INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Questo blog è un'iniziativa di laici aderenti all'Azione Cattolica della parrocchia di San Clemente papa e manifesta idee ed opinioni espresse sotto la personale responsabilità di chi scrive. Esso non è un organo informativo della parrocchia né dell'Azione Cattolica e, in particolare, non è espressione delle opinioni del parroco e dei sacerdoti suoi collaboratori, anche se i laici di Azione Cattolica che lo animano le tengono in grande considerazione.

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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mercoledì 31 maggio 2023

Il futuro del gruppo parrocchiale di AC

 La scorsa settimana, con una cena sociale, abbiamo terminato le attività infrasettimanali del nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica.
  Il bilancio dell'anno non è molto positivo.
 Come gruppo abbiamo inciso poco nello sviluppo della parrocchia, che mi è parsa concentrata sulle attività di routine, con scarso coinvolgimento delle persone laiche nella programmazione.
   I processi sinodali non mi sembrano aver appassionato.
   L'età media del gruppo rimane piuttosto alta e le persone più anziane rimangono legate a una spiritualità devozionale.
   La fascia d'età dai 30 ai 50 anni è poco rappresentata, anche se ha ruoli significativi.
   La parrocchia mi sembra aver abbandonato l'idea di favorire la costituzione di un gruppo di giovani di AC, anche per la mancanza di animatori, che non possono essere ultracinquantenni.
  I preti della parrocchia, ai quali ancora tutto fa capo, non mostrano piena consapevolezza del significato dell'Azione cattolica nella vita sociale italiana. I più giovani credo ne abbiano letto solo sui libri. Si sente il pesante retaggio della svolta che si ebbe nella formazione del clero dall'inizio degli anni '90, quando la gerarchia ecclesiastica italiana si allontanò abbastanza dalle sperimentazioni di sinodalitá degli anni precedenti.
  Le attività di quest'anno sono state ripartite i due martedì articolati come conferenze su temi di spiritalità e due sabati destinati ai temi sociali e sinodali. Nella partecipazione ci si è divisi, con le persone più anziane che hanno frequentato più le riunioni del martedì. Anche il sabato, comunque, ha visto la presenza dei nostri "adultissimi", secondo la nostra denominazione associativa.
  La sostanziale desuetudine del Consiglio pastorale parrocchiale che, per ciò che ne so, non si riunisce più da anni ha ostacolato una nostra collaborazione allo sviluppo della sinodalitá in parrocchia.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

domenica 14 maggio 2023

Pluralismo

 

Pluralismo

 

   Il pluralismo sociale è quando la gente non la pensa tutta nella stessa maniera. Se ci riflettete bene potrete facilmente concludere che, sulla base della vostra stessa esperienza, non esistono società che non siano pluralistiche. Questo perché sono fatte di individui pensanti.

  Il pensiero è un insieme di sensazioni prodotte dalla nostra mente, che è una manifestazione della nostra fisiologia, del sistema neurologico integrato da tutti gli altri sistemi corporei. Quindi non pensiamo solo con il cervello, però senza di esso non c’è evidenza di pensiero. Il corpo e la mente sono quindi strettamente connessi: è questo che ci costituisce come individui.

  L’evoluzione biologica ci ha reso viventi sociali: l’essere umano è infatti un vivente che  costituisce e governa società. Questo principio fu enunciato agli albori della civiltà occidentale dal filosofo greco Aristotele, vissuto nel 4° secolo dell’era antica. La società è una forma di collaborazione coordinata e non è solo degli umani, che tuttavia, grazie allo sviluppo della loro mente, che non ha eguali in altri viventi nel nostro mondo, sono capaci di costruirne di molto complesse ed estese, superando i loro limiti cognitivi che li confinerebbero in gruppi di una trentina di individui.

  Maggiore è la collaborazione sociale, più potente diventa una società. Tuttavia ottenere maggiori livelli di collaborazione sociale richiede di comprimere le possibilità di autodeterminazione dei gruppi minori e degli individui. Viene quindi in questione la libertà personale e di quei gruppi.

  Nella nostra confessione si ha in genere molta difficoltà ad affrontare il tema della libertà: ciò è dovuto alla marcata involuzione assolutistica della nostra Chiesa, che storicamente risale alla metà dell’Ottocento. Si pensa alla Chiesa, intesa come organismo politico, applicandole la metafora del corpo fisiologico, nel quale ogni parte è integrata nell’organismo, secondo la funzione che svolge, e rimane sempre al posto che la natura le ha assegnato. Questa immagine, pensata originariamente per rendere l’idea della realtà soprannaturale del nostro legame sociale con l’Altissimo, non è adatta a definire, e tanto meno ad organizzare, la dimensione politica della società, vale a dire l’aspetto delle sue procedure di governo. Infatti la Chiesa, come ogni altra società, è, e non può non essere, pluralistica, perché formata di individui pensanti. Renderla assolutistica, come si è tentato a lungo, significa umiliare ciò che di più prezioso e caratteristico vi è nell’essere umano: il pensiero.

  Fin dall’antichità si è cercato di potenziare la collaborazione sottomettendosi a gerarchi. Tuttavia questo alle origini non c’era: è uno sviluppo che comincia a manifestarsi verso la fine Primo secolo della nostra era e che ha cominciato ad assumere una forma più vicina a quella attuale della nostra Chiesa solo dal Quarto secolo. La deriva assolutistica fu poi promossa dal movimento monacale nel secondo Millennio e, a fasi alterne, finì per consolidarsi tra il Settecento e Ottocento, quando si pensò alla nostra Chiesa come ad uno stato, con al vertice un vicario infallibile dell’Onnipotente.

  In realtà la nostra Chiesa, come tutte le altre Chiese cristiane, è sempre rimasta una società pluralistica. Tuttavia, l’insofferenza politica verso il pluralismo vi ha provocato molta sofferenza.

  Dagli anni Sessanta del secolo scorso si cominciò a mettere in questione l’assolutismo ecclesiastico e l’attuale movimento sinodale dei cattolici è una manifestazione di questo processo, dopo l’inverno ecclesiale che si è vissuto tra gli anni Novanta del secolo scorso e il primo decennio dell’attuale secolo. Purtroppo la primavera non è mai tornata. La nostra Chiesa era stata troppo depauperata. Lo vediamo: è fatta in prevalenza di anziani, molto legati al passato, da loro rivissuto nel ricordo mitizzandolo. E i più giovani, quando non considerano la Chiesa un po’ come una ASL dello spirito, in genere hanno perso dimestichezza con la socialità pluralistica e formano gruppi chiusi. In genere mi pare che si pensi che, aderendo alla Chiesa, occorra rinunciare alla propria libertà di pensiero, vale a dire di aver parte attiva in ciò che si fa. Che, insomma, significhi sottomettersi a un qualche gerarca, ecclesiastico o non.

  L’idea di libertà viene di solito diffamata nella predicazione come la pretesa di fare tutto ciò che si vuole. Ma nessuna persona fa tutto ciò che vuole, perché, poiché siamo viventi sociali, vogliamo solo ciò che nel gruppo in cui siamo integrati si vuole. E’ un po’ come nella moda, per l’abbigliamento. Nessuno si veste come vuole. Ci vestiamo come la moda, vale a dire la società che interloquisce sull’abbigliamento, vuole che si sia vestiti. E tuttavia è vero che, con le nostre preferenze, in un arco di opzioni definito dalla moda, in qualche modo influiamo su ciò che la società pensa nella moda. Questa è la nostra libertà.

  Succede anche nella nostra partecipazione alla Chiesa. Il nostro modo di essere religiosi incide sulla religiosità generale. Solo che l’assolutismo ecclesiastico non vorrebbe riconoscere questa libertà, che quindi viene praticata ma che non si può enunciare, pena l’emarginazione o addirittura l’esclusione.

  Storicamente la repressione ecclesiastica è stata particolarmente feroce ed estesa. Tuttora la nostra Chiesa è afflitta da organismi e procedure di polizia ideologica sentite ormai come obsolete ma che, a causa dell’assolutismo istituzionale organizzato nel passato secolo e mezzo, non si riesca a cambiare.

  Il pluralismo più indigesto all’assolutismo ecclesiastico è quello colto. Quello di lega più basso, ad esempio quello fondato su prodigi, miracoli e visioni, è maggiormente tollerato perché si è dimostrato più facilmente integrabile, in particolare nei  miti e santuari miracolanti.

  La nostra Azione Cattolica mi pare l’organismo ecclesiale che più di ogni altro in Italia ha mostrato di saper vivere positivamente il pluralismo, come esperienza di libertà, nel senso che ho precisato. In questo il suo maggior valore.

  E, tuttavia, bisogna riconoscere che nel nostro quartiere, dopo gli anni della maggiore espansione, dagli anni Sessanta alla metà degli anni ’80, e dopo la successiva fase in cui fu piuttosto osteggiata, non è riuscita ancora a far breccia nella gente. Come in altri ambienti ecclesiali, si è persa una tradizione, con la continuità generazionale. L’Azione Cattolica parrocchiale ha una sua vulnerabilità: è ancora troppo legata al dispotismo del parroco, che è una forma di prossimità dell’assolutismo. Cambia il parroco e tutto cambia. Decide tutto il parroco. Le persone laiche da noi mi pare che contino ancora poco o nulla. Quindi, durante gli anni in cui ci fu un parroco che non credeva nell’Azione Cattolica come via di formazione delle persone laiche, ne risentimmo. E comunque si è resistito, ma, appunto, si è persa la continuità generazionale, ed è difficile ricostituirla.

  Riflettere sul pluralismo sociale mi pare che sia un buon punto di partenza per cercare di riorganizzarci, attraendo persone nuove. Pensate, veramente, che la libertà, la vera libertà, non quella di rinunciare alla libertà proposta talvolta nella predicazione e nella preghiera, vale a dire la libertà di poter avere realmente parte attiva in ciò che si fa e si decide in Chiesa, sia incompatibile con le virtù religiose?

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

giovedì 11 maggio 2023

Spiritualità democratica

 

Spiritualità democratica


   La pratica di una spiritualità personale fu uno dei fattori di successo dei cristianesimi al tempo in cui si affermarono sulle antiche religioni politeistiche diffuse intorno al bacino del Mediterraneo. Questo tipo di religiosità era da molto tempo già diffuso in Asia. Una delle sue caratteristiche è che è svincolata dal legame a un popolo e a un territorio. Sotto questo aspetto i cristianesimi presero a differenziarsi marcatamente dagli antichi giudaismi. Riflessi di questa impostazione si avvertono anche nella nostra Costituzione repubblicana, entrata in vigore nel 1948 ed elaborata con il contributo determinante dei cristiani democratici tra il 1946 e il 1947.

  In particolare, la parola “Nazione”  è menzionata solo tre volte: nell’art.9, a proposito del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, nell’art.67, per dire che i membri del parlamento non sono i rappresentanti solo delle persone che li hanno eletti o dei loro partiti politici, nell’art.98, per stabilire che i pubblici impiegati non sono al servizio solo di chi li ha assunti. Sotto il precedente regime fascista, invece, l’idea di nazione permeava ogni aspetto della vita pubblica ed era costitutivo della condizione del cittadino. Lo si era in quanto parte della nazione, alla quale tutto era dovuto. Su di ciò si era costruita una vera e propria mistica, vale a dire una forma di spiritualità, che venne completamente abbandonata con il passaggio alla democrazia, dopo la sconfitta e scioglimento del regime mussoliniano, prodottisi in una fase molto cruenta della Seconda guerra mondiale tra il luglio del 1943 e l’aprile del 1945.

  Per “Nazione” si intendono popolazioni accumunate da una lunga storia che le ha portate a condividere alcuni importanti elementi culturali e a esprimere anche istituzioni politiche di vertice. Ma, in definitiva, sono le esigenze politiche che portano a delimitare i fattori determinati per definire ciò in cui una nazione consiste. Però la cosa viene presentata come se fosse anche correlata a una certa consanguineità, quindi come a un fatto naturale, di stirpe. Questo per cercare di sacralizzare, rendendoli immodificabili, gli elementi distintivi della nazione. Storicamente la “nazionalizzazione” si è fatta anche legandola a una fede religiosa, in Europa in particolare ai cristianesimi. Questo connotato, come detto, mancava del tutto alle origini.

  E’ facile capire che gli elementi che di solito vengono ritenuti essenziali per essere nazione non sono considerati tali per la nostra costituzione, in particolare l’etnia, la religione, la lingua. Se ne tratta nell’art.3, che al primo comma fa:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

  A che cosa legare una spiritualità repubblicana, allora?

  Fondamentalmente a un complesso di valori che riguardano le relazioni sociali, in particolare uguaglianza in dignità e solidarietà, alle quali poi conseguono caratteristiche delle istituzioni politiche. Un valore  è un orientamento d’azione che si ritiene di forza prevalente sugli altri principi. Lo si può poi giustificare in vario modo, in particolare con il ricorso a miti.

  L’idea di democrazia, in sé, ha natura di mito, e qui per mito non deve pensarsi a una fantasia infondata, ma alla spiegazione semplificata del senso di una esperienza di vita importante. Tutte le religioni, va detto, hanno prevalente natura mitologica, ma, appunto, non per questo sono false. Non esisterebbero società senza miti. L’animo umano non ne può fare a me. Il mito democratico ha però questo di particolare: se ne può fare esperienza pratica, attiva e partecipe, quindi da protagonisti, nelle relazioni con gli altri, come avviene anche nelle religioni quando non si risolvono solo in un fatto interiore o nel semplice sottomettersi. E’ strettamente legato alla costruzione sociale. L’orizzonte è quello di una pacificazione sociale benevola, tanto lontana dalle spietate leggi di natura, dalle quali biologicamente emergiamo e nella spiritualità talvolta cerchiamo di affrancarci. Su di ciò si può costruire anche una forma di spiritualità democratica, che significa prendere sul serio i valori democratici, interiorizzarli, farsene attuatori su ogni scala, fin da quella della famiglia e, naturalmente, anche nell’esperienza ecclesiale. Nella nostra Chiesa, però, essi sono ancora veramente negletti e ciò, talvolta, viene addirittura presentato come una virtù. Ma anche nelle istituzioni pubbliche si viene manifestando qualcosa del genere e, non a caso, contemporaneamente alla riproposta del  mito della “Nazione” secondo la vecchia impostazione, che fu anche del fascismo mussoliniano.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 9 maggio 2023

Democrazia 2.0 ed. 2020

 

 

Quando, come accaduto nei giorni scorsi, noto un picco delle visualizzazioni, cerco di raffreddare il blog, dirandando i post.

 Questo blog ha come destinatarie privilegiate le persone di fede del quartiere Monte Sacro -  Valli, nel nord Est di Roma, non tutto il resto del mondo, sebbene possa essere visualizzato ovunque.

  Ripubblico di seguito le mie note Democrazia 2.0, del 2020, che potrebbero tornare utili anche di questi tempi. Si torna infatti a parlare di importanti riforme costituzionali. 

  Dedichiamo, allora, un po' di tempo al giorno per cercare di riportare alla mente i concetti base della democrazia, come la si intende oggi in Europa occidentale.

  Che c'entra con la pratica religiosa?

  Questo è appunto uno dei temi che ho trattato nelle mie note.

  I cattolici italiani sono stati fondamentali per costruire la nostra democrazia repubblicana, dopo essersi dati precedentementre, nella gran parte, al fascismo mussoliniano, del resto guidati dal Papa di quei tempi. 

  Di fronte alle riserve che sono venute dinanzi agli annunci di certe impostazioni che si vorrebbero dare alle riforme, c'è chi le ha  criticate come atteggiamenti Aventiniani.

 Nell'antica Roma i plebei si ritirarono sull'Aventino, uno dei colli di Roma, nel 5° e nel 3° secolo dell'era antica. Nel 5° secolo, poi, un volta  si trasferirono nel nostro Monte sacro. Fu un modo per esercitare una pressione sul Senato, dove sedeva il patriziato. 

 Nel giugno 1924  deputati dell'opposizione si astennero dai lavori parlamentari per protesta dopo il rapimento del socialista Giacomo Matteotti, poi ritrovato assassinato. Chiamarono il moto Aventino facendo riferimento all'antica secessione della plebe. Fu espressione di antifascismo.

  Sotto questo profilo parlare di atteggiamenti aventiniani riferendosi alle critiche alle prime esposizioni dei progetti di riforma appare come una provocazione che purtroppo evoca i tristi fatti del fascismo storico. 

  Tuttavia, per nostra buona sorte, siamo in un contesto completamente diverso. Da un lato la riforma non è sorretta dalla violenza  intimidatoria e dall'altro i parlamentari dell'oppsizione appaiono ben decisi a partecipare attivamente alle procedure di riforma, sia pure in posizione critica. La democrazia si è fortemente radicata in Italia, anche tra coloro che seguono il magistero politico di Giorgio Almirante, certamente un estimatore di Benito Mussolini ma anche l'iniziatore di una nuova esperienza politica, diversa e distante dal fascismo di un tempo.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

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DEMOCRAZIA 2.0

ed.2020

1

Agire da gente di fede nella società democratica di oggi

(29 settembre 2012)

2

Libertà e democrazia come esperienze collettive di elevazione delle moltitudini alla piena   cittadinanza. Esse contrastano con la nostra esperienza religiosa? (30 settembre 2012)

3

Fede religiosa, uguaglianza e democrazia:  relazioni in veloce evoluzione (1 ottobre 2012)

4

La libertà come opportunità religiosa in democrazia (1 ottobre 2012)

5

L’uguaglianza come pari dignità sociale è alla base delle democrazie  di popolo contemporanee

(3 ottobre 2012)

6

Un appello per ripartire insieme

(4 ottobre 2012)

7

Le ragioni di un lavoro insieme

(5 ottobre 2012)

8.

Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa

(7 ottobre 2012)

9.

Noi cattolici: cittadini o stranieri nella società in cui viviamo?

(8 ottobre 2012)

10

Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.

(13 ottobre 2012)

11

Insieme per agire da gente di fede

(14 ottobre 2012)

12

Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza

(12 ottobre 2012)

13

Noi: popolo di Dio

(15 ottobre 2012)

14

Essere popolo unito da una fede religiosa

(16 ottobre 2012)

15

Unire le genti per una vita buona

(17 ottobre 2012)

16

Un popolo nuovo

(19 ottobre 2012)

17

Micro-Macro e la ricerca della felicità

(20 ottobre 2012)

18

Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli

(21 ottobre 2012)

19

Città di Dio, città dell’uomo, città del diavolo

(22 ottobre 2012)

20

Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!

(24 ottobre 2012)

21

E pluribus unum: quale fondamento per l’unità?

(25 ottobre 2012)

22

Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella società

(27 ottobre 2012)

23

Fare memoria di un’alleanza

(30 ottobre 2012)

24

Azione Cattolica: insieme per promuovere la pace universale

(1 novembre 2012)

25

Un nuovo modello globale di organizzazione e convivenza dell’umanità. Il modello della famiglia umana.

(2 novembre 2012)

26

Realtà invisibili

(3 novembre 2012)

27

A occhi aperti

(5 novembre 2012)

28

La città dell’uomo

(7 novembre 2012)

29

Una lunga storia

(8 novembre 2012)

30

Sentirsi responsabili di tutto

(10 novembre 2012)

31

Costruire la città dell’uomo come dovere religioso

(12 novembre 2012)

32

Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato

(14 novembre 2012)

33

La fede fa scandalo?

(16 novembre 2012)

34

Fede e promozione umana

(19-11-12)

35

Conflitto come esperienza religiosa

(19 novembre 2012)

36

Una riunione “politica”

(23 novembre 2012)

37

Noi e la storia. Chi siamo veramente?

(28 novembre 2012)

38

La parrhesia* evangelica

(29 novembre 2012)

39

Eterno presente o apertura verso un futuro diverso

(30 novembre 2012)

40

Sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente e rilevanza religiosa della democrazia

(1 dicembre 2012)

41

La pace universale come finalità religiosa

(3 dicembre 2012)

42

Che fanno i laici cattolici nel mondo?

(3 dicembre 2012)

43

Laicità dello stato: nuovo fronte religioso?

(9 dicembre 2012)

44

Civiltà cristiana e Azione Cattolica

(15 novembre 2012)

45

L’incontro della Chiesa col mondo

(23 dicembre 2012)

46

Cattolicesimo forza di progresso?

(29 novembre 2012)

47

Fede religiosa, forza di progresso

(4 gennaio 2013)

48

Noi, la Chiesa e la società nella crisi

(7 gennaio 2013)

49

Un processo continuo di liberazione

(8 gennaio 2013)

50

Pace come promozione umana

(13-1-13)

51

Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana

(13 gennaio 2013)

52

Scrutare i segni dei tempi

(15 gennaio 2013)

53

Fede cristiana: speranza credibile e onesta o pia illusione?

(17 gennaio 2013)

54

La Chiesa vuole rinnovare il mondo

(19 gennaio 2013)

55

Democrazia, difficile virtù

(22-3-16)

56

Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°

(23-3-16)

57

Convincersi della democrazia

(24-3-16)

58

Democrazia dei cristiani, democrazia di tutti

(30-3-16)

59

Nella grande politica

(6-6-16)

60

Il partito del Papa

(8-6-16)

61

Fede e politica: una relazione essenziale

(10-6-16)

62

La vita di fede come esperienza civile

(1-7-16)

63

Condominio o repubblica

(2-7-16)

64.

Democrazia - 1

(maggio 2017)

65.

Democrazia - 2

(maggio 2017)

66.

Democrazia - 3

(maggio 2017)

67.

Democrazia 4

(maggio 2017)

68.

Democrazia 5

(maggio 2017)

69.

Democrazia 6

(maggio 2017)

70. (settembre 2020)

Democrazia 7

71. Capire la democrazia

71.1.  La democrazia: non solo regole, ma una forma di convivenza sociale per risoluzione pacifica dei conflitti.

71.2. Cambiare democraticamente la società.

71.3. Democrazia e istituzioni.

71.4. Democrazia, desacralizzazione e secolarizzazione.

71.5. Democrazia: una forma di convivenza che consente il cambiamento sociale.

71.6. Democrazia come convivenza che libera da sottomissioni umilianti

71.7. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal basso

71.8. Democrazia: una questione di dignità

71.9. Istituzioni e comunità

71.10. Radicare la democrazia nelle istituzioni a partire da tirocini  democratici nelle realtà di base.

 

72. Capire la democrazia

 

 

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1

Agire da gente di fede nella società democratica di oggi

(29 settembre 2012)

 

 In una società ordinata democraticamente le moltitudini dei cittadini hanno la possibilità di influire di più sul corso delle cose. E ci sono valori da definire, perché, quando si comanda in molti, bisogna trovare un accordo per rispettarsi a vicenda e poi su quello che deve essere fatto e su come farlo, e infine per stabilire come si forma la volontà di tutti, che necessariamente deve, alla fine, essere unitaria. In una monarchia assoluta, come ce ne sono state in passato e come  ce ne sono ancora (poche, non so se si arriverebbe a cinque volendo fare l’inventario), è diverso.  Decide uno solo, o meglio, spesso, decide la famiglia reale o la corte che ruota intorno ad essa e gli altri devono attuare, con una discrezionalità più o meno ampia. Come una volta si provvedeva a istruire e formare i giovani rampolli delle famiglie regnanti, così ora questo lavoro si fa su più larga scala, perché vanno formate all’esercizio della sovranità le masse dei cittadini. Il sistema dell’istruzione pubblica serve anche a questo.

 L’avvento, dalla fine del Settecento, delle democrazie, non è stato indolore per la Chiesa cattolica, mentre non vi sono stati problemi per altre Chiese cristiane, come quelle che sorressero fin dagli inizi le idealità del nuovo stato federale uscito dalla rivoluzione nordamericana contro il Regno Unito (“In God we trust – Confidiamo in Dio”  fu ed è uno dei suoi motti). Quale ne è stata la ragione? Il problema è che la Chiesa cattolica era (ed è ancora) ordinata come una monarchia assoluta. E una di quelle monarchie assolute contemporanee di cui dicevo l’abbiamo proprio qui a Roma ed è la Città del Vaticano, che la Santa Sede ha ordinato come un vero e proprio stato, con una propria costituzione, propri uffici e servizi amministrativi e giudiziari, una propria polizia e un piccolo (ma molto motivato) esercito.

 Con l’avvento, in Europa, delle democrazie, i cattolici, laici e clero, si posero il problema di come e su che basi influire in esse. I Papi, nell’Ottocento e fino a metà del Novecento, considerarono con preoccupazione la politica democratica. Una pronuncia in questo senso la troviamo ancora agli inizi del Novecento, rispondendo a che pretendeva di conciliare democrazia e valori esplicitamente cristiani. Diciamo così i Papi che non si fidavano tanto dei nuovi “sovrani”, delle masse elevate alla cittadinanza, anche se anche gli antichi monarchi assoluti avevano dato problemi. In Italia le cose furono complicate dalle caratteristiche specifiche del nostro processo di unificazione nazionale che, per il fatto che il Papa era sovrano temporale nel Centro Italia, e soprattutto possedeva Roma, si svolse anche “contro” la Santa Sede, il cui stato, ad un certo punto, fu  invaso militarmente, con morti e feriti (Nella Chiesa di San Luigi dei Francesi una lapide li commemora). La prima presa di posizione pubblica di un Papa che in cui fu dichiarato che la democrazia il regime politico preferibile risale al 1944 (radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII): la trovate sul WEB al seguente indirizzo:

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html

  La riflessione della Chiesa sui problemi creati dall’avvento delle democrazie e sulle opportunità determinate dall’elevazione di moltitudini alla sovranità, con piena cittadinanza, si è espressa in quel vasto corpo di insegnamenti che va sotto il nome di “dottrina sociale della Chiesa” e che si suole far partire dall’enciclica Rerum Novarum, del 1891, del Papa Leone 13°. La trovate sul WEB a questo indirizzo:

http://www.vatican.va/holy_father//leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html

  Gli insegnamenti i questa materia vengono promulgati con autorità dai pontefici e dai vescovi, ma hanno sempre avuto l’ampia collaborazione dei laici nella loro ideazione e, più di recente, anche nella loro formulazione. Infatti, quando si deve trattare del mondo fuori dei templi, quello che nel gergo ecclesiale viene definito “il temporale”, gli specialisti sono, in fondo, i laici. Questo è stato riconosciuto formalmente in alcuni importanti documenti normativi del Concilio Vaticano 2°, ma era già una realtà anche prima.

 Oggi la dottrina sociale della Chiesa cattolica comprende un corpo veramente molto esteso, tanto che se ne è fatto un compendio, una sorta di testo unico, che sintetizza dichiarazioni solenni che si sono avute in un arco temporale ormai più che centenario.  Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html

 Come risulta da quello che ho scritto prima, il ruolo dei laici, per quanto riguarda l’azione nel sociale negli ordinamenti democratici, è primario e comprende anche la fase ideativa. Non si tratta solo di eseguire decisioni prese da altri. Il Papa e i vescovi ci chiedono espressamente di collaborare con loro a capire i tempi in cui viviamo. Mi fece molto impressione, quando il mio gruppo F.U.C.I. (gli universitari cattolici) venne ricevuto dal cardinal Vicario Poletti), sentire che il mio vescovo dichiarava che noi giovani eravamo i suoi occhi e le sue orecchie nell’Università. Me ne sentii lusingato ma mi resi anche conto della mia insufficienza. I tempi nuovi richiedono un impegno maggiore di noi laici: non possiamo limitarci a farci trascinare da un clero eroico.

 E il lavoro nella società richiede soprattutto un impegno continuo. Le cose non possono essere pensate una volta per tutte. La dottrina “sociale” della Chiesa, a differenza di quella “teologica”,  è infatti soggetta necessariamente a continui aggiornamenti, perché i nuovi problemi, in particolare nel mondo contemporaneo, si producono continuamente. Ma su certe cose è necessario riflettere insieme. Nessuno, come scrisse Hannah Arendt, da solo, senza compagni, arriva ad avere una visione sufficientemente completa delle cose. Questa  è appunto una delle ragioni per associarsi nell’Azione Cattolica: dare continuità all’impegno di fede nella società civile democratica e vedere le cose da più punti di vista.

 

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2

Libertà e democrazia come esperienze collettive di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza. Esse contrastano con la nostra esperienza religiosa?

(30 settembre 2012)

 

 

  Da Strada verso la libertà di Paolo Giuntella, Paoline Editoriale Libri, 2004, a pag.36 (ancora disponibile in commercio ad € 12,00) :

“…presentare  una verità che  vi farà liberi  come una religione repressiva è quanto di meno evangelico si possa immaginare. I tarli dell’integralismo e della mentalità normativa possono ridurre il Vangelo in polvere. No. Tutto al contrario di quello che dicono i detrattori, il cristianesimo è una grande esperienza di liberazione interiore. Le Beatitudini sono scritte in positivo, indicano un modello, una strada: ‘Beati…’. Un’esclamazione di gioia, una speranza. Il comandamento cardine del Nuovo Testamento, l’amore, indica la forza d’amare, non la forza di non fare. A me piace usare l’espressione di Martin Luther King, la forza d’amare  (che è poi una delle possibilità di tradurre il vocabolo indiano non violenza; l’altra è la forza della verità), proprio perché c’è una proiezione dell’amore in fare, in azione, in forza, appunto, e non in sdolcinatezza, in sentimentalismo. Dunque amore come energia creativa, come forza della creatività, come costruire, tessere, unire: una coppia di innamorati, un gruppo di persone (una comunità), un popolo, il genere umano”.

  Quando, in occasione di incontri religiosi, si affronta il tema della libertà, molte volte si comincia con l'elencarne i danni, si prosegue con il fissarne limiti precisi e si conclude che la vera libertà sta nel decidere liberamente di obbedire. Non è così? Questa impostazione crea qualche problema nel trattare dell’esperienza religiosa nelle società ordinate come democrazie di popolo e, in particolare, per stabilire se democrazia e religione possano andare d’accordo. Un argomento in contrario viene tratto dal fatto che, pur se oggi riconosce che la democrazia è il regime politico preferibile per la società civile, la nostra Chiesa al suo interno non è  ordinata democraticamente e non vuole esserlo.

 La libertà di tutti, dei popoli interi, è uno degli aneliti fondamentali delle democrazie moderne e, in particolare, delle democrazie di popolo contemporanee, che si propongono di elevare alla piena cittadinanza le masse, senza distinzione tra le persone che le compongono.

 E’ scritto nell’art.3, 2° comma,  della nostra Costituzione, legge fondamentale della Repubblica italiana:

“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione  politica, economica e sociale del Paese”.

 In questa norma è chiaramente espresso l’impegno democratico, che in Italia è un obbligo di legge per tutti, di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, che è come dire alla sovranità comune. Un bel rovesciamento di prospettiva rispetto, ad esempio, alla condizione degli ultimi nelle monarchie feudali, nelle quali il potere emanava dall’alto, e poi veniva, come dire, delegato in parte a persone inserite in diverse posizioni decrescenti di una scala gerarchica in cui, più in basso di tutti, c’erano moltitudini fatte di chi non contava nulla ed era semplicemente dominato da quelli che stavano sopra!

 In una preghiera di origine evangelica che recitiamo ogni giorno nella liturgia delle Ore, ai Vespri, il Magnificat, c’è qualcosa che richiama quell’idea. In greco fa kazèilen dinàsta apò trònon/ kài ùpsosen tapinùs, che viene tradotto nella Bibbia CEI 2010 con ha rovesciato i potenti dai troni/ha innalzato gli umili. La diversità di questa concezione rispetto a quella democratica sta nel fatto che in quella biblica il risultato è soprannaturale mentre nell’altra è prodotto da un’azione collettiva e consapevole, da una rivoluzione, dal basso. Rivoluzione ha significato spesso violenza tra le persone e per questo motivo la Chiesa cattolica, tanto più in quanto storicamente, fin dalla rivoluzione francese della fine del Settecento, ha fatto le spese di simili moti, ha posto un’obiezione morale contro di essa. E tuttavia in un ordinamento democratico contemporaneo certi cambiamenti, certe riforme anche radicali, possono essere attuati senza violenza, anzi questa è una delle caratteristica salienti dei regimi politici di questo tipo. Ciò avviene perché, nella concezione contemporanea, la democrazia integra in sé anche un sistema molto esteso di valori, che viene definito come quello dei diritti umani: non è fatta solo della regola per la quale decide la  maggioranza. Molte cose sono infatti sottratte all’arbitrio delle maggioranze. Ad esempio il principio supremo dell’uguaglianza tra le persone umane. Ed è proprio per questo che ai tempi nostri l’azione democratica costituisce un’opportunità importante anche per chi abbia una concezione religiosa della vita e, in base ad essa, ritenga che le società umane di oggi possano essere migliorate. Uno dei più importanti auspici che troviamo nella dottrina sociale della Chiesa espressa dal Concilio Vaticano 2° in poi è quello che i laici cattolici, cooperando con altre formazioni nella società civile, riescano a introdurre nei principi fondamentali degli ordinamenti democratici valori tratti dalle idee religiose, mediati, quindi, come dire, tradotti in modo che possano essere compresi e accolti anche al di fuori della Chiesa, con l’impiego del discorso razionale e della cultura nel dialogo con le altre componenti della società. Per riunire intorno ad essa le forze sociali, i popoli e, al limite, l’intero genere umano, come scrisse Giuntella. Questo  lavoro è centrale in Azione Cattolica. Esso non è altro che l’espressione della missione della Chiesa nel mondo, tra le genti.

 

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3

Fede religiosa, uguaglianza e democrazia:  relazioni in veloce evoluzione

(1 ottobre 2012)

 

dal Catechismo della Chiesa cattolica (1992)  n.1934 e 1935 (nella Parte terza: La vita in Cristo; Sezione seconda: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito; Capitolo secondo: La comunità umana; articolo 3: La giustizia sociale; paragrafo 2°: Uguaglianza e differenze tra gli uomini:

1934. Tutti gli uomini, creati ad immagine dell’unico Dio e dotati di una medesima anima razionale, hanno la stessa natura e la stessa origine. Redenti dal sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a partecipare della medesima beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una eguale dignità.

1935. L’uguaglianza tra gli uomini poggia essenzialmente sulla loro dignità personale e si diritti che ne derivano:

“Ogni genere di discriminazione nei diritti fondamentali della persona  […] in ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio” [dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano 2°, 29],

 Dunque il principio dell’uguaglianza universale degli esseri umani, fondamento delle democrazie popolari contemporanee, è oggi legge anche della Chiesa cattolica, in quanto sancito dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e dal Catechismo della chiesa cattolica, il quale è molto di più di un semplice sussidio per l’iniziazione religiosa, ma è anche un documento normativo, promulgato dal papa Giovanni Paolo 2° con la Costituzione Apostolica Fidei depositum,  dell’11 ottobre 1992 (alcune modifiche furono apportate in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, il 15 agosto 1997).

 La formulazione di quell’ideale di uguaglianza sociale che troviamo nella Gaudium et spes  è simile a quella che si legge nell’art.3, comma 1° della nostra Costituzione (deliberata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948), la cui elaborazione iniziò durante i lavori della prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione dell’Assemblea costituente (luglio 1946 – gennaio 1948) in cui i cattolici erano ben rappresentati, in particolare dai democristiani Umberto Tupini, che la presiedeva, Giorgio La Pira (al quale si deve la formulazione dell’art.2 della Costituzione), Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Camillo Corsanego. E sostanzialmente essa richiama l’analoga formulazione che troviamo nell’art.2, 1° comma, della  Dichiarazione  Universale dei Diritti dell’Uomo (approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-12-1948):

1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

 Ora, vi propongo un lavoro comune, perché, in tutta sincerità non ho la sapienza necessaria per fare asserzioni sicure sul tema: cercate nella storia ormai bimillenaria della nostra Chiesa dichiarazioni normative (atti dei papi, dei concili, dei vescovi)  analoghe a quella che trascrivo nuovamente, della Gaudium et spes, in materia di uguaglianza: “Ogni genere di discriminazione nei diritti fondamentali della persona  […] in ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio”.

 Vi sarò grato se mi farete conoscere il risultato della vostra ricerca.

 Intanto ricordo che il 12 marzo del 2000, durante il Grande Giubileo dell’anno 2000, il papa Giovanni Paolo 2° presiedette una solenne liturgia penitenziale denominata Preghiera universale – Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che comprese la seguente parte:

[…]

VI. CONFESSIONE DEI PECCATI CHE HANNO FERITO LA DIGNITÀ DELLA DONNA E L'UNITÀ DEL GENERE UMANO 

Un Rappresentante della Curia Romana: 

Preghiamo per tutti quelli che sono stati offesi 
nella loro dignità umana e i cui diritti sono stati conculcati; 
preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate, 
e riconosciamo le forme di acquiescenza 
di cui anche cristiani si sono resi colpevoli. 

Preghiera in silenzio. 

II Santo Padre: 

Signore Dio, nostro Padre, 
tu hai creato l'essere umano, l'uomo e la donna, 
a tua immagine e somiglianza 
e hai voluto la diversità dei popoli 
nell'unità della famiglia umana; 
a volte, tuttavia, l'uguaglianza dei tuoi figli non è stata riconosciuta
ed i cristiani si sono resi colpevoli di atteggiamenti 
di emarginazione e di esclusione, 
acconsentendo a discriminazioni 
a motivo della razza e dell'etnia diversa. 
Perdonaci e accordaci la grazia di guarire le ferite 
ancora presenti nella tua comunità a causa del peccato, 
in modo che tutti ci sentiamo tuoi figli. 
Per Cristo nostro Signore. 

R. Amen. 

R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie, eleison. 

Viene accesa una lampada davanti al Crocifisso. 

Orazione conclusiva 

Il Santo Padre: 

O Padre misericordioso, 
tuo Figlio Gesù Cristo, giudice dei vivi e dei morti,
nell'umiltà della prima venuta
ha riscattato l'umanità dal peccato
e nel suo glorioso ritorno chiederà conto di ogni colpa:
ai nostri padri, ai nostri fratelli e a noi tuoi servi,
che mossi dallo Spirito Santo
ritorniamo a te pentiti con tutto il cuore,
concedi la tua misericordia e la remissione dei peccati.
Per Cristo nostro Signore.

R. Amen.

Il Santo Padre in segno di penitenza e di venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso.

 BENEDIZIONE E INVIO

12 marzo 2000

 

Il Santo Padre:

Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.

Vi benedica il Padre che ci ha generati alla vita eterna.
Amen.

Vi benedica il Cristo che ci ha fatti suoi fratelli.
Amen.

Vi benedica lo Spirito Santo che dimora nel tempio dei nostri cuori.
Amen.

Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.

 

Fratelli e sorelle,
questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore
e ha voluto purificare la memoria
del cammino dei cristiani nei secoli
susciti in tutta la Chiesa e in ciascuno di noi
un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo:
mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità,
mai più gesti contro la comunione della Chiesa,
mai più offese verso qualsiasi popolo,
mai più ricorsi alla logica della violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni,
disprezzo dei poveri e degli ultimi.
E il Signore con la sua grazia
porti a compimento il nostro proposito
e ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Amen.

 

  La proclamazione dell’uguaglianza universale degli esseri umani è oggi quindi parte della dottrina sociale della Chiesa, un principio promulgato con la massima autorità: quella di un Concilio ecumenico e di un papa. Il papa Giovanni Paolo 2°,  con le parole pronunciate nel 2000 al termine della preghiera universale di confessione delle colpe e richiesta di perdono ha anche assegnato a tutti noi fedeli, e in particolare a noi laici  che operiamo nel “temporale”, cioè al di fuori della sfera liturgica di competenza canonica dell’autorità ecclesiastica e del clero,  un compito molto chiaro, da svolgere con determinazione e senza cedimenti  o arretramenti (“mai più…”), anche in materia di realizzazione dell’uguaglianza sociale universale.

 C’è ancora molto da fare, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, ideativo. Ma molto indubbiamente è stato fatto.

 Considerate ad esempio quante volte nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992 – 1997) ricorre il tema dell’uguaglianza. E’ una ricerca che possiamo fare agevolmente mediante l’indice tematico. Dunque il termine ricorre cinque volte ai numeri:

         n.369: riguarda l’uguaglianza tra uomo e donna;

n.872: non riguarda l’uguaglianza nella società civile, ma il contributo all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi alla missione della Chiesa;

         n.1935 (sopra citato)

         n.2273: se ne parla con riguardo ai diritti del nascituro;

n.2377: se ne parla con riferimento alle pratiche di inseminazione e fecondazione artificiali omologhe.

In sostanza il tema dell’uguaglianza è considerato nel senso a cui vi si riferiva il citato brano della Gaudium et spes solo nel n.1935, poche righe.

 Molto di più vi è nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel giugno 2004, che raccoglie precedenti dichiarazioni del magistero dei pontefici e dei concili. Si tratta di uno strumento molto utile per avere una visione d’insieme e coordinata dei temi in esso trattati, tra i quali, appunto, quello dell’uguaglianza e soprattutto per collegare certe importanti affermazioni alle fonti da dove derivano.

 1965 – 1992 – 1997 – 2000 – 2004: mi pare che si possa rilevare una veloce (tenendo conto dei tempi occorrenti solitamente nelle cose di religione) evoluzione della concezione delle relazioni della nostra fede con i temi dell’uguaglianza sociale e, conseguentemente, della democrazia che anche su di essa di fonda.

 

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4

La libertà come opportunità religiosa in democrazia

(1 ottobre 2012)

 

Il nuovo colosso

 

Non come lo sfacciato gigante di bronzo della gloria greca,

piantato a soggiogare la terra da un confine all’altro,

qui sulle rive della terra d’Occidente si ergerà

una donna potente con una torcia, la cui fiamma

racchiude il fulmine, e il suo nome è

Madre degli Esuli. Dal faro che ha in mano

lampeggia il benvenuto a genti di tutto il mondo;

gli occhi suoi dolci dominano il ponte sospeso

che unisce due quartieri della città.

 “Tenetevi pure, terre antiche, il vostro fasto leggendario!” ella grida

con labbra silenziose. “Datemi chi tra voi è esausto e povero,

le vostre masse che si accalcano nell’anelito di libertà,

i  miseri rifiuti della vostre popolose terre.

 Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli sventurati,

innalzando la mia luce mostrerò loro la porta d’oro!”.

 

Emma Lazarus, 1883 (traduzione mia)

 

 Avvicinandosi dal mare e dal cielo alla città statunitense di New York, risalta la gigantesca statua eretta a fino Ottocento alla foce del fiume Hudson per celebrare l’indipendenza  degli Stati Uniti d’America, conosciuta come la Statua della Libertà: raffigura una donna coronata che innalza una torcia con il braccio destro e nell’altro tiene un libro sul quale è incisa la data dell’indipendenza americana dal Regno Unito, il 4 luglio 1776; ai suoi piedi vi sono catene infrante; è la raffigurazione della Libertà che illumina il mondo. Sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus, che sopra ho evidenziato in neretto (l’antico colosso greco menzionato nel primo verso della lirica era  quello, raffigurante il dio Sole – Helios, eretto nel porto della città di Rodi nel terzo secolo dell’era antica). Comunemente quel monumento è ritenuto un simbolo degli Stati Uniti d’America, ed è vero, ma rappresenta anche qualcosa di molto più profondo: infatti ricorda che la guerra di indipendenza delle colonie nordamericane combattuta nel Settecento contro i britannici fu una vera e propria rivoluzione, motivata non solo dalla volontà dei coloni di comandare a casa propria, ma anche da quella di creare un mondo nuovo, con altri principi rispetto a quelli che dominavano la monarchia europea che pretendeva di continuare a dominarli; quel proposito che nella poesia è espresso con il voler aprire la “porta d’oro” a quelli che oltremare erano considerati rifiuti umani. La Libertà simboleggiata in quella statua è quindi quella che è associata alla giustizia sociale ed è molto di più del solo conquistare il potere di decidere che cosa fare di sé e delle proprie cose, liberandosi in questo dal giogo altrui; non è solo la liberazione da una lontana monarchia,  è liberazione dal giogo della diseguaglianza e della discriminazione sociale e anelito ad un nuovo ordine sociale, ad una nuova condizione di cittadinanza, per dare a tutti l’opportunità della ricerca della felicità, poiché gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti (così è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana).  La Statua della Libertà  e la dichiarazione di indipendenza che essa celebra manifestano una caratteristica delle democrazie moderne che spesso non è bene intesa: esse sono fondate sul desiderio della libertà dall’ingiustizia sociale e sull’affermazione di diritti umani sottratti all’arbitrio umano, sia esso quello di un monarca come anche quello di una maggioranza. Essa ha quindi sostanzialmente carattere religioso perché non dipende dall’osservazione e accettazione di come vanno le cose di solito, e infatti di solito vanno diversamente, ma da principi proclamati, attuati e difesi come assoluti: nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense ciò è detto chiaramente, vi sono infatti menzionati esplicitamente Dio e altri ideali religiosi.

 Quando si dice che il cristianesimo è all’origine di importanti valori della nostra civiltà  questo è vero anche per quanto riguarda le democrazie contemporanee, anche se non bisogna dimenticare che esse si sono spesso imposte contro gli insegnamenti e i divieti delle autorità ecclesiastiche e che ciò risalta particolarmente nel caso della Chiesa cattolica. Una delle epoche più problematiche sotto questo profilo fu quella del ventennio fascista italiano. Ma oggi siamo in un’era diversa, qui in Italia e ce ne dobbiamo rallegrare. Possiamo parlare di democrazia e religione senza dover superare  divieti della autorità civili e di quelle religiose. Ci può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. E’ stata una faticosa conquista, dalla quale non dobbiamo mai accettare di recedere. Abbiamo quindi, ai tempi nostri, la possibilità, ma anche il compito e il dovere, di approfondire il tema dell’influsso che come fedeli cattolici possiamo esercitare per la crescita della società civile e in particolare per la piena affermazione di quei diritti inalienabili, di quei valori, che sono all’origine delle idealità democratiche. L’obiettivo, condivisibile anche con coloro che non hanno le nostre convinzioni di fede, è quello di realizzare, mediante vite buone, una società in cui sia veramente bello vivere, in libertà e giustizia. Ciò è parte cruciale dell’impegno in Azione Cattolica.

 

 

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5

L’uguaglianza come pari dignità sociale è alla base delle democrazie  di popolo contemporanee

(3 ottobre 2012)

 

 Nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004) si legge una interessante citazione alla nota n.793, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale:

« “Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane » ha affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia a Le Bourget (1º giugno 1980).

 Quelle parole di un papa colpiscono tenendo conto del carattere marcatamente anticlericale della Rivoluzione francese del Settecento (1789-1799). E certamente esse non vollero intendere una giustificazione delle violenze politiche di massa che quei moti espressero o delle misure restrittive e delle espropriazioni adottate contro la Chiesa cattolica di allora  o degli altri provvedimenti contro il clero cattolico, ma riconoscere che alcune delle principali idealità di convivenza sociale manifestate da quei rivoluzionari di allora corrispondevano anche a principi religiosi cristiani. Naturalmente ai nostri tempi ci siamo abituati ad una libertà  di espressione del pensiero che nel Settecento ci sarebbe costata cara. All’epoca non si potevano dedurre liberamente dai principi religiosi certe conseguenze quanto  a riforme sociali. Quindi dobbiamo capire che certe cose vengono dette talvolta con il senno del poi. E, certo, giudicando con quel senno del poi, ci possiamo dispiacere che la Chiesa cattolica abbia espresso non di rado nei secoli passati posizioni arretrate rispetto ad altre della sua contemporaneità, e lo riconosciamo perché poi ha appunto dichiarato pubblicamente di pentirsene. La situazione ai nostri giorni è piuttosto cambiata. Mi riferisco ad esempio alla bioetica in cui il pensiero cattolico, stimolato dal magistero, è all’origine di un importante e fecondo filone speculativo che ha portato ad approfondire il tema di quando cominci l’umano che deve essere riconosciuto nella dignità sua propria, o all’etica dell’economia e dello sviluppo, come quella espressa nell’enciclica pontificia Caritas in veritate  (2009), in cui si è presa consapevolezza dell’esigenza che dall’interdipendenza umana planetaria discenda la necessità di un nuovo spirito di fraternità globale.

  Soffermandoci sul principio di uguaglianza, è senz’altro vero che esso è alle fondamenta della democrazie popolari contemporanee, per intenderci quelle basate sul suffragio universale (alle elezioni politiche votano tutti gli adulti, maschi e femmine, senza distinzione di istruzione, reddito, condizione sociale o di stirpe) e sui quei principi assoluti, proclamati solennemente dalla Nazioni Unite nel 1948 nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che si indicano come diritti umani. Il principio di uguaglianza è uno di essi e viene così enunciato in quella solenne Dichiarazione, all’art.2:

1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.

 Una delle principali eccezioni al principio di uguaglianza universale è stata storicamente quella della condizione di schiavitù, superata solo nel corso dell’Ottocento dagli stati europei ed americani. Dai film western sappiamo, ad esempio, che una delle motivazioni che furono alla base del sanguinoso conflitto detto guerra di secessione (1861-1865) nordamericana fu la questione dello schiavismo in danno dei deportati dall’Africa. Lo schiavismo fu istituzione molto antica ed era molto praticato anche ai tempi delle primitive comunità cristiane, che non vi videro vero motivo di scandalo. Così, in particolare, per la gran parte della storia della Chiesa cattolica le autorità ecclesiastiche non vi videro veramente un problema da punto di vista religioso se praticato da popoli cristiani (al contrario, ad esempio, di quello praticato dai predoni saraceni che comportava l’abbandono della pratica religiosa cristiana). Per quanto ho letto, se ne cominciarono a occupare dal Cinquecento, di fronte alle morie di massa dei nativi americani costretti in schiavitù dai colonizzatori europei. Monarchie cattoliche come quella spagnola e portoghese consentirono la deportazione di massa di schiavi dall’Africa e la riduzione in schiavitù di masse di nativi americani. I cristiani europei non furono in genere particolarmente sensibili al tema fino al Settecento, salvo che nel caso di alcuni spiriti illuminati (anche del clero) e di alcuni filosofi. Lo schiavismo attuato da cristiani influenzò profondamente il profilo demografico americano, come si può constatare facilmente in particolare negli Stati Uniti d’America, nei Caraibi e in Brasile.

 L’uguaglianza tra gli esseri umani non  è del resto un dato evidente (un dato è evidente quando esso ci si impone senza che ci si debba ragionare molto su). La scienza contemporanea ci dice che gli umani condividono tutto il profilo genetico, tranne però una piccolissima parte che denota importanti caratteristiche etniche, familiari e individuali. E certe comuni caratteristiche fisiche e mentali degli umani erano già chiare ai popoli dell’antichità, come anche però le differenze tra le persone e i popoli. E’ insomma da sempre esperienza comune che ognuno di noi nasce e si sviluppa diverso dall’altro, benché simile agli altri. Si tratta di differenze di stirpe, ma anche di altre  particolarità individuali nella costituzione fisica e di caratteristiche psichiche, come quelle relative alla struttura e all’orientamento sessuali, alle quali si aggiungono differenze derivate dalla storia individuale e sociale della persona. In definitiva si può dire che l’uguaglianza non è in natura, questo sicuramente è evidente,  mentre certamente gli umani si assomigliano gli uni gli altri, anche questo è evidente, e inoltre che gli umani sono viventi sociali che hanno bisogno gli uni  degli altri e quindi si sono reciprocamente complementari e cercano di organizzare le loro società in modo da sfruttare al meglio questa loro qualità. Nel mondo di oggi, molto complesso e molto più abitato da esseri umani che nelle epoche passate, riteniamo generalmente che a questo fine si debba promuovere l’uguaglianza universale tra gli esseri umani per realizzare società in cui le opportunità di cooperazione pacifica siano potenziate al massimo. Ci figuriamo infatti che un conflitto su scala mondiale, data la profonda interdipendenza della società umane e la potenza degli strumenti di distruzione a disposizione, porterebbe a una catastrofe che metterebbe addirittura in pericolo la sopravvivenza dell’intera specie umana sulla Terra.

 Faccio un esempio tratto dalla vita quotidiana di oggi: il mio IPAD è stato ideato negli Stati Uniti d’America, prodotto nella Repubblica popolare di Cina (lo stato che domina nella Cina continentale) e venduto in Italia: che succederebbe se scoppiasse un conflitto tra americani e cinesi motivato dall’annosa rivendicazione di sovranità dei cinesi sull’isola-stato di Taiwan? Naturalmente possiamo fare un esercizio simile di previsione anche con riferimento ad altri prodotti di cui non potremmo fare facilmente a meno, mentre tutto sommato all’IPAD si potrebbe rinunciare.

 In che cosa quindi siamo uguali e, innanzi tutto,  da dove deriviamo questa pretesa di uguaglianza?

 In realtà quella all’uguaglianza tra gli esseri umani è un’aspirazione e un obiettivo, non  (ancora) una realtà, né in natura né nelle società umane, e si fonda sull’idea che essi abbiano pari dignità, vale a dire che a tutti loro vadano riconosciuti nella stessa misura alcuni diritti umani fondamentali. Questa idea, per quanto ho capito, è di origine specificamente cristiana.

 Si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, al n.144:

144 « Dio non fa preferenze di persone » (At 10,34; cfr. Rm 2,11; Gal 2,6; Ef 6,9), poiché tutti gli uomini hanno la stessa dignità di creature a Sua immagine e somiglianza.

 L'Incarnazione del Figlio di Dio manifesta l'uguaglianza di tutte le persone quanto a dignità: « Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28; cfr. Rm 10,12; 1 Cor 12,13; Col 3,11).

Poiché sul volto di ogni uomo risplende qualcosa della gloria di Dio, la dignità di ogni uomo davanti a Dio sta a fondamento della dignità dell'uomo davanti agli altri uomini. Questo è, inoltre, il fondamento ultimo della radicale uguaglianza e fraternità fra gli uomini, indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine, cultura, classe.

 Quindi: in primo luogo viene in rilievo l’essere stati tutti creati da Dio, che ci si è manifestato come Padre, e in  secondo luogo la fraternità comune in Cristo. E, quanto alla condizione di creature, c’è un altro elemento importante: la convinzione di essere stati creati da Dio a sua immagine,  a sua somiglianza (Genesi 1,26). Riconoscere la pari dignità degli umani è quindi, nella concezione cristiana, materia di un dovere religioso, anche se nella storia cristiana sono state riconosciute lecite molte distinzioni ulteriori, ad esempio quella fra uomo e donna, che sono state poste alla base di vere e proprie discriminazioni. Quello che viene espresso nella terminologia biblica, può anche essere detto così: tutti gli esseri umani devono essere considerati uguali nei diritti fondamentali. In un caso come nell’altro, sia che la si esprima in termini religiosi che con altri termini, a questa realtà si crede in modo religioso, vale a dire a prescindere da quello che si ricava dall’osservazione delle cose come vanno di solito e, in particolare,  della natura, in cui, come ho detto, l’uguaglianza non esiste e la regola fondamentale è pesce grosso mangia pesce piccolo e sopravvive il più adatto alla condizioni ambientali e biologiche. Insomma per uno spirito religioso cristiano l’affermazione della pari dignità creaturale degli esseri umani e tutto ciò che se ne fa conseguire non è un problema, mentre chi vuol far discendere quel principio dalla semplice natura, vale a dire dal nostro essere viventi prodotto della natura, deve affrontare un’insufficienza nel fondamento di quella pretesa.

 Gli illuminati artefici della rivoluzione nordamericana (1776) della fine del Settecento non trovarono infatti alcun ostacolo nel proclamare:

We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.

(trad.mia: Crediamo fermamente nell’evidenza di queste verità: che tutti gli esseri umani sono creati uguali, provvisti dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, e tra essi il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità.)

 La lotta contro le discriminazioni tra gli esseri umani nei loro diritti umani è alla base di molte delle costituzioni delle entità politiche contemporanee, in particolare di quelle europee e americane e di quelle che a queste ultime si sono ispirate. L’Unione Europea è tra quelle entità. Bisogna riconoscere che questa è una materia in cui ci sono state alcune prese di posizione divergenti tra le autorità civili e quelle religiose. A volte l’affermazione dei diritti umani è stata considerata antireligiosa. In campo civile si è presa ad esempio coscienza di forme di discriminazione che la dottrina religiosa non riconosce come tali. Segnalo solo un problema che è, come si dice, di stringente attualità. Una di quelle questioni è venuta in rilievo nell’ultima riunione del nostro gruppo e riguarda la disciplina giuridica delle unioni delle persone omosessuali. Su di essa ai laici cattolici è lasciata poca autonomia, perché rientra in quelle riguardanti i valori non negoziabili, sui quali l’autorità ecclesiastica, con vincolo di obbedienza canonica, chiede che si segua la sua linea. Ma comunque bisogna ragionarci su, perché come fedeli laici dobbiamo pur sempre rendere ragione al mondo della nostra fede e a questo fine non è sufficiente l’argomento “ci è stato ordinato di pensare e di fare così”. Si tratta del resto di problemi che  rilevano ancor più in materia di fede per la base in fondo religiosa del diritto umanitario.

 Nel campo dei diritti umani, le tematiche religiose, e in particolare quelle cristiane, stanno avendo, un po’ inaspettatamente, una particolare rilevanza nello sviluppo dell’organizzazione delle società civili più avanzate, in particolare in Europa. E’ un settore in cui sono chiamati a operare innanzitutto i fedeli laici, impegnati a spendersi in quello che nel gergo ecclesiale  è definita l’animazione del temporale. E’ questo, dall’inizio, uno degli ambiti spazio in cui l’Azione Cattolica ha deciso di lavorare prioritariamente. Infondere nelle società civili i valori, che sono alla base del diritto umanitario, è infatti necessariamente un compito collettivo, da affrontare insieme, dopo essersi preparati insieme. Così anche è da affrontare insieme il dialogo con altre componenti della società per individuare nelle condizioni contemporanee altri fattori, oltre a quelli storicamente già noti, che ostacolino la piena espansione universale della dignità degli esseri umani.

 Per molti versi tuttavia in molte realtà locali il discorso di Azione Cattolica è da riavviare o anche solo  da ravvivare, perché nei decenni passati  ci si è spesso concentrati su altre tematiche e altri modi di impegno religioso e si è quindi un po’ perso il senso del nostro impegno nella Chiesa e nella società civile. Veniamo da lontano, ma qualche volta appariamo alla gente come un’esperienza nuova, non esattamente in linea con le altre esperienze di collettività presenti nella vita delle parrocchie. Ad esempio può apparire che, dove altri mettono l’accento su una disciplina individuale, noi puntiamo molto sulla libertà delle persone nelle nostre dinamiche associative, in particolare su quella di pensiero e di espressione. Eppure la nostra rimane una esperienza di carattere religioso, in cui si vuole quindi rimanere legati alla fede comune, anche se effettivamente si punta a scoprire/riscoprire/sperimentare la nostra fede anche come strada verso la libertà, secondo l’espressione di Paolo Giuntella che ho citato nel post del 1 ottobre scorso.

 

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Un appello per ripartire insieme

(4 ottobre 2012)

 

 Negli ultimi giorni ho pubblicato alcuni contenuti in cui ho parlato degli obiettivi peculiari dell’Azione Cattolica nella società civile democratica di oggi. Può sembrare una cosa un po’ troppo grande per una realtà parrocchiale come la nostra. E per le nostre forze in concreto. Per certi versi noi dell’A.C. in San Clemente Papa siamo un piccolo resto, se ci paragoniamo a come era anni fa il nostro gruppo. Non abbiamo più una nostra stanza in parrocchia, di volta in volta ce ne assegnano una. Il nostro assistente ecclesiastico si trova a volte a parlare a poche persone e può domandarsi se, in fondo, ne valga ancora la pena. Avere una grande storia non potrà salvarci a lungo dall’estinzione se  il gruppo non si rivitalizzerà con l’ingresso di nuovi soci, in particolare di soci più giovani. E’ paradossale che questo accada in un mondo che ha tanto bisogno di ciò che la Chiesa si propone di dare e in un Chiesa che vuole essere tanto presente nel mondo, in particolare confrontandosi con le democrazie europee e l’Unione Europea sul terreno dei valori. Questo è appunto da sempre il campo specifico dell’Azione Cattolica, l’azione nella società civile per promuovere in essa i valori religiosi.

 E’ possibile che non si abbia ben chiaro, pensando ad un impegno in Azione Cattolica, che cosa si fa nei nostri gruppi e soprattutto quali risultati si riescano effettivamente ad ottenere. Bene, innanzi tutto occorre distaccarsi da una mentalità per così dire aziendalistica, per la quale si somma nei risultati positivi solo tutto quello che si fa sotto il marchio associativo.  Noi riuniamo gente che già opera nella società nei vari ambiti in cui si può farlo: la famiglia, il lavoro, lo sport, la cultura e via dicendo. Non dobbiamo inventarci cose nuove da fare lì come Azione Cattolica. Però formandoci e riflettendo in Azione Cattolica, in un gruppo che è federato in un’organizzazione che ne condivide le idealità, gli obiettivi e il metodo, possiamo manifestare meglio nel posto che occupiamo nella società il nostro essere  cristiani e i nostri valori, dialogando con altri sui temi e i problemi emergenti.  Per questo occorre una preparazione, sia spirituale che culturale, e una determinazione che scaturisce da una adesione consapevole e convinta ai valori di fede. Non è un lavoro che  troviamo già fatto, come se, per ogni situazione, la nostra Chiesa, il magistero in particolare, potesse fornirci una sorta di manuale operativo o di catechismo, e poi a noi spettasse solo di attuare cose decise da altri. Forse, al di fuori del mondo ecclesiale, si pensa che tra noi cattolici vada così, che insomma si faccia quello che in dettaglio viene stabilito più in alto nella scala gerarchica, dal Papa in giù. E’ il pregiudizio che, da cattolico, dovette superare John Kennedy assumendo la presidenza degli Stati Uniti d’America. In realtà ognuno di noi porta effettivamente la personale e diretta responsabilità della porzione di mondo che è sotto la sua sfera di influenza e le soluzioni vanno ideate e sperimentate di volta in volta, dialogando nella Chiesa e nella società. Se oggi si dispera di poter cambiare le cose che non vanno a partire dal basso è perché è un po’ svanito il senso democratico, che comunque pervade sempre la nostra società, per il quale si è capaci di individuare e capire la dinamica dei grandi numeri, delle masse, dietro certi cambiamenti storici. Di convincersi che in democrazia si cambiano effettivamente le cose a partire dagli sforzi delle persone nella loro particolare,  apparentemente umile e insignificante, storia.  Una parte del lavoro che si deve fare in Azione Cattolica consiste proprio in questo: nel comprendere meglio quello che l’azione collettiva democratica ha fatto, sta facendo e può ancora fare per il bene di tutti, per cambiare il mondo. Democrazia è agire in una collettività rispettando la personalità e i valori degli altri, con la fiducia di poter cambiare in meglio la società: l’Azione Cattolica concepisce sé stessa anche come una palestra di democrazia  (Atto normativo Diocesano di Roma). La fiducia nelle potenzialità dell’agire in democrazia si acquista lavorando insieme ad altri, in un gruppo aperto alla società, partecipando ad un’azione collettiva spinta da alte idealità, quali sono quelle religiose.

  La parrocchia è la casa di tutti e tutti possono trovarvi la loro casa, il tipo di impegno adatto a loro. L’Azione Cattolica è una stanza di quella casa di tutti, anch’essa quindi è di tutti e per tutti. E tuttavia il lavoro in un gruppo di Azione Cattolica può non venire incontro alle esigenze di tutti, perché in primo luogo esso non è volto tanto ad operare per coloro che ne fanno parte, a risanarli e sorreggerli nella loro psicologia e nella loro fede, ma per gli altri che non  ne fanno parte, la società intorno, e poi perché non è centrato tanto su ciò che si fa nel gruppo ma su ciò che si deve fare fuori di esso, non però come specifica collettività religiosa, come ditta ecclesiale, ma come parti della società civile. E l’azione che si cerca di svolgere nella società è innanzi tutto diretta alla promozione di valori, la specifica forma di apostolato che compete ai laici, non tanto a suscitare nuove adesioni al gruppo, all’espansione della nostra particolare realtà associativa. La particolarità della nostra esperienza associativa sta proprio nell’apertura alla società civile, non in un modo particolare di vivere la nostra fede inteso come spiritualità e disciplina individuale o di gruppo, dal momento che esso non differisce da quello comune della parrocchia. Mi pare di aver capito quindi che per associarsi in Azione Cattolica occorra: 1)aver già maturato una fede salda; 2)avere già una formazione catechistica di base; 3) avere un interesse alla vita della Chiesa, in particolare alla la missione che in essa e fuori di essa specificamente  compete ai laici; 4)avere interesse ad approfondire i temi proposti ai laici dal magistero, per quella specifica missione dei laici; 5) avere interesse per le dinamiche sociali contemporanee ed essere inseriti nella vita della società civile, negli ambiti propri dei laici (famiglia, lavoro, cultura, sport ecc.), in posizioni in cui si può concretamente influire su di essa. Per tutto ciò che non è di interesse specifico di un gruppo di Azione Cattolica la parrocchia offre altre forme di impegno sociale (ad esempio: catechesi per le varie età della vita, azione caritativa, socialità per il tempo libero, sostegno alla fede e via dicendo): l’associazione in Azione Cattolica non è esclusiva e non è totalitaria.

 Voglio concludere osservando questo: per quanto riguarda le fasce d’età 30/50 anni il nostro gruppo deve ripartire in pratica dall’inizio, si tratta di ripensarlo da capo. Ad esempio, partecipare ad una riunione con inizio alle ore 17:00 può essere difficile per persone di quell’età (io ho 55 anni e trovo difficoltà; la mia prole a quell’ora è quasi sempre impegnata all’università). Ma si possono escogitare alternative.

 

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Le ragioni di un lavoro insieme

(5 ottobre 2012)

 

 Nei giorni scorsi ho scritto sull’esperienza associativa in gruppo di Azione Cattolica. E certo ci si possono immaginare dei risultati. Ma non vorrei dare per scontato che si abbia chiaro perché, in definitiva, ci si debba unire per ottenerli. Qual è il movente interiore per fare questo? Non posso vivere la mia fede nell’interiorità nella relazione che ho saputo costruire con il soprannaturale, secondo la mia personale concezione? Anche così poi posso manifestare con la mia vita la fede nell’ambiente in cui vivo e opero.

 Da universitario ho partecipato alle settimane di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli universitari cattolici – svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre monastero di monaci di una congregazione appartenente alla famiglia benedettina. Lì c’erano alcuni monaci che conducevano vita eremitica da decenni, vivevano da soli nelle loro casette in cima a un monte e si ritrovavano insieme di quando in quando di giorno e nella notte solo per la vita liturgica. Erano persone di fede, indubbiamente, e vivevano la loro religiosità in quel modo. Bisogna dire però che si sentivano e volevano essere in unione spirituale con la Chiesa e l’intera umanità. Il loro isolamento era quindi solo esteriore.

 La fede cristiana in realtà ci spinge gli uni verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente negli scritti del Nuovo Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho utilizzato nelle vacanze per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8) ho trovato questa citazione da un’opera di San Basilio, una preghiera:

…noi tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice, unisci fra noi nella comunione dell’unico Spirito Santo”.

 Essa richiama le parole di S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):

Vi è un solo pane e quindi formiamo un solo corpo, anche se siamo molti, perché tutti insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess. Elle Di Ci / Alleanza Biblica interconfes. 1976).

  In parrocchia, prima della Comunione, recitiamo una preghiera formulata su quelle parole:

Poiché c’è un solo pane per noi tutti, uno solo è il corpo formato da noi che partecipiamo al pane unico.

 Insomma, mi pare di aver capito che questa spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e non sia qualcosa di accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che per temperamento non sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito arricchito dalle esperienze di fede vissute con gli altri.

 In un libro dello psicoterapeuta Bruno Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa osservazione che ho sentito convalidare la mia esperienza di vita:

La vita interiore, e con essa la personalità, non si sviluppa allo scopo di ottenere una sempre maggiore ricchezza di sensazioni e di esperienze interne, ma sostanzialmente per un’altra ragione: per entrare in rapporto con il mondo esterno nella speranza di poter agire su di esso. Se la personalità non arriva a questo, non vi è alcuna ragione di sviluppare le strutture interne. Esattamente come il linguaggio si sviluppa solo se desideriamo comunicare con qualcuno o comprendere quello che egli ci dice, così la personalità si struttura solo se desideriamo fare qualcosa a un’altra persona o con essa  o per essa.

[da Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti editore spa, 1976, pag.64].

 Gli studi scientifici di Bettelheim, in particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente ritenuti superati da più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza umana, prima di recluso  in un campo di concentramento nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini autistici, rimane importante e,  per molti aspetti della vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro  di noi e ciò che si muove e che facciamo fuori di noi c’è un continuo e vitale rimando.

 Ma, come ho osservato prima, non è detto che questo movimento verso gli altri si debba esprimere necessariamente nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una fraternità. Esso può manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in qualche modo debba essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità eremitiche di cui ho detto.

 Molte volte una fede religiosa è produttiva e non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana stimola poi alla generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere qualcosa in sé che può essere non scambiato ma dato gratuitamente ad altri.

 A volte si concepisce, un po’ superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni spirituali, uno “ci entra” (nella Chiesa intesa come popolo) o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio) e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di scambio: vado a Messa e deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che gira al tempo dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.

 Ecco, riunendoci insieme potremmo ad esempio riflettere se quell’impressione sia corretta e completa. Non credete che ci sia ancora qualcosa da imparare?

 Anticipo la mia opinione. Nell’esperienza religiosa siamo tutti noi, gente di fede, dispensatori, perché  è come se quello che ci arriva poi rifluisca intorno e verso gli altri, al modo di un irraggiamento. Quindi  nella Chiesa non si va solo per ricevere, ma anche per dare, per portare qualcosa, che è importante per gli altri e li conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe dire meglio. Chi vuole può approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia può farlo. Ci sono i sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo anche una biblioteca piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18). Ne può discutere anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto dal prezioso apporto dell’assistente ecclesiastico.

 Nell’Azione Cattolica, che è un’associazione che si propone  di diffondere e promuovere valori cristiani nella società civile, è importante l’esperienza di vita degli aderenti. E’ questo il materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si aderisce infatti per ricevere dall’alto le soluzioni ai vari problemi e direttive su che cosa fare fuori, o peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che è male, come se ci fossero “istruzioni” precise per ogni situazione, ma per riflettere insieme, alla luce della comune esperienza civile e religiosa,  su ciò che accade e per illuminare vie praticabili, che poi ognuno proverà a percorrere lì dove concretamente opera, tornando a riferire ciò che gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia che ho trascritto in uno dei passati post, padre David Turoldo scrisse:

Ancora un'alba sul mondo:

altra luce, un giorno

         mai vissuto da nessuno,

 Effettivamente il futuro è nostra particolare e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di esploratori.

 

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Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa

(7 ottobre 2012)

 

 Non sono di quelli che, educati nella fede cattolica, poi l’hanno abbandonata o addirittura rinnegata e vi si sono riavvicinati da adulti o, comunque, crescendo. Con questo non voglio dire di essere stato una persona esemplare secondo le esigenze etiche della mia religione. Del resto nessuno si è mai aspettato nulla di simile da me, anche se sempre mi è stato additato l’obiettivo della santità. Fin da molto piccolo mi è stato detto che il male nella vita c’è e che ne sarei stato responsabile anch’io, per cui mi è stato insegnato a individuarlo, a  pentirmene e a cercare sempre, pervicacemente, di cambiare.  E’ ciò che ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella Chiesa come essi me la presentavano, convinta, sulla parola del suo primo maestro, che il male nel mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui io ero stato artefice. Così la mia vita di fede in religione è stata improntata a una certa serenità. E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la mia esperienza religiosa di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di mezz’età. Se riprendo in mano il libretto del catechismo della mia Prima Comunione, che feci in quarta elementare qui nella nostra parrocchia di San Clemente Papa, e lo leggo oggi da cinquantenne  posso concludere serenamente con un amen, condivido ancora tutto quello che c’è scritto. Mi  è sempre venuto naturale essere una persona di fede, non vi ho trovato alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare particolari sforzi. In questo penso che la mia vita si differenzi un po’ da altre di cui ho saputo. Ci sono persone che sono molto più meritevoli di me sotto questo profilo, per aver dovuto faticare e soffrire molto per giungere dove io sono sempre tranquillamente rimasto. Quello che ho detto vale anche per la mia esperienza di Chiesa. L’ho considerata sempre la mia casa, la mia famiglia, dovunque sono stato. Anche nei periodi della mia vita in cui l’ho frequentata di meno, essa rimaneva dentro di me, perché non ho mai avuto il dubbio di non farne più parte. Sono stato scout, fucino, aderente ai Laureati Cattolici – MEIC e all’Azione Cattolica (della quale FUCI e MEIC un tempo facevano parte), ho partecipato a diversi gruppi di ispirazione religiosa, parrocchiali e non,  e mi  è sempre parso di muovermi da una stanza all’altra delle medesima casa. Ricordo che una volta, da scout (facevo le medie), condussi la mia squadriglia a Sulmona, secondo la missione che avevo ricevuto durante un campo estivo sui monti d’Abruzzo, e chiesi ospitalità al parroco di una chiesa vicina al centro: lui ci fece dormire, con i nostri sacchi a pelo, nel museo della parrocchia, che conteneva tante cose preziose; mi diede la chiave e mi disse che sarebbe ripassato il giorno dopo. Io mi meravigliai di quella fiducia, concessa a ragazzini che non aveva mai visto prima, e, riflettendoci su nel corso di quella notte, conclusi che lo aveva fatto perché noi lì eravamo di casa, eravamo infatti Chiesa, e le nostre divise da scout glielo avevano confermato, è come se lo avessimo scritto in fronte, come si legge nell’Apocalisse dei giusti.

