Modernità e
tradizione, democrazia e tribù
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Modelli maschili della passata tradizione (1951). Davvero era meglio di oggi? |
Le religioni hanno molte controindicazioni,
come ai giorni nostri si può notare in ciò che accade nel Vicino Oriente, tra
Siria e Iraq. Sebbene anche la nostra ne abbia, in genere tendiamo a sorvolarvi sopra. A
differenza di molte religioni storiche essa ha svolto però un ruolo culturale e sociale molto importante nell'affermazione, in particolare in Europa e in Italia, delle democrazie popolari contemporanee, caratterizzate da
un condizionamento piuttosto intenso
degli apparati di governo da parte di vaste masse di persone. Questo può dirsi
anche della nostra confessione religiosa, per quanto abbia avuto e abbia ancora
un ordinamento di tipo feudale e una gerarchia che storicamente ha fatto
resistenza e resiste ai processi democratici.
In gran parte degli interventi su questo blog
si è cercato di ricordare le tappe fondamentali di questo processo.
Sintetizzando, si può dire che la nostra nuova Europa ne è il frutto maturo. L’unione
politica continentale è tuttora egemonizzata da una forza ispirata ai principi
sociali della nostra religione. Delle due linee di sviluppo in cui storicamente
queste dinamiche democratico-popolari si sono espresse, quella socialista
marxista e quella social-cristiana, è stata quest’ultima ad avere un duraturo
successo, mentre la prima si è estinta. Tuttavia certamente l’ideologia della
seconda, nel contrapporsi alla prima, ne ha recepito alcuni elementi, ad esempio
quello della protezione del lavoro subordinato e quello delle prestazioni
sanitarie come diritto universale, non legato al mercato.
Lo sviluppo del pensiero democratico nelle
nostre collettività religiose in Italia ha visto protagonisti dei preti, come
Romolo Murri, Luigi Sturzo, Giuseppe Dossetti, ma non la gerarchia del clero,
che storicamente si è attestata su posizioni in genere reazionarie. Si è
trattato quindi di un processo conflittuale, in particolare nei primi vent’anni
del Novecento. L’indispensabilità dell’apporto dei laici per mantenere certe
posizioni di potere nelle società democratiche ha impedito tuttavia che
accadesse ciò che era avvenuto per quasi un millennio, nel passato, vale a dire la criminalizzazione, punizione ed
espulsione di tutte le correnti non in linea con l’ideologia normativa della gerarchia. E nell’epoca di
maggior discredito di quest’ultima, vale a dire nel secondo dopoguerra, dalla
metà degli anni ’40, si è prodotta la più spettacolare manifestazione delle tendenze democratiche in
religione, sia in politica che nelle questioni più strettamente confessionali,
fino ad arrivare alla grande assise mondiale del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965).
Negli scorsi due secoli le tendenze reazionarie in religione si sono
espresse in campo civile in Italia rivendicando una sorta di rappresentanza
della buona tradizione popolare, contro le pretese di innovazione sociale di
impronta libertaria. In questa visione, la buona gente italiana del popolo
voleva essere governata dai papi, dai vescovi e dai preti, come le pecore di un
gregge seguono il pastore, il buon pastore. Dagli scorsi anni ’50 questa
tradizione popolare di riferimento, per così dire “naturale”, ha cominciato palesemente a venir meno, in
particolare con i cambiamenti culturali conseguiti ai processi migratori
interni (dalle campagne alle città, dal Sud al Nord) e all’affermazione della
televisione come elettrodomestico di massa, fonte di informazioni ma anche di
formazione (innanzi tutto producendo una lingua comune, a fianco dei molti
dialetti locali). Inoltre, dalla fine degli scorsi anni ’60 si produsse in
Europa, ed anche in Italia, una frattura culturale tra le generazioni più
giovani e quelle più anziane, con uno
spartiacque segnato più o meno, ad imitazione di ciò che accadeva negli Stati
Uniti d’America, dai trent’anni di età. Questi cambiamenti sociali negli anni ’70 incisero
profondamente sulle nostre collettività religiose, dalle quali cominciò ad
emergere una forte richiesta di innovazioni anche nel modo di essere religiosi,
con avvio spontaneo di prassi sperimentali in questo senso. Chi è stato
adolescente in quegli anni sa a che cosa mi riferisco. Si giunse, a cavallo tra
gli scorsi anni ’70 e ’80, in una situazione in cui non si poteva più tornare
indietro, perché la società era troppo cambiata, ma non si voleva neanche andare
avanti, per la paura che il crollo dell’organizzazione feudale della nostra
gerarchia religiosa disperdesse le collettività da essa governate (e qui fu molto suggestiva l'immagine del gregge che si perde quando viene meno il pastore, il buon pastore, senza tener conto dei limiti della parabola, per la differenza che nella realtà c'è tra una persona umana e una pecora). La soluzione
fu trovata ricorrendo a una neo-ideologia di impronta religiosa sorta in
Polonia in contrapposizione con la modernità socialista, quindi in un ambiente
sociale e politico completamente diverso da quello italiano. Si propose di
ricreare artificialmente i legami
sociali e culturali di una tradizione passata ormai quasi estinta, costruendo le nostre collettività religiose
come tribù separate dal contesto civile in cui erano immerse, distinte non solo
per questioni di fede religiosa ma anche per stili di vita e altre
caratterizzazioni culturali e soprattutto per una consuetudine di vita
piuttosto esclusiva, cercando di vivere sempre insieme a gente della stessa
fede e ideologia religiosa, in modo da preservarle da contaminazioni esterne. Si
trattava naturalmente di una vita comunitaria artificiale, costruita e da costruire, appunto di una neo-cultura, ma la si presentò invece come qualcosa che riproponeva
esperienze delle origini, vissute nei tempi piuttosto oscuri dal punto di vista della ricostruzione storica della prima
espansione delle nostre collettività religiose nella civiltà mediterranea,
considerate esemplari in quanto ancora molto impregnate dell'entusiasmo dell'era apostolica ed esenti dalla successive contaminazioni
culturali. Tutto ciò che si muoveva al di fuori di questo schema, in
particolare in teologia, venne vivacemente contrastato. Ma il tentativo di
resistere per via neo-tribale non ebbe successo, portando solo a una crescente
separatezza delle nostre collettività religiose dal contesto sociale in cui
erano immerse e a un progressivo inaridimento del pensiero sociale da loro espresso, che era stato tanto importante nella creazione della nuova Europa nel secondo dopoguerra. In una civiltà
sempre più basata sullo spettacolo la persistenza nella società delle
nostre idealità religiose fu allora sempre più affidata alla figura del Papa regnante,
in una sorta di culto della personalità sempre più favorito e promosso dalla
nostra gerarchia con la ciclica programmazione di grandi eventi di massa in cui i laici erano appunto praticamente proprio solo questo, massa, priva del diritto di parola, docile a recitare il copione scritto da altri. Ci si trasformò un po' tutti in papa-boys, praticando quello che ho definito papismo affettivo, certamente acritico ma anche incostante, episodico, in quanto molto legato all'emotività spettacolare. Un fenomeno sociale senza precedenti nel passato, nonostante un certo trasporto emotivo per il papa regnante, per la generale ritrosia dei papi del passato a esporre pubblicamente la propria personalità privata, ad essere, come dire, persone di spettacolo. Essi erano stati amati e rispettati come persone sacre, mentre nella nuova era neo-tribale fu proprio questo carattere sacro a venire meno, producendo una sensazione di particolare vicinanza del regnante, nella sua reale personalità, ai propri fedeli. Il nostro mondo religioso tese quindi a diventare papa-dipendente, più che, come nel passato, suddito di un papa-re. E, va notato, ancora oggi siamo in fondo in questa condizione, con la differenza, rispetto al recente passato, che sembrano essere diventati papa-dipendenti anche settori della società che nei confronti del papismo erano stati fortemente critici. Un apparente successo di questa strategia.
La nostra parrocchia mi apparve pienamente coinvolta in questa dinamica e la sua attuale crisi di consensi nel quartiere, in particolare tra le persone che vengono definite giovani-adulti, quelle che vivono la fase più fertile (in tutti i sensi) della loro vita, deriva in fondo da questo, per come mi pare di capire.
I processi di innovazione nelle nostre collettività religiose furono man mano congelati, tutto si fermò, e il nostro mondo religioso cadde preda di una sorta di incantamento fatale, come il castello della fiaba della Bella Addormentata, un lungo sonno, con molti sogni irrealistici, dal quale tarda a risvegliarsi. Fu quella che ho chiamato grande glaciazione.
Solo nel 2005 la gerarchia italiana del clero cominciò
a prendere coscienza realistica della gravità della situazione che si
era prodotta. In quell’anno venne infatti un vibrato appello ai laici da parte
dei nostri vescovi, con la lettera Fare
di Cristo il cuore del mondo, in cui si riconobbe:
Non sempre l’auspicata corresponsabilità ha avuto adeguata
realizzazione e non mancano segnali contraddittori. Si ha talora la sensazione
che lo slancio conciliare si sia attenuato. Sembra di notare, in particolare,
una diminuita passione per l’animazione cristiana del mondo del lavoro e delle
professioni, della politica e della cultura, ecc. Vi è in alcuni casi anche un
impoverimento di servizio pastorale all’interno della comunità ecclesiale.
Serve un’analisi attenta ed equilibrata delle ragioni dei ritardi e delle
distonie, per poterle colmare con il concorso di tutti.
A
volte, può essere che il laico nella Chiesa si senta ancora poco valorizzato,
poco ascoltato o compreso. Oppure, all’opposto, può sembrare che anche la
ripetuta convocazione dei fedeli laici da parte dei pastori non trovi pronta e
adeguata risposta, per disattenzione o per una certa sfiducia o un larvato
disimpegno. Dobbiamo superare questa situazione. Una cosa è certa: il Signore
ci chiama; chiama ognuno di noi per nome. La diversità dei carismi e dei
ministeri nell’unico popolo di Dio riguarda le forme della risposta, non
l’universalità della chiamata. Nel mistero della comunione ecclesiale dobbiamo
ricercare la coralità di una risposta armonica e differenziata alla chiamata e
alla missione che il Signore affida a ogni membro della Chiesa. Il momento
attuale richiede cristiani missionari, non abitudinari.
[testo su http://www.chiesacattolica.it/documenti/2005/05/00010613_fare_di_cristo_il_cuore_del_mondo_lettera.html ]
Era però troppo tardi. Non si può congelare un popolo per
venticinque anni e pensare di svegliarlo con una lettera, a comando. Una
tradizione si era persa, energie si erano perdute.
Ora ci si vuole Chiesa in uscita, ma ciò che dovrebbe uscire dalle nostre chiese è
profondamente impreparato a ciò che c’è fuori.
In molti casi bisognerebbe prima
cercare di riportare dentro gente che si era formata nella
tradizione della riforma postconciliare o che ad essa ancora idealmente è
collegata e che venne espulsa e silenziata. Da qualche parte si comincia a
farlo, soprattutto dopo l’inizio del nuovo corso che si è aperto da due anni,
con l’elezione di un nuovo sovrano religioso. Indubbiamente si vive un nuovo
clima in religione. In altre parti è un lavoro che non è nemmeno cominciato e
che, anzi, non si vuole fare. E infatti si sente anche una vivissima resistenza
da parte di alcuni di coloro che si sono formati nell’era della grande
glaciazione e che non concepiscono altra forma di collettività religiosa che
quella neo-tribale. In un sistema
gerarchico di tipo feudale, un ordine del sovrano supremo può bastare per
inibire, bloccare, reprimere, ma è molto meno efficace nel suscitare,
promuovere, far ripartire.
Il primo lavoro da fare è quello di cercare di ricostituire nelle nostre collettività
religiose la possibilità di un modo di stare insieme diverso da quello
neo-tribale, aperto quindi a ciò che ognuno vive nella sua esistenza fuori
dalla chiesa parrocchiale. Fuori non c’è solo il male, ciò che
contamina, ma anche l’ambiente culturale in cui occorre discernere il bene che
c’è. Di certi argomenti si può e si deve riprendere a discutere. Ad esempio
della famiglia come ai tempi nostri la si vive, del ruolo della donna, degli
influssi culturali che modellano la nostra identità sessuale e di altri temi
che per tanto tempo sono stati inibiti alla riflessione religiosa. Spesso
invece, quando timidamente si cerca di farlo, ci si vede ancora rovesciata addosso l’accusa
di eresia o, comunque, di non piena ortodossia, di disobbedienza e di disordine. E’ un po’ ciò che accadde in
ambito sovietico e che portò poi all'inaridimento della sua ideologia e al ripudio, appena ciò fu storicamente possibile, di quel sistema politico da parte dei popoli
che da esso erano dominati. Ed è curioso che un'ideologia comunitaria come quella neo-tribale di origine polacca, nata per reagire e resistere al comunismo stalinista, si trovi a dover subire qualcosa di analogo alla de-stalinizzazione dei tempi di Krusciov, in particolare per ciò che riguarda il culto della personalità.
Talvolta, infine, si dà per scontato che sia un dato
sicuro e immutabile ciò che invece è solo il risultato di un processo
culturale, del quale del resto si è pienamente consapevoli anche in ambito religioso ma essenzialmente solo a livello universitario, senza ciò che sia diventato patrimonio intellettuale di tutto il gregge, e ciò a partire dalle nostre scritture sacre e dalle loro
traduzioni, emerse da migliaia di manoscritti con moltissime varianti tra loro,
provenienti fortunosamente, spesso non
integri ma solo in frammenti o comunque in edizioni parziali, dalle più varie
comunità storiche e, in alcune parti, oggi incomprensibili. Davvero ai tempi
nostri dovremmo sentirci obbligati a impersonare i maschi autoritari delle
antiche culture semitiche in cui si formarono quelle scritture? O a essere
legati alla loro franca misoginia? O ad adottare strategie riproduttive che
rientravano nelle consuetudini del mondo agricolo-pastorale della Palestina del
primo secolo?
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli