Associarsi
Ci fu un tempo, e ora c’è di nuovo, in cui da molto giovani si era diversi da come s’era da adulti, ma diventare adulti, per poi trasformarsi in ciò che sono gli anziani, e non si ha vera consapevolezza di come si è quando lo si diventa se non quando lo si è diventati, un’esperienza per molti versi incomunicabile e sempre destabilizzante, era un processo inarrestabile e dagli esiti prevedibili, anche quanto alla propria posizione sociale, per il quale la persona giovane diventava adulta, e abbandonava la mentalità di quand’era giovane e poi si trasformava in anziana, e si accettava questo destino piegandovisi.
Sono nato nel 1957, agli albori del processo di unificazione continentale europea che ai nostri tempi sta tristemente disfacendosi, e appartengo dunque a quella generazione che è detta dei baby boomers, che significa “quelli nati al tempo di un picco demografico”: solo dodici anni separavano il tempo della mia venuta al mondo dalla fine di ciò che chiamiamo Seconda guerra mondiale, vale a dire l’ultima fase di quella che gli storici contemporanei considerano un’unica lunga guerra europea prodottasi all’inizio del Novecento, l’ultima vera grande guerra europea, intendendo per guerra europea una che ha origine nel nostro continente (e sotto questo profilo quella che si combatte ferocemente in Ucraina non lo è). Quelli della mia generazione, in Europa occidentale, vissero una condizione particolare e ne derivarono una convinzione interiore tutta speciale: che loro stessi e il mondo intorno si sarebbero sottratti alla deriva delle cose, della storia e delle anime che s’era sempre prodotta nelle metamorfosi sociali del passato, per cui, pur cambiando narrazioni e protagonisti, si potevano individuare cicli che si ripetevano, espansioni e contrazioni, nascite, sviluppi e decadenze, al modo degli organismi viventi. Non si sarebbe invecchiati mai. Ma non solo: non ci si sarebbe mai nemmeno trasformati in quegli adulti del passato che, quando avevano avuto la società nelle loro mani, l’avevano fatta ripiombare nelle violenze di sempre, che ora sembravano in grado di poter annientare la vita umana sul pianeta, e non solo quella.
La nostra nuova Europa, che non ha consentito alle nostre società di produrre una nuova grande guerra europea, è frutto nostro, di noi che non volemmo ripetere il passato.
Settant’anni di pace europea, in particolare senza conflitti esplosivi tra francesi, tedeschi e noi, sono qualcosa che l’umanità, l’intera umanità, non aveva mai vissuto. L’abbiamo fatto noi, quando le società europee sono state nelle nostre mani, ed ora non lo sono più.
Abbiamo anche profondamente cambiato le nostre Chiese cristiane, che dal punto di vista politico erano state a lungo potenze mortifere, pur riuscendo a tramandare di generazione in generazione, oltre a veleni sociali letali, anche la perla preziosa che sostenevano di aver avuto la missione di custodire dalle origini.
Quando fummo giovani, staccandoci dall’infanzia e dalle nostre famiglie, l’associarsi per noi fu molto importante. Costituì un modo particolare di vivere con risvolti marcatamente politici. In quelli della mia generazione si riscontra spesso una storia di impegno in quel senso. Non cose da “giovani” erano però considerate da noi, ma un nuovo modo di essere umani, caratterizzato da questo: il rifiuto di un’obbedienza incondizionata ai poteri sociali costituiti, che dall’esterno era interpretato come contestazione permanente.
Si era capito questo: cambiare la tremenda storia del passato richiedeva una resistenza che, per essere veramente tale, doveva necessariamente essere collettiva. Perché le persone singole soccombono sempre all’ambiente sociale in cui sono immerse.
Sotto molti aspetti le generazioni che sono succedute alla nostra non ci hanno seguito. Noi invece avevamo realizzato le aspirazioni di quella dalla quale eravamo scaturiti, che aveva vissuto nella grande guerra europea la sua giovinezza e l’aveva voluta ripudiare, come fu scritto nella nostra Costituzione.
Così, non me ne vogliano le persone più giovani, queste ultime mi sembrano manifestarsi più anziane di noi, dove per persona anziana intendo chi mitizza il passato e accetta di ripeterlo, come la mia generazione sicuramente rifiutò di fare.
Lorenzo Milani, del quale qualche giorno fa si è celebrato il centenario dalla nascita, aveva l’età di mio padre. Mi pare rappresenti meglio di molte altre personalità del suo tempo la generazione che in Europa ci diede il mandato di cambiare il mondo. La sua polemica contro l’obbedienza sociale, e anche ecclesiastica, fu durissima, ed è paradossale che invece nell’agiografia ecclesiastica proprio della sua presunta obbedienza si voglia fare una sua principale virtù. Rimase prete, e prete lì dove l’aveva confinato una efferata e insensata gerarchia ecclesiastica, ma certamente non obbediente, mi pare. Fu confinato, ma non rimase solo, né isolato. Dalle biografie che su di lui sono state scritte una cosa emerge evidentissima: condusse un’esperimento sociale profondamente innovativo e coinvolgente, e tante furono le grandi personalità che salirono a quello che, a uno sguardo superficiale, appariva come un romitorio per dargli sostegno ed essere da lui ispirate e sostenute, o comunque con lui rimasero in corrispondenza. Consistette nel realizzare il germe di un mondo nuovo e anche di una Chiesa nuova.
Ai tempi nostri l’associarsi risulta invece più difficile. Ci si accosta gli uni agli altri, ma non si entra veramente in relazione. Dicono che si sia convinti che ogni persona possa bastare a sè stessa. E meno si fa esperienza di vera socialità meno si è capaci di realizzarla. Le relazioni sociali richiedono un impegnativo tirocinio. Che non è quello che può farsi, ad esempio, attraverso le reti sociali, e anche con un blog come questo su cui state leggendo, che vorrebbe essere solo di ausilio a un’articolazione associativa locale dell’Azione Cattolica, che trasformammo da partito del Papa, come era stato pensato alle origini, a incubatrice di sinodalità e, in particolare, come palestra di democrazia.
Che mi importa, mi chiedo, avere un migliaio di lettori al giorno, che non sono poi molti in un pubblico di utenti di miliardi di persone le quali mediante i sistemi di intelligenze artificiali possono leggere testi scritti in qualsiasi lingua del mondo, se poi questo non produce l’avvicinarsi di gente al nostro gruppo, per poi poter avere più forza di influenza in parrocchia?
Che conta, se quello che qui si scrive non incoraggia le persone a riprendere il nostro spirito di un tempo nell’associarsi e nel cercare di impedire che la storia si ripeta simile a quella del passato, la nostra tremenda storia, compresa quella delle nostre Chiese, così piena di efferate violenze, mettendosi di traverso, rifiutando obbedienza, perché l’obbedienza non è più una virtù ma la più subdola delle tentazioni, come scrisse Milani?
Mi rispondo che il seminatore getta il seme, sperando che quello germini per virtù propria, e chi semina potrebbe non essere colui che raccoglie, com’è scritto, e certe parole non tornano alle origini senza aver provocato cambiamenti, e anche questo è scritto.
Saul Bellow scrisse, nel romanzo Il dono di Humbolt, che, ad uno sguardo religioso, il disegno provvidenziale non è legato a criteri di economicità, per cui, ecco, che ti si organizza un fantasmagorico organismo di reazioni termonucleari nel sole, solo per far giungere un po’ di tepore ad un vecchietto in un ospizio di una periferia statunitense. È dunque anche la mia vita, in questa stessa ottica, potrebbe avere come unico scopo quello di far arrivare certe idee ad un’unica grande anima in formazione in qualche parte della nostra ormai gigantesca umanità.
Mario Ardigò- Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli