E’ stato ristampato questo libro,
che vi consiglio caldamente di acquistare, se state frequentando gli ultimi tre
anni delle scuole superiori o le avete già finite (le persone più giovani
potrebbero non avere le risorse culturali e la maturità sufficienti per
comprenderlo):
Titolo
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Note di catechismo
per ignoranti colti
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Autore
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cod. ISBN 13-9788861459885
Dati
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2016, ill.
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Editore
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pagine 200
€12,90
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A me lo regalò, in Fuci, per il mio compleanno, il 25-1-83, il
nostro assistente ecclesiastico, e me lo sono portato sempre dietro, vicino a
me, per tutta una vita.
Chi è Pierre Riches? Nell’intervista con lui
che incollo di seguito, pubblica su La
Repubblica del 27-3-16, potrete farvene un’idea.
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Pierre Riches - dal sito La Repubblica |
Nella Premessa
leggo:
Queste note vogliono
essere una semplice, semplicissima, grossolana esposizione dei ragionamenti
(razionali, intuitivi, esperienziali) che mi hanno portato ad accettare il
cattolicesimo come risposta alla domanda «la vita ha un senso?» (domanda che mi
ponevo già a 12 anni).
Saranno composte di
capitoletti, non sempre collegati fra loro. Ogni capitoletto potrebbe poi (ma
chissà se e quando?) essere esteso a sua volta in varie direzioni.
Per ora voglio solo dare degli spunti, più o meno sviluppati, per una riflessione personale. Ogni
capitoletto dovrebbe aiutare il lettore a chiarirsi le idee, se si pone la
domanda che mi sono posto io. A costruirsi una «visione del mondo».
Qui c’è la mia visione,
con i suoi punti chiari e i suoi punti scuri; ognuno può fermarsi dove vuole,
dove è «arrivato» e poi, forse, prendere tutt’altra direzione.
Come ci dirà il
capitoletto e5, la verità c’è, ma va conquistata personalmente. Nessuno può
imporla e nessun individuo può dire: «Questa è la verità». Può solo dire: «C’è
una (e solo una) verità. La mia riflessione, la mia esperienza di vita, mi dice
che la verità va descritta con queste affermazioni piuttosto che con altre, va
vissuta in questo modo piuttosto che in quest’altro»-
La sera prima del mio
battesimo (avevo 23 anni), il mio padrino mi chiese: «Ma ci credi davvero?».
Risposi: «Se non è vero è così ben trovato…» e fino ad oggi, anche se ci credo,
non saprei dire se è vero, ma non ho trovato nulla di «meglio trovato», neanche
il Buddha.
e, nella Conclusione:
[…] rileggendo ciò che ho scritto, vedo un quantità di lacune, di buchi
enormi. Mi giustifico ricordando che ho voluto solo scrivere delle «note».
Un catechismo completo
dovrebbe trattare di tante altre cose. Non parlo affatto dei rapporti fra
problemi sociali di oggi e
cristianesimo, di politica, né dei problemi etico-morali, su cui avrei molto da
dire. Parlo pochissimo dei sacramenti, dell’Eucaristia per esempio - lacuna
enorme. Pensandoci ancora attentamente troverei certo altre cose essenziali per
il cristianesimo che mi sono sfuggite. (Avrei anche tanto da dire, per esempio,
sulle virtù teologali -fede, speranza, carità.) Ma basta, sarà per un’altra
volta - forse. Wittgenstein, nella prefazione del Tractatus Logicus-Philosoficus dice: «Questo libro sarà forse capito solo da
coloro che hanno già pensato i pensieri da esso espressi, o che hanno pensato
pensieri simili. Non è dunque un libro
di testo. Il suo scopo sarebbe raggiunto se ci fosse una persona che lo
leggesse con comprensione e a cui desse piacere».
Faccio mie le sue ultime
parole, aggiungendo, all’ultima, due: gioia e pace.
Il libro si compone di 70 capitoletti,
ciascuno di non più di cinque pagine. Ma i più sono di due pagine.
Ha cinque parti:
1) La domanda e le risposte, con i
capitoletti: La domanda - La risposta agnostica - Ancora sul Buddha - Altre
risposte - Oltre il mondo; l’India - Politeismi e monoteismi.
2)La posizione cattolica, con i
capitoletti: Dio è incatturabile - Le Rivelazioni - La Bibbia - Parti della
Bibbia - Progressività nella Bibbia - Responsabilità individuale - Le tre leggi
- Progresso c’è - Definizioni di Dio.
3)Il piano di Dio, con i capitoletti:
L’uomo sceglie - Il purgatorio - Vita o morte - Il ponte - L’amore salva -
Cristo Via e Vita - La Croce - La Grazia - La Chiesa - I battezzati -
Sacramenti, segni efficaci - La morte infranta;
4) Postille, con i capitoletti:
Autonomia e orgoglio - L’amore puro non esiste, l’amore è sempre egoista - Vita
eterna - Quando risorgono i morti - Creature extra-terrestri - Materia e
spirito - Esiste una verità oggettiva - La caduta di Satana - Qohelet o
Ecclesiaste - Giobbe - Il male - Oscurità della fede - Blocchi della crescita
nella Grazia e nella Verità - Crescita in Grazia e crescita umana - Gli ebrei e
il Messia - San Paolo - Le decisioni difficili - Il cristianesimo e il Tao -
Umiltà.
5)Altre postille, con i capitoletti:
Parole in teologia - Padri della Chiesa - Note teologiche - Fede e Ragione - La Trinità - Maria -
L’Assunzione di Maria in cielo - Comunione dei Santi - Battesimo dei bambini -
Simboli del battesimo - Ex opere operato - La Rivelazione - La Chiesa come
società - L’infallibilità - Il peccato originale - Il peccato - Peccato ed
errore - Peccato oggettivo e peccato soggettivo - Eresie - Il timor di dio - La
preghiera - Contemplativi e mistici - Il cristianesimo e le altre religioni
ovvero «perché avere dei missionari?»
Il libro parla di fede e religione agli ignoranti colti, vale a dire
praticamente a tutte le persone colte di oggi, che, per quanto abbiano studiato,
riescono a controllare a fondo solo limitati settori della conoscenza, a causa
dell’enorme complessità dei sistemi scientifici contemporanei, teologia
compresa, per cui si è indotti a ultraspecializzarsi, essendo umanamente
impossibile conoscere e saper fare bene tutto. Tutti quindi dobbiamo
riconoscersi ignoranti in larga parte della conoscenza condivisa
dall’umanità contemporanea. Chi è, però, la persona colta? Non è l’erudito,
il pozzo di scienza, quello che sa un
po’ di tutto, lo cita a memoria, e lo fa
anche pesare. La
persona colta è colei che dà un valore alla conoscenza, come
un bel giardino, e allora la coltiva in sé, la mantiene viva e
rigogliosa, arricchendola con specie nuove, custodendola, proteggendola dai
pericoli, organizzandola, facendola bella, per poi vivere in mezzo ad essa
nella gioia. Si comincia ad essere persone colte
abbastanza presto, da ragazzi, ma
non prima di una certa età. Bisogna prima aver conosciuto l’amicizia e l’amore.
Perché si può essere persone colte solo amando: sono gli altri, infatti, che ci
arricchiscono.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in
San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.
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Pierre Riches: "Devo la conversione a
Wittgenstein. Mi spiegò che la ragione non è tutto"
Nato nel 1927 ad Alessandria
d’Egitto, il sacerdote e teologo ha insegnato filosofia in Italia, Stati Uniti,
Uganda e Pakistan. Ha preso parte al Concilio Vaticano II
di ANTONIO GNOLI
pubblicato su La Repubblica
del 27-3-16
Pierre Riches è una figura singolarissima e affascinante del
mondo della teologia. Da qualche anno si è trasferito in Sabina, non lontano da
Roma. La casa, dove vive, si affaccia sulla valle del Tevere. Sobria e
accogliente. Qualche mese fa è andata a trovarlo Laurie Anderson. Hanno cenato
assieme e ricordato Lou Reed, di cui Padre Pierre è stato amico. Una foto sul
muro del salotto ne descrive la relazione in qualche modo paterna: Lou Reed lo
abbraccia sorridente e felice. Sul tavolo vedo una fresca copia di Note di
catechismo per ignoranti colti, ripubblicato da Gallucci, con una prefazione di
Giorgio Manganelli. "Il titolo", rammenta Riches, "me lo suggerì
Elsa Morante".
Oggi Padre Pierre è
costretto a muoversi su una carrozzella. È una condizione che lo limita nei
movimenti ma non lo affligge. Rifacendosi al titolo di un altro suo libro, è la
leggerezza della croce a sostenerlo. Le sue origini sono quelle di un ebreo
alessandrino, educato nei riti della tradizione. Sotto un cappello da baseball
mi guarda con una punta di tenerezza. Gli chiedo quando decise di convertirsi
al cattolicesimo: "Avevo 23 anni. Divenni cristiano perché il
cristianesimo è molto appagante dal punto di vista intellettuale e totalmente
liberatorio dal punto di vista esistenziale. Ho girato il mondo, insegnato in
molte università, sono stato parroco a Roma, cappellano nell'aeroporto di
Fiumicino. Ho conosciuto e frequentato molta gente. Non ho mai avuto sensi di
colpa per la mia vita. E ho sempre pensato che la mia fede poggiasse su due
cardini: l'amore come sprone ad agire e la comunione con Dio e il prossimo come
scopo di vita".
Lei è nato dove esattamente?
"Ad Alessandria d'Egitto. Era un mondo particolare che
lasciai a 17 anni".
Particolare perché?
"Città irreale, governata da oligarchie. Sorretta dai
privilegi. La ricchezza più che esibita era vissuta. Su Alessandria confluivano
miriadi di nazionalità: francesi, italiani, greci, ebrei e soprattutto inglesi.
Un clamore di lingue risuonava nella mia testa di bambino".
Lawrence Durrell ha forse scritto il più bel libro su Alessandria.
"Lei trova? Raccontava di una città decadente, sfinita nei
languori ultimi. Ma non era affatto vero. Città di traffici esistenziali e
culturali, semmai. Ricordo il poeta Kavafis, ormai vecchio. Mi teneva sulle
ginocchia accarezzandomi la testa. E Georges Moustaki, dal sorriso bellissimo.
Sua sorella si innamorò di me. Durante il periodo in cui vissi a Cambridge, E.
M. Forster voleva che gli raccontassi di Alessandria. Mi invitava a prendere il
tè. Gli parlavo dei labirinti mentali di quella città così diversa, da essere
unica".
Perché la lasciò?
"Mio padre era un mercante di cotone. Famiglia ricca. La
buona borghesia alessandrina faceva studiare i suoi rampolli al Victoria
College di Alessandria. Quando giunse il momento dell'università scelsi
Cambridge, mi piaceva la filosofia".
In che anno andò?
"Nel 1946. Cambridge, diversamente da Londra, non aveva
subito gli stessi oltraggi della guerra".
Vi insegnava Ludwig Wittgenstein.
"Ho seguito alcune sue lezioni. Potrei dire di essere stato
uno degli ultimi allievi a conoscerlo".
Che ricordo ne ha?
"Se mai ho incontrato un genio, questo era lui. Mi trovava
esotico, forse per le mie origini egiziane, e mi trattava con simpatia. Era un
uomo a volte aspro, di pochissime parole. Scontroso, anche con gli studenti. Di
solito preferiva fare lezione nella sua camera. Noi sedevamo sul pavimento di
legno o su qualche sedia disponibile. Al mormorio iniziale seguiva un silenzio
surreale".
Surreale perché?
"Si creava una strana corrente, come se tutti i presenti
improvvisamente attendessero che iniziasse a parlare. A volte taceva per
minuti".
Negli ultimi tempi stava male.
"È vero, quando seppe di avere un cancro si recò in
Norvegia, in un villaggio dove aveva trascorso un periodo felice. Forse era un
modo per ritrovare un tempo perduto. Poi tornò a Cambridge. Morì in casa di un
amico il 29 aprile del 1951. Ma sono episodi che appresi successivamente. Andai
via da Cambridge alla fine del 1949. Ricordo una frase nelle Ricerche
filosofiche: "La morte non è un evento della vita. La morte non si
vive". Un anno prima che lui morisse presi il battesimo e mi convertii.
Penso che nella mia scelta cristiana contasse molto il fatto che Wittgenstein
mi avesse in qualche modo insegnato che la ragione non è tutto".
Dunque la fede.
"Per molti fede e ragione si oppongono; per un cristiano si
completano".
Si completano, ma postulano due verità diverse.
"Il punto è dove le due verità si incontrano. Voglio dire
che la verità non è qualcosa che si conquista solo con la conoscenza, studiando
e sperimentando; ma anche vivendo pienamente e amando pienamente".
È il rapporto con la vita.
"Un cristianesimo maturo, assunto nella quotidianità, esige
che ci sia una coerenza tra la propria fede e la propria vita".
Cosa fece quando lasciò Cambridge?
"Ebbe inizio la mia maturazione spirituale. Fu nel 1950 che
conobbi Iris Murdoch e diventammo amici. Anche lei aveva frequentato per un
periodo le lezioni di Wittgenstein. Prese un insegnamento di filosofia a
Oxford. Ricordo le bellissime discussioni tra noi".
Si dice che lei sia stato il suo consigliere spirituale.
"Non era affatto una donna da consigliare. Ma che a volte
abbia cercato dei suggerimenti, questo sì. Mi chiese un giorno cosa pensassi
dell'esistenzialismo. Stava lavorando su Sartre. Risposi che il miglior esempio
di esistenzialismo ce l'offriva la Bibbia con Giobbe ".
Giobbe dovette fare i conti con il silenzio di Dio.
"Un vecchio e saggio certosino mi disse una volta che il
libro di Giobbe ci insegna che il silenzio di Dio, per chi si apre a Lui, è più
consolante del parlare degli uomini. Grazie ad Iris conobbi a Londra Elias
Canetti. Aveva un'intelligenza fluida, mobile come il Danubio da cui
proveniva".
So che ha conosciuto anche Hannah Arendt.
"Ci incontrammo a Chicago, durante un pranzo. Erano gli
anni Sessanta. Diventammo amici. Fu anche lei una delle genialità del
Novecento. Mi piaceva la sua versatilità. Era da poco tornata da Gerusalemme e
i suoi reportage sul processo Eichmann fecero scalpore, provocando più di un
malumore, soprattutto nella comunità ebraica americana. Personalmente ero
d'accordo con la sua idea di "banalità del male". Tutti pensai
avremmo potuto diventare degli Eichmann".
Non nasciamo con la garanzia di fare il bene.
"Perderemmo il senso della libertà".
Ma il male non è la sconfitta di Dio?
"È quello che pensava Dostoevskij. Ma il punto è un altro.
Gran parte dei nostri mali sono direttamente o indirettamente causati da noi.
Frutto della nostra libertà usata dissennatamente".
Distinguerebbe tra il male e la sofferenza?
"Il male provoca la sofferenza, ma non necessariamente è
vero il contrario. La sofferenza del giusto è anche il passaggio alla luce
attraverso la Croce, forse la sola via di salvezza, se si vuole conservare la
libertà. Mi viene in mente un proverbio inglese: "È meglio avere amato e
perduto, che non avere mai amato"".
Cosa c'entra con Dio?
"Forse Dio, essendo amore, ha preferito amare e perdere un
po' che non avere mai amato".
È più persuasiva la filosofia o la teologia?
"La filosofia mette in gioco l'uomo. La teologia il
rapporto con Dio. Nella teologia classica entrano tre elementi: la ragione, la
volontà, la Grazia. Quest'ultima non bussa alle porte della filosofia. Paolo è
l'uomo da cui ho imparato di più teologicamente. Le sue lettere sono di una
intelligenza e profondità spirituali senza eguali".
Lei è stato il segretario del Cardinal Tisserant.
"Mi sono occupato per lui e con lui dei problemi teologici.
Fu un grande uomo. Modesto per quel che effetti-vamente era. Seguimmo le sorti
del Concilio Vaticano II. Lo accompagnai anche al Conclave, dal quale uscì
eletto Paolo VI. Ogni cardinale poteva farsi portare da una persona".
Seguì Tisserant?
"Era abbastanza normale. Viaggiavo spessissimo con lui.
Quando si aprì il conclave facemmo insieme il viaggio in auto. Di solito
sedevamo dietro. Quel giorno Tisserant mi chiese di accomodarmi vicino
all'autista. Ubbidii, senza capire perché. Al ritorno, quando andammo a
riprenderlo con la macchina, mi predisposi per salire davanti. E lui disse: no,
Padre Pierre, venga dietro, vicino a me, non sarò il cinquantunesimo
Papa!"
Lei ha una vita incredibile.
"Diciamo che ho avuto una vita".
Dove ha insegnato?
"Un po' ovunque: a Yale, ad Harvard. Poi in Africa, sono stato
un paio d'anni in Uganda. Credo di aver conosciuto abbastanza bene quel
continente. Poi in Pakistan e in Giappone. Il cardinal Colombo mi aveva
ribattezzato "l'ebreo errante"".
Cosa pensa delle religioni orientali?
"Buddismo e taoismo sono esperienze molto importanti. Se
affidate a dei ciarlatani diventano solo mode fastidiose. Trovo che il Tao,
cioè la Via, ha diversi punti in comune con il cristianesimo. Ne parlavo a
volte con Giorgio Manganelli. Il "Tao-të-ching" era una delle
discussioni ricorrenti".
Mi risulta che è stato anche parroco.
"Sì, in una piccola parrocchia di campagna a Boccea. Chiesi
espressamente a Tisserant di mandarmi in quel posto. Lo stesso Tisserant, mi
spinse, qualche anno dopo, ad accettare un insegnamento alla Loyola University
di Roma, propostomi da Raimon Panikkar".
Pier Vittorio Tondelli l'ha inserita nel suo romanzo
"Rimini" come Padre Anselme. "È un prete", scrive Tondelli.
"Mi ha beccato quando uscì il mio primo romanzo otto anni fa. È sempre in
giro per il mondo all'inseguimento delle sue anime. Mi diverto con lui. Gli
voglio molto bene". Si riconosce?
"Uno scrittore ha la libertà di inventare, altrimenti che
scrittore sarebbe? Conobbi Tondelli a Venezia a una mostra di Luigi Ontani. Un
uomo di talento, tormentato ma autentico".
Ha avuto un ruolo nella tardiva conversione di Tondelli?
"Non credo di essere stato così influente. Le decisioni di
quel tipo arrivano da una profondità che neppure immaginiamo. Posso dire che la
sua morte fu per me un dolore fortissimo. Fui io a celebrarne il funerale, in
un giorno in cui pioveva a dirotto".
Esistono delle lettere che vi siete scambiate?
"C'è un carteggio con lui, come pure con Iris Murdoch. Ma
sono blindati".
Le manca l'America?
"È un po' che non vado. Ma i figli dei miei ex allievi
vengono a trovarmi".
Mi colpiva la copertina di un suo libro - "La leggerezza
della croce" - dove si vede una croce disegnata da William Burroughs.
"Ah, sì! L'ho conosciuto bene. Mi chiamava "il
prete". Quando disegnò per me quella croce era il periodo in cui sparava
alle tele dei quadri".
Sparò anche alla moglie.
"Fu per errore. Dio abbia pietà".
Fra le tracce del suo periodo americano vedo anche un foto che la
ritrae con Lou Reed e un ritratto fotografico che le fece Robert Mapplethorpe.
Due icone della cultura contemporanea.
"Lou Reed lo conobbi a New York, non ricordo più in quale
galleria. Era affascinato dal fatto che un ebreo si fosse fatto prete. Lo
divenni per la precisione a 32 anni. Ogni tanto mi mandava i biglietti per i
suoi concerti. Quanto a Mapplethorpe, la foto che lei ha visto, la scattò
quando già stava male".
È una miniera di ricordi.
"Non li ho allontanati. Forse un po' di cose le ho
dimenticate. Vista la mia età è un processo fisiologico. Ma non ho nostalgia
dei ricordi. Non è possibile rivivere i momenti del passato. Lasciano delle
tracce utili per la vita che continua. Credo nella vita eterna. Sono molto
curioso di andare a vedere cosa c'è al di là".
La sua fede ha mai tentennato?
"Mai. La fede è un dono che ho ricevuto in abbondanza".
Parlavamo prima del male.
"Si può combattere ed equilibrare con il bene".
Anche oggi, con tutto quello che ci sta accadendo?
"Soprattutto oggi. Il Cristo ci porta due grandi speranze:
una per questa terra e una dopo la morte. Ci insegna come dobbiamo vivere e
agire. Mi torna in mente "il discorso della Montagna", lo si trova
sia in
Matteo che in Luca. Ci spiega che è solo amando che possiamo
vivere bene e ci dice che amare vuol dire dare e perciò anche rinunciare. Solo
così possiamo rompere la catena degli egoismi e delle paure".