nella vita di tutti i giorni (quanto ci mette, si osserva, a
riconoscere un miracolo o un’apparizione soprannaturale!). In definitiva, si
pensa, la dottrina cattolica sembra
volerci convincere di doverci rassegnare
a ciò che accade: quindi per ora si deve cedere al male prevalente e lasciarsi
schiacciare, poi, in un’altra
dimensione però, avremo il premio. C’è chi allora si affida ad altre versioni
religiose o varianti della fede cristiana, che danno più soddisfazioni sotto
quei profili. Ma c’è anche chi decide di fare a meno del tutto della religione
e si costruisce allora un’etica individuale e collettiva che si basa sul tipo
di società in cui si sente meglio inserito, ottenendone poi un riconoscimento appagante,
come persona buona, onesta.
L’atteggiamento di
chi si lascia alle spalle la religione, che spesso è quella appresa in famiglia
e nelle comunità di riferimento, come può essere un paese, con le sue feste e
le sue costumanze, anche alimentari, può dispiacere, ma noi, nel lavoro che
abbiamo in mente per recuperare coloro che sono diventati i lontani, siamo piuttosto vincolati dai
nostri principi di fede, da quella che crediamo essere la verità sul mondo intorno a
noi e sul soprannaturale. Non possiamo quindi approfittare di quella sorta di
disposizione della gente a credere nell’azione soprannaturale, nel miracolo, che confina abbastanza con la credulità e inventarci
delle storie consolanti ma ingannevoli. Non possiamo dare alla gente quello che
in fondo essa ci chiede: la religione che mette a posto le cose della vita, che
risana tutte le malattie, che allontana la morte, che salva il rapporto con il
coniuge e i figli, che fa trovare o mantiene il lavoro, che ci fa tornare sani
e salvi a casa la sera dopo aver circolato per la città, e cose simili. Né possiamo promettere che essendo buoni,
partecipando diligentemente alle liturgie e pregando molto le cose cambieranno,
che tutti i problemi si risolveranno. Non è questo che ci è stato insegnato in
religione. Ricordate?: ora e nell’ora
della nostra morte… Quando mai ci hanno detto che alle persone religiose
sarebbe andato tutto bene in questa vita?
E io francamente non mi sento nemmeno di proporre, ai sofferenti, l’idea
che il male che capita loro è in realtà il loro bene, anche se essi, proprio
perché non abbastanza religiosi, non riescono a capirlo. Il male rimane male:
poi si può riuscire a dargli un senso
religioso e allora, come è accaduto in certe vite di santi, si può
addirittura ad avere una confidenza con esso che libera dalla paura o giungere
a desiderarlo perché si pensa che attraverso di esso si partecipi alla
redenzione dell’umanità intera, a una grande opera di salvazione. Ed è questo
lo stesso atteggiamento di chi in guerra compie un’azione eroica, altruistica,
a costo della propria vita. Ma si tratta, è chiaro, di una cosa molto diversa
da chi semplicemente tenta di voltare la
frittata e dice sbrigativamente che il
male sofferto (da un altro) è bene per il sofferente, e chi non lo capisce
non ha fede (aggiungendo così sofferenza a sofferenza, alla sofferenza della
vita quella del rimprovero religioso), ottenendo da parte di chi soffre un
sentimento interiore di rivolta che è umanamente del tutto comprensibile.
Come fare allora?
Direi che potremmo farne argomento di dibattito tra noi. Che cosa rispondere all’argomento Dio è inutile? E’ qualcosa
di più forte della considerazione Dio non c’è, che noi risolviamo
obiettando che in realtà Dio non si vede,
ma opera: e quest’ultima è una considerazione pacifica nel pensiero
biblico, mi pare di aver capito.
Lo scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio, scrisse
Lazzati nel 1967. Per me è proprio così.
Mi pare così assurda e inaccettabile un’esistenza senza Dio, dominata dalla
cieca violenza delle cose e degli esseri viventi, senza amore-agape, quello che raccoglie pacificamente intorno alla tavola
comune per un bel pasto che nutre e dà gioia, che contro l’idea di una vita
così sento di dovermi rivoltare e proprio da questa rivolta nasce la mia
religiosità. Ma penso che negli altri vi siano tanti altri motivi per i quali
la fede religiosa è diventata l’aspetto fondamentale della loro vita. In questo
Anno della Fede siamo chiamati ad
approfondire questi argomenti, a riscoprire le ragioni del nostro atto di fede.
Chissà che questo possa anche servire ad aiutare coloro che sentiamo lontani in certe loro difficoltà
religiose, quelle che riguardano l’inutilità
di Dio, le quali, in fondo, possono anche scaturire da un certo pessimismo
sulla storia umana e quindi non
riguardare tanto il soprannaturale ma il mondo quaggiù. Poiché la storia umana
è lo specifico campo d’azione di noi laici cattolici, direi che è proprio un
lavoro per noi.
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Fede e promozione umana
(19-11-12)
Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini costituisce uno degli
aspetti più importanti del mondo di oggi, al cui sviluppo molto contribuisce il
progresso tecnico contemporaneo.
Tuttavia il fraterno dialogo tra gli uomini
non trova il suo compimento in tale progresso, ma più profondamente nella
comunità delle persone, e questa esige un reciproco rispetto della loro piena
dignità spirituale. La Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di
questa comunione tra persone; nello stesso tempo ci guida ad un approfondimento
delle leggi che regolano la vita sociale, scritte dal Creatore nella natura
spirituale e morale dell'uomo.
[dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes (latino.Trad.:La
gioia e la speranza) sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n. 23]
Come ho già scritto,
per il metodo seguito nel redigerli, non è facile cogliere con immediatezza le novità nel documenti del Concilio
Vaticano 2°, denominati costituzioni,
decreti e dichiarazioni
secondo un criterio che tenne conto
della forza normativa che si volle attribuire loro, dal punto di vista
giuridico e quindi nelle loro reciproche relazioni e nelle relazioni con altri
atti normativi della Chiesa, e delle finalità pratiche che con essi si volevano
realizzare. Essi infatti furono scritti in linguaggio teologico e la teologia,
in particolare quella cattolica, tende a mettere in risalto la continuità, piuttosto che a esaltare le
novità. E, quando novità ci sono, esse in genere sono presentate come sviluppo o riscoperta di
qualcosa che già c’era prima. Questo modo di procedere è necessario per valutare se il nuovo che si
propone è conforme al deposito di fede
che abbiamo ricevuto dalle origini. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta
di capire, nelle varie manifestazioni storiche della nostra fede, come tenere tutto insieme, il presente, il
futuro e il passato, i vivi e i morti, tutti i popoli della terra, secondo il
comandamento religioso ricevuto: ristabilire
l’unità del genere umano. La teologia è riflessione sulla fede comune, nei
suoi fondamenti e nelle sue manifestazioni storiche, compresi anche agli atti
normativi di coloro che nella Chiesa esercitano l’autorità. Ecco perché nei
documenti più importanti del magistero, scritti in linguaggio teologico, quelli
che vogliono essere di orientamento ai fedeli, troviamo tanti riferimenti alla
Bibbia e al pensiero religioso del
passato. Nei documenti più recenti, dall’Ottocento in poi, troviamo riferimenti
più precisi alla storia del loro tempo, in particolare in quelli che si fanno
rientrare nella materia della dottrina
sociale. Un esempio di ciò che ho detto, di quel particolare metodo
nell’argomentare, si può trovare leggendo un documento fondamentale per la fede
del nostro tempo come l’enciclica Caritas
in veritate, del papa Benedetto 16°.
Vi posso confermare
che nei documenti del Concilio Vaticano
2° il nuovo c’è. Ne ho già trattato in altri miei precedenti
interventi, mettendo in risalto, siatene consapevoli, solo di pillole di novità, quindi una piccola parte del nuovo
che c’è.
La novità delle novità può considerarsi
innanzi tutto quello che è stato
definito il metodo conciliare.
Nell’annunciare l’indizione del Concilio ecumenico, il papa Giovanni 23° disse
che avrebbe consultato tutti i vescovi del mondo, perché il lavoro che ci si
proponeva di fare richiedeva di conoscere i punti di vista e di sfruttare le
conoscenze e le capacità di molti. Ora, bisogna capire che questa intenzione del papa veniva
incontro a un moto molto esteso che già
c’era nella Chiesa cattolica, in
tutto il mondo. Il papa Giovanni 23° stesso ne era stato partecipe e volle
darvi voce. Insomma, il Concilio Vaticano
2° può essere considerato il culmine
di un movimento, che comprendeva, come sempre accade nelle cose religiose, vita e pensiero. C’erano state negli
anni passati nuove esperienze di vita di fede alle quali erano corrisposte
anche nuove analisi teologiche. In Europa, in particolare, erano state decisivi le riflessioni e i sentimenti indotti negli anni tra le due
guerre mondiali, che avevano visto, oltre al dominio dei totalitarismi fascisti
e nazisti su larga parte del continente,
anche l’affermarsi della rivoluzione sovietica in una nazione di antica
formazione cristiana come la Russia. Essi avevano trovato una sfogo, dal 1945,
con la vittoria sui regimi fascisti e nazisti europei, nell’epopea della
costruzione di una nuova Europa, che si era articolata, con metodi divergenti e
addirittura confliggenti ma con il dichiarato obiettivo comune della giustizia
sociale come fondamento della pace, sia nella parte occidentale, rimasta sotto
l’influsso della nuova potenza globale statunitense, sia nella parte orientale,
finita sotto il dominio sovietico. Questo intenso lavorio collettivo non era stato
solo tecnica: aveva avuto anche una
marcata componente ideale. Ne
possiamo trovare un esempio nella nostra Costituzione, approvata nel dicembre
1947, dopo un anno e mezzo di confronti assembleari di rilevante livello
culturale ed etico, ed entrata in vigore nel 1948. Semplificando molto,
possiamo dire che quel dibattito ideale coinvolse sempre in maggior misura
anche la Chiesa cattolica, fino ad arrivare ai massimi vertici. Sarei grato a
chi, più a conoscenza di questi fatti, volesse approfondire il tema delle
radici lontane del movimento conciliare
e segnalare testi per approfondirlo. Dal mio (limitato) punto di vista credo di
poter consigliare per avere un’idea di ciò che intendo il libro Esperienze pastorali, di Lorenzo Milani,
pubblicato nel 1957, ancora in commercio, edito da Libreria editrice fiorentina, € 18,00.
E’ vero che
l’annuncio del papa Giovanni 23° di voler indire un concilio ecumenico sorprese i suoi contemporanei, in particolare i
cattolici. Non però perché non si sentisse nel mondo l’esigenza di una cosa
simile, ma perché non ci si aspettava che proprio dal papa romano venisse
questa iniziativa. Infatti, fino ad allora, i papi erano apparsi più
preoccupati di porre limiti ai moti popolari, più che di dar loro strada e
occasioni per manifestarsi. Nuovo era poi il metodo di consultare i vescovi del mondo, come se a Roma non si avesse già
una soluzione pronta per tutti i problemi di cui si sarebbe discusso. Ora,
questa consultazione rea intesa evidentemente a far emergere quel movimento che, come ho osservato, già c’era
e invocava cambiamenti.
Tuttavia nella prima fase preparatoria del concilio si ebbe la sorpresa di
scoprire che i vescovi non ne erano in genere consapevoli. Scrisse lo storico
Giuseppe Alberigo nella sua preziosa Breve storia del concilio Vaticano II,
Società editrice Il Mulino, 2005, € 10,50, ancora in commercio:
Caduta l’ipotesi di consultare i vescovi con
un questionario, il papa fece invitare ciascuno a indicare i problemi e gli
argomenti che il concilio avrebbe dovuto
affrontare. Nei mesi successivi sono arrivati al Vaticano circa duemila
pareri (“vota”) da tutto il mondo. La maggioranza di questi scritti
testimoniava la sorpresa e il disorientamento: Roma non ordinava, ma chiedeva
suggerimenti! Moltissimi hanno auspicato che il concilio si occupasse di argomenti
di modesta portata; ben pochi avevano orizzonti ampi ed erano assuefatti a
prospettive coraggiose.
Tornando alla
citazione dalla costituzione pastorale Gaudium
et spes con cui ho aperto questo intervento, vorrei invitarvi a porre attenzione a queste
espressioni: Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini; esige un
reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale; approfondimento
delle leggi che regolano la vita sociale;
la Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di questa comunione tra persone. Ora, tenuto conto di quello che ho
osservato nei miei precedenti interventi sulle caratteristiche ideali delle
democrazie contemporanee, quelle parole della Gaudium et spes, espresse in terminologia teologica, inquadrano il
problema fondamentale dei nostri attuali regimi democratici: una diversa organizzazione della società
basata su nuove relazioni umane scaturite dall’idea di una comune dignità di
tutti gli esseri umani. Mai, prima
d’ora, che io sappia, i popoli, intesi
come comunioni di persone con pari dignità e
non solo come insiemi di sudditi di storici despoti o dinastie, erano venuti ad assumere questo rilievo in un
documento ecclesiale cattolico di quell’importanza. E’ quindi veramente un linguaggio nuovo. Il movimento che si
vuole produrre nei fedeli è analogo a quello dal quale sono scaturite le democrazie contemporanee: la promozione umana, vale a dire l’elevazione
delle masse (infatti non si fa distinzione tra le persone umane), mediante
il riconoscimento di una loro comune dignità,
dalla quale deriva l’esigenza di adeguate leggi,
vale a dire il riconoscimento di diritti
umani fondamentali, per un miglioramento della società (nel documento denominata comunione di persone). Questo lavoro, si dichiara, ha fondamento e
quindi rilievo religioso, essendo compreso nei principi fondamentali della fede
(la Rivelazione).
Quali conseguenze?
Direi innanzi tutto che,
come molte altre affermazioni o auspici dei documenti del Concilio Vaticano 2°, quel principio stabilito nella breve frase
che ho citato all’inizio merita un approfondimento.
Anche in questo il Concilio Vaticano 2° non è
stato un punto di arrivo ma, in metafora, un apparato propulsore che ha messo un movimento un corpo sociale, la
Chiesa, che sembrava destinata al progressivo declino nel confronto con i tempi
nuovi, per il fatto di rimanere sempre immobile e quindi, nell’avanzare della
storia, sempre più arretrata.
Prendiamo ad esempio questo
pensiero, che si trova a pag.14-15 di Pass-wor(l)d –percorso formativo per gruppi di adulti, Editrice A.V.E., 2012, €
8,00, il sussidio che l’Azione
Cattolica ci propone per la vita associativa:
La virtù del discernimento è quella qualità che consente di distinguere
in ogni circostanza cosa convenga fare e, ancor prima, che si può e si deve
prendere una decisione senza restare sempre e solo spettatori della propria
vita. Perché questo discernimenti può essere anche comunitario? Perché l’intera
comunità di battezzati e chiamata alla corresponsabilità: ognuno porta la
propria esperienza, i propri talenti, la propria umanità costruita nei luoghi
di partecipazione e di vita, in famiglia, al lavoro a scuola, con uno sguardo
ampio e l’orizzonte dell’intera comunità. Non è una moda, non ha una logica di democrazia, che non ha posto nella Chiesa, ma
la necessità di mettere all’opera tutti i carismi del corpo della Chiesa.
Siamo veramente certi che, nel momento
in cui si richiedono ai laici azioni collettive di promozioni umane, fondate su un discernimento
comunitario, inteso come distinguere
in ogni circostanza cosa convenga fare, e questo viene considerato loro compito religioso, la democrazia,
nel senso in cui oggi la si intende, non
abbia posto nella Chiesa? Non dico,
ad esempio, per l’elezione di rappresentanti ad un concilio in cui si debba
decidere qualche corollario del dogma trinitario, ma, poniamo, per decidere che
posizione prendere, come comunità di fedeli, quindi collettivamente, nei
confronti di una guerra incipiente, le cui origini risalgano, come sempre
avviene, ad una complicata situazione politica e che, per poter essere sedata,
richiede non solo solenni dichiarazioni ieratiche, ma l’esercizio di una
sapienza e di un’abilità specificamente laicale,
basata su una conoscenza delle dinamiche storiche e una sapienza nel trattarle
che esorbita dal campo specificamente teologico e liturgico.
L’Azione Cattolica si
definisce palestra di democrazia,
quindi è retta con metodo democratico, ma naturalmente, pur essendo parte della
Chiesa, non parla a nome della Chiesa. Secondo l’ordinamento delle leggi della
Chiesa possono farlo solo il papa e i vescovi, individualmente o
collettivamente, nel sinodo o nel concilio. Essi tuttavia, sempre più spesso, e
anche nella redazione di importanti documenti del magistero, chiedono la
collaborazione di laici sapienti e tengono conto di ciò che si agita nel corpo
ecclesiale, quindi della storia del loro tempo e delle reazioni che essa
suscita tra i fedeli. C’è quindi un dialogo tra i capi e le loro comunità. Ma
queste ultime, come corpi collettivi, possono esprimere una decisione unitaria veramente
affidabile solo con metodo democratico. E’ lo stesso metodo che è stato
utilizzato per formare e approvare i documenti del Concilio Vaticano 2°. Per ognuno di essi è riportato il numero di
voti favorevoli e contrari che ha riportato ed è stato approvato il testo
votato dalla maggioranza degli aventi diritto ad esprimersi. Questo anche se
poi i documenti del Concilio Vaticano 2° sono
entrati in vigore in quanto promulgati (approvati,
decretati, stabiliti) dal Papa.
Pongo una questione sulla
quale discutere, non do soluzioni.
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Il conflitto come
esperienza religiosa
(19 novembre 2012)
Anni fa uscì un film
dal titolo Saving private Ryan – Salvate
il soldato Ryan. In esso si racconta di una pattuglia di soldati
statunitensi che, scelta tra i militari sbarcati in Normandia nell’invasione
degli eserciti Alleati del giugno 1944,
ha avuto la missione di rintracciare e riportare in patria un soldato semplice
americano che aveva diritto all’esonero, per essere l’ultimo ancora in vita di
quattro fratelli partiti militari per la guerra in Europa. All’inizio c’è una
sequenza che mette in scena lo sbarco su
una spiaggia della Normandia dei componenti di quella pattuglia. Di fronte alla
violenza estrema e alla morte tutt’intorno vengono presentati vari
atteggiamenti religiosi dei soldati americani. C’è che invoca la Madonna, chi
recita il Padre nostro e c’è un tiratore scelto che, nel prendere la mira
pronuncia le parole dell’inizio del salmo 144:
Benedetto il Signore,
mia roccia,
che addestra le mie
mani alla guerra,
le mie dita alla
battaglia,
e poi, pam!, spara e colpisce il nemico.
Nel
vedere questa scena, le parole del salmo in bocca a una combattente che sta per
uccidere mi hanno colpito, eppure indubbiamente erano appropriate alla
situazione.
La nostra Chiesa nel
corso della storia è rimasta molto
spesso coinvolta direttamente o indirettamente in eventi bellici. Ricordo, tra
i molti episodi storici, la sanguinosissima guerra combattuta da una
federazione di stati cristiani, coalizzati sotto le insegne pontificie (era
Papa Paolo 5°), contro l’impero Ottomano, nel Cinquecento e culminata con la battaglia navale davanti a Lepanto (1571 – Lepanto si trova nella
Grecia occidentale). In genere non vi ha trovato difficoltà, almeno
fino agli anni della Prima Guerra Mondiale (1914-1918).
Si ricorda in merito
la Lettera del Santo Padre Benedetto 15°
ai capi dei popoli belligeranti (1917)
Chi ha
seguito l'opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude, ha
potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta
imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall'esortare e popoli e
Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso
pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento.
[…]
In
sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire
politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti
belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre
comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la
Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione,
alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in
mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali, come le
circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più
concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi
sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace
giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e
completarli.
E
primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza
materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di
tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e
garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento
dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi,
l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e
norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o
di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la
decisione.
Stabilito
così l'impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei
popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe
molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di
progresso.
[…]
Quanto
ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale
di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficai
immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di
tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche
caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed
equità.
Sono
queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei
popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti
e preparano la soluzione della questione economica, così importante per
l'avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel
presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei
popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle
accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta
tremenda, la quale, ogni giorno più,
apparisce inutile strage.
Un episodio
significativo del cambiamento di mentalità si ebbe quando il papa Paolo 6°
incaricò l’internunzio apostolico
mons.Francesco Lardone di restituire al governo della Turchia, in persona del
ministro degli esteri, lo stendardo dell’ammiraglio Muezzinzad Alì Pascià catturato
agli ottomani durante quella battaglia che era conservato in Vaticano, consegna
che fu eseguita il 5-3-1965 ad Ankara – Turchia. Ecco come il Papa, il 19-1-
1967, descrisse le intenzioni di quel gesto in una lettera al nuovo
ambasciatore della Turchia presso la Santa Sede:
Sotto il
pontificato del Nostro predecessore Giovanni XXIII, avevamo appreso con viva
soddisfazione che si stabilivano le relazioni diplomatiche tra la Sede
Apostolica e il Suo Paese, e questo aveva incontrato la Nostra piena approvazione.
Tali relazioni sembra a Noi che fino ad oggi si siano sviluppate in
un’atmosfera di reciproca comprensione e di amicizia; e non possiamo che
congratularcene, mentre ne è una nuova conferma la recente elevazione del
Delegato, poi Internunzio in Turchia, al rango di Pro-Nunzio Apostolico.
Poiché
Noi stessi desideravamo manifestare in qualche modo i Nostri sentimenti, con un
gesto che potesse essere gradito alle Autorità della Turchia contemporanea, è
stata per Noi una gioia restituire un antico stendardo, preso al tempo della
battaglia di Lepanto, che, da allora, si conservava nelle collezioni del
Vaticano.
Questo
Le dice, Signor Ambasciatore, quali siano le disposizioni che Ci animano nei
riguardi della Sua grande e bella Nazione. Crediamo di poterle garantire che i
membri della Chiesa Cattolica, che abitano sul Suo territorio, professano la
fedeltà più sincera alle Autorità del Paese. Se la Chiesa si preoccupa che i
Poteri civili riconoscano sempre ai suoi figli i loro diritti e ne assicurino
la piena libertà di azione, Essa non intende certamente sminuirne gli obblighi
di cittadini e di sudditi. Anzi, la fede ch’essi professano impone loro il
dovere di non essere secondi a nessuno in tutto ciò che riguarda l’attaccamento
alla Patria, e il giusto rispetto, dovuto alle legittime Autorità.
Nelle epoche che hanno preceduto la Prima
guerra mondiale, i conflitti bellici venivano considerati facenti parte della
natura dell’umanità, in quanto degradata dal peccato e bisognosa di redenzione,
cose inevitabili come la morte stessa e destinate ad essere superate alla fine
dei tempi. Ancora nell’Ottocento il papato impegnò propri eserciti in guerre
italiane (Prima guerra d’Indipendenza – 1848/1849; difesa di Roma nel 1848 e
nel 1870). Successivamente si orientò per una posizione di neutralità, almeno
fino al 1944 (Radiomessaggio natalizio di Pio 12°). Nel corso della
contrapposizione tra blocco delle potenze influenzate dagli Stati Uniti
d’America e il blocco influenzato dai sovietici parteggiò per il primo. Nel
1968 il cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, si dimise dopo le
polemiche causate da una sua presa di posizione contro il bombardamenti
statunitensi in Vietnam (fonte: Lorenzo Bedeschi, Il cardinale destituito, Gribaudi, 1968 – titolo non più in
commercio). Dopo la fine dell’Unione Sovietica e della contrapposizione per
blocchi, il papato è diventato una potenza di pace, anche se non del tutto
pacifica, in quanto, con Giovanni Paolo 2°, è giunto ad invocare interventi
militari umanitari, come durante la
crisi tra la Serbia e il Kossovo secessionista (1996-1998).
Le dinamiche conflittuali sono ancora un grave
problema irrisolto nella nostra confessione religiosa. Conflitti ci sono sempre
stati, fin dalle origini, nella Chiesa e intorno alla Chiesa. In genere,
storicamente, i cristiani e anche la Chiesa, intesa come papi e vescovi, vi hanno partecipato, senza confidare di
poterli prevenire. E’ molto recente l’idea di poter riuscire a farlo. Essa risale
alla fine della Seconda Guerra mondiale. Per riuscirci si confida negli
ordinamenti democratici, in cui i popoli hanno più voce. Il paradosso è questo: il magistero confida nella
democrazia come fonte di relazioni pacifiche, evidentemente ritenendo che i
popoli, liberi da despoti, si orientino per la pace, ma nella sua
organizzazione diffida profondamente della democrazia, perché in fondo ritiene
che i supremi principi non siano in buone mani se lasciate a quelle dei popoli.
L’insegnamento attuale del magistero, che in questo non è cambiato da quello
più antico, è che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa.
All’interno della nostra Chiesa le dinamiche conflittuali, talvolta assai
aspre, in genere vengono negate; la via principale per risolverle è il cercare
il favore dell’autorità sovraordinata.
Nel momento in cui si confida nella democrazia
per promuovere la pace nel mondo bisogna però prendere coscienza che il metodo
democratico non nasconde, ma porta alla luce i conflitti e le loro ragioni. Nel
dialogo ragionevole tra fautori di opposte fazioni si cerca innanzi tutto di
far emergere ciò che unisce e, facendo forza su di questo e, in particolare,
sul rispetto della dignità degli avversari, si cerca poi di giungere a
decisioni condivise. Quando ciò non è possibile, la regola è che decida per
tutti la maggioranza. I soccombenti si impegnano ad accettare tale decisione
perché non sono mai in questione i principi fondamentali della convivenza
civile, quelli che sono sottratti agli arbitri delle maggioranze. Si tratta di
ciò che rientra nei diritti umani fondamentali. Questo metodo richiede che nel
conflitto si abbia comunque un’etica, delle regole morali. Questo accade anche
nell’esperienza religiosa del conflitto, anche se ai tempi nostri se ne ha meno
coscienza. Oggi ad esempio può essere difficile accostare l’esperienza umana di
un personaggio storico come santa Giovanna d’Arco, una santa combattente.
Eppure in religione potremmo essere facilitati per il fatto che nella Bibbia,
in particolare nell’Antico Testamento, ci sono moltissime storie di guerre,
vissute in un orizzonte etico.
Dall’esperienza storica, anche recente, come
quella dei gruppi resistenziali cattolici combattenti tra il ’43 e il ’45, può
trarsi l’insegnamento che il vero pacifico non è quello che elude o nega i conflitti
che ci sono, o si limita a subirli passivamene, ma che invece vi partecipa con
spirito religioso. Questa azione può essere vista, sull’esempio dell’esperienza
democratica, come finalizzata alla promozione umana, al miglioramento degli
assetti sociali. In questo essa può avere una valenza religiosa. L’ispirazione
etica può portare al rifiuto di certe tecniche convenzionali di conflitto e, ad
esempio, all’impiego delle tecniche non violente che per la prima volta sono
state esposte da Ghandi.
Comunque, se nel perseguimento della pace le
masse devono avere un ruolo, e oggi la dottrina sociale della Chiesa ritiene
che debbano averlo, l’obiettivo a cui si mira richiede l’impiego del metodo
democratico. Ritenendo diversamente le masse possono trasformarsi rapidamente
anche in quelle bestie spaventose di cui scrissero gli antichi, quindi in folle
violente e sanguinarie che frequentemente hanno dato nella storia il peggio di
sé.
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Una riunione “politica”
(23-11-12)
Per ragioni di
lavoro non ho potuto partecipare alla riunione del gruppo dello scorso 20
novembre. Mi è stato riferito che è stata molto interessante. Ci si è
confrontati sul temi politici, in vista delle prossime elezioni per il rinnovo
del Parlamento, in particolare
sull’ideologia comunista e sul suo carattere ateo, sul confronto tra i
programmi di Obama e Romney alle passate elezioni presidenziali statunitensi e
tra i programmi proposti dalla destra e dalla sinistra politica, qui in Italia,
alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento.
La politica entra in
chiesa? Certo che deve entrarci, perché, specialmente dopo le decisioni assunte
nel Concilio Vaticano 2°, all’impegno nella società civile, e quindi pure a
quello politico, viene riconosciuta una valenza anche religiosa. Religione e
politica, fede e ideologia civile, non sono mondi che non si toccano mai, per
cui una persona possa passare con disinvoltura dall’uno all’altro e viceversa
semplicemente cambiandosi d’abito ed assumendo in ciascun ambiente un contegno
diverso, come quando, usciti dall’ufficio, si va allo stadio e si fa il tifoso.
I nostri capi religiosi ci hanno inoltre avvertito: non dobbiamo confidare di
poter avere da loro la soluzione di tutti i problemi della nostra civiltà:
Se l'ufficio della gerarchia è quello
di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in
questo campo, spetta a loro [ai laici], attraverso
la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive,
penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di vita.
[dall’enciclica
Populorum progressio – 1967 – del
papa Paolo 6°].
Ragionare sulla società è un compito
necessariamente collettivo. Nessuno, da solo, senza compagni, può pretendere di
avere una visione completa dei problemi, specialmente in società complesse e
molto popolate, composte globalmente di sette miliardi di individui le cui vite
sono sempre più strettamente connesse (così argomentava la filosofa Hanna
Arendt). Quando ci si confronta sulla politica con spirito di dialogo, quello
che consente di prendere in esame le ragioni di tutti, occorre poi farlo con
metodo democratico, quindi innanzi tutto rispettando la pari dignità di
ciascuno. Questo non toglie che chi ne sa di più, per cultura ed esperienza,
potrà dare un contributo maggiore al dibattito, ma solo se renderà quello che
dice accessibile anche a chi ne sa di meno, non pretendendo quindi di essere
obbedito in virtù di un’autorità riconosciuta a priori alla stregua di un
titolo nobiliare. Certe volte anche i sapienti si ingannano e le virtù dei
semplici illuminano dotti sofismi.
In ambito religioso e in particolar modo tra i
cattolici c’è il problema di che ruolo riconoscere in questo ai preti. Sarebbe
strano escluderli da questi temi, proprio loro che hanno tanti tesori di
sapienza e di etica da comunicare. Essi hanno quindi facoltà di parola, ma con
pari dignità con gli altri laici che partecipano al dibattito. Questo deve
essere molto chiaro. Come laici dobbiamo resistere alla tentazione di seguirli
per spirito di obbedienza religiosa, anche se, erroneamente, ci venisse d
richiesto di farlo. Ragionando diversamente si costruirebbe un partito dei preti, in cui chi ubbidisce
eluderebbe in fondo le proprie
responsabilità storiche di cittadino. Sappiamo poi che la nostra Chiesa rifiuta
di essere organizzata democraticamente: un partito
della Chiesa introdurrebbe una forza non democratica nel governo della
nazione. Il mantenimento di una organizzazione democratica della società è invece
una delle principali responsabilità dei cittadini, la base della pacifica
coesistenza civile.
Sappiamo del resto che l’organizzazione del
clero storicamente non sempre ha espresso decisioni illuminate in materia
politica, essendo stata spesso bloccata dal timore di rompere con i potenti di
turno e di subire persecuzioni contro il suo personale o espropriazioni o
danneggiamenti di suoi beni (che in Italia costituiscono un patrimonio
imponente). In generale si è attestata, specialmente dall’Ottocento in poi su
posizioni attendiste, a volte opportuniste, se non francamente reazionarie,
timorose del nuovo. Nel Novecento hanno fatto eccezione i papi da Giovanni 23°
in poi. In Italia dobbiamo sempre avere ben presente l’esempio storico della Conciliazione con il Regno d’Italia, stipulata dai capi della nostra Chiesa nel
1929 con il dittatore Mussolini. Molti laici illuminati del tempo l’avevano
vivamente sconsigliata e poi se se sono vergognati. Con il senno del poi la
possiamo considerare una pagina veramente controversa nella storia della nostra
Chiesa. Quei Patti hanno pesato, e
molto, sui destini della cattolicità italiana, e non in senso positivo. Vennero
superati solo nel 1984. Prima di allora, in forza del Concordato lateranense,
le cui disposizioni vennero quasi interamente sostituite con l’accordo del
1984, vescovi, preti e religiosi non avrebbero potuto intromettersi in alcun
modo in politica. Quel Concordato venne a contrastare con la Costituzione
italiana entrata in vigore nel 1948 che non consentiva una discriminazione dei
cittadini su base religiosa. Tuttavia, per espressa disposizione
costituzionale, i rapporti tra la Repubblica italiana e la Chiesa continuarono,
fino al 1984, ad essere regolati dai patti del 1929, pur se certe norme
limitative caddero progressivamente in desuetudine. Con il protocollo
addizionale all’accordo del 1984 di revisione del Concordato lateranense la
Santa Sede e la Repubblica italiana si diedero reciprocamente atto di non
considerare più in vigore il
principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione
cattolica come sola religione dello Stato italiano. [art.1 del protocollo
addizionale]. Si pose in tal modo
rimedio a una decisione che non era più accettabile neppure nel 1929 e che
nondimeno era stata condivisa in sede di stipula degli accordi del 1929, i
quali, fra l’altro, istituirono a Roma la Città del Vaticano, strutturata come
un vero stato, con un piccolo esercito, giudici propri e, oggi, anche un solo
suo prigioniero, come sappiamo dalle cronache.
Ai tempi nostri la
Chiesa cattolica italiana, intesa in senso stretto come organizzazione
strutturata per l’esercizio di attività religiose, ha suoi specifici interessi
politici che riguardano le a) erogazioni che riceve dalla Repubblica Italiana,
le quali ammontano ogni anno ad oltre un miliardo di euro, alle quali si
aggiungono altre elargizioni che sotto varia forma le pervengono per altre vie
da organizzazioni statali o da altri enti pubblici (in particolare per la
conservazione dell’imponente patrimonio architettonico ed artistico di sua
proprietà), b) il regime fiscale delle sue attività, c)le erogazioni che le
pervengono per attività sanitarie svolte da strutture religiose in convenzione
con il Servizio Sanitario Regionale e c) gli aiuti che intenderebbe ottenere
per le attività nel settore dell’istruzione privata svolta da enti religiosi.
In questo campo, come è agevole intendere in base ai principi generali, non vi
è per il fedele che in quanto cittadino italiano abbia la possibilità di influire
sulla politica l’obbligo religioso di
aderire a tutte le pretese dell’organizzazione del clero. Si tratta di valutare
priorità che richiedono di considerare realisticamente tutte le attività svolte
dallo Stato e dagli enti pubblici che funzionano su base di partecipazione
democratica in relazione alle risorse disponibili e alle esigenze comuni,
innanzi tutto di chi sta peggio. Noi fedeli cattolici non siamo, in questo, una
sorta di sindacato cattolico o
addirittura una lobby (vale a dire un
gruppo di pressione politica) in difesa di quegli interessi particolari. Questo
rileva in particolare in un’epoca, come quella che stiamo vivendo,
caratterizzata da una progressiva diminuzione delle risorse destinate ai
servizi pubblici.
La Chiesa cattolica
italiana, intesa come i suoi capi, i vescovi italiani, ha anche una piattaforma
di richieste specificamente politiche in alcuni settori dell’organizzazione
della società civile. Esse, in particolare riguardano: a) la disciplina legale
dell’aborto volontario, che si vorrebbe abolire; b) la disciplina legale del
divorzio, che si vorrebbe abolire o rendere meno facile da ottenere; c) la
disciplina legale della procreazione assistita, quindi della fecondazione al di
fuori dell’utero nei casi in cui la coppia di aspiranti genitori abbia
difficoltà a generare, con il correlato problema della sorte da dare agli
embrioni generati in soprannumero, disciplina che si vorrebbe molto
restrittiva; c) la disciplina legale delle famiglie composte da persone
omosessuali, che si vuole impedire; c)la
disciplina legale dell’interruzione di terapie non più utili e della
respirazione artificiale e dell’alimentazione e idratazione artificiale nel
caso di persone in coma irreversibile o che, sebbene non in quella condizione,
si trovino in gravi condizioni di menomazione fisica e chiedano la sospensione
di quegli ausili per porre fine a sofferenze non più necessarie a fini
terapeutici, per morire con dignità, secondo natura, disciplina che si vorrebbe
molto restrittiva. Su questi temi la posizione dei capi cattolici è fortemente
minoritaria nella popolazione italiana. Le materie del divorzio e dell’aborto
sono state già, nel 1974 per il divorzio e nel 1981 per l’aborto, sottoposte a
referendum abrogativi e le leggi che le contemplavano sono state mantenute in
vigore dalla volontà popolare. Da allora molti indici sociali denotano che il
consenso popolare a quegli istituti si è fatto ancora più forte. E’ esperienza
comune di coppie di fedeli cattolici che divorziano (anche se nel caso di matrimonio
religioso si parla di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, perché le leggi religiose considerano ancora
indissolubile il vincolo religioso tra i coniugi), tanto che anche il recente
Sinodo mondiale dei vescovi (ottobre 2012) ne ha trattato, auspicando
un’apertura verso le persone che dal punto di vista religioso vivono in una
condizione irregolare a seguito di divorzi. Nella mia esperienza è piuttosto
comune anche il ricorso all’aborto volontario in strutture pubbliche da parte
di donne cattoliche. Lo possono confermare i sacerdoti che, abilitati a
rimuovere la scomunica che consegue di diritto alle pratiche abortive, operano
nei grandi santuari religiosi italiani. Sulle leggi riguardanti il divorzio e
l’aborto la Democrazia Cristiana, il grande partito dei cattolici italiani
cessato come esperienza unitaria agli inizi degli anni ’90, anche se si ritiene
che giuridicamente sopravviva ancora per questioni procedurali relative alla
sua trasformazione nel 1994 in Partito Popolare, si trovò in minoranza in
Parlamento già in epoche in cui il consenso alle tesi dei vescovi era maggiore.
Comunque, su tutte quella piattaforma politica dei nostri capi religiosi, i
cattolici, pur in minoranza, nella nuova realtà bipolare prodottasi dal 1994,
con una forte de-ideologizzazione di tutte le formazioni politiche, sono
riusciti spesso ad influire nel senso desiderato dai vescovi, con alleanze
informali al di là degli schieramenti politici di appartenenza. I risultati
qualche volta non possono essere considerati pienamente soddisfacenti. La legge
sulla procreazione assistita è incorsa in censure di incostituzionalità ed è
dubbia la sua conformità alla Convenzione di Strasburgo sui diritti umani e
allo stesso diritto dell’Unione Europea. Il ritardo nella regolazione
legislativa del fenomeno dei nuovi tipi di famiglia, che si sono affiancati a
quella naturale fondata sul
matrimonio tra uomo e donna, ha impedito di dare stabilità e certezza a
rapporti non illeciti che già ci sono nella società e non ha risposto a una domanda
di normazione che espressamente viene dalle persone coinvolte. Anche la nuova
disciplina sul cosiddetto accanimento
terapeutico, che sta per essere varata, ha sollevato molte critiche, anche
in ambito cattolico.
Bisogna considerare,
in merito alla piattaforma politica,
di cui ho detto, che tutte le attuali principali formazioni politiche sono
altamente laicizzate, nel senso di scarsamente connotate dal punto di vista
religioso, tranne piccole formazioni che ancora si richiamano all’esperienza
democristiana e alla dottrina sociale della Chiesa. La vera differenza tra
destra e sinistra è che a destra si ammette la libertà di opinione tra i
parlamentari, mentre a sinistra si tende
a imporre ai parlamentari scelte che non vanno nel senso desiderato dai nostri
capi religiosi. Questa è stata la causa
di alcune defezioni di parlamentari cattolici dalla sinistra. Quelle
materie, tuttavia, non sono al centro del dibattito politico di oggi.
Nessun partito politico di un qualche rilievo si propone di realizzare
integralmente questo programma politico
dei nostri vescovi, perché in Italia, su quelle idee, non c’è consenso maggioritario e, anzi, su alcuni temi il consenso si
va riducendo sempre più. Talvolta vi si fa riferimento in politica, ma
spesso ciò appare strumentale ad ottenere un appoggio politico
dall’organizzazione religiosa, senza una vera condivisione dei moventi ideali.
In passato ci sono stati effettvivamente indizi di tentativi di uno scambio
politico su singole e limitate questioni,
su questa o quella proposta di legge, nel senso di promettere un certo orientamento parlamentare su questa o quella
proposta di legge a fronte di un consenso politico della Chiesa verso certe
formazioni. Per quanto mi riguarda, penso che non vada comunque mai perso di vista
il contesto generale; occorre sempre considerare, tenendo conto della
situazione reale della nazione, che cosa si vada a produrre con alleanze
contingenti di quel tipo, posto che, come ho detto, la piattaforma politica dei
vescovi riguarda aspetti marginali della politica di oggi. Bisogna chiedersi
che cosa si produrrà per quanto riguarda gli altri aspetti politici, che, ad
esempio, riguardano anche gli impegni bellici della nazione, l’equità fiscale e
i servizi pubblici che consentano ai meno ricchi una vita dignitosa. Sarebbe
accettabile, ad esempio, barattare un’azione di interdizione parlamentare su
singole proposte di legge con un impoverimento delle classi svantaggiate, alle
quali tradizionalmente la destra politica è meno sensibile (consideriamo in
merito le questioni e prese di posizioni emerse nel confronto politico negli
Stati Uniti tra Romney e Obama)?
Per quanto riguarda
la tematica del comunismo ateo,
osservo innanzi tutto che parlare genericamente di comunismo non rende bene l’idea di ciò a cui ci si vuole riferire. Storicamente infatti vi
sono stati molti comunismi e non
tutti sono stati atei, in particolare
quelli che regolano la vita di alcune società primitive. L’idea di mettere in
comune i beni in attesa della manifestazione del soprannaturale in cui si
confidava era presente anche in alcune della comunità cristiane delle origini;
se ne parla negli Atti degli apostoli.
Tuttavia, nonostante che qualcuno definisca comunistico
quel modo di organizzazione di gruppo, non si può parlare a quel proposito
di comunismo, perché era assente in
quella esperienza l’idea di instaurare un nuovo ordine di tutta la società.
I comunismi di
impronta marxista, dei quali di solito si vuole parlare quando si parla di comunismo ateo, furono in genere effettivamente
antireligiosi in quanto anticlericali. Essi consideravano infatti la religione,
quindi la fede nel soprannaturale organizzata in una collettività strutturata,
come un imbroglio organizzato dai preti ai danni dei ceti più poveri, per
mantenerli sottomessi a gruppi di
privilegiati con i quali il clero era in combutta, sopendo su basi fideistiche ogni conato di rivolta.
Noi, con spirito religioso, sappiamo naturalmente che la fede non è un inganno,
ma certamente nella storia vi sono state epoche in cui il clero ha appoggiato i
dominatori delle società contro masse sottomesse ad ordinamenti ingiusti.
L’affermazione della democrazia, in particolare, è avvenuta anche contro la Chiesa cattolica, ricordiamolo
bene, la quale solo nel 1944 ha
accettato il regime democratico come quello preferibile.
Fu fortemente
antireligiosa l’ideologia sovietica, tanto da propagandare l’ateismo tra le
popolazioni dominate. Ma non tutti i comunismi furono allo stesso modo
antireligiosi e anticlericali.
In particolare il
comunismo italiano si è caratterizzato per un significativo apporto dei
cattolici (si veda ad esempio la figura di Franco Rodano), specialmente dopo la
Seconda guerra mondiale. Nel 1946 con una modifica dell’art.2 dello statuto del
Partito comunista italiano venne consentita l’adesione al partito anche a
coloro che non professavano l’ideologia marxista leninista, ma condividevano il
programma del partito. Ciononostante anche la sola iscrizione al quel partito o
il sostenerlo vennero ufficialmente
dichiarati peccato mortale, passibile anche di scomunica come forma di
apostasia, con un provvedimento del 1949 del Sant’Uffizio (una congregazione della Curia Vaticana che oggi ha
diversa denominazione). Nel 1976 il segretario del Partito Comunista Italiano
dichiarò di accettare l’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica (che
all’epoca si contrapponeva al sovietico Patto di Varsavia) e nel 1977, durante
la celebrazione a Mosca del sessantesimo anniversario della Rivoluzione
d’Ottobre, esplicitò al cospetto dei massimi leader comunisti del mondo la peculiarità del
comunismo italiano e la presa di distanza dall’esperienza sovietica. Nel 1979,
durante il 15° Congresso, venne modificato l’art.5 dello statuto del Partito
comunista italiano che faceva obbligo agli iscritti di conoscere e praticare
l’ideologia marxista leninista. Da questo momento può considerarsi venuta
definitivamente meno la pregiudiziale antireligiosa di quel partito, anche se
permaneva indubbiamente una sospettosità anticlericale determinata essenzialmente
dagli schieramenti politici dei vertici della Chiesa cattolica, in sede
nazionale e internazionale, e, in parte, anche dall’idea che in genere i preti tendessero a stare con i padroni e promuovessero una pacificazione sociale
intesa come sottomissione ad un ordine sociale ingiusto. Nel corso della
presidenza Gorbaciov dell’Unione Sovietica, dopo la crisi dei regimi europei
vassalli dei sovietici (a partire dal 1989) e con la fine dell’Unione sovietica
(1991), il Partito comunista italiano ha subito profonde metamorfosi, espresse
anche nel cambiamento della denominazione e del simbolo, nell’accettazione
della democrazia interna, nel ripudio del monolitismo, tanto che andò incontro
a diverse scissioni, e, infine, alla fusione con formazioni di diversa
ispirazione e tradizione. Oggi nessuno dei gruppi che sono derivati dal quel
processo di metamorfosi, frazionamento e fusione, benché alcuni di essi
mantengano la denominazione comunista, si rifà alle ideologie antireligiose e
anticlericali di matrice sovietica. Tutti, in particolare, hanno pienamente accettato l’ideologia
democratica contemporanea. Possiamo quindi concludere che oggi il comunismo ateo non è tra le proposte
politiche in lizza per le prossime elezioni. Mette conto di farne ancora menzione
in un dibattito sull’attualità politica?
Questa evoluzione del
comunismo italiano comincia a non essere più nota nemmeno agli italiani.
Possiamo pretendere che ne abbiano consapevolezza, ad esempio, gli immigrati
che giungono da noi da ogni parte del mondo? C’è in questo un compito da
svolgere, per chiarire bene le cose, in vista di un maggiore reale loro
coinvolgimento nelle questioni italiane, che possa preludere anche
all’acquisizione della cittadinanza. Ad esempio, per un ucraino parlare di partito comunista può suonare veramente
minaccioso, perché il suo modello di riferimento è il PCUS (Partito comunista dell’Unione sovietica
di un tempo).
Posto quindi che
a)non sarebbe degno della nostra comune cittadinanza politica determinarsi, nel
voto prossimo, sulla base di direttive od ordini precisi ricevuti dal clero e
non veramente condivisi, b) che la piattaforma politica dei nostri capi religiosi
è tutto sommato marginale e non
ha nessuna possibilità di essere attuata nelle attuali dinamiche democratiche,
potendosi al massimo esercitare un’influenza per attenuare certi estremismi e
che c) il comunismo ateo non c’entra nulla con la politica di oggi,
quali sono i temi centrali della prossima campagna elettorale?
A mio parere sono
due: rendere più coerente la struttura istituzionale della Repubblica,
correggendo certi eccessi di autonomia locale che sono derivati dalle politiche
del cosiddetto federalismo e in
particolare, ristrutturando il sistema e i poteri degli enti pubblici minori
che governano porzioni locali del territorio nazionale e consentendo al governo
nazionale di intervenire con maggiori poteri nel sistema delle autonomie
locali; contrastare la criminalità organizzata che sembra essere riuscita ad
infiltrare la politica, venendo a costituire una minaccia per l’ordinamento
democratico della nazione; individuare interventi per rivitalizzare l’economia
nazionale e, al tempo stesso, per mantenere un accettabile livello di servizi,
in particolare nel sistema sanitario e in quello scolastico, pur continuando a
seguire la linea di contenimento della spesa pubblica e di riduzione del debito
pubblico convenuta in sede di Unione europea. La crisi della finanza pubblica,
correlata a quella dell’economia nazionale, lascia meno spazi di azione. Per
questo i programmi delle varie formazioni in lizza non divergono molto e la
competizione tra di loro si fa su giornali, televisione e internet
essenzialmente sulla base della personalità dei candidati. Tuttavia differenze
ci sono, quanto ai risultati sperati. Bisogna solo avere la pazienza di
ragionare sui dati. Perché, ad esempio, tutti si propongono di ridurre “le
tasse”, ed è chiaro che di questo beneficerebbero i più ricchi che hanno
aliquote più alte e redditi maggiori, ma se poi le tasse fossero ridotte veramente
di molto mancherebbero le risorse per assicurare i servizi pubblici universali,
vale a dire che si vuole destinati a tutti, anche ai meno ricchi, sulla base di
certi livelli di prestazioni. Mi riferisco in particolare ai trasporti
pubblici, alla manutenzione delle strade, agli ospedali e alle scuole.
Concludo dicendo che
uno dei fondamentali esercizi di laicità
che la nostra associazione ci propone di fare è proprio quello di acquisire,
nel dialogo con gli altri, maggiore consapevolezza dei problemi della società
in cui viviamo, al di là delle solite parole
d’ordine e frasi fatte che non
accrescono di nulla la nostra conoscenza delle cose, tendendo a farci assumere
decisioni d’impeto invece che sulla base di mature e ragionevoli
considerazioni, in cui tener conto non solo del nostro particolare interesse, o
di quello della nostra Chiesa, ma anche di quello ti tutti gli altri.
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38
Noi e la storia. Chi siamo veramente?
(28 novembre 2012)
Su quale bilancia si
pesa la vita di un uomo? Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui
risultano il guadagno e la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso
ultimo? Di fronte alla natura non si può parlare di bilancia, perché tutto va
come deve andare secondo la sua legge intrinseca. Ma nell’uomo l’agire e
l’essere sono affidati alla libertà, e libertà significa che si può fare
qualcosa di giusto, ma anche di sbagliato, che si può preservare qualcosa ma
anche che qualcosa si può corrompere. Qual è dunque la bilancia, e quale
l’ordine?
[In: Romano Guardini,
La Rosa Bianca, Morcelliana, 1994, pagine
84, € 8. Commemorazione di Sophie e Hans
Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e prof. Dr Huber* – discorso pronunciato
a Tubinga il 4-11-1945]
*membri del gruppo di resistenti tedeschi La Rosa Bianca, giustiziati dal regime
nazista nel 1943.
Di solito quando si
pensa all’espressione scrutare i segni
dei tempi, che venne usata nella costituzione pastorale Gaudium et spes (n.4) del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si
pensa ai tempi correnti, a quelli che stiamo vivendo nell’oggi. Il grande
insegnamento del papa Giovanni Paolo 2° (regnante dal 1978 al 2005) fu di
considerareil dovere di fare memoria veritiera anche del passato, per
discernere anche in esso ciò che merita di essere preso ad esempio e quello che
invece deve essere lasciato alla storia come manifestazione non più attuale o
addirittura negativa: si tratta del lavoro che egli chiamò di purificazione della memoria.
In
un certo senso siamo abituati a farci narrare la nostra storia di collettività
religiosa dai nostri capi, ma questo non rientra nel compito che riteniamo
essere esclusivamente loro. Tutti siamo chiamati a ragionare sulla nostra
storia, in particolare noi laici che abbiamo il compito specifico di ordinare secondo Dio le realtà temporali,
vale a dire di costruire, in ciò che è umanamente possibile, un ambiente e una
società dove gli esseri umani possano essere felici, secondo le nostre
prospettive religiose.
Non si tratta
naturalmente di mettersi al posto di Dio e di anticipare presuntuosamente il
giudizio finale sull’umanità e sui singoli suoi membri, evento sul quale in
questo tempo liturgico di Avvento poniamo particolare attenzione. Poiché però
noi non siamo stati creati dal nulla e in un nulla, ma siamo nati una
determinata storia nella quale ci siamo progressivamente inseriti con un ruolo
sempre più attivo e dalla quale siamo stati anche determinati e condizionati,
innanzi tutto in ciò che si definisce la cultura del nostro popolo, il
complesso di concezioni, abitudini, schieramenti, modi di esprimersi e via
dicendo, è nostro dovere, anche
religioso, darne una valutazione, che ci riguarda da vicino, in quanto ha ad
oggetto una esperienza di cui siamo parte.
Nella coscienza
religiosa si è sempre saputo che intere società possono andare contro i valori religiosi: è questo anche
l’insegnamento biblico. Molto più recente è la consapevolezza di doversi
attivare religiosamente per combattere quelle che vengono definite strutture sociali di peccato. Questa
espressione si trova in particolare nel magistero degli anni ’80 del papa
Giovanni Paolo 2°. Certe organizzazioni della società, intese come istituzioni
o movimenti, favoriscono o inducono al peccato, cioè a violare doveri
religiosi. E’ un fenomeno che i cristiani hanno sperimentato fin dalle origini,
fin da quando le istituzioni dell’impero romano pretendevano da loro l’ossequio
religioso agli dei antichi. Ai tempi nostri abbiamo preso coscienza che lo schiavismo fu una struttura di peccato,
ma si è trattato di una evoluzione culturale piuttosto lunga e travagliata. E’
stata considerata una struttura di peccato quella dei movimenti che inducevano
alla lotta di classe, ma
parallelamente, e su base biblica, si è anche presa maggiore consapevolezza che
pure l’ingiustizia su base classista,
dunque quella di coloro contro i quali si dirigeva la lotta di classe, è una
struttura di peccato. Nel 2000, durante il Grande Giubileo che si celebrò
quest’anno, si assistette a una spettacolare evoluzione di questa concezione:
la Chiesa, guidata dal Papa, si impegnò a riflettere su ciò che nel proprio
impegno storico aveva costituito struttura di peccato, proponendosi di
distaccarsene.
Di solito, quando
riflettiamo sulla nostra esperienza religiosa, tendiamo a schierarci tra i buoni e poi partiamo con varie critiche,
più o meno veementi, che riguardano quelli che non la pensano o non fanno o non
sono come noi e facciamo loro la morale. Non sto a fare esempi, perché
sicuramente ciascuno li ha in mente.
Pensiamo di essere gente pacifica, ma in realtà l’Italia ha un corpo di
spedizione militare in Asia. Facciamo parte della parte più ricca dell’umanità
e siamo piuttosto preoccupati del processo globale di ridistribuzione di una
parte delle ricchezze del mondo che si sta producendo a favore di popoli che
solo recentemente sono usciti dal sottosviluppo. E se dovessimo fronteggiare
strutture sociali di peccato che furono quello che schiacciarono i resistenti
tedeschi del gruppo della Rosa Bianca,
come ci comporteremmo. Innanzi tutto: saremmo capaci di esprimere una
veritiera, coraggiosa ed efficace critica sociale?
Qualche volta, quando
si parla dell’impegno dei laici cattolici nel mondo, li si pensa un po’ come
dei piazzisti del sacro, dei
venditori porta a porta di religiosità, sulla base delle indicazioni espresse
dai capi della ditta, del loro catalogo. Si ha qualche difficoltà nel
vederli invece impegnati un una riflessione creativa che riguardi anche i
principi e i valori, sulla base del
lavoro di purificazione della memoria e di approfondimenti personali che facciano
reagire fede e vita. Questo accade all’interno della nostra Chiesa, ma anche
fuori di essa. Spesso la persona di fede viene vista come un soggetto
eterodiretto e incapace di autonomia di giudizio. Un credulone affascinato dal
sacro.
Riprendere in mano i
documenti del Concilio Vaticano 2° può far apparire la sproporzione tra gli
impegni che, già negli anni Sessanta, si ritenne di affidare al laicato e ciò
che poi si è fatto in questo campo. E tuttavia dobbiamo tener conto che un
lavoro religioso non è condizionato dalle forze concretamente disponibili
in campo o dal tempo che si ha a
disposizione per agire. Esso vive nella prospettiva degli ultimi tempi ed è
sempre svolto nella prospettiva dell’Avvento. Per quanto effettivamente la
nostra buona disposizione d’animo e i nostri sforzi concreti contino, e siano
manifestazione della nostra adesione interiore alla fede comune, il compimento
di tutto non dipenderà da noi e c’è tutto il tempo che occorre per fare quello
che si deve.
Anche il piccolo
gruppo dei resistenti della Rosa Bianca, che agiva anche in una prospettiva
religiosa, non fu paralizzato dal considerare la scarsità del numero dei propri
aderenti rispetto al mostro sociale contro il quale si dirigeva la loro critica
sociale. A maggio ragione non dobbiamo esserlo noi, del gruppo parrocchiale di
A.C. in San Clemente papa, che viviamo, tutto sommato, in tempi tanto meno
complicati e pericolosi. Forse dovremmo però riscoprire l’entusiasmo dei nostri
anni di gioventù, questo sì. E pregare che il nostro lavoro sia continuato
anche da gente più giovane, nel nostro stesso filone ideale. Anche il
sacrificio della Rosa Bianca fu
fecondo in questo senso.
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39
La parrhesia* evangelica
(29 novembre 2012)
*parrhesia:
vocabolo del greco antico. Significa franchezza, libertà nel parlare. Parlare
pubblicamente, apertamente, coraggiosamente
…in condizioni di
innegabili (ma non imprevedibili) necessità, piuttosto che tacere tutti,
occorre che qualcuno si assuma l’iniziativa –non per velleità di protagonismo,
ma con cuore umile e mosso solo da “parrhesia” evangelica- di professare
pubblicamente la legge evangelica dell’amore e del rispetto dovuto ad ogni uomo
“Parlerò delle tue testimonianze
davanti ai re
e non ne avrò vergogna” (Sa 119,46)
E poiché ciò avvenga occorre che –nelle forme
e con lo spirito dovuti, sempre di più nell’educazione interna e nella
formazione della Chiesa di Cristo di faccia spazio non solo ai singoli
episcopati, orientandoli a una coscienza eclesiale propria ma non nazionalista,
veramente “cattolica” ma che anche si dia respiro alle grandi componenti in cui
si articolano le Chiese locali, specialmente le loro associazioni qualificate
di laici: perché divenga sempre più vero quello che si dice, e cioè che ai laici
particolarmente spetta intervenire direttamente nella costruzione politica e
nella organizzazione della vita sociale, agendo di propria iniziativa e
cooperando con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la
propria responsabilità.
…occorre compiere una revisione rigorosa di
tutto il proprio patrimonio culturale e specialmente religioso, purificandolo
radicalmente da ogni infiltrazione emotiva e da ogni elemento spurio che non
attenga al nucleo essenziale della fede e che possa favorire anche solo in
maniera indiretta ritorni materialistici o idealistici capaci di alimentare
miti classisti, nazionalisti, razzisti ecc.
[Da
Non restare in silenzio mio Dio, di
Giuseppe Dossetti, introduzione scritta per il volume di L. Gherardi, Le Querce di Monte sole; ora in Giuseppe Dossetti – La parola e il silenzio
– Discorsi e scritti 1986-1995, Paoline Editoriale Libri, 2005, €22,00]
Su certi temi religiosi è inutile cercare istruzioni nei vari catechismi in
commercio. Si tratta infatti di materie sulle quali ancora si discute e si
sperimenta e non si è ancora trovata una posizione stabile, se non definitiva.
In particolare questo accade per quanto riguarda l’impegno religioso nei laici nella storia per influire
sulla costruzione degli ambienti umani e delle società.
Occorre riassumere brevemente alcuni punti che
ho trattato precedentemente:
-alle origini, diciamo nei primi
quattro secoli della nostra era, le Chiese cristiane
erano ben distinte dalle istituzioni civili, alle quali prestavano obbedienza in ciò che non contrastava
con doveri religiosi ma sentendosi come
stranieri (“ogni terra straniera è per
loro patria, e ogni patria è terra straniera”,
citazione dalla Lettera a Diogneto,
scritto anonimo che si fa risalire
alla fine del secondo secolo della nostra era);
-dal quarto secolo il cristianesimo
diviene l’ideologia unificante dei sistemi politici
delle nazioni dominate dalle istituzioni imperiali romane e poi, nell’Europa occidentale dei sistemi
politici succeduti al crollo delle istituzioni imperiali
romane; in questa nuova situazione si instaura una dialettica, fatta di accordi e scontri tra le autorità
religiose e quelle civili, in cui i popoli vengono
in rilievo essenzialmente quali sudditi di una specie di condominio in cui è molto importante stabilire chi comanda nelle varie questioni, a seconda
che abbiano rilievo esclusivamente o prevalentemente religioso o rilievo civile; oggi può sembrare
strano, ma, in queste dinamiche e concezioni,
la pace tra i popoli non è un
veramente un valore nella prassi politica,
compresa quella delle autorità religiose; non lo è neanche l’autodeterminazione dei popoli (le
concezioni democratiche contemporanee sono
molto lontane);
-Dal Cinquecento comincia ad affermarsi
l’idea che i sistemi sociali possano essere
mutati per corrispondere ad esigenze razionali. Si tratta dei movimenti ideali precursori delle
concezioni democratiche contemporanee. In
queste epoche i popoli cristiani sono dominati da monarchie ereditarie, che si sentono minacciate dalle nuove
idee. Il Papato solidarizza con le dinastie
monarchiche diventa una forza di
reazione. Questo atteggiamento si
inasprisce di fronte ai sommovimenti politici della fine del Settecento e poi nell’Ottocento. I movimenti democratici
vengono essenzialmente concepiti dai
Papi come fonte di disordine sociale e di disubbidienza anche alle autorità religiose. In Italia la
situazione è particolarmente grave perché l’unità
nazionale si costruisce anche contro il Papato, che domina Roma. Le ultime condanne papali della democrazia, sia
pure orientata in senso cristiano,
risalgono agli inizi del Novecento;
-la situazione muta molto con
l’esperienza delle due Guerre Mondiali del Novecento
(1914/1918; 1939/1945) e, in particolare, in nel confronto con i regimi totalitari fascisti e nazisti
(la Chiesa cattolica invece in quel periodo non
fece esperienza diretta del
totalitarismo sovietico, in quanto quest’ultimo dominava nazioni cristiane ortodosse); in quell’epoca
comincia a diventare centrale il
tema del perseguimento della pace
universale e perpetua non più solo
mediante accordi con i capi delle nazioni (che con i capi fascisti, nazisti non avevano funzionato e che non si era
neppure potuto iniziare a intavolare con
i capi sovietici), ma attraverso un’azione collettiva di masse illuminate;
-da quell’esperienza, dalla quale la
posizione morale del Papato esce gravemente
pregiudicata pur se la nuova Europa era andata strutturandosi anche in base si riallaccia a principi cristiani soprattutto per merito di movimenti laicali che, allontanandosi dall’atteggiamento prudenziale del Papato, avevano partecipato alla resistenza europea contro i fascismi e i
nazismi, scaturì un diverso
atteggiamento verso la democrazia, vista ad un
certo punto come una forza che poteva impedire il riaffacciarsi dei totalitarismi. Richiamo il celebre
Radiomessaggio Natalizio del 1944 del papa
Pio 12°:
“Il
problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più
importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla
guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima,
forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la
possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il
mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che
affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre
creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?”
-Bisognerà
però arrivare agli anni Sessanta, al Concilio Vaticano 2° (1962- 1965)
e all’enciclica Populorum
Progressio (1967) del papa Paolo 6°,
perché il Papato chieda ai popoli
cristiani una autonoma e originale iniziativa dei
laici cattolici per la realizzazione di
un ordine giusto e pacifico.
Siamo
arrivati ai tempi nostri, caratterizzati da discussioni e sperimentazioni sul
tema dei rapporti tra impegno religioso, promozione
umana, in particolare elevazione degli umili, e contrasto di strutture sociali di peccato, in esso compresa la liberazione degli oppressi. Il fine è di
pacificare la società costruendo ordini sociali fondati sulla giustizia (per il legame che biblicamente
si vuole vedere tra giustizia e pace).
Tuttavia si è vista che un’azione di pacificazione
di questo tipo può non essere del tutto o per nulla pacifica, richiedendo di combattere le forze che promuovono e
mantengono l’ingiustizia. In Italia questa è stata appunto l’esperienza storica
delle forze cattoliche che aderirono alla resistenza armata al fascismo e
all’occupante nazista, tra il ’43 e il ’45: si definivano ribelli per amore.
Il più
notevole tentativo di costruire un movimento di quel tipo, che si situasse tra
l’organizzazione ecclesiale in senso proprio e le organizzazioni della società
civile, non caratterizzate religiosamente, è stato quello delle varie teologie della liberazione, che
originarono negli anni Sessanta e vennero duramente contrastate e represse, in particolare
sotto il Papato di Giovanni Paolo 2°, per motivi prettamente teologici e per
motivi politici, in quanto le si sospettava di cedimento alle ideologie
marxiste e di assecondare i disegni sovietici nell’America latina.
Negli anni ’80 e ’90 abbiamo
assistito ad un forte attivismo politico internazionale, nel senso di cui
dicevo, da parte del papa Giovanni Paolo 2°. Esso lasciò poco spazio ad
autonome iniziative laicali. Si affermò in questo il modello di impegno laicale
della Polonia, molto legato al collegamento con i vescovi. In Italia, dopo la
fine dell’esperienza unitaria democristiana, poco spazio è stato lasciato ai
laici e sui temi specificamente politici con rilevanza religiosa ha inteso
esercitare un’azione di coordinamento la Conferenza Episcopale Italiana. Negli
ultimi due anni ha ripreso ad essere molto attiva anche la Segreteria di stato
Vaticana, qualche volta con iniziative che divergevano dalle concezioni della
Conferenza Episcopale Italiana. Insomma, il laicato italiano è continuato ad
essere quel brutto anatroccolo di cui
ha parlato Fulvio De Giorgio nel suo bel libro omonimo del 2008.
Un momento di particolare tensione
si ebbe al tempo del referendum abrogativo in merito ad alcune norme della
legge sulla procreazione assistita (2005), in cui la gerarchia cattolica aveva,
indirettamente naturalmente, consigliato l’astensione, per non far raggiungere
il numero minimo di votanti perché la consultazione fosse efficace e invece
diversi cattolici decisero di andare a votare, pur votando contro l’abrogazione
della legge (che era conforme alle concezioni dei vescovi). Volarono parole
grosse tra laici schierati su posizioni opposte. Chi era conosciuto come
cattolico e andava a votare veniva visto come in aperto dissenso con la
gerarchia. In quell’occasione si manifestò chiaro il problema aperto
dall’attivismo autonomo che si era iniziato a pretendere dai laici cattolici:
esso doveva necessariamente svolgersi con metodi democratici e quindi
rispettando la dignità morale e la libertà di coscienza di ciascuno. Questa
convinzione fa fatica ad affermarsi nella nostra Chiesa, dominata da una
gerarchia che rifiuta il metodo democratico nei compiti che sono suoi propri,
ma è costretta a tollerarlo nell’azione nella società, se vuole veramente
coinvolgere le masse nello sviluppo di una società ispirata a valori religiosi.
Le cose si sono complicate
ulteriormente per l’alta laicizzazione delle attuali formazioni politiche, per
cui l’adesione a un determinato orientamento religioso, ad esempio alla
dottrina sociale della Chiesa, non è più presentato come caratterizzante e da
tutti si fa professione di tolleranza e multiculturalismo. Ma sono più
complicati anche i problemi e i dilemmi davanti ai quali ci si trova. Vi è la
necessità di ragionare bene sulle cose e sugli effetti delle proprie decisioni,
in uno spirito che, in democrazia, non può tener conto solo degli interessi
della propria parte, fosse anche la
propria Chiesa, ma del bene di tutti i consociati. E allora certi sbrigativi
appelli a votare questo o quello, che sicuramente verranno anche in occasione
delle prossime elezioni politiche, come sono venuti nel passato, vengono
accolti spesso con fastidio, perché gli anni del dopo Concilio non sono stati
senza effetto e quindi non si tollera più umiliarsi nell’atteggiamento di
sudditi di un potere indiscutibile, fosse anche a base sacrale, ma ci si sente
impegnati a un atteggiamento responsabile che impone di capire e di convincersi
bene sui vari temi. L’autorità, nelle cose della politica e, in genere, della
costruzione delle società umane, la Città
dell’uomo di Lazzati, non va data per scontata, ma deve essere conquistata
giorno per giorno con buoni argomenti ed esempi edificanti.
L’Azione Cattolica si sente
particolarmente impegnata nell’azione di formazione delle coscienze necessaria
per svolgere responsabilmente la missione che ai laici compete nel mondo di
oggi.
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40
Eterno presente o apertura verso un futuro diverso?
(30 novembre 2012)
Da parte di Abramo
dunque … emerge una disponibilità all’accoglienza dei tre uomini, dei tre
stranieri che, inesplicabilmente, si trovano improvvisamente davanti a lui. La
tradizione mistica di Israele qualificherà questa disponibilità come bontà o carità
(“chesed”) ... li riceve: non come dei simili o degli uguali, ma come esseri
misteriosi … e di grande importanza. […] Il presente di Abramo …
improvvisamente è messo allerta da un mistero. Li riceve come se dei visitatori
fossero, per principio, sempre messaggeri dell’Eterno, esseri che bisogna
servire senza chiedersi se lo meritano. Messaggeri che per di più dovrebbero
essere serviti prima di Colui che li ha inviati. Il che sembra –in ogni caso
qui- il modo migliore per servirLo. [… ] Il presente … si trova liberato dalle
limitazioni insopportabili e mortali perché si mostra capace di essere toccato
dal mistero dell’altro, dalla sua presenza discreta e inafferrabile.
In questo racconto della Torà è questo mistero
che fa dell’altro un inviato dell’Eterno
–un angelo- e non è il fatto di aspettarsi dall’altro che risponda finalmente
al mio desiderio e sia lo strumento della mia soddisfazione che porta a vedervi
un angelo. [… ]
Ricevere un angelo –il soffio e le parole
dell’Eterno incarnati, fugacemente, qui e ora, in un uomo, in uno straniero – è
dunque prendere delle iniziative –
preparare da bere e da mangiare –senza cercare prima di familiarizzarsi con
l’identità dell’altro e ancor meno chiedersi come trarne profitto per sé ,,, è
considerare l’altro … irriducibile a ogni conoscenza che si pretenda di avere
di lui.
[…] Il racconto studiato qui mostra come,
grazie all’accoglienza di questo mistero, la chiusura nel presente si schiude e
come ciò che sembrava impossibile è annunciato come possibile, la novità,
l’avvenire, la nascita di un figlio […] Infatti solo l’alleanza della Parola e
della carne fa vedere a una persona ciò che, fino a quel momento, restava
invisibile, impercettibile o senza presenza di carne.
[In: Catherine Chalier, Angeli
e uomini, Giuntina, 2009, pag.53-55; commento al racconto biblico di Gen
18,1, l’apparizione ad Abramo di tre uomini alle querce di Mamré]
Uno dei pregi
maggiori che alcuni pensatori del passato hanno visto in alcuni tipi di
religiosità è l’apertura al futuro, all’inaspettato. Nel cristianesimo è l’aspetto della speranza che ha colpito particolarmente
anche fuori del nostro mondo.
In religione si
confida di essere liberati dalla morte e di essere salvati dalla pena eterna.
Quando accadrà questo? Nessuno lo sa, ci viene insegnato; è scritto. Nei
travagli dell’oggi siamo convinti però che qualcosa è cambiato, proprio nel
mondo in cui viviamo, con la nascita di Gesù, migliaia di anni fa. E che alla
fine dei tempi si avrà il compimento beato di tutto ciò che nella fede
religiosa crediamo, con il ritorno glorioso di Cristo. Nel frattempo siamo però
invitati a non rimanere inattivi. Bisogna rimanere vigili e pronti, come le
sentinelle nella notte (così sosteneva Dossetti). In particolare bisogna scrutare i segni dei tempi, come fanno
gli agricoltori nel loro mestiere, per capire quando è tempo di seminare e
quando di raccogliere. Ma c’è di più: abbiamo la possibilità di influire sul
corso dei tempi, su come vanno le cose nel mondo, e, in particolare noi laici,
siamo stati invitati a farlo dai padri del Concilio Vaticano 2° e i nostri capi
religiosi non cessano di ricordarcelo. Questa nostra attività sembra che non
abbrevierà di un secondo il tempo che manca alla fine di tutto, ma manifesta il
nostro assenso a ciò che religiosamente crediamo, è il nostro concreto amen.
A parole sembra tutto
facile, nella pratica molto meno. Chi decide che cosa si fa per cambiare il
mondo? Il Papa e i vescovi, i quali hanno formazione prevalentemente teologica
e ci chiedono aiuto in tutto il resto? Decidiamo a maggioranza? E se poi le
maggioranze, come è accaduto, si pervertono e, invece di tendere a ciò che
conta, pensano prevalentemente al proprio tornaconto? E se non andiamo
d’accordo su ciò che deve fare, come mantenere l’unità della nostra
collettività religiosa?
Come ho scritto, si tratta di temi sui quali soluzioni soddisfacenti
non sono state ancora trovate, a mio parere naturalmente.
Nella nostra parrocchia, ad esempio,
convivono stili di religiosità molto diversi, che in qualche campo sono
addirittura contrastanti. Alla fine allora si tende a stare con chi la pensa
come noi e si fanno molte chiacchiere, spesso malevole, sugli altri. Una
ricerca sul WEB ci convincerà facilmente che circolano in rete le accuse più
tremende contro gli avversari, e sono sotto accusa addirittura Papi e Concili
ecumenici.
Non è che al di fuori
della Chiesa le cose vadano meglio. Si parla in merito di estesa frammentazione sociale e di corporativismo. Ognuno pensa per se e, di scontro in scontro, si
arriva solo a provvisori compromessi.
Un esempio storico di
ciò a cui voglio riferirmi lo abbiamo nella Palestina contemporanea.
Proprio lì, in luoghi sacri a tre religioni, sembra rivivere l’esperienza
desolante della biblica Babele. E anche noi cattolici pretendiamo di dire la
nostra al massimo livello, concludiamo accordi, intavoliamo trattative. Ma con
che risultati, poi? La mia spiritualità è poco legata a quei posti, che mi
sembrano anche piuttosto inospitali come ambiente naturale, visti con gli occhi
di un italiano. L’unico luogo a cui sono legato emotivamente è il “mare” di
Galilea, che è tanto simile al lago dove vado in vacanza d’estate, quello di
Bolsena. Ma capisco che il mio è un
punto di vista particolare, limitato, e che ci sono buoni motivi religiosi per
occuparsi di quelle terre. Farlo pacificamente sembra però piuttosto difficile
e la storia ce lo ha confermato e lo conferma ancora.
Eppure l’attesa del
futuro, la vera speranza, può avere
in fondo solo natura religiosa.
Un primo atteggiamento
che vorrei provare a sperimentare è confrontarsi con gli altri senza
preventivamente calcolare i vantaggi
che ci verrebbero da un’alleanza con loro o, viceversa, gli svantaggi. E’
l’insegnamento che la Chalier ricava, sulla base della riflessione dei saggi
ebrei, dal racconto biblico dell’incontro misterioso di Abramo alle Querce di
Mamre. Quindi di cogliere negli altri ciò che supera l’utilità materiale che le
loro vite possono darci.
La religione ci dà la
capacità di uno sguardo soprannaturale che consente di cogliere ciò che prima
restava invisibile, impercettibile, e che quindi veniva trascurato. E’ così che
ho spiegato alle mie figlie la protezione che i cattolici vogliono fornire a
organismi umani che non hanno ancora o non hanno più la capacità di entrare in
relazione con noi nei consueti modi degli esseri umani. E questo a prescindere
da altre questioni più complicate come quelle che riguardano l’anima e via
dicendo. Ma anche nei riguardi dei morti, di quelli che dal punto di vista
scientifico non vivono più, che mi capita di incontrare spesso in certi miei
turni di lavoro, l’animo rimane incredulo di fronte alla realtà fisica della
fine, del disfacimento dei corpi, della cosificazione dell’essere umano,
disgregabile in pezzi minuti nelle pratiche autoptiche, e, potente, emerge
l’esigenza di aderire alla promessa di salvezza che in religione abbiamo
accettato e professato.
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41
Sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente e rilevanza
religiosa della democrazia
(1 dicembre 2012)
…l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto
stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove
cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa
prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba
accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di
Cristo, tuttavia, tale progresso, nella
misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, è di grande
importanza per il regno di Dio.
Ed infatti quei valori, quali la dignità dell’uomo, la comunione fraterna e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della
natura e della nostra operosità dopo che li avremo diffusi sulla terra
nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di
nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il
Cristo rimetterà al Padre “il regno eterno e universale: che è regno di verità
e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di
pace” [ dal Prefazio alla festa del Cristo Re]. Qui sulla terra il regno è già
presente, in mistero; ma non la venuta del Signore, giungerà a perfezione.
[ dalla costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n.39 Terra nuova e cielo nuovo, del Concilio Vaticano 2° -1962/1965]
Il tempo che ogni
martedì dedichiamo alla riflessione sui temi dell’Anno della Fede è troppo poco per un vero aggiornamento, se già
certe cose non le abbiamo conosciute e assimilate molto prima, nel corso della
nostra vita. Può al più dare spunti per ulteriori approfondimenti. Siamone
consapevoli: se vogliamo esercitare utilmente il diritto di parola che ci viene
riconosciuto su certi temi, dobbiamo fare uno sforzo per apprendere, innanzi
tutto leggendo i documenti che oggi generano i dibattiti più attuali. Potremmo
quasi dire che ci competono compiti a
casa. Ma non si tratta solo di questo. Poiché questa è azione religiosa ne dobbiamo fare materia di preghiera, perché ogni cosa sia vista,
pensata e agìta, come è scritto nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto, nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto.
Molti anni fa, quando facevo ancora le
medie, mio zio Achille, che era un importante sociologo italiano, piuttosto
seguito anche nel mondo cattolico, mi parlò della discesa della Gerusalemme celeste (Ap 21), nuovo cielo e nuova terra. All’epoca ero
molto appassionato di fantascienza, leggevo ogni due settimane i fascicoli
della collana Urania, e mi figurai la
cosa come una grandissima astronave che atterrava da noi. Mi sorprese che uno
scienziato come mio zio, una persona che nel suo lavoro era molto legata al dato statistico,
all’immagine realistica delle società del suo tempo attraverso sondaggi
condotti con metodi precisi e razionali, si appassionasse a cose come quella.
Per me, allora, la religione significava la Messa la domenica e le altre feste
tradizionali, le preghiere al mattino e alla sera (quando me ne ricordavo), non
eccedere in certe abitudini personali che i preti deploravano, fare quello che
i miei genitori mi dicevano, confessarmi ogni tanto. Non immaginavo che ci
fosse molto di più. La società andava come andava e io stavo ancora imparando a
vivere in essa, non mi passava per la mente di cambiarla. Pensavo anche che,
tutto sommato, mi era capitato di nascere tra gente buona. Poteva andarmi peggio. Sapevo che c’erano
anche i cattivi e quelli che soffrivano, ma li situavo in regioni lontane.
Della morte avevo un’immagine vaga, in genere collegata ai film eroici di
guerra, in cui si facevano belle morti,
nel senso di apprezzate dagli altri. “…adesso
e nell’ora della nostra morte” erano soltanto parole per me, frasi mandate
a memoria.
Certe idee ho
cominciato a capirle e ad apprezzarle veramente solo crescendo.
Dunque c’è, in religione, un lavoro da fare. Non c’è solo la parte, come dire, liturgica. E non si tratta solo di sforzarsi di non cedere agli
istinti. C’è una fatica che dobbiamo sobbarcarci ed essa riguarda il mondo in
cui viviamo, il tempo presente. Essa
consiste nell’ordinare meglio la società
in cui siamo inseriti. Perché è fatica? Perché, in genere, le società resistono ai cambiamenti, tanto più in
quanto sono fondate sull’ingiustizia, quindi su privilegi di alcuni rispetto ad
altri. Non è questa anche la vostra esperienza?
Questo lavoro nella
società, ci dice il Concilio Vaticano 2° sulla base della tradizionale
teologia, non è senza importanza per il regno di Dio. Ma, come? Non doveva venire dal cielo, la santa città, la nuova Gerusalemme, già tutta pronta per noi, come una sposa pronta per andare incontro
allo sposo? La nostra idea religiosa è che ciò che avremo costruito sulla
terra secondo i precetti di fede lo ritroveremo ai tempo del compimento beato, illuminato e trasfigurato. Capiremo
quindi che esso era già una manifestazione del regno beato, eterno e
universale. Cose come la dignità delle
persone umane, la comunione fraterna, la libertà. Siamo ben consapevoli,
naturalmente, dei limiti insiti in tutte le nostre costruzioni, per cui, qui e
ora, non ci azzarderemmo mai a dire il regno è qui. Confidiamo, ma senza
poterne avere la sicurezza, che certe cose che facciamo possano averci a che
fare: è questo il mistero di cui si
parla nel brano che ho sopra citato. Ma perché mistero? Perché, anche se contemplando l’opera nostra non possiamo,
in fondo, concludere, come nel Sesto giorno, che è cosa molto buona (Gn 1,31), perché non ci illudiamo e ne vediamo
le imperfezioni, tuttavia l’animo nostro
è pur sempre pieno, religiosamente, non tanto razionalmente, di speranza, confidando che ciò che per
mezzo nostro è stato generato dal contatto con un appello soprannaturale, poi sarà portato a
termine, quindi al compimento, da colui che ci ha chiamati e attirati verso di
sé.
Ora, bisogna prendere
coscienza che in quel brano della Gaudium
et spes ci sono cose che appartengono da sempre alla tradizione cristiana e
cose nuove. Queste ultime le possiamo considerare come manifestazione viva di
quel lavoro di cui si parla nel brano
medesimo. La cosa veramente nuova è l’appello
a tutti coloro ai quali il Concilio volle rivolgersi, vale a dire a tutte le persone umane [Gaudium et spes, 2], alla
sollecitudine nel lavoro per il progresso delle società umane verso la dignità
delle persone umane, la comunione fraterna e la libertà, attraverso nuovi e
migliori ordinamenti.
Vogliamo approfondire un po’ di più? Come
potremmo dire in modo diverso gli obiettivi di quei nuovi e migliori ordinamenti sociali indicati nella
Gaudium et spes? Butto lì: uguaglianza,
fraternità, libertà, i principi cardine delle democrazie moderne.
Si legge
nella nota 793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004)
793« Libertà, uguaglianza, fraternità » è stato il
motto della Rivoluzione francese. « In fondo sono idee cristiane » ha affermato
Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia a
Le Bourget (1º giugno 1980), 5: AAS 72 (1980) 720.
Per
oggi finisco qui. Per riflettere su certe cose serve tempo. Quando parlo con
gli altri non noto una grande consapevolezza della natura anche religiosa del lavoro che si fa in democrazia per il
miglioramento della società. Anzi sento spesso contrapporre religione e
democrazia ed alcuni con compiacimento proclamano che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa. Ne siamo
proprio sicuri?
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42
La pace universale come finalità religiosa
(3 dicembre 2012)
Tutti gli uomini quindi sono chiamati a questa cattolica unità del
popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in
vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri
credenti in Cristo, si infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia
di Dio chiama alla salvezza.
[dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium – n.13 -, del Concilio Vaticano 2°]
La prima volta che
mi posi veramente il problema della pace come finalità religiosa fu quando
partecipai, la sera dell’ultimo dell’anno del 1981, a una Marcia della pace che fu percorsa qui a Roma, dal Colosseo a piazza
San Giovanni e che terminò con la Messa nella basilica lateranense. All’inizio pronunciò un breve discorso il rabbino capo di Roma prof.
Elio Toaff e il tema che svolse fu quello del rapporto tra pace e giustizia: non si poteva
essere vera pace senza giustizia e la vera giustizia non era quella dei
compromessi che si fanno nelle storie umane ma quella religiosa.
Negli anni ’70, che
pure erano stati piuttosto turbolenti in Italia, si era parlato molto di pace nel mondo giovanile, ma in genere
non se ne era colto il senso religioso e questo nonostante la dottrina sociale
della Chiesa cattolica e il Concilio Vaticano 2° l’avessero molto messo in
risalto. Il mondo all’epoca era diviso in due blocchi, quello capitalista e quello
comunista, e la Chiesa cattolica veniva annoverata nel primo. Nella società
italiana, poi, la Chiesa cattolica veniva vista come alleata di chi comandava,
in politica con la Democrazia Cristiana, nelle relazioni di lavoro con i
padroni, tanto che c’era l’uso di chiedere raccomandazioni di lavoro al
parroco, quando non c’era di meglio.
Il problema è che, in
genere, il conseguimento della giustizia
richiede una lotta, non è una cosa naturale nelle società umane. In esse i
rapporti vengono strutturati sulla base della forza delle componenti che si scontrano per l’affermazione dei
propri interessi. Questo lega la stabilità delle società umane all’impiego
della forza e quindi, come conseguenza, la possibilità del mutamento di un
ordine sociale all’esercizio di una forza maggiore. Le democrazie contemporanee
sono i regimi politici in cui si fa un minor impiego della forza, ma anch’esse
si sono affermate con la forza, per scardinare ordini politici precedenti, i
quali resistevano al cambiamento.
Ma anche se si riuscisse
a realizzare un ordine giusto esso
tuttavia non potrebbe fare a meno di prevedere l’impiego di una certa forza, per resistere a sua volta a
cambiamenti prodotti dall’aggressione opportunistica di chi voglia di più per
sé o per il proprio gruppo. Nell’antichità romana si era soliti ricordare il
detto secondo il quale se si vuole la
pace, bisogna preparare la guerra, ma poi quel tipo di pace sarebbe
veramente tale? Tacito scrisse la celebre frase, a proposito della politica
romana: fanno un deserto e lo chiamano
pace.
Il problema della
pace universale è piuttosto recente. Risale fondamentalmente al periodo storico
in cui si affermò il movimento filosofico detto dell’Illuminismo, nel
Settecento. L’idea che in questo movimento per la pace universale possano
essere coinvolti tutti i popoli della terra, anche, per dire, gli
aborigeni o le genti socialmente meno sviluppate, è ancora più recente: risale
al periodo tra le due guerre mondiali del Novecento. Le immani stragi che ne
conseguirono, che non si erano mai verificate in alcun altro periodo della
storia dell’umanità, e soprattutto la possibilità concreta di stragi ancora
maggiore derivanti da un conflitto con l’impiego di armi nucleari, portarono
alla revisione delle idee che si avevano sul problema della guerra. Fino ad
allora la guerra, vista essenzialmente come manifestazioni di conflitti tra
dinastie regnanti, non era stata un vero problema per la Chiesa cattolica, che
vi si era, anzi, trovata spesso invischiata e, in ogni caso, aveva sempre voluto
dire la propria sulle guerre che coinvolgevano potenze europee. Del resto nella Bibbia ci sono molte guerre,
alcune che vengono presentate come giuste,
quelle a beneficio degli israeliti e dell’unità del loro popolo, e altre malvagie, quelle contro gli israeliti e
che comportano la divisione di quel popolo. Fondamentalmente l’ideologia
cattolica sulla guerra si era sempre rifatta a quell’ordine di idee.
Nell’Apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo Testamento e della Bibbia cattolica,
si narra di molte guerre sanguinose e si situa alla fine dei tempi l’avvento
della pace religiosa, ma non come opera degli esseri umani, ma come iniziativa
portentosa soprannaturale, per cui la nuova Città
dell’uomo la si vedrà venire dall’alto, già tutta pronta, adorna come la sposa
per lo sposo.
Nelle guerre tra
popoli in prevalenza cristiani, i rispettivi preti e religiosi parteggiavano
per i propri stati e i propri eserciti, invocando il soccorso divino per le
pretese nazionali. Alla fine delle guerre, nelle nazioni dei vincitori si
celebravano Messe di ringraziamento per la vittoria e pochi vi videro un’incongruenza religiosa,
mentre il filosofo tedesco Emanuele Kant (1724-1804) vi scrisse sopra pagine
roventi nella sua opera Per la pace perpetua (1795). Secondo lui
si sarebbero invece dovute celebrare Messe funebri e riti penitenziali per
ricordare i tanti morti che la pace era costata sui due lati del fronte e,
soprattutto, l’insuccesso della ragione umana che non era riuscita se non con
quella barbarie a regolare i rapporti tra nazioni.
Un precursore come
don Lorenzo Milani entrò in contrasto con i cappellani militari per discorsi
come quelli e, quando si disse a favore dell’obiezione di coscienza su basi
anche religiose al servizio militare, fu messo sotto processo penale. Si era negli anni Sessanta, e si era già dopo il Concilio Vaticano 2°.
Il modo in cui nel
Novecento la Chiesa manifestò per un certo tempo la sua adesione alla pace fu quello della neutralità. Dopo la Seconda guerra
mondiale esso risultò profondamente insoddisfacente. Si disse, ad esempio, che
non era stato detto e fatto abbastanza di fronte all’enormità del disegno
criminale hitleriano dello sterminio delle popolazioni ebraiche europee,
manifesto fin dall’inizio come proposito e noto alla Santa Sede anche nella
fase attuativa attraverso i suoi canali diplomatici.
Rimanere neutrali è un modo debole di
promuovere la pace: semplicemente si
cerca di non accrescere le ragioni di conflitto e di non portarvi nuovi
combattenti, ma si rimane sostanzialmente indifferenti sulle cause della
guerra, che in genere si fondano su pretese ingiustizie sociali.
Dopo la Seconda
guerra mondiale la Chiesa cattolica parteggiò apertamente per il blocco
capitalista, che si contrapponeva a quello sovietico, in cui si era apertamente
avversi alla religione e al clero. Si vide un senso religioso allo stallo per
cui le grandi potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si
trovavano nelle condizioni di dover evitare un conflitto globale con l’impiego
di armi nucleari per il concreto pericolo di sterminare le loro stesse
popolazioni. Si trattava in effetti di un paradosso: la pace poteva essere
mantenuta mantenendo un equilibrio nelle armi più devastanti che andava sempre
situandosi al rialzo.
In Europa si andò
ideando un ordinamento diverso da quelli che avevano preceduto nella storia
dell’umanità, nel quale la pace fosse
mantenuta attraverso una forma di collaborazione e di integrazioni dei popoli.
Questo processo vide protagonisti politici cattolici, ma non la gerarchia
cattolica, in genere piuttosto sospettosa verso iniziative del genere. Essa
infatti ragionava essenzialmente, nella politica internazionale, in termini diplomatici e una nuova entità europea
sovranazionale sarebbe stato un altro organismo con cui patteggiare un
accomodamento, una specie di nuovo concordato,
qualcosa che metteva in questione gli accordi che già in varie parti si erano
raggiunti con gli stati nazionali.
In questo periodo, e
ancora oggi, l’idea di un’istituzione di promozione della pace universale che
la gerarchia cattolica ha è quella di una potenza sovraordinata a tutte le
altre potenze, capace di imporre una sorta di polizia internazionale per il
mantenimento della pace. Essa confida
molto nell’organizzazione delle Nazioni
Unite. Si è visto però che quest’ultimo organismo, che realizza una forma
di effettiva concertazione permanente tra nazioni, è in definitiva alla mercé
delle potenze maggiori, che oggi non sono più solo le potenze vincitrici della
Seconda Guerra mondiale. E la concertazione di maggior rilevo è quella che si
assume nel Consiglio di sicurezza in occasione di crisi internazionali, quando
viene data l’autorizzazione a una superpotenza militare di intervenire in un
teatro di guerra, come ripetutamente accaduto negli anni passati.
L’ordinamento
pacifico su cui si fonda l’idea europea è profondamente diversa, perché la si
vuole fondare dal basso e, in particolare, attraverso la realizzazione in
concreto di diritti umani fondamentali e di una comune dignità delle persone
dei popoli coinvolti nel processo di pacificazione. Questa soluzione si è
dimostrata capace di mantenere la pace in Europa dal 1945, tra popoli che si
erano storicamente combattuti per secoli, anche su basi religiose. Essa ha
anche determinato un moto centripeto, per cui i popoli d’intorno chiedono di
unirsi a quelli che si sono già in tal
modo federati. Addirittura questo moto ha coinvolto un popolo erede di
uno storico nemico come la Turchia, islamica.
Attualmente la
dottrina sociale della Chiesa oscilla tra l’idea di una pace mantenuta con la
forza da un’autorità mondiale e quella realizzata a partire da popoli
profondamente federati. La prima soluzione è conforme alla storica tradizione diplomatica della nostra Chiesa, quindi
alla sapienza con cui ha saputo intavolare di volta in volta trattative con i
sovrani, la seconda presenta l’incognita della volontà popolare. La gerarchia
cattolica è piuttosto diffidente verso quest’ultima, tanto da rifiutare la democrazia come metodo organizzativo al
proprio interno. Eppure è proprio dalla pace come obiettivo culturale dei
popoli che sono venuti i migliori risultati, lì dove si è avuto un disarmo degli spiriti che ha reso
inutili le armi materiali. La convergenza dei popoli ha prodotto l’abbattimento
di storiche e sanguinose frontiere come quelle tra l’Italia e l’Austria o tra
la Francia e la Germania. Ma il suo fondamento ideologico, pur dovendo molto
alle idee religiose dei cristiani, in particolare a quelle che erano state meno
sviluppate nella storia europea, non coincide totalmente con la dottrina
cattolica e, anzi, su certi punti può addirittura contrastare con essa, in
particolare in sviluppi recenti, come quelli che riguardano le libertà
religiose o la discriminazione su base sessuale.
C’è inoltre il
problema di costruire un nuovo ordine economico, fondato su principi di
giustizia sociale ma anche di efficienza economica. Questo è prettamente un
lavoro in cui devono impegnarsi i laici cattolici, ma che succede quando sono
in questione interessi economici della Chiesa cattolica intesa come
organizzazione?
Per la prima volta
nella storia i cattolici sentono che la questione della giustizia come
fondamento della pace universale coinvolge anche la loro Chiesa, la sua
struttura e i suoi interessi come organizzazione sociale. In particolare è
centrale il tema del ruolo delle donne, le quali, con varie argomentazioni,
vengono tenute fuori dai centri di elaborazione della dottrina comune. Ma
vengono in rilievo molte alte questioni che sono rimaste irrisolte e che in qualche
modo possono essere riassunte nel dibattito sull’appartenenza ecclesiale come unica via di salvezza. Questa è stata
storicamente l’occasione di infiniti conflitti a base religiosa.
In queste settimane
sono stati tra noi membri del movimento che si è formato intorno alla comunità
ecumenica di vita religiosa di Taizé, in Francia. Lì è concretamente dimostrata
e prefigurata la possibilità di una coesistenza pacifica tra diverse idealità
religiose cristiane che, dal punto di vista teologico, non è invece ancora del
tutto scontata.
Nel processo ideale
di unificazione europea la gerarchia è stata come trascinata dagli eventi, non
ne è stata protagonista. La dottrina sociale in merito è ancora insufficiente.
In questo noi laici siamo chiamati ad avere oltre che un ruolo esecutivo, un ruolo ideativo, a pensare un modo nuovo di essere persone religiose nella
nuova Europa. Poi, come sempre è accaduto, seguiranno la teologia e la
dottrina, per sancire ciò che si sarà dimostrato valido.
Azione cattolica è anche tutto
questo. Non consiste solo nel portare
gente in chiesa. E’ un compito molto complesso nella società del nostro
tempo. E’ un lavoro che supera le capacità del nostro piccolo gruppo
parrocchiale? In realtà no, perché noi ragioniamo religiosamente. Così come
nella Messa pensiamo di rendere presente l’unica Chiesa universale, allo stesso
modo possiamo ragionare tra noi sentendoci parte dell’intera umanità, per
escogitare, secondo la terminologia del filosofo e giurista Norberto Bobbio, le
vie della pace (1966, ripubblicato da
Il Mulino nel 2009).
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43
Che fanno i laici cattolici nel mondo?
(3 dicembre 2012)
Col nome di laici si
intende qui l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro
e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere
stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella
loro misura, resi partecipi dell’ufficio
sacerdotale, profetico e regale di Cristo, compiono nella Chiesa e nel mondo,
la missione propria di tutto il popolo cristiano.
[…]
Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e
lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale,
di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico,
e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro
speranza e carità. A loro quindi
particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali,
alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano
costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e al Redentore.
[Dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium (n.31), del Concilio
Vaticano 2° (1962-196)]
Vi propongo come pio
esercizio per questa settimana di imparare a memoria i due brani della Lumen Gentium che ho sopra riportato.
Sono legge molto importante della nostra Chiesa. E contengono alcune delle
affermazioni più rilevanti del Concilio
Vaticano 2°. Dalla mente devono scendere nell’anima e poi di nuovo devono
tornare alla mente, per progettare il futuro con la determinazione che è
richiesta dal carattere religioso dell’impegno a cui siamo chiamati.
Abituati forse ancora
a considerare Chiesa il Papa, i
vescovi, i sacerdoti e i loro stretti collaboratori, i monaci e le monache, i
frati e le suore, dobbiamo sforzarci ora di figurarci l’immane massa di
persone, quasi un miliardo di cattolici, che compone il resto, quella parte del Popolo
di Dio che viene denominata il
laicato (l’espressione, usata in questo senso, risale agli scritti di San
Clemente papa, I secolo della nostra era, al quale è intitolata la nostra
chiesa parrocchiale).
L'occasione immediata
della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento
sull'identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati
degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell'affievolimento della
carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i
fedeli all'umiltà e all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive
dell’essere nella Chiesa: “Siamo una porzione santa”, ammonisce, “compiamo
dunque tutto quello che la santità esige” (30,1).
In particolare,
il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso “ha stabilito dove e da chi
vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta
santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà... Al
sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie,
ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei
servizi propri. L'uomo laico è legato agli ordinamenti laici” (40,1-5: si noti
che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella
letteratura cristiana, compare il termine greco “laikós”, che significa “membro
del laos”, cioè “del popolo di Dio”).
[dalla meditazione svolta dal papa Benedetto 16° all’udienza
generale del 7-3-07]
La
valorizzazione dell’impegno religioso dei laici è uno dei temi chiave lanciati
da padri conciliari soprattutto per sviluppi futuri, che ancora sono in corso.
Naturalmente
considerare quasi come un resto la
gran massa dei fedeli, detratti i membri
dell’ordine sacro e i religiosi, è una particolare prospettiva che risente del
metodo della teologia di ordinare le argomentazioni. Per la gran parte della
storia della chiesa i laici sono stati poi considerati essenzialmente come sudditi della potestà religiosa
esercitata dal clero, allo stesso modo in cui lo erano, nel campo civile, delle
dinastie regnanti e dei loro vassalli e funzionari. In effetti i Papi ebbero
anche, e ancora hanno sebbene in un ambito poco più che simbolico, la
condizione giuridica di monarchi, ad un certo punto equiparati come dignità
agli imperatori, ai re dei re, e i vescovi ebbero effettivamente la condizione
di feudatari e così i capi degli ordini religiosi maschili. Un suddito onora il
proprio Signore e gli ubbidisce e lo serve. Il potere religioso trovava
limitazione in quello politico civile e storicamente si ebbero varie
combinazioni tra gli stessi, con accomodamenti e anche conflitti. La gente del
popolo era, come dire, oggetto di una sorta di condominio tra autorità religiose e civili. Questo assetto c’era
nella Bibbia e, in particolare, nel Vangelo? Diciamo che ci si costruì una
teologia sopra, imposta ai fedeli laici per vincolo di obbedienza religiosa. Il
Concilio Vaticano 2° consacrò al massimo livello un profondo
ripensamento (già in corso da diversi anni), il quale naturalmente venne
espresso in termini teologici, collegandolo alle Scritture e alla Tradizione,
ma fondamentalmente originò dall’esperienza storica dei movimenti laicali
cattolici nell’Ottocento e nel Novecento e dalla constatazione che solo l’azione
di masse illuminate poteva contrastare i moventi ed esordi di conflitti
catastrofici come quelli che si erano prodotti in Europa fin al 1945. Ricordo
di nuovo il Radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12°, la prima
manifestazione pubblica della nuova mentalità:
Queste moltitudini,
irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi
invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai
incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere
l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel
turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il
ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci
garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
Forse, per
una certa pigrizia e rassegnazione, che anch’io, ormai cinquantacinquenne, comincio ad avvertire, pensiamo al nostro
impegno religioso come un farci
intrattenere con discorsi edificanti e belle liturgie. E invece dovremmo
essere costruttori di mondi, questo
appunto significa l’espressione trattare
le cose temporali ordinandole secondo Dio. E lo dobbiamo fare in modo
creativo, perché si tratta di cose per i tempi nuovi. Con competenza e guidati dallo spirito evangelico. E’ qualcosa che viene anche espresso anche con
il concetto di regnare. Ma siccome
dobbiamo farlo tutti insieme e
pacificamente, lo dobbiamo fare democraticamente
rispettando la dignità di ciascuno, compresa la libertà e la franchezza (in
greco parrhesia) di espressione. Ne
siamo consapevoli?
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44
Laicità dello stato: nuovo fronte religioso?
(9 dicembre 2012)
1. Il Discorso alla città pronunciato lo
scorso 6 dicembre 2012 dal cardinale arcivescovo di Milano Angelo Scola sul
tema L’editto di Milano:initium
libertatis (l’editto era quella del 313 dell’imperatore romano Costantino
che concedeva libertà di culto e di professione religiosa pubblica ai
cristiani) interroga sull’apertura di un nuovo fronte religioso in materia di laicità e aconfessionalità dello
stato.
Aconfessionalità dello stato significa che lo stato non riconosce
come propria alcuna religione, in
particolare quella cattolica, e quindi non si impegna a integrarla nel proprio
sistema di potere, anche solo come sistema
di valori etici.
Nello Statuto del Regno d’Italia del 4-3-1848 e nel Trattato Lateranense dell’11-2-1929 (uno
dei due accordi che sono noti come Patti
Lateranensi; l’altro è il Concordato)
era previsto, con forza di legge (ai Patti
Lateranensi fu data esecuzione nel Regno d’Italia con legge n.810 del 1929)
che la religione cattolica, apostolica romana fosse l’unica religione dello stato.
Con l’Accordo di
revisione del Concordato Lateranense del 1984, la Repubblica Italiana e la Santa
Sede:
·
tenuto
conto del processo di trasformazione
politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi
promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano 2°
·
avendo
presenti da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla
Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano 2° circa la libertà
religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la
nuova codificazione del diritto canonico:
nell’art.1 del Protocollo
addizionale di quell’accordo, stabilirono:
·
“Si considera non più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti
Lateranensi,della religione cattolica come sola religione dello Stato.”
L’aconfessionalità della Repubblica Italiana si ricava poi
ulteriormente dal fatto che tutte
le confessioni religiose sono dichiarate
libere davanti alla legge (art.8, 1°
comma della Costituzione). La posizione della Chiesa cattolica risulta
particolarmente rafforzata in quanto la si dichiara con norma costituzionale
(art.7 della Costituzione), indipendente e sovrana nel proprio ordine, quindi un vero e proprio potere autonomo, di cui
lo staterello di quartiere Vaticano vorrebbe essere una sorta di
rappresentazione, e in quanto, con
l’art.7 della Costituzione si è prodotto un riconoscimento costituzionale del
diritto concordatario e, innanzi tutto, del principio
concordatario, che esclude modifiche unilaterali da parte dello stato, per cui si ritiene anche che il diritto
concordatario cederebbe solo dinanzi ai principi supremi dell’ordinamento dello
stato.
Il principio di laicità dello stato è qualcosa di più
della semplice aconfessionalità dello
stato. Significa che la dignità
civile dei cittadini non deve essere discriminata sulla base della religione
professata.
Ricordo, ad esempio,
che quando mio padre mi mandò a Dublino, negli anni ’70, per imparare un po’ di
inglese, all’epoca, nelle contee settentrionali ancora sotto dominio
britannico, si era nel periodo dei cosiddetti Troubles, dei moti degli irlandesi di religione cattolica che
lamentavano di essere discriminati nell’organizzazione statale e nell’economia
nazionale a motivo della loro religione.
Il principio di
laicità dello stato si ricava dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione ed è considerato un principio supremo dell’ordinamento della
Repubblica italiana, capace di prevalere anche su norme di rango
costituzionale, ““uno dei profili della
forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica”
(sentenza della Corte costituzionale n.3 del 1989).
Per i principi di aconfessionalità
e laicità dello Stato le religioni non possono ottenere che lo stato imponga ai cittadini le loro norme
etiche e le proprie visioni del mondo.
Esse dovranno conquistarsi autorevolezza conquistando il consenso delle
persone. Comunque nessuna maggioranza
religiosa potrà mai ledere il principio di laicità e quello di aconfessionalità
dello stato, a meno di fare una rivoluzione,
di rovesciare uno dei principi supremi della Repubblica.
L’accordo di
revisione del Concordato Lateranense concluso
nel 1984 menziona i deliberati del Concilio
Vaticano 2°.
Nella Costituzione
pastorale Gaudium et spes sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo, al n.76 è enunciato il principio della laicità
dello stato:
·
La
comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel
proprio campo
Segue tuttavia un temperamento che corrisponde anche
all’attuale concezione delle nostre autorità religiose:
·
Ma tutte e
due, anche se a titolo di verso, sono a servizio della vocazione personale e
sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio
di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana
collaborazione tra loro, secondo le modalità adatte alle circostanze di tempo e
di luogo.
Questa formulazione è
stata ripresa nell’art.1 dell’Accordo del 1984 di revisione del Concordato Lateranense:
·
La
Repubblica italiana e la Santa sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa
cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani,
impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti per la
promozione dell’uomo e il bene del Paese.
I conseguenti problemi (che ci sono sempre
quando organizzazioni che si riconoscono reciprocamente lo stato di poteri devono necessariamente
coesistere, condividendo, al modo condominiale, dei sudditi) si sono fatti più
acuti in Italia per tre ragioni:
·
il decremento della popolazione che si riconosce
cattolica (secondo una statistica pubblicata ieri si tratta di poco più del
60%);
·
la vasta inosservanza pratica da parte di chi si
riconosce cattolico dei precetti religiosi riguardanti l’esercizio della
sessualità (compresa quella omosessuale), la contraccezione, l’indissolubilità
del matrimonio;
·
il favore di larga parte dei cattolici a una
regolazione giuridica di forme di famiglia diversa da quella tradizionale
(basata su matrimonio eterosessuale tendenzialmente di lunga durata) e di
limitazioni su base volontaria a sussidi meccanici o farmacologici alla
sopravvivenza in condizioni di sofferenza estrema in cui non vi è alcuna
prospettiva di miglioramento;
·
il vasto dissenso, anche tra i cattolici e
specialmente in periodi crisi, all’aumento delle erogazioni di fondi pubblici a
sostegno di attività della Chiesa cattolica e di altre confessioni religiose e
a forme di esenzione fiscale che riguardano in particolare molte attività
svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica;
·
l’aumento, a seguito di imponenti fenomeni
migratori, di fedeli appartenenti ad altre confessioni religiose, i particolare
a confessioni islamiche e cristiane ortodosse.
La Chiesa cattolica
appare oggi particolarmente preoccupata sulle seguenti questioni:
·
la progettata introduzione di una disciplina
giuridica del matrimonio tra persone omosessuali, con la conseguente
possibilità di adozione di figli;
·
l’equiparazione, ai fini degli interventi
pubblici di sostegno, alle famiglie tradizionali basate sul matrimonio
eterosessuale tendenzialmente di lunga durata ad altri tipi di famiglia, basate
sulla semplice convivenza o su forme di matrimonio omosessuale;
·
il potenziamento della rete delle strutture
sanitarie in cui possano essere praticati gli interventi di interruzione
volontaria della gravidanza (allo stato assai carente in alcune Regioni, in
particolare del Meridione);
·
l’autorizzazione al commercio di farmaci
abortivi, che consentano l’interruzione volontaria della gravidanza senza
interventi chirurgici invasivi;
·
la possibilità sempre più larga, a seguito di
sentenze dichiarative di incostituzionalità della legge in materia di
fecondazione assistita, di ricorrere a diagnosi di salute degli embrioni
realizzati al di fuori dell’organismo della donna e ancora da impiantare, in
modo da selezionare quelli non
affetti da patologie rilevabili;
·
la possibile introduzione di una disciplina
giuridica sulla eliminazione, o impiego a fini di ricerca, degli embrioni
prodotti in soprannumero nel corso di procedure di fecondazione assistita;
·
la revisione in peggio di esenzioni fiscali ad
attività svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica o ad essa collegate,
in particolare nel campo assistenziale, scolastico e sanitario;
·
il diniego di finanziamenti, sotto varie forme
giuridiche, a organizzazioni scolastiche della Chiesa cattolica o ad esse
collegate;
·
la progettata introduzione di norme giuridiche
in materia di fine vita che attribuiscano al malato grave la decisione finale
dell’interruzione di sussidi meccanici o terapeutici alla sopravvivenza in caso
di patologie gravi, irreversibili e che creino grandi sofferenza, sia sulla
base di una volontà espressa al momento in cui si pone il problema, sia su
volontà anticipatamente espressa in un atto che debba valere per un momento futuro, al realizzarsi di certe
condizioni, sia sulla base della ricostruzione della presumibile volontà del malato
in base a certe sue manifestazioni di pensiero prodotte nel corso della sua
vita.
·
l’esclusione di manifestazioni esplicitamente
cristiane (Crocifisso, Presepio, preghiera, visita di autorità religiose) nelle
scuole pubbliche con forte presenza di alunni di altre confessioni religiose o
non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica.
Complessivamente si tratta di
quel principio di valori che il papa
Benedetto 16° ha dichiarato come non
negoziabili. Si discute abbastanza su che cosa si debba intendere come non negoziabili. E’ stato fatto
osservare che in democrazia non esistono temi non negoziabili, su cui quindi non si possa dialogare e discutere.
In sede costituente lo si è fatto anche sui principi fondamentali della
Repubblica, come quello di laicità dello stato. Quell’espressione è stata
intesa anche nel senso che in nessun caso si devono appoggiare partiti che non
si impegnino espressamente a realizzare quei valori secondo l’interpretazione che di essi dà in concreto la
gerarchia cattolica. Ma, oggi, i partiti maggiori non sono disposti ad
accogliere in tutto la volontà dei capi religiosi cattolici in materia e
questo in quanto le posizioni espresse dalla gerarchia in quelle materie che ho
ricordato è in genere più o meno minoritaria tra gli elettori, anche tra quelli
cattolici. La differenza è tra quelli
che manifestano in materia agnosticismo e lasciano libertà di scelta ai propri
parlamentari e quelli che invece seguono una linea precisa, divergente da
quella del Papa e del vescovi, e pretendono fedeltà dalla propria forza parlamentare.
Si è anche inteso quel non negoziabili
come un invito al massimo impegno per ottenere concretamente il miglior
risultato possibile, ma in realtà si tratterebbe di una contraddizione in termini, perché questo
risultato non potrebbe essere raggiunto se non mediante un negoziato, sia pure particolarmente agguerrito su certi punti sensibili.
2. Con il Discorso
alla città del 6 dicembre 2012 il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo
Scola, sembra voler aprire un vero e
proprio fronte con le istituzioni
pubbliche. Le accusa di agnosticismo verso la verità.
Le accusa di voler promuovere, in tal modo, una propria visione del mondo (da lui definita mondovisione), in cui la religione e Dio non hanno parte. Propone
quindi di rivedere le interpretazioni che si sono date della dichiarazione Dignitatis humanae, del Concilio Vaticano 2°, in cui è stato
proclamato che “l’adesione alla verità è possibile solo in maniera
volontaria e personale e la coercizione esterna è contraria alla sua natura”. Queste condizioni non sono in realtà
realizzabili, proprio per l’interferenza di uno stato che, facendo professione
di neutralità, impone di fatto una propria mondovisione, con la
forza derivante dalla propria pervasiva e autorevole organizzazione.
Scola giunge ad affermare che il contrasto in
atto non è, come generalmente si crede, tra credenti di diverse religioni, ma
tra le religioni e le culture secolariste di cui si fanno portatori gli
stati che finiscono in tal modo per proporre una propria mondovisione
alternativa a quella delle religioni.
Secondo il cardinale, per come ho capito, la
libertà religiosa non può essere disgiunta dallo sforzo di ricercare la
verità, compito nel quale anche lo stato deve impegnarsi, innanzi tutto per
distinguere tra religioni e sette
(queste ultime da considerarsi al di fuori della tutela della libertà
religiosa?)
·
“D’altra parte, ci si deve chiedere a quali
condizioni un “gruppo religioso” può rivendicare un riconoscimento pubblico in
una società plurale interreligiosa e interculturale. Siamo di fronte alla
delicata questione relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente
costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è.”[discorso
citato, n.2]
e poi per discernere tra le proposte religiose
quelle che meglio corrispondono all’edificazione del bene comune. Secondo Scola
occorre quindi ripensare il
tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero
della libertà religiosa. In questo il cardinale, dopo aver
dichiarato che il cattolicesimo popolare ambrosiano è affetto da profonde fragilità, conclude:
·
Il nostro
è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico. I
molti frammenti ecclesiali e civili che già oggi anticipano la Milano del futuro sono
chiamati a lasciar trasparire il tutto. L’insieme deve brillare in ogni
frammento a beneficio della comunità cristiana e di tutta la società civile.
Vita buona e buon governo vanno infatti di pari passo.
3. Il discorso del cardinale, con la prospettazione di un
conflitto tra culture statali secolariste, in esse
compresi i principi supremi di laicità
dello stato e di aconfessionalità
dello stato, è suscettibile di aprire una gravissima crisi tra le
istituzioni democratiche della Repubblica e le confessioni religiose,
coinvolgendo i rispettivi credenti, costretti a scegliere tra fedeltà
costituzionale e fedeltà religiosa ai propri capi. Prima di rassegnarsi a un
disastro del genere, la persona di fede dà corso a tutte le proprie risorse
razionali e di discernimento per capire se è possibile un diverso sviluppo.
Innanzi tutto: in
Italia non è in questione la libertà
religiosa. Qualcuno trova veramente limiti nell’espressione privata e
pubblica della propria fede? Io, pur esse noto come cattolico “praticante” non
ne ho trovato nessuno. In questi ultimi anni si sono insediati nel mio
quartiere numerosi islamici, provenienti dal continente indiano, e anche loro
non hanno trovato difficoltà nell’espressione della loro fede. A due passi da
casa mia c’è una delle più grandi e belle moschee europee e un altro centro di
preghiera islamico è stato aperto proprio nella via in cui abito. Alcune donne
islamiche girano velate e nessuno ci fa caso, così come le non islamiche
circolano vestite come credono e nessuno le rimprovera.
In parrocchia ho
detto che bisogna stare più attenti al linguaggio che si usa, anche nella
liturgia, perché offendere gli dei altrui è ancora vietato (art.724, 1° comma-
illecito amministrativo), così come è vietato l’incitamento alla
discriminazione su base religiosa (art.3 della legge n.654 del 75- reato). Quando ero bambino ricordo che ci si prendeva
spesso gioco di certe consuetudini islamiche (si pensi a certi film con
protagonista Totò): ora non è più
possibile farlo.
Detto questo. il vero problema è che alcune
norme etiche promulgate dall’autorità religiosa cattolica sono venute a
contrastare con l’etica pubblica. Quest’ultima trova il suo fondamento in
movimenti diffusi nella società (che trovano credito anche tra molti cattolici)
i quali hanno espresso democraticamente una forza parlamentare che si è
determinata di conseguenza. Pensare di riuscire a convincere le autorità
pubbliche, con un discorso razionale, che la verità è una sola, precisamente quella sostenuta dalla Chiesa cattolica e,
inoltre, che quest’ultima su certe questioni deve avere maggiore voce in
capitolo, perché migliore di altre
confessioni religiose è irrealistico. Pretendere di riuscirci
con la forza è irrealistico (tenendo conto degli orientamenti della maggioranza
degli elettori) e, in fin dei conti, anche immorale,
in quanto contrasta con principi fondamentali sanciti con forza di legge della
Chiesa durante il Concilio Vaticano 2°. Riuscirci negoziando la propria forza ecclesiale di influenza elettorale (che in Italia si
stima intorno al 10% dell’elettorato) con i gruppi che, opportunisticamente non
per convinzione, si impegnino a seguire i desideri della gerarchia in certe
questioni, in particolare nell’impedire novità
legislative sgradite potrebbe essere
considerato umiliante per i cattolici democratici, tale da ricacciarli in una
condizione di minorità dalla quale faticosamente sono emersi.
Mia opinione
La mia opinione è che occorra
sempre negoziare, ma non per uno scambio politico-elettorale, ma per proporre con
sapienza le ragioni e i metodi che su ogni tema controverso consentano di
arrivare a soluzioni condivise che rispettino a pieno la dignità delle persone
umane, rifuggendo in particolare gli estremismi ideologici. Questo si potrà
fare nei vari schieramenti politici in cui i cattolici si sono attualmente
divisi, salvo poi recuperare l’unità quando si tratterà di decidere su certi
determinati temi sensibili in cui i cattolici hanno maturato convinzioni
comuni.
Concludo osservando è che,
nella mia opinione, andranno inevitabilmente riducendosi certe incrostazioni di
confessionalismo cattolico che ancora permangono nel costume delle istituzioni
pubbliche italiane e che, del pari, saranno inevitabilmente superate le
discriminazioni su basi sessuale che ancora travagliano il dibattito
legislativo, in particolare in materia di normative riguardanti le famiglie. A
questo punto tutto, nella mia visione, l’impegno dei cattolici dovrebbe essere
centrato sull’impegno a mantenere gli spazi di libera e pubblica espressione
della loro fede religiosa (compresi quelli negli spazi e nelle istituzioni
pubbliche, senza tuttavia imporli ai diversamente credenti) e nella particolare
tutela della famiglia tra uomo e donna fondata su un matrimonio tendenzialmente
stabile in vista della generazione della prole.
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45
Civiltà cristiana e Azione
Cattolica
(15 novembre 2012)
A cavallo tra
l’Ottocento e il Novecento la polemica tra il movimento dei cattolici
denominato “guelfo”, perché nella spaccatura tra Regno d’Italia e Papa
cattolico seguita alla presa di Roma nel 1870 parteggiava per il Papa, e gli
altri movimenti politici che animavano all’epoca la società civile italiana
riguardò in particolare la questione del conflitto
di civiltà. I cattolici consideravano sé stessi come i veri eredi delle
glorie della nazione e portatori di un ordine sociale fortemente radicato nel
popolo, minacciato dall’orientamento liberale delle istituzioni del nuovo stato
unitario. A quell’epoca vi era effettivamente una larga base sociale che
condivideva le idee guelfe e che, a
lungo, rimase per tale motivo esclusa dalla partecipazione politica alle nuove
istituzioni democratiche del Regno d’Italia.
I movimenti
precursori dell’Azione Cattolica e l’Azione Cattolica, nel corso della sua
articolata storia, si adoperarono per sanare quel contrasto e per conquistare
ai cattolici la piena cittadinanza civile. Questo risultato fu conseguito
realmente solo tra il 1946 e il 1948, con la stabilizzazione del regime
democratico scaturito dall’abbattimento cruento del regime fascista e con la partecipazione fondamentale delle
forze democratico cristiane italiane (in particolare nell’Assemblea
Costituente), a lungo emarginate nella Chiesa cattolica all’epoca della
dominazione fascista e dei compromessi raggiunti in quei tempi infausti dalla
gerarchica cattolica con il Mussolini.
Per certi versi,
nonostante che, nel sistema dei diritti umani, importanti principi religiosi
siano venuti a costituire le basi delle nuove istituzioni europee, quel
conflitto sembra oggi rinascere, in particolare sulle questioni della laicità
degli stati e del principio di non discriminazione delle persone su basi
religiose e sessuali.
E’ stato notato che
permangono in Italia importanti elementi di confessionalismo nelle istituzioni
e che, in particolare, la gerarchia cattolica pretende che le sia riconosciuto
un ruolo preminente nella collaborazione con le istituzioni pubbliche, in modo
corrispondente allo speciale regime giuridico che le viene riservato dall’art.7
della Costituzione. Essa inoltre ritiene di poter giungere a certe conclusioni
di natura anche politica sulla base di discorsi razionali
incontrovertibili e quindi di dover
avere udienza non solo per argomentazioni fideistiche, opinabili per i non
credenti, ma per la forza della ragione rettamente esercitata.
E’ chiaro però che la
situazione italiana è caratterizzata da:
-un pluralità
di opinioni politiche tra i cattolici, che evidentemente non può essere risolta da quegli argomenti
razionali;
-una diminuzione
sensibile, di circa trenta punti percentuali, delle persone che dichiarano di accettare le regole
della confessione religiosa cattolica e una
percentuale molto minore dei praticanti
(persone che vanno regolarmente a
Messa la domenica e nelle feste comandate)
che seguono effettivamente in
tutto quelle regole, soprattutto in materia sessuale e matrimoniale;
-un forte
aumento di persone per le quali la religione non è una questione particolarmente importante, perché non
sentono la necessità di ricorrervi spesso
nella loro vita quotidiana, salvo che in alcune occasioni cerimoniali (nascita, matrimonio, morte);
-un forte
aumento di fedeli di altre religioni, in particolare di confessioni islamiche e cristiano ortodosse;
-la marcata
insofferenza delle donne verso le residue forme di discriminazione nella Chiesa cattolica;
-la sempre più
marcata insofferenza dei giovani verso pratiche pastorali troppo autoritarie nei loro confronti;
-il potente
emergere del movimento contro la discriminazione sociale delle persone omosessuali.
Manca quindi, nel
contesto sociale di oggi, la base sociale
per sostenere in conflitto di quella natura, vale a dire per ripristinare una specie di ordine sociale cristiano, di una civiltà cristiana, secondo le opinioni
della gerarchia cattolica. Ma, in realtà, a parte alcune questioni specifiche,
che si fanno rientrare nel tema complessivo dei valori non negoziabili (contraccezione, aborto, procreazione
assistita, divorzio, patti matrimoniali tra omosessuali, manifestazioni di
volontà per il fine vita, sussidi alla scuola cattolica) la Chiesa cattolica,
pur con la sua complessa e articolata
dottrina sociale, non è più nemmeno portatrice di un progetto di società complessivamente valido per i nostri tempi,
anche considerando la sola Europa. Nell’attuale epoca di crisi globale le
istituzioni sovranazionali, in particolare l’Europa Unita, stanno costruendo
nuove modalità di intervento per il governo e la risoluzione dei problemi che
si sono manifestati. In questa dinamica può prevedersi che tutte le residue
forme ingiustificate di discriminazione tra le persone verranno gradatamente
rimosse, divenendo addirittura illecite.
Naturalmente rimane
un possibilità di influenzare i movimenti in corso nelle società civili, ma questo
deve necessariamente farsi non su basi fideistiche, non condivise all’esterno
della cerchia dei più volenterosi praticanti,
ma con argomenti razionali, tenuto conto però che questo metodo in genere non
consentirà mai di arrivare ad una e una sola conclusione che si imponga agli
altri per forza di ragione. Questo non accade sempre neanche nella matematica,
figuriamoci nei fatti sociali. Sarà quindi sempre necessario, su certe
questioni, un negoziato responsabile,
in cui l’identità di gruppo potrà valere come argomento sulla base dei buoni
risultati eventualmente conseguiti (non per l’argomento Dio lo vuole). In materia di discriminazione su base sessuale noi
cattolici non ne abbiamo molti. Piuttosto l’argomento che, a mio parere, va
sfruttato molto è quello del principio di precauzione, per cui intorno a realtà
umane sulle quali si sa ancora poco e che sono suscettibili di sviluppi
catastrofici, occorre imporre una serie di limiti per evitare che i pericoli
supposti si avverino. In questo lavoro l’Azione Cattolica può senz’altro
svolgere un’opera positiva, essendo stata fin dall’origine aperta ai tempi
nuovi e impegnata a comprenderli in una prospettiva cristiana, non invece
chiudendosi in un intransigentismo settario che porta solo soddisfazioni effimere.
Purtroppo questa esperienza di metodo non è più patrimonio culturale di larghe
fasce della popolazione dei più volenterosi nostri praticanti, che del resto lo ammettono francamente, essendosi formati in un diverso ambiente
ecclesiale.
Vi è la necessità
quindi, in particolare nelle nostre riunioni settimanali, di riprendere
migliore conoscenza del senso del lavoro e dell’associarsi in Azione Cattolica,
che, a differenza di un qualsiasi gruppo parrocchiale di spiritualità, riguarda
la religione e la spiritualità ma anche l’impegno nella società civile. Non si
tratta di seguire un catechismo,
quindi di farsi spiegare da altri
quello che si deve sapere, fare o non
fare, ma di scoprire insieme, capendo bene la società del nostro tempo,
ciò che è meglio fare.
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46
L’incontro della Chiesa col mondo
(23 dicembre 2012)
Nel 1982 un amico mi condusse alla
presentazione dell’ultimo volume degli scritti di mons. Enrico Bartoletti,
vescovo che ebbe un ruolo fondamentale, quale segretario della Conferenza
Episcopale Italiana, nell’attuazione del Concilio Vaticano 2°. L’opera
completa, in quattro volumi, era stata curata da don P.G.. So che ora è parroco
in Toscana. Quel giorno un suo amico e collaboratore, che era sacerdote e
svolge anch’egli il suo ministero in Toscana, mi diede da leggere tutti i
quattro libri e io lo feci. Non ebbi più occasione per chiedergli se intendesse
riaverli indietro. Da allora fanno parte della mia biblioteca, mi hanno sempre
accompagnato dove ho abitato e mi sono stati preziosi per formare la mia
spiritualità e, innanzi tutto, per capire il clima di quel Concilio.
Nel quarto volume
dell’opera citata, intitolato La Chiesa e
il mondo, ho trovato questa citazione, da un discorso che mons.Bartoletti tenne nel gennaio 1962 (nella fase
preparatoria del Concilio) al Movimento
Laureati Cattolici, che oggi si chiama MEIC-
Movimento ecclesiale di impegno culturale:
“E giacché il primo
incontro della Chiesa col mondo avviene in noi, che già siamo in lei, e pur
portiamo la cultura, e istanze, le incertezze del mondo, si tratta di offrirci
alla Chiesa in consapevole disponibilità, perché inizi o rinnovi in noi il suo
compito di penetrazione e di santificazione”.
Per
intendere la portata anticipatrice di queste considerazioni, bisogna figurarsi
la Chiesa come era a quell’epoca. Era un’organizzazione che vedeva in prima
fila il Papa e i vescovi, la gerarchia, poi i
loro collaboratori, i preti, e poi, come quasi come truppe scelte, gli
istituti religiosi, frati, monaci, suore e monache. Tutte le altre persone, gli
altri fedeli, erano oggetto di una normazione di carattere giuridico e morale:
si diceva loro che cosa dovevano fare e si pretendeva che lo facessero. Al più
si ammettevano libertà di dettaglio, per tradurre meglio nella società quello
che si era deciso in alto. Naturalmente c’erano eccezioni. Proprio nel Movimento Laureati Cattolici, che
all’epoca era una delle organizzazioni professionali
dell’Azione Cattolica, ci sforzava di
formarsi meglio, di approfondire le questioni, di dare un contributo più ampio.
Questo in particolare dopo che il cattolici, nell’Europa ricostruita dopo al
disfatta del nazismo tedesco e dei vari fascismi suoi alleati, avevano avuto
tanta parte nelle riconfigurazione delle istituzioni pubbliche e dei principi.
Le attese (e i
timori) maggiori erano per quello che saremmo diventati noi laici, dopo tanti secoli di posizione subordinata
nelle cose religiose, anche se riguardavano poi le cose del mondo, di ciò che si muoveva fuori dello
spazio liturgico.
Nel corso degli anni
’50, sulla scorta di riflessioni avviate già nei precedenti anni ’30 in
Francia, si pensava che l’efficacia dell’azione della Chiesa nella storia
sarebbe stata in futuro molto più condizionata dall’atteggiamento dei laici.
Da alcuni si temeva
una deriva protestante dei cattolici,
ma, in realtà, movimenti analoghi si erano prodotti anche in alcune Chiese non
cattoliche. Ad esempio nel movimento promosso negli Stati Uniti d’America da
Martin Luther King, pastore della Chiesa Battista.
Certe storiche
divisioni tra cristiani erano state spesso già superate nella pratica. E in
molte cose il Concilio Vaticano 2° più che essere un aggiornamento a ciò che si
muoveva nel mondo, fu semplicemente
un aggiornamento a ciò che si era già prodotto nella Chiesa cattolica.
Bisogna dire che,
dopo un inizio piuttosto effervescente e promettente, qualcosa venne meno nello
slancio sulla strada indicata dal Concilio Vaticano 2°, i cui deliberati, più
che bisognosi di essere attuati chiamavano
ad essere sviluppati. Ci furono
resistenza da varie parti, ci furono insufficienze in molti, in particolare nei
laici. Talvolta si assistette, nelle sperimentazioni che vennero promosse, a
una clericalizzazione dei laici e a
una laicizzazione dei preti e dei
religiosi. Questi ultimi entrarono in crisi, non riuscendo più a inquadrare
bene il senso del loro ruolo nella Chiesa, mentre i laici, spesso anche per
remore clericali, stentarono a conquistare il campo loro proprio, di ordinare
secondo i principi religiosi le cose del mondo, in cui erano immersi, di cui
erano coautori e partecipi.
Ci furono aspre
controversie negli ambienti laicali più impegnati, delle quali oggi solo i più
anziani serbano lo spiacevole ricordo. Non merita nemmeno di perderci ancora
tempo su, visto che ai tempi nostri sono divenute insignificanti. Ma
certamente, specialmente nella realtà italiana, i laici si sono formati a due scuole con obiettivi divergenti, per cui, quando in parrocchia ci
si trova insieme e si cerca un accordo sulle cose da fare e specialmente su
come manifestarsi all’esterno, la differenza di impostazione si sente. In
realtà oggi si pensa di solito che occorra agire dall’interno della società in
cui si vive, come lievito, che fa crescere l’impasto ma non è più riconoscibile
nel prodotto finale, e nello stesso tempo anche rendersi presenti come gruppi
sociali organizzati. Sempre più spesso assistiamo a vaste convergenze tra
gruppi che in passato si guardavano piuttosto in cagnesco.
Una parte del lavoro
che dobbiamo fare in Azione Cattolica, per la nostra vocazione specifica, è di
fare unità, di promuovere l’amicizia e la comprensione tra chi vive la fede nei
tanti modi in cui lo si può legittimamente fare, senza che ci si scambi
arbitrariamente scomuniche o simili.
L’altra parte di quel
lavoro è di capire meglio le società in cui viviamo e in cui democraticamente
abbiamo diritto di parola e di scelta, senza scegliere la via della separazione
settaria, nel presupposto che tutto il male sia fuori della nostra Chiesa e che
il mondo in cui viviamo sia la città del
diavolo destinata alla perdizione.
C’è infine un ultimo
lavoro che occorre fare, e che è la parte forse più dolorosa del nostro
impegno, che è quello della purificazione
della memoria, del riconoscimento franco e veritiero del male che, come Chiesa vivente sulla Terra, è stato
storicamente fatto, per sterilizzare i conati reazionari che vorrebbero
riproporre infelicemente ciò dal quale solo di recente, in particolare sotto la
guida del Papa Giovanni Paolo 2°, ci siamo distaccati. Non illudiamoci che sia
un compito facile. Né che l’arrendevolezza ai voleri altrui, spacciata per
ubbidienza gerarchica, sia la via più virtuosa. In questo si dovrà praticare la
virtù della fortezza, della fermezza sui principi acquisiti. E questo sforzo è
tanto più difficile perché sono stati veramente tanti i secoli bui dai quali
velocemente, nella seconda metà del Novecento ci siamo distaccati come
confessione religiosa. L’Azione Cattolica ha fatto parte
storicamente del movimento laicale che ha spinto per questo risultato, trovando
udienza nei capi religiosi. Ricordiamo che le radici del Concilio Vaticano 2°
affondano addirittura nei moti religiosi dell’Ottocento.
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47
Cattolicesimo forza di progresso?
(29 novembre 2012)
Dalla Costituzione dogmatica
Lumen Gentium sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.36
I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo
valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente
secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga
più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo
ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza
quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata
intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro,
affinché i beni creati, secondo i
fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano
fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per
l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più
convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso
universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei
membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua
luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le
condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte
siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare,
favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore
morale la cultura e le opere umane. In
questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme
della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe,
per permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.
Ai tempi nostri probabilmente la
definizione del cattolicesimo come forza di progresso non troverebbe un
generale consenso. Eppure è proprio questo, in fondo, il fine che durante il
Concilio Vaticano 2° si pensò di assegnare all’azione dei laici nelle società
in cui vivono e operano. Ne è un esempio il brano della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: Luce per le genti) che ho sopra
trascritto. Possiamo considerarlo una novità in un documento della gerarchia
ecclesiale, tenendo conto delle precedenti millenarie prese di posizione in
merito.
Come ho osservato in
altri miei interventi, non è facile, leggendo le deliberazioni del Concilio
Vaticano 2°, individuare quelle parti che contengono sviluppi innovativi.
Questo accade in particolare in un documento di particolare rilevanza,
normativo, come la Costituzione dogmatica citata, che riguarda la Chiesa. Ad
uno sguardo superficiale tutti i temi che solitamente si facevano rientrare in
questo argomento sono esposti nell’ordine consueto. Infatti troviamo le parti
che spiegano di dove, da chi e come la Chiesa originò, la ripartizione dei
compiti in esso, da chi e come
l’autorità in essa venga esercitata, il carattere sacro di alcune funzioni,
come quelle del papa, dei vescovi e dei preti, le caratteristiche dell’impegno
dello stato religioso, la posizione degli altri fedeli, la missione della
Chiesa nella società del suo tempo, vale a dire in quello che nel gergo
teologico viene definito il mondo o
anche il mondo profano.
Eppure le novità ci
sono, anche se esse non vengono mai presentate come idee che si contrappongono
alla precedente tradizione, in particolare a
quella che riguarda i principi fondamentali, ma, al limite, come
scoperta, o riscoperta, di potenzialità di bene che storicamente erano state
poco capite o praticate. E ciò anche quando, sostanzialmente, si viene a
ripudiare qualcosa di male che si riconosce esserci stato nel passato.
E’ solo con il Grande
Giubileo dell’anno 2000, indetto e guidato dal papa Giovanni Paolo 2°, che si
giunge a richiedere a tutti, come
esercizio specificamente religioso, un lavoro particolare per raggiungere una
memoria storica veritiera sull’azione della Chiesa del mondo e il ripudio, vale a dire l’impegno a non
riproporli in futuro, di certi modi di essere, di organizzarsi, di entrare in
relazione con le altre persone, individualmente considerate o nei gruppi in cui
sono inserite vitalmente.
Le conseguenze sono
state molto rilevanti, perché i principi normativi del Concilio Vaticano 2°
sono stati fecondi e hanno ispirato molteplici sviluppi, che, in larga parte,
corrispondevano a modi di vivere la religiosità che si erano già affermati, più
o meno largamente, tra i fedeli e che attendevano solo di essere riconosciuti
in un documento normativo della gerarchia. Questo in particolare ha riguardato
i compiti dei laici cattolici, anche se su questo tema in genere c’è ancora
insufficiente consapevolezza e ciò per vari motivi.
Il primo è di ordine
culturale: mentre per i sacerdoti e i religiosi è previsto e obbligatorio un
processo di formazione continua, questo non è previsto per i laici, dopo il
periodo dell’iniziazione ai Sacramenti nell’infanzia e nell’adolescenza, che di
solito termina con la Cresima, se non ancora prima, con la Prima Comunione.
Il secondo
motivo è di ordine organizzativo: poiché
nella Chiesa cattolica i principi morali e di organizzazione e le linee guida
delle varie attività vengono formulati da appartenenti all’Ordine Sacro, quindi
dal clero, è ovvio che abbiano avuto il massimo risalto le questioni che
riguardavano questa parte qualificata dei fedeli, innanzi tutto per mantenere
un loro ruolo preminente in ogni settore e poi per conservare l’integrità della
struttura gerarchica del clero, centrata su centri di potere sostanzialmente
monarchici, con temperamenti di collegialità a vari livelli. Lo scopo è di
rendere coerenti su scala mondiale
gli insegnamenti religiosi, le liturgie e l’organizzazione ecclesiale, in modo,
in particolare, che la Chiesa appaia parlare con una sola voce, diventando
manifestazione dell’unità dei fedeli, secondo il comandamento ricevuto
evangelicamente.
Il terzo motivo è che
spesso i laici sono appagati da una religiosità meramente liturgica, e in
particolare sacramentale, della quale essi, sebbene coinvolti molto
profondamente nella loro interiorità, sono partecipi ma non protagonisti, in
quanto in tale campo emerge e prevale la missione del clero. Del resto, per
millenni è solo questo che, in definitiva, si è preteso dai laici, vale a dire
da chi non era prete, vescovo, monaco o monaco, frate o suora.
Le società civili, e
le loro popolazioni, erano lasciate al dominio di monarchi, con i quali la
Chiesa, a diversi livelli, tramite suoi plenipotenziari, e al massimo livello
in persona dei papi, entrava in relazione innanzi tutto per garantire spazi di
libertà alla propria organizzazione (clero e religiosi, con esenzioni e
privilegi che riguardavano le persone e i beni) e poi per assicurarsi il
riconoscimento di un potere spirituale sui sudditi dei monarchi civili,
venendosi in tal modo a realizzare una sorta di condominio sulle posizioni assoggettate al trono e all’altare. I due tipi di potere, quello civile e quello
religioso, venivano poi a sostenersi a vicenda, specialmente dove il monarca
civile riconosceva quella cattolica come unica
religione ammessa nel suo dominio e/o le autorità della Chiesa riconoscevano la
qualifica di cattolica a una dinastia
monarchica civile. Per queste relazioni politiche
tra autorità civili e religiose, la critica sociale su base religiosa, di cui
si trovano tanti esempi nell’Antico Testamento e che quindi aveva una salda
base biblica, era in genere scoraggiata dalle autorità religiose, perché
avrebbe messo in crisi quegli accordi, a volte semplici armistizi piuttosto
precari, raggiunti con le autorità civili. Ad esempio nel documento normativo
denominato Sillabo (=elenco),
allegato all’enciclica Quanta Cura (1864)
del papa Pio 9°, con l’indicazione di quelli che la dottrina cattolica riteneva
essere i principali errori del tempo, si dichiarava erronea l’idea che fosse
logico negare obbedienza e anzi
ribellarsi ai prìncipi legittimi.
L’esperienza delle
due guerre “mondiali” combattute nel Novecento manifestò l’insufficienza dei
princìpi che erano stati seguiti per millenni nelle relazioni con i capi delle nazioni, secondo
l’espressione utilizzata dal papa Benedetto 15°, nel 1917, nel chiedere di
fermare l’inutile strage in cui si
era risolta la Prima Guerra mondiale.
Il primo di quei due
conflitti bellici catastrofici era stato iniziato da monarchi cristiani e combattuto fra popoli di
antica civiltà cristiana. Il secondo era stato scatenato da despoti
rivoluzionari che si erano avvalsi in modo nuovo dei popoli assoggettati, non
più come storici sudditi di una dinastia, ma come espressioni di una nuova
condizione umana di dominatori, in virtù della quale avevano il diritto, come
sorta di stirpi elette, di predare e soggiogare il mondo. Qualcosa di simile
aveva travolto la dinastia imperiale cristiana russa, portando all’ordine
sovietico, in cui la religione era considerata una impostura di classe per
tenere soggiogata la parte subalterna delle popolazioni. Risolutiva, in
entrambe le guerre mondiali, era stata l’azione della democrazia statunitense,
la quale aveva fondamenti religiosi espliciti ma che, nello stesso tempo, era
struttura con un’organizzazione politica pluralista. Ad essa, nel pensare
l’Europa che sarebbe sorte dopo la fine dei totalitarismi guerrafondai nazisti
e fascisti, si cominciò a guardare come esempio di coesistenza pacifica di
popoli con diverse tradizioni etniche, culturali, linguistiche, religiose. E’
questo il momento il cui, anche sulla scorta di antecedenti storici risalenti
all’Ottocento, comincia a prodursi nella Chiesa cattolica quel movimento che
ebbe piena manifestazione molto più tardi, negli anni Sessanta, in particolare
con il Concilio Vaticano 2°.
In Francia e in
Italia ci si stava ragionando fin dagli anni ’30, sullo spunto del pensiero dei
filosofi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier.
Maritain intervenne
nel Concilio Vaticano 2° quale rappresentante degli intellettuali e in tale
veste ricevette uno specifico messaggio del Papa.
L’idea era che la
sfida lanciata dai regimi popolari totalitari, quello nazista tedesco, i
diversi fascismi europei e il regime comunista sovietico, non poteva essere
vita con i metodi e i principi del passato, quindi con la riproposizione della
restaurazione di una civiltà cristiana europea retta da un condominio di
dinastie civili e di monarchi religiosi, ma che occorresse coinvolgere più
profondamente, non solo chiamandole all’ubbidienza, le masse dei popoli
europei, rendendole protagoniste della costruzioni di civiltà, intese innanzi
tutto come istituzioni politiche, economiche e sociali, che non configgessero
con gli ideali di sempre della cristianità.
Una prima pronuncia
in questo senso della gerarchia cattolica al massimo livello si trova nel
radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12°, che ho più volte citato, in
cui ci si chiede se gli sconvolgenti avvenimenti dei decenni passati avrebbero
potuto essere evitati se i popoli europei avessero avuto più voce in regimi
democratici.
Questa lunga premessa
è stata necessaria per comprendere il senso del brano della costituzione Lumen Gentium che ho trascritto
all’inizio. Ci ritornerò sopra in altri interventi. Vorrei però che chi legge
lo facesse interiormente proprio, direi quasi mandando lo a memoria.
La prima
caratteristica di questa che è giuridicamente una legge fondamentale della
nostra Chiesa, parte di un documento normativo molto importante, è che non pone divieti e non indica nemmeno precisi obblighi di fare, come, ad esempio, nel
Decaloco, quando si prescrive di non
rubare (obbligo negativo – di non fare) o di
santificare le feste (obbligo positivo – di fare).
Il discorso che viene
sviluppato in quel brano è in sostanza un
appello, una chamata ad un lavoro, rivolto in primo luogo ai laici, a coloro che quindi non fanno
parte del clero o dei religiosi (frati e suore, monaci e monache).
Si riconosce ai laici
una competenza, vale a dire un
insieme di conoscenze e di saper fare, nelle discipline profane, che sono tutte quelle che non sono comprese
nella teologia, in cui sono formati il clero e i religiosi. Li si chiama ad
essere, come persone singole ma ance associandosi, forze di progresso a
beneficio non solo della Chiesa cattolica, ma di tutti gli esseri mani senza
eccezione.
Ecco in che cosa
consiste l’auspicato progresso: a)nel far progredire i beni creati mediante il
lavoro umano, la tecnica e la cultura civile; n) nella giustizia distributiva,
perché i beni creati aumentati e migliorati dall’azione umana, siano più
convenientemente distribuiti perché aia fonte di libertà umana e cristiana per tutti. L’obiettivo finale è risanare le istituzioni e le condizioni
del mondo, perché siano rese conformi alle norme
di giustizia e in tal modo favoriscano, anziché ostacolare, l’esercizio
delle virtù e, in particolare, quelle predicate nell’evangelizzazione dei
popoli.
In sostanza l’appello
è per operare per un progresso
tecnologico, culturale, civile e sociale, se del caso cambiando anche le
istituzioni, perché a tutti gli esseri umani sia aperta la via delle virtù
nella libertà. Questa è definita come opera di illuminazione dell’intera società umana e l’utilizzo di questa
espressione è analogo a quello che ne fecero gli illuministi nel Settecento. Solo che nella prospettiva cattolica
non si vede contraddizione tra la luce portata dalla ragione e la luce portata
da Cristo.
Se volessimo
individuare dal brano citato della Lumen
Gentium delle parole d’ordine, potremmo individuarle in queste: progresso, libertà, giustizia sociale, unità
per risanare il mondo comprese le sue istituzioni sociali, virtù, illuminazione
religiosa. Esse non sono rivolte
dalla gerarchia cattolica (solo) ai capi
delle nazioni, ma in primo luogo a tutti i fedeli laici. E’, a mia conoscenza la
prima volta che accadde nella storia della Chiesa in un documento normativo
della gerarchia. Vi invito a verificare la correttezza di questa mia
osservazione.
Certamente nel
passato nella dottrina del magistero di era fatta questione del buon governo, ama gli insegnamenti era
rivolti essenzialmente ai capi delle
nazioni e, a partire dall’enciclica Rerum
Novarum di Leone 13° (1891), alle parti sociali, imprenditori e lavoratori,
invitate a trovare una composizione dei reciproci interessi essenzialmente
nello spirito di non sfruttare le classi lavoratrici a tal punto dallo
spingerle alla rivolta. La giustizia
sociale, come la intende ai nostri giorni a partire da movimenti politici
che si diffusero nell’Ottocento, era estranea a questa prospettiva.
Bisogna precisare
che in questo la Chiesa cattolica, scrivendo sue norme fondamentali, non
intese, all’improvviso, aggiornarsi a come andava il mondo, corrispondendo in
tal modo alle attese di molta gente. Non è di questo aggiornamento che si è
trattato. In realtà la Chiesa cattolica, nella sua dottrina teologica e nella
sua normazione, si aggiornò a come essa era
già diventata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto
nell’impegno alla costruzione della nuova Europa dopo la catastrofe bellica
degli anni ’40. Già i cattolici si stavano infatti da tempo impegnando nel
senso auspicato dalla Lumen Gentium,
trovando però difficoltà nella normazione e nella teologia ufficiale della loro
Chiesa. In qualche modo, in questo campo, i
deliberati conciliari vennero
semplicemente a ratificare e a sistemare teologicamente, creando una
continuità dogmatica tra il passato e il presente, ciò che già i laici erano diventati e stavano facendo.
E infatti questo che
fu effettivamente un significativo cambio di rotta nel magistero gerarchico no
fu effettivamente avvertito come una novità, mentre fecero molta più
impressione le riforme che, dopo il Concilio Vaticano 2° e sulla base dei suoi
deliberati, vennero attuate nella liturgia della Messa: in questo campo infatti
fu effettivamente introdotto un rito diverso, pur se articolato nelle parti
tradizionali, e, soprattutto, iniziarono ad essere usate le varie lingue
nazionali dei popoli cristiani, in luogo del solo latino liturgico.
Concludo questo
intervento scrivendo che il difficile per noi laici non è tanto il capire gli
appelli che ci sono venuti dal Concilio Vaticano 2°, ma, esercitando
collettivamente le competenze che si sono proprie, ciascuno ragguagliando gli
altri sulle proprie specifiche e acquisendo dagli altri notizie sulle loro
(nessuno infatti nel mondo di oggi è capace di interloquire validamente su
tutto), capire il mondo in cui viviamo
per individuare come farlo progredire verso una migliore giustizia sociale,
per rimuovere gli ostacoli all’esercizio delle virtù e, innanzi tutto, quello
che è costituito dalla mancanza di libertà, determinata dall’ignoranza e dal
bisogno.
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48
Fede religiosa, forza di progresso
(4 gennaio 2013)
L’angelo è … il
messaggero che, secondo le immagini bibliche, collegando il cielo alla terra,
annuncia a un essere umano che la Parola divina che l’ha creato vive ancora nel
suo intimo più profondo, anche nel momento della sua disperazione.
L’esteriorità è dunque necessaria a
questa speranza, essa aiuta a combattere il destino, a imporsi su di esso e a
crescere. Per coloro i quali non
percepiscono angeli nella loro esistenza quotidiana così spesso tormentata,
questa esteriorità – dice il Rabbi di Gur – proviene dalle parole della Torà.
Sono esse che hanno la forza stupefacente di rinnovare il desiderio di vita in
ognuno. Questa esteriorità talvolta prende anche la forma della voce di
un’altra persona, che, proponendo parole di vita a colui o a colei che si trova
imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa più
trovarle. Ma in ambedue i casi, e del resto uno non esclude l’altro, è
necessario affinché quella persona le intenda e colga il filo di chiarore che
gli viene teso –attraverso parole udite da una voce che non è la sua – che
quella persona resti attenta a ciò che quelle parole vengono a toccare in lei:
quel punto di speranza non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al
tempo e alla natura, che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte,
malgrado le prove e la tenacia degli scacchi subiti.
[da Caterine Chalier, Angeli
e uomini, Giuntina, 2009, pag.62]
Ai tempi nostri, e
anche nell’insegnamento catechistico, si è piuttosto cauti nel proporre una
visione religiosa della vita, pensando che poi possa risolversi,
nell’interpretazione personale, in qualche tipo di stranezza per cui mediante
certe pratiche liturgiche o ad esse somiglianti, o comunque mediante una disciplina personale,
si confidi di poter cambiare, quasi magicamente, la realtà intorno a sé. Si
preferisce parlare della santità personale come risultato del confidare nella
Parola di Dio, la quale però, nelle situazioni concrete che si presentano, non
è facile da individuare e allora poi si finisce per consigliare di fidarsi
dell’interpretazione che ne dà la Chiesa in persona del clero o addirittura dei
capi della comunità a cui si è più legati. Ecco quindi che una parte di quelli
che sono stati raggiunti dal messaggio religioso si allontanano dalla comunità
in cui l’hanno ascoltato, cercando l’autonomia e la libertà di pratica e
giudizio. Questo pregiudica l’efficacia propria dell’azione laicale, che ha
bisogno di gente per essere attuata, essendo anche un lavoro collettivo, ma
anche della possibilità di sviluppare in concreto concezioni particolari,
adatte ai vari problemi che si affrontano, facendo quindi reagire in modo
originale e autonomo fede religiosa e vita concreta, senza però aspettative
eccessive quanto a felicità qui su questa terra.
Sarebbe bello poter
dire che se si ha fede si è felici, in qualsiasi situazione ci si trovi, ma non
è vero che questo accada sempre. Anzi, per ciò che mi è stato dato di
sperimentare accade piuttosto di rado e non penso nemmeno che ci si debba
sentire in colpa per questo, perché non si è felici pur essendo parte di una
collettività religiosa e avendo in misura maggiore o minore una fede religiosa.
E’ vero che invece i cambiamenti in
meglio della vita delle persone possono dipendere da azioni, individuali e
collettive, a fondamento religioso, nel senso di motivate non sulla base di
come vanno di solito le cose, quindi su un realismo materialista, ma su
considerazioni paradossali, fondate su come vorremmo che fosse il mondo, quindi
su un’esigenza interiore che ci fa essere diversi perché collegata all’idea di
essere creature, non un accidente
della natura, quindi esseri dotati di una speciale dignità. E’ qualcosa che,
come scritto nel brano che ho sopra riportato, giace e opera nel nostro intimo
più profondo ed è a volte suscitato, riportato alla superficie della coscienza,
dall’esterno: qualcuno la descrive come esperienza angelica, per altri è il
contatto con le scritture sacre, per altri ancora si tratta della voce di
un’altra persona o di un’altra situazione in cui ci si trova. E’ allora che si
risveglia in noi “quel punto di speranza
non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura,
che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e
la tenacia degli scacchi subiti.” E che si comincia a costruire un mondo
nuovo, in cui le tante cose dolorose della realtà che viviamo e che pure è
appunto la realtà siano superate e
migliorate. Ad esempio una società basata sul principio di uguaglianza intesa
come pari dignità, una cosa che in natura
semplicemente non c’è, come ricordavano gli schiavisti contro le obiezioni
degli abolizionisti. Tra gli esseri umani c’è stato sempre chi ha sfruttato e
chi è stato sfruttato, osservavano. Eppure questa realtà umana storica dello schiavismo è stata contrastata sulla
base di motivazioni in fondo religiose, quindi paradossali, almeno fin dal
Cinquecento, e dal Settecento con particolare efficacia, e ha portato
l’abolizionismo a prevalere a livello globale. E ciò anche se nella Bibbia,
composta di scritti composti in tempio piuttosto antichi, in cui lo schiavismo
era realtà giuridica accettata non c’è una parola esplicita contro di esso,
dico un appello alla rivolta contro
di esso. Eppure il movimento contro lo schiavismo, specialmente nell’Ottocento,
ebbe anche motivazioni religiose cristiane (pur avendone avute anche di
analoghe le pratiche schiavistiche degli Europei contro gli africani e i nativi
americani).
A una persona più
giovane di me che ha lasciato le consuetudini di fede respinta dal fideismo
irriflessivo che le era stato proposto, non attesterei mai che recuperando la
fede sarà felice su questa Terra, ma certamente le farei notare che su basi
religiose, dunque di ribellione contro le cose come normalmente vanno, in
particolare in natura, potrebbe capitarle di collaborare a cambiare in meglio
il mondo, in particolare nello sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo nel
pensiero e nella pratica. La nostra fede non ci impone di rassegnarci ad accettare
le cose come vanno e a ritenerle volontà di Dio, anche se si trattasse, ad
esempio, di una malattia grave o di un altro accidente “naturale”. L’altro
giorno sono stato in visita ad un centro oncologico e alle persone che ho
incontrato in sala d’attesa davanti agli ambulatori non avrei mai fatto questo
discorso. Né avrei promesso che, seguendo certi riti, Dio le avrebbe salvate. O
che, comunque, anche nella prospettiva della morte avrebbero trovato la
beatitudine, la felicità. La mia infatti non è una fede consolatoria o di rassegnazione,
ma di ribellione, di rivolta, a partire da una realtà affrontata senza facili illusioni. E’ vero tuttavia che, in
una prospettiva religiosa, in particolare cristiana, si può dare un senso a ciò
che ci accade e quindi si può essere portati ad agire di conseguenza: questo
rafforza il sentimento della propria dignità di fronte a una realtà sociale o
naturale che invece porta a deprimerla. Fa bene e porta a fare il bene. Non mi
sentirei di dire che accada sempre e
non ne faccio una colpa a quelli ai quali non accade. Per un malato grave, ad
esempio, la fede può essere solo un problema in più da affrontare e talvolta il
problema della teodicea, di
giustificare l’operato di Dio nel mondo, quindi il mondo come risultato di creazione, può superare effettivamente
le nostre forze. Ma di solito nella sofferenza è ancora possibile, come scrive
la Chalier, percepire un filo di chiarore,
e ciò sovente deriva da un’esperienza francamente religiosa, di voce o
situazione che risveglia una convinzione paradossale, che riguarda “parole di vita a colui o a colei che si
trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa
più trovarle”.
Il primo dovere
religioso del laico è quello di capire
realisticamente ciò che sta succedendo, per lui la fede non è quindi un fattore
anestetizzante, e poi di agire per
realizzare un mondo diverso (ordinare le
cose temporali secondo Dio, nel gergo teologico). In particolare è questo
appello, non di rassegnazione, che viene ai laici, e a tutti gli esseri umani
di retta volontà, dal Concilio Vaticano 2°
e dai documenti del magistero che si sono proposti di svilupparne i
deliberati.
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49
Noi, la Chiesa e la società nella
crisi
(7 gennaio 2013)
Il duro inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di
sacrificio per i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi,
per le famiglie con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa
provvidenzialità di questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la
sollecitazione a rinnovate opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero
rapporto della Chiesa con la società italiana e col mondo che viene in primo
piano. E non più solo o tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del
sistema sociale e politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma
soprattutto per la sfida che la crisi economica, istituzionale e culturale pone
al presente e al prossimo futuro nella società e civiltà italiana.
Il nostro paese è in incombente pericolo di
precipitare in un nuovo periodo di decadenza, secondo una triste regolarità
della nostra storia. C’è già chi si rassegna. Ed è forse proprio contro la
inclinazione anche di molti cattolici alla rassegnazione che questo convegno acquista
ora la sua drammatica attualità.
Tra le non molte interpretazioni complessive
della situazione attuale della società italiana, che ho trovato tra i documenti
di risposta pervenuti dalle diocesi, da singole comunità e gruppi di lavoro di
Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da qualche comunità cosiddetta
di base – la rassegnazione non trova però spazio.
Il senso di gran lunga prevalente delle
risposte sul tema generale del rapporto fra la Chiesa e la società italiana, è
che occorre accrescere il mutuo aiuto tra Chiesa e mondo nello spirito della
“Gaudium et spes”. E proprio la ricerca, da parte della cattolicità italiana,
di vie e modi e obiettivi specifici, per una congiunta e non contraddittoria azione,
di annuncio del Vangelo e di impegno per la giustizia e per la partecipazione
alla trasformazione del mondo, configura lo specifico apporto della Chiesa alla
società profana.
[Dall’intervento del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al
convegno ecclesiale “Evangelizzazione
e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976
– in Evangelizzazione e promozione umana
– atti del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice
A.V.E, 1976]
Le parole che ho sopra
trascritto sembrano scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema
della nostra Chiesa che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in
relazione con il mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a
trentasei anni fa. Che significa questo?
Significa che un lavoro che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto
e che ora può essere ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte
nuovamente favorevoli, in particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo
nell’enciclica Caritas in veritate
del papa Benedetto 16°.
Che cosa è la nostra
Chiesa? Non parlo naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue
finalità sotto il profilo teologico,
della fede comune professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di
vista sociale, delle relazioni come collettività con il mondo in cui è
storicamente inserita. Questo è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire la società
arricchendola con i principi evangelici che riguardano la vita comune.
Non vi aspettate che
vi dia qui delle risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse
nelle nostre riunioni infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito
prendessero parte anche coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla
vita della parrocchia e anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa
come è ora e lo dicono francamente, ma tuttavia nella loro interiorità
apprezzano ancora, al di là di quelle critiche anche dure, un discorso
religioso.
Siamo, ad esempio,
una ditta per la propaganda del sacro? Siamo una federazione di collettività che in
senso molto lato condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che
fanno vita separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui?
Siamo una federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che
vuole dare una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla
contro le critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire
un’organizzazione che ha come scopo principale sostenere l’azione del Papa nel
mondo di oggi e in particolare in Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo
di avere la ricetta giusta per cambiare il mondo rovesciando i principi
perversi su cui esso si fonda? Siamo gruppi di oranti che pensano di ottenere
il cambiamento del mondo con la preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i
vescovi e il Papa per noi? In che cosa i preti si differenziano dagli
assistenti sociali, dagli psicologi, dagli psichiatri e dagli insegnanti delle
scuole? Quale autorità riconosciamo loro, di fatto?
In questo Anno della fede queste domande mi
sembrano importanti. Possiamo aspettarci che la risposta ci venga dall’azione
catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa
siamo o come dovremmo essere? O dovremmo, come punto di partenza,
riconoscere francamente come abbiamo
voluto essere finora e capire se questo modo
di essere è sufficiente in relazione ai principi che proclamiamo e che,
come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di sé e ancora
informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?
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50
Un processo continuo di
liberazione
(8 gennaio 2013)
Se c’è, come non può
non esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la Chiesa, il
cristiano con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in questo
processo di liberazione. In che modo? Con la triplice azione sacramentale che è
propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di
liberazione e di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano
deve essere innanzi tutto presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il
cristiano nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo
stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno,
deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti
che la Chiesa deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata
da Cristo.
[
da La Chiesa sacramento di Cristo e segno
e strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo
Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI, in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo – a
cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo scritto che ho sopra riportato rende bene
il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa
cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale, se non una
organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo nuovo, nel
senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente motivati,
in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni o strati
di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla sofferenza
e alla minorità.
Bisogna dire che di certi temi in Italia si parlava
accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello dell’elevazione e
liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia.
Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici sono migrati dalle
nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.
E’ necessario anche aggiungere che il disegno
conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici in questi nuovi
compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione
e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro
di preparazione di questa parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune
sue porzioni particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto
il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello
di presenza dei fedeli laici nella società in cui
vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80,
nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel nostro complesso e parlando
francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana, o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?
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51
Pace come promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra
è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende
i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli
sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così
« chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di
Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio,
introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo,
ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme
di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica,
le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta
con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e
nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is
60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di
Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare
tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello
Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le
singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in
modo che il tutto e le singole parti si
accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la
pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie
da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse.
Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni
impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la
condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla
santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro
fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò
che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima
comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse
materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i
beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da
bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a
servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica
unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati
sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli
uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965), n.4:
“E mentre il mondo avverte così
lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una
necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da
forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti politici,
sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una
guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta lo scambio delle idee; ma le
stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle
differenti ideologie significati assai diversi.
Infine, con ogni sforzo si vuol costruire un'organizzazione
temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il progresso
spirituale.
Immersi in così contrastanti
condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare
realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte
recenti.
Per questo sentono il peso della
inquietudine, tormentati tra la speranza e l'angoscia, mentre si interrogano
sull'attuale andamento del mondo.
Questo sfida l'uomo, anzi lo costringe
a darsi una risposta.”
Dalle relazione tenuta da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal
1972 Segretario generale della C.E.I.) al seminario della Caritas italiana del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982,
pag.123.
Ecco allora quello che è la Chiesa o per lo meno quello che ella è
virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve di continuo divenire: una comunità, una comunione di uomini amati da
Dio e che hanno la capacità per il dono dello Spirito che è stato loro concesso
di trasfondere, di manifestare, di realizzare questo amore di Dio per gli
uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto verso coloro che Dio ha
chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere membra vive della
medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli uomini: “ogni uomo
è mio fratello”.
Se noi comprendiamo questo e se non
ripetiamo pappagallescamente lo slogan dell’amore che risolve tutto, ma
arriviamo a comprendere la radice profonda che costituisce l’essenza intima e
autentica della Chiesa come comunità di credenti, come comunione di coloro che
Cristo ha redento, allora veramente noi abbiamo della Chiesa e quindi di noi
stessi un’altra visione. Noi comprendiamo che se questa è l’essenza profonda
della Chiesa, se questa è la sua realtà di base, la sua intima connessione
interiore, se questo in fondo è il suo mistero, rivelare questo mistero al
mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per primi e poi via via a
cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco, Dio non ha abbandonato il
mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha abbandonato la storia perché ha
messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù nell’amore dello Spirito,
questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo secondo il progetto di
Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per lui.
Intendere la Chiesa
comunità pacificante è stata una delle idee forti che si sono manifestate nel
Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Bisogna considerare che sul
tema della pace non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in
particolare dopo il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso
le concezioni che oggi sono diffuse dal magistero.
Il tema della pace, nei
documenti conciliari, si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché
la pace è cosa da realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei
templi dove dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito
principalmente laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica
per l’instaurazione e il mantenimento della pace tra i popoli è quello di un’autorità
mondiale, universalmente riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una
sorta di polizia di pace, nel senso
di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i
conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che
un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di
degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In
realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione
di un ordine pacifico, in una accordo tra
autorità costituite, con una cessione di
sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo
espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizione di parità con gli altri
Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la
pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali a tale scopo.
In realtà un’autorità mondiale di questo tipo
non è stata ancora realizzata. L’esperienza europea di pacificazione
continentale, che l’anno scorso ci è
fruttata il Nobel per la pace,
è basata molto su una progressiva convergenza dei costumi dei popoli oltre che
sull’azione di autorità a vario livello, secondo il principio, riconosciuto
anche dalla dottrina sociale della Chiesa, della sussidiarietà. In questo quadro ha avuto molta importanza la
penetrazione sociale di costumi democratici, intesi sia come forme partecipate
e pacifiche di decisioni su temi di interesse comune sia come affermazione
concreta dei diritti umani fondamentali.
Il lavoro di pacificazione
può farsi rientrare nell’impegno di promozione
sociale, quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo
fondamentale al laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli
scritti che ho sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo
da un intervento fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono
indicate specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come
realizzare la pace in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta
considerazione del contesto sociale umano ( lo scrutare i segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei
laici, che, nella visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con
tutti le altre persone bene intenzionate.
Pace, in senso religioso,
non è solo assenza di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui
la personalità degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente,
secondo il vero bene di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà
esercitarsi l’azione laicale.
Nei discorsi religiosi e su
base biblica, si collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace
potrà essere realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia,
realisticamente, non è garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace
nelle società umane, in cui si manifestano sempre, ad un certo livello, delle
devianze rispetto all’ordine costituito, talvolta sulla base esclusivamente
degli appetiti e degli interessi individuali e di gruppo. Questo significa che
per il mantenimento della pace occorrerà
sempre l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una
prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e,
comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con
procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone
umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie
avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di
punizione dei colpevoli.
Mons. Bartoletti metteva in
guardia dal parlare con troppa disinvoltura di amore come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che
richiede un impegno concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che
essa scaturisca, quasi magicamente, dal parlare
di amore.
Pacificare le società umane
non è sempre facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala
globale o nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità
parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto
limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come
quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza
di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale e dall’Asia, l’integrazione sociale degli
stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle
realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono
essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa.
Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e
adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità
di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo
politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la
possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più
giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter
entrare di nuovo in contatto con le tante persone più giovani che, formatisi in
religione nella nostra parrocchia, non la frequentano più, forse essendo
rimasti a vivere in zona. Anche questo farebbe parte di un’opera di
pacificazione, se si fossero allontanati per qualche motivo di risentimento o
di rancore nei confronti della nostra comunità.
Molti sono impegnati nel lavoro o nello studio quando il gruppo si
riunisce. Io stesso ho talvolta difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E
anche gli impegni di famiglia possono ostacolare un impegno extradomestico in
certi orari. Sentiamo però la nostalgia
e il bisogno di queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro
storie. Come ho detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il
mondo in cui vivono per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri
umani, secondo grandi principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a
dire ben consci della sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo.
Eppure, passo dopo passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è
pure sorta dai millenni bui delle guerre continue!
Non abbiamo la pretesa, noi
del gruppo parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la
vite degli altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede
un impegno enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che
stiamo facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale,
che passa anche il prendersi cura degli altri
a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo,
ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
Ma, in definitiva, lo
sforzo che si fa in un gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso,
segna innanzi tutto un progresso
spirituale, che, come contagio, può diffondersi nella società intorno a
noi, nei punti in cui entriamo in contatto con essa.
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52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In
tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio,
poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non
terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in
comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che
gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo
mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo
regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario
favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei
popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida
ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re,
al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città
queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo
carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello
stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta
l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di
lui.
In virtù di questa cattolicità, le
singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in
modo che il tutto e le singole parti si
accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la
pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie
da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse.
Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni
impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la
condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla
santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro
fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò
che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione
circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I
membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche
alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi
amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio
degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica
unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati
sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli
uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Da “Una Chiesa in
ricerca, in servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e
promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:
“…se le due funzioni
di servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente
distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi nella unità
organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il
vero contributo della evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera
della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve
passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in
Italia il primo problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il
nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito
dal convegno) è quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.
Venerdì prossimo
inizierà la settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo
tema, pensiamo alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno
organizzazioni separate mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte
legate a un unico pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad
un unico Signore.
Tuttavia il problema
dell’unità sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione
religiosa. Esso si è fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio
Vaticano 2°, come indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che
ho sopra trascritto. Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha
fatto le spese in particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80
ha visto ridursi molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura
messo in discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e
i vescovi e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
Ad esempio nella
nostra parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non
sia più, da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è
sostituita l’organizzazione del Cammino
Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella
Chiesa e nel mondo hanno caratteristiche
piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica. Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è
diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra
parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una
confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione
tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono
varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione.
L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
Come ho cercato di
riassumere nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme
organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per
l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della
società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai
sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare
anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio
Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2°
l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi
principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una
certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era
organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della
partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno
dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del
fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno
avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti
rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società
civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra
i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo
dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più
prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si è sentita di meno l’esigenza dell’unità di
pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni
che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di
essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che
l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha
potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha
fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere,
vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo
complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto
di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano
quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella
società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società,
sul modo in cui vivere una buona vita cristiana e poi, principalmente, sul problema
degli alleati che si vogliono avere per fare
progredire la società, vale a
dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del
passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e
della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente con le ideologie liberali, fasciste o socialiste che esprimevano un’azione di
forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che
si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si
individuava una cultura della mediazione,
impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come portatrici varie organizzazioni, tra le quali
il Cammino Neocatecumenale. In genere
si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa
abbia scelto il metodo della presenza.
Oggi si è ormai perso il senso di questo
diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno
imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa
ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora
ci sono quelli per i quali i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa
effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i
principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la
pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle
relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal
magistero.
Certamente siamo
chiamati all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati
a parlare delle nostre scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover
essere in comunione. Mancano però di
solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo
separato.
Ma non è detto che poi, parlando, discutendo, si
arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di
laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio
in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise.
Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente
affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato
nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria
a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da
venire, mi pare.
Uno dei luoghi in cui
essa potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la
quale appunto non ha le caratterizzazioni forti
di altri gruppi e pratica il metodo
democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a
convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il
proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni
ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità
parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
Se però guardiamo
alla nostra realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano
dall’essere realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza
associativa, se non riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro.
Eppure esso sarebbe ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è
ancora un contributo che potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo,
non ci sono altre organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale
storicamente l’Azione Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare
efficacemente nell’idea dell’evangelizzazione come promozione umana e della
promozione umana come evangelizzazione.
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53
Scrutare i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)
Dalla Costituzione pastorale sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965):
Pertanto il santo Concilio, proclamando
la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe
divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare
quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la
Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza
alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.
LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO
CONTEMPORANEO
4. Speranze e angosce.
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche. Bisogna
infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono
delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della
sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente
si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e
dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi
giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e
d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i
cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione
reca con sé non lievi difficoltà.
L’Azione Cattolica è
particolarmente impegnata non solo ad attuare
i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne
tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei
laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già
si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo
nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare
ciò che si debba fare nel dopo Concilio.
Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha
nostalgia della Chiesa-di-prima,
anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in
particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al
mondo in cui i cristiani vivono, a ciò
che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in
particolare la seconda questione.
Riassumendo molto,
le posizioni che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle
piuttosto fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo
in vari campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della
politica. Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano
producendosi e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli
aspetti religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi
in un tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui
risultati di questo processo. Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad
esso. Si volle quindi aprire gli occhi e
il cuore a quello che accadeva nel mondo, per capirne le opportunità
religiose di bene. Si usò a questo proposito l’espressione evangelica scrutare i segni dei tempi, parlandone
come di un dovere permanente per la Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano
che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che, storicamente, questa può
essere considerata una novità rispetto alle posizioni precedenti del
magistero. E giunse in un tempo in cui
ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le
visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva
propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra
fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici
dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia non esplodeva in una conflitto guerreggiato,
in una nuova guerra mondiale, per il
timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di
una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna
ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo
in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche
l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da
alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno provvidenziale. Dovettero però
passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello
mondiale divenissero infine realtà.
Fino al Settecento la
Chiesa cattolica fu piuttosto integrata
con il mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente
al modo in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i
suoi capi o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero,
religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del
popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i
suoi signori delle nazioni.
A partire dal
Settecento la situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i
fondamenti ideali del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il
potere temporale della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul
mondo in cui viveva. Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero
cristallizzandosi nei movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un
moto di opposizione e di contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione
era consentita, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la
particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva
mantenuto saldi legami con fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di
proporsi al mondo culminò in due momenti: l’elencazione legislativa degli
errori del tempo, contenuta nel documento denominato Sillabo, allegato all’enciclica Quanta
Cura, promulgata nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto
modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata
nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il
divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno
d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con
provvedimento della Penitenzieria
Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un
precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con
l’enciclica Graves de communi, promulgata
dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una
politica democratica cristiana.
Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose
anche la conclusione, nel 1929, dei Patti
Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia,
quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze
reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i
movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La
situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale,
sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione
del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici
cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione
nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato
viene chiarito il senso dell’espressione scrutare
i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il mondo in si
vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
La Chiesa nei secoli precedenti si era
considerata e dichiarata maestra di
umanità, come ancora ritiene di
essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia
dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è
proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio
liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica
competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del
magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto
influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare
dall’enciclica Populorum progressio,
promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.
La concezione ottimistica dell’andamento delle cose
del mondo espressa nei deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto
temperandosi durante il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu
certamente uno dei maggiori artefici degli sviluppi conciliari, ma era
portatore, specialmente negli ultimi anni del suo regno, di una visione
pessimistica sull’umanità sua contemporanea, vista come soggiogata da potenze
di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in questo l’influsso del pensatore
eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev (1853-1900), il quale pronosticava
l’avvento dell’Anticristo nell’apparente
progressismo delle tendenze sociali
moderne e che era portatore di una visione di stampo religioso fortemente pessimistica sul mondo del suo
tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti che idealmente
agiscono come piccolo resto in
opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti negativi e
antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del cristianesimo
delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta ostilità o vera e
propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità di impronta
familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un cristianesimo
integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri aderenti che
condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009
dal papa Benedetto 16°, la tendenza si è di nuovo invertita.
Non che nella Chiesa
cattolica non possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate
all’idea del piccolo resto: esse anzi
ci saranno sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita
religiosa. La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un
ordinamento fortemente pluralistico, in cui da
sempre sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur
nella condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che
specificamente vengono denominati dogmi di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico
della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia
chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi
non solo con la modalità della testimonianza
di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire
articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere
condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione
culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che
comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della
pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
Capire il mondo è fatica,
non nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una
religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata
prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma,
devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano
invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù e in questo a volte sorprendono i più
giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
Bisogna riconoscere che
nell’opera di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore.
E ciò è ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti
a diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel
nostro gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco
quindi, come spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro,
nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario,
ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso,
non c’è mai stato nel
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54
Fede cristiana: speranza credibile e onesta
o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978
– San Giovanni in Laterano)
Ed ora le nostre labbra, chiuse come
da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del
sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido
cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca
la nostra voce.
Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare
il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai
esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo
buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato
il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione
e la vita. Per lui, per lui.
Signore, ascoltaci!
Fa’, o Dio, Padre di
misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della
morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi
tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non
è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio,
noi li rivedremo!
Signore, ascoltaci!
E intanto, o Signore,
fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare
l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che
hanno subìto la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro
sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta
coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla
redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!
Signore, ascoltaci!
Interrompo gli
interventi sui temi del Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione sulla
base del dibattito che si è articolato
nella riunione di martedì scorso del nostro gruppo.
La fede religiosa ci salva dalla sofferenza
dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto angosciati da ciò
che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni momenti della loro vita.
Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6° recitò nel corso della
messa funebre per Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, suo
amico personale, ucciso quattro giorni prima da un’organizzazione terrorista di
impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.
Una delle accuse più tremende rivolte alla
nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode, che
prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali invece
che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a
farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli oppressori e
aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista
storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra
spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.
Noi, da credenti, non ci facciamo illusioni
sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella vita degli esseri
umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla via della fede, simile alla grossa pietra rotolata
all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata dal papa
Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa
può essere uno dei modi per reagire alle avversità, in alcuni casi essa
può addirittura essere di impaccio sulla strada della resistenza e allora ce se
ne libera. Ma, di solito, quello che in certe condizioni personali difficili si
rifiuta non è la vera fede, ma una sua approssimazione insufficiente, il
fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare le difficoltà che anche da
credenti ben formati si incontrano in certe condizioni di contrasto e di
dolore. La nostra infatti è una fede religiosa paradossale, che quindi non
trova definitive conferme
nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se la magnifica complessità
della natura suggerisce l’idea di un disegno
intelligente che si spera essere anche amorevole,
visto che l’amore nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e
l’incessante lotta di questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo,
per prevalere a spese di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte.
Per quanto poi ci si ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che
le cose, in conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità
interiore profonda che noi troviamo il fondamento della nostra speranza
religiosa, alla quale, per quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va,
sentiamo di non poter rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle
cose, quindi non chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che
tutto è bene. Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore
Bernanos usò nel romanzo Diario di un curato di campagna (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con
tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita
umana, la nostra vita, merita di essere
vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo
meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che
è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che
sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine.
Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato
che tutti riescano ad arrivarci con facilità:
ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione
religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a
concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°: Non è
vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà.
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55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19 gennaio 2013)
Dal decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal
latino: L'attività apostolica)
sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza
degli uomini, però abbraccia pure il
rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della
Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli
uomini, ma anche ad animare e perfezionare l'ordine temporale con lo
spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato
nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi
ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino,
che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una
creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del
tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il
laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli
uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.
In queste poche righe
del decreto conciliare Apostolicam
Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi
molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra
confessione religiosa.
Innanzi tutto,
iniziamo a tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a
loro volta, sono una traduzione dal testo originale scritto in latino
ecclesiastico moderno.
Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui
viviamo, l'ambiente naturale e
sociale. Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia
teologica, è quello della fede, in cui
il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e
dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono
stati considerati distinti per i
cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo
della nostra era, però anche legati.
Il cristianesimo
nasce nella Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione
ebraica ma sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica
del tempo non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui
bisognava organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di distinzione
origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema
dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per
la guerra ai romani, all'opposizione dura,
si deliberò di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio". Cesare era
l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo
appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire
ai doveri specificamente religiosi.
Nei primi secoli,
quelli dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il
cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si integrò nell'ordine
politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a porsi il problema del legame, vale a dire dell'influenza dei
principi religiosi, oggi diremmo dei valori,
sull'ordinamento politico e civile della società. Non è che, prima di allora,
le società dominate dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare
l'errore di considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante
dei secoli dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano,
chiamiamo i pagani fossero atei.
Tutto al contrario, i pagani dell'ellenismo
e della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si spiegherebbe perché costruirono tutti quei
grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto
è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi
molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in
particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti
pensare al titolo di pontefice che si
dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
La dialettica, che
ebbe storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli
imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa
nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione e legame.
Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie
assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà
ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica
autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che
l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione
religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas,
che significa papà), si era
instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come
succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie,
aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali
(un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano,
a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono
problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi.
L'accusa di papismo cattolico
ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati
Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy.
Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535),
importante ministro e consigliere del re
Enrico 8°.
Nella visione antica
del legame tra temporale e spirituale,
pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare
un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era
considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di
idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come
gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,
con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo
costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento
politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di
confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad
arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano
emarginati.
Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società
civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie
assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione.
I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America,
nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia
ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un
sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che
portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso
accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori
particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun
potere.
L'assimilazione alle
monarchie assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un
certo momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad
esempio, cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui,
secondo un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in
una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in
quello politico, re dei re.
E' chiaro che la
prospettiva è molto diversa nel brano della Apostolicam
Actuositatem che ho sopra citato. Qui
l'idea di rinnovamento delle
società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni di
popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella
di un tempo: essi vengo denominati città degli
uomini, espressione cara a Giuseppe
Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in
cui, con riferimento all'idea di rinnovamento
delle società civili, sono tramontati i monarchi
e sono sorti i popoli.
La pace tra cielo e
terra non è poi più affidata ad un accordo condominiale
tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in
passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli
ordini di sovrani: la coscienza.
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56
Democrazia, difficile virtù
In religione si ha
di solito difficoltà a pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo
senso la si subisce e perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in
guardia i fedeli dalle sue degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di
rimettersi al giudizio della gerarchia del clero, un’organizzazione non solo
non democratica, ma addirittura antidemocratica.
E, infatti, si ripete abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti
così come sono organizzate non lo sono)
e non si capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un
loro problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.
Considerando che tra
il 1944 e il 1991 la democrazia è
entrata anche nella dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si
considera una condotta politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei
processi democratici moderni, a fine Settecento, la si era sostanzialmente
assimilata all’eresia e condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella
nostre collettività di fede, e soprattutto praticarla.
Democrazia non è
solo la regola per cui la decisione comune è quella maggioritaria. Significa,
prima di tutto, libertà di coscienza e di parola, rispetto degli altri,
processi decisionali preceduti da un dibattito franco, aperto, completo,
informato, responsabilità dei capi verso i governati, temporaneità delle
funzioni di comando, e soprattutto un particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma - “grande anima”, politico
indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto dire sempre la verità,
perché noi non possediamo la verità e sempre la dobbiamo cercare come a
tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In
religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le
persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere
impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili
con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali
fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire gli altri secondo un certo nostro modello
promettendo la felicità.
Bisognerebbe fare
scuola di democrazia a partire dai bambini della prima iniziazione religiosa,
quando scoprono l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia,
perché presuppone la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i
processi decisionali. Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia
tra gli esseri umani, il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli
altri, quella dimensione relazionale che ci fa crescere, come ci è stato
spiegato nel primo incontro del ciclo Immìschiati
sulla dottrina sociale della Chiesa,
per cui non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la
democrazia, prima di studiarla sui libri, occorre viverla e innanzi tutto scoprirla nelle relazioni
con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto,
imparare a non diffidarne.
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57
Dottrina sociale, liturgia e Concilio
Vaticano 2°
I documenti del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione religiosa e
contengono importanti disposizioni in materia di liturgia e di dottrina
sociale. Le novità più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni, quelle
in materia di liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente
innovata.
Nell’Ottocento, quella che
consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà ne è storicamente l’ultima
propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni democratici che si venivano
manifestando in Europa, animati da spirito di libertà e di giustizia sociale.
Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in polemica, fin
dall’enciclica Le novità del papa Pecci del 1891, con il
liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora sopita, tanto che è
stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del ciclo Immischiati,
nella nostra parrocchia.
Durante il Concilio Vaticano 2°
si corresse il tiro. La libertà di coscienza del liberalismo e l’impegno per la
giustizia sociale del socialismo divennero virtù anche in senso religioso.
Nello stesso tempo si cercò di
avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più ampiamente l’uso delle
lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato un grosso ostacolo alla
formazione religiosa dei fedeli mediante la partecipazione alle azioni
liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà del papa Montini l’uso della
lingua nazionale divenne poi la forma normale delle liturgie con la
partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti monastici o della Curia
Vaticana e di altri ambienti particolari.
Per quanto riguarda il rito
della Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella Costituzione Il
Sacro Concilio:
48. Perciò la Chiesa
si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti
spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti
e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e
attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo
del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non
soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se
stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati
nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in
tutti.
La partecipazione attiva alla
liturgia era collegata all’impegno per la giustizia che si ritenne di
promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per infondervi i
principi religiosi, per ordinarla secondo Dio, come
venne scritto nella Costituzione Luce per le genti
n.31 Per loro
vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici dovevano essere adeguatamente
preparati e la liturgia era un’occasione molto importante per farlo.
Il nuovo ruolo dei laici di
fede nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega perché negli anni
successivi venne accettata anche la democrazia come virtù politica e religiosa
insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle affermazioni teoriche, con
l’enciclica Il Centenario del papa Wojtyla, ma ancora in
corso nei suoi sviluppi pratici.
Nell’incontro Immìschiati sulla
persona è stato detto che la dottrina sociale non è una terza via tra
liberalismo e socialismo ed è vero. In realtà si tratta di una mediazione
culturale della nostra fede che recepisce, ibridandoli, principi liberali e
principi socialisti. Ne costituisce una sintesi, costruita per rendere
compatibili le loro principali istanze con la nostra fede religiosa. In
un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno sia libero di fare di sé
stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare, perché noi non siamo dei,
ma solo creature fragili. E’ questa è sicuramente la realtà.
Nell’Ottocento la via
democratica era ancora molto di là da venire in religione.
Il nazionalismo del Regno
d’Italia privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia centrale ed essi la
presero molto male.
Il Regno d’Italia era retto da
un sistema politico che integrava conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo
e liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però che di quest’ultimo poteva
fare a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere del contenzioso con il Papato
si presentava come uno stato democratico, anche se l’elettorato era piuttosto
selezionato, tra i soli uomini di un determinato censo o con un livello minimo
di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto sta che il Papato, nella
polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un movimento del popolo
minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un arrogante e presuntuoso ceto
politico irreligioso, tuttavia era ancora custode delle buone e antiche
tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente appartenenti ai ceti
colti, che cercavano una via per vivere attivamente le istituzioni
democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine Ottocento del
movimento politico della democrazia cristiana, e anche l’ideatore
del nome e del concetto di tale politica, e cercò di mantenere le
masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato, per utilizzarle come
strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato tolto con la guerra
del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di avere mantenuto
una sovranità sugli italiani. La prima dottrina sociale della
Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date da un sovrano, il Papa,
al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione all’elaborazione di quei
principi sociali, sebbene le encicliche sociali non siano mai state il frutto
di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre un lavoro collettivo, a
più mani, perché i Papi hanno una formazione prevalentemente teologica,
anche se, ad esempio, persone come Montini e Wojtyla si intendevano pure di
filosofia. La repressione dei ceti colti dei laici di fede determinò che la
religione apparisse cosa da incolti. In più, i fedeli erano indotti a non
partecipare alle elezioni politiche e così si trovavano nella stessa condizione
degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi a causa della loro condizione di
ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi del Novecento, che si cominciò,
faticosamente, a cercare di andare in altra direzione, dando una formazione ai
fedeli laici, ed anche alle donne dal primo dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata
per essere un più docile strumento alla politica papale in Italia rispetto alla
rissosa Opera dei Congressi, indotta a sciogliersi d’autorità nel momento di
più acceso scontro tra intransigenti (contrari alla
partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,
divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle
organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato
con il regime fascista, che consentì di chiudere la questione
romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione
della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file
dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo
la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre).
L’ideologia di questi politici democratici cristiani fu
modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla.
Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo
inserirono nella loro nuova dottrina sociale.
Ecco ad esempio che cosa
si legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da parte loro, riconoscano
e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano
volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici
in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li
incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa.
Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le
richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano
quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i
laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo
modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è
favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera
dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con
più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta
la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua
missione per la vita del mondo.
Sia nella liturgia che nelle
cose sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo Concilio fu quello di
promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la dottrina sociale non
furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di tutti richiede di
fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto indietro.
Da un lato la gerarchia del
clero diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto dell’apostasia
e bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo è il
tremendo verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi di vita
buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che cercano di
imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con la forza
del numero o della loro veemenza.
In particolare si ha sempre
difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e religioso dei nostri
tempi.
Le cose si sono molto
complicate nella società italiana di oggi. Per molti italiani è
impossibile tornare a una fede religiosa che non è
mai stata quella della loro tradizione, perché provengono dall’ortodossia
orientale e da altre confessioni cristiane, dall’islamismo, dall’induismo, dal
buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il maggior livello di istruzione
della gente, raggiunto per merito del sistema scolastico pubblico, ha
comportato che su molte questioni di coscienza non si
sia più disposti all’obbedienza acritica. Nessuno in genere,
neanche le donne che in passato sono state le fedeli più docili,
è più disposto adabitare ambienti sociali in cui gli è
vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre certe umiliazioni
non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora talvolta
colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i fedeli
considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
Così, ad esempio, si è
insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi liturgici, come la
Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e infarcita della
simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione di tutti e la
comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si pongono tanti
problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
La partecipazione attiva nella
società del nostro tempo richiede la democrazia, e innanzi tutto il rispetto
degli altri, perché ci troviamo a vivere in un contesto sempre più
pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto diversi punti di vista,
è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai tempi nostri, può sapere
tutto di tutto, salvo che in settori superspecialistici, ma per questo sempre
più limitati. Come scrisse Pierre Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note
di catechismo per ignoranti colti, Mondadori, non più in commercio) al più
riusciamo ad essere ignoranti colti. Insieme ci sforziamo di
superare i nostri limiti individuali. La sapienza degli altri ci arricchisce e
viceversa. Confrontando le conoscenze e le opinioni, le correggiamo. E’
questo che si fa nel dialogo: ci si mette in relazione gli uni con gli altri,
chiarendosi. Questo è l’inizio della democrazia.
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Convincersi della democrazia
Ho imparato la democrazia in
FUCI, tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80
del secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati due grandi
esponenti del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in fondatori
della nostra nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i principali
artefici di varie fasi di rinnovamento della democrazia italiana, ucciso nel
1978, e Vittorio Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione Cattolica,
ucciso nel 1980. Divenne evidente il carattere antidemocratico dei moti
insurrezionali dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste: la
democrazia italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo,
lentamente, nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire
quelli che vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di
Roberto Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A
quei tempi egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.
Di fronte al pericolo, si
ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni negli altri,
questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di duri conflitti
sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici, ma non avrebbe
avuto successo senza questa nuova situazione nella società italiana.
La FUCI storicamente è stato
l’ambiente sociale della nostra fede che più si è dedicato, fin dalle
origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine Ottocento, qui a
Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri, prete e
attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era ancora
vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una
generica azione sociale.
Quello degli universitari è un
mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in cui si studia
all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il bisogno degli
altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può stare in
manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola libreria
domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari, e più lo
si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più limitati
della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una persona di
cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati in altri
settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro. Bisogna, in
questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i risultati della
propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico, e anche per
capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più si capisce
quanto non si sa. Sapere di non sapere venne considerato da un
antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è anche il sapere, il
rendersi conto, di ciò che non si sa, quindi uscire dal
generico e individuare bene i propri limiti, per capire che cosa occorre, quale
collaborazione cerare, per andare avanti. E' in quel momento che si comincia a
ricercare chi possa aiutare a superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre
alla ricerca (Ricerca è la rivista dei fucini). Nel momento
in cui si capisce di avere bisogno degli altri per superare i propri
limiti nasce anche la democrazia. Infatti per interagire con gli altri occorre
creare il contesto giusto, praticare un certo metodo.
Non si può praticare la
democrazia quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è convinti che gli
altri non solo non servono, ma costituiscono anche un pericolo, o comunque un
fastidio, perché tendono a mettere in dubbio certe sicurezze. Allora si cerca
di imporre agli altri la propria visione, così come avviene certe volte nelle
riunioni condominiali, e si finisce per litigare inutilmente: la cosa comune
poi ne risente, si deteriora, perché non c’è accordo su come farne la
manutenzione. L’incapacità di democrazia degrada la società, che richiede un
lavoro comune per sostenersi, e innanzi tutto un impegno, di molti. Fino al
Settecento la democrazia veniva considerata in religione, ma sulla base di un
antico pensiero greco, una forma di disordine e di allontanamento dalla verità.
La democrazia, come oggi la intendiamo, nel senso di potere di tutti,
ha invece bisogno di ordine, di chiarezza, e anche di fiducia reciproca e
di rispetto.
All’origine della democrazia
c’è l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la democrazia come una
forma di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno dell’aiuto degli altri
ed essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene di tutti,
irraggiungibile senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare ma anche
essere rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici. Questo
collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a
collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che
definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al
termine del greco antico agàpe, vale a dire a un lieto
convito in cui ce n’è per tutti.
Se la democrazia è una forma di
amicizia, si capisce come non si possa praticarla veramente per via telematica.
Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare esperienza concreta gli uni degli
altri. In questo incontro ci si svela e si possono avere sorprese piacevoli e
spiacevoli, ma comunque in genere si hanno sorprese. Finché gli altri rimangono
una linea di caratteri sul video servono a poco. D’altra parte conoscerli
veramente è impegnativo, in tutti i sensi: richiede uno sforzo, una pazienza
nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica, un tempo da trascorrere insieme.
E’ così che però si costruisce la società, si creano legami duraturi.
Se lo stare insieme dipende
solo dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale, politico,
religioso e via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo con il
punto di riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco perché
l’ingenuo attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a poco sia
per formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.
Certe volte ci si incontra, in
religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli altri le parole
d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve? Si rimane
estranei come prima, con in più molto risentimento.
Un universitario per la prima
volta nella sua vita viene posto di fronte alla realtà così com’è veramente, ed
essa è complessa. Tutte le semplificazioni degli studi precedenti si rivelano
ciò che sono, vale a dire, appunto, semplificazioni, una base di partenza.
Scopre che ci sono molte interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte,
anche perché è in movimento, evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche
parte, ed evolve anch’essa. Questo è vero anche per tutte le verità, comprese
quelle ritenute fondamentali, della nostra fede. E’ per questo che si scrive
tanto di teologia. Se tutto fosse così semplice come talvolta viene presentato,
non servirebbe.
Il primo passo per affrontare
il pensiero sociale della nostra fede è il convincersi della democrazia, perché
questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla dottrina sociale nel
corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per influire nelle società
pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi i grandi principi
ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è possibile dominare
culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso,
un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la
democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività
religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in
circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così,
perché la democrazia è per tutti, ed è solo così che è
veramente efficace.
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◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊di Mario Ardigò per l’A.C. in San
Clemente papa - Roma◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