 Il lavoro che si fa nella società come Azione Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi confrontarsi sulle nostre esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della fede comune su di essa.

 Ricordo ancora quando, da bambino, il parroco mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa” (edificio) e “Chiesa” (gente). Con il Battesimo ero entrato a far parte della Chiesa ed era per questo che venivo in chiesa. Ne rimasi molto colpito e per un certo tempo lo andai ripetendo in giro, ai miei coetanei. Poi, crescendo, ho scoperto che il discorso sulla Chiesa è molto, molto più complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via della Conciliazione, notai un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie” (le concezioni sulla Chiesa), lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e scoprii che in giro, sia nella nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane, c’erano tante idee di Chiesa. A parte questo, ci sono le varie esperienze individuali e collettive che uno fa della Chiesa durante la propria vita, che influiscono sul modo di condursi fuori della Chiesa.

 Se, ad esempio, una persona pensa di trovarsi in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi eroici difensori, un po’ come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo presidio di secessionisti nordamericani tentò invano di resistere all’attacco dell’esercito messicano mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà portata a diffidare di tutto ciò che gli viene dall’esterno e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando solo quello che gli viene di dentro, dal proprio gruppo, dal proprio ambiente abituale, costruendo in tal modo una sorta di città di Dio opposta alla città del diavolo, quella di fuori. Ci si muove un po’ in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla città di Dio) di S. Agostino di Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta in un tempo in cui l’ordinamento dell’Impero romano era travolto dalle invasioni di popolazioni del nord Europa.

 Sulla dottrina della fede in merito alla Chiesa ci sono diversi testi fondamentali del magistero mediante i quali ci si può informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che potete leggere sul WEB  a questo indirizzo:

http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html

 Avverto che, trattandosi di un documento normativo, esso è scritto nel linguaggio e con il metodo della teologia, che potrebbe essere un po’ ostico ai non iniziati.

 Della Chiesa si tratta anche, in termini più accessibili, nel Catechismo della Chiesa cattolica (Parte prima, Sezione seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a 975). Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:

  http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM

 Se ne tratta in modo più semplice nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte prima, Sezione seconda, capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate sul WEB all’indirizzo:

http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html

 Leggendo le prime due opere, potrete constatare che  nella nostra Chiesa, quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la storia bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da cui si ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai da zero e si cerca di tenere tutto insieme. Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di meno, ma ci sono.

Storicamente l’Azione Cattolica ha ritenuto di potersi confrontare positivamente con la società in cui la Chiesa italiana vive: il suo moto fondamentale è stato quindi, ed è ancora, quello dell’apertura, non dell’opposizione, e questo naturalmente non significa accettare tutto ciò che gira nel mondo di fuori, ma pensare che certe idee sulla società che hanno un fondamento religioso possono (ancora) essere diffuse utilizzando il metodo e i principi della democrazia, sui quali l’ordinamento della nostra società si basa, e che ciò che si agita nel mondo abbia anche un significato religioso. Viene in Azione Cattolica chi non pensa di essere nella condizione di Fort Alamo. L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo periodo di pace, dopo la serie storica interminabile dei conflitti armati tra i suoi popoli,  e mira ancora alla pace si fonda su idee cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di ricordarcelo.  Spinti dal magistero, in Azione Cattolica cerchiamo di agire di conseguenza.

Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza

 

 Continuo le mie riflessioni sulla base del libretto di  Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.

 Non possiamo ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):

          […] si deve inculcare al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia          (secondo la misura      dei doni ricevuti e le opportunità pratiche): ma insieme gli si deve       inculcare    che   questo egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la         perdita di tutta la credibilità come testimone ed esploratore dell’invisibile.

 In definitiva il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace  e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato, quindi  compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,

         […] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo          presente ed avere gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non          solo nella felicità, ma anche nella sofferenza […] La speranza procede attraverso la   gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio  un futuro anche per ciò         che è transitorio, moribondo e morto.

  La speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa  essere sempre minacciati e caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della storia.

 Proporre alla gente intorno a noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo  questione di ragionamenti e di argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal  modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In quest’ottica il profano, ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.

 

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9

Noi cattolici: cittadini o stranieri nella società in cui viviamo?

(8 ottobre 2012)

 

 L’Azione Cattolica non avrebbe senso in una società in cui non fosse consentita, in qualche forma, la partecipazione della gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più buio della sua storia, quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò un’altra cosa. Nel 1931 le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che costituivano il braccio operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la presa di distanza dei cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione della legislazione discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa può essere considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono diverse eccezioni (ad esempio la FUCI  e Movimento Laureati di Azione Cattolica),  una delle organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime fascista, il quale con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un accomodamento con i vertici ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani furono effettivamente, nella grande maggioranza, fascisti.

 Riprendo a questo punto alcune delle riflessioni esposte nel libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento pubblico di Dossetti del 1987).

 Nella Bibbia c’è un certa diffidenza per le città e per gli ordinamenti politici, specialmente quelli che riunivano molti popoli diversi. La concezione ebraica di città era molto distante da quella greca, che impronta gli ordinamenti politici democratici contemporanei. Nella prima la città era essenzialmente un insediamento chiuso, protetto da alte mura, in funzione difensiva. Per i greci era principalmente il luogo in cui si svolgeva la cittadinanza comune, la partecipazione al governo, quindi la politica (dal termine greco pòlis, che significa città). Per certi versi la città, nella concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di violenza e di presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero vita travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si mostrò infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto (ne abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione lo spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata nella prospettiva evangelica. Il regno  a cui tendono i discepoli cristiani non è di questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano addirittura come stranieri. Sono infatti portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti sociali e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a loro è dovuto (a Cesare quel che è di Cesare), ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre obbedire. Loro compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità cristiane, un ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta qualche affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne concepito come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse 17,6 e 18,2).

 Scrive Dossetti, nell’opera citata (pag.45-46):

          Per il regno di Dio e per la città di Dio  va ancora fatta una precisazione a scanso di      equivoci.

          Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio.   Non si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto          assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune,          architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.

           Il Regno giunge a noi senza di noi. Il pensare che noi possiamo attirarcelo e          appropriarcelo è “stoltezza umana, presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.

          All’uomo compete solo la fedeltà alla Parola, l’annunzio di essa, la pazienza longanime che non spegne lo Spirito credendo di accelerarne le operazioni, la ferma fede che il grano del Regno “cresce da solo” (in greco: automàte) (Vangelo secondo Marco 4,26-        29). Anche perché il    Regno verrà, per un decreto del Padre in un momento   imprevedibile “che il Padre ha        riservato alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).

          E allora sarà non il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il          suo troncamento, in “ictu oculi” (Prima lettera ai Corinzi 15,52).

 Un famoso passo della Lettera a Diogneto, scritto cristiano che si fa risalire al 2° o 3° secolo della nostra era, è questo:

         [I cristiani] Abitano ciascuno la propria patria, ma come residenti stranieri; a tutto          partecipano attivamente come cittadini e a tutto assistono passivamente come stranieri;    ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera.

         [… ]

         Passano la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo.

         Obbediscono alle leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.

 Insomma, concluderei che in religione non siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle nostre costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non sarà dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo che riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere seguito da un regresso.

 Ma direi anche di più. Nella Bibbia c’è sicuramente il fondamento del concetto di dignità dell’uomo dal quale oggi ricaviamo la convinzione giuridica e politica in certi diritti umani  inalienabili, che sono la base delle democrazie contemporanee, ma la democrazia non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun problema nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha avuto alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi, nel passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in queste che sono delle specie di note operative per la nostra situazione concreta di oggi  quel discorso non serve.

 Io sto prendendo coscienza di questo: la situazione in cui ci troviamo nell’Europa democratica di oggi non ha precedenti storici, è qualcosa di totalmente inedito. E bisogna dire che questa realtà veramente nuova è stata costruita con l’apporto fondamentale del pensiero di cristiani sulla democrazia e della loro azione politica, di governo delle società.

 Noi, ad esempio, diamo per scontato che questo lunghissimo periodo di pace, che in Europa si protrae ormai dal 1945, rientri nella normalità. Ma non è così. Tanto che, quando frequentai le elementari, nella scuola di piazza Capri, il nostro maestro era solito dirci che dopo qualche anno saremmo diventati uomini, saremmo andati in guerra, e più o meno la metà di noi vi sarebbe morta. Le cose, diceva, erano sempre andate così, una guerra più o meno ogni quindici o vent’anni (e allora si era negli anni ’63-’67). Poi non andò così. L’ultima grande frontiera, edificata tra Est e Ovest Europa dopo la Seconda guerra mondiale, è caduta nel 1991, senza la catastrofe che per tanto tempo si era temuta.

 Aver realizzato, in democrazia, una potenza di pace sugli antichi, immensi, campi di battaglia ha un significato per la nostra vita in religione?

 

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10

Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.

(13 ottobre 2012)

 

 Non mi pare che finora abbia fatto molta impressione il premio Nobel  per la pace dato all’Unione Europea, vale  a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La nuova Europa è infatti innanzi tutto una realtà di popolo, e di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è fondata, più che su un sistema di relazioni intergovernative per lasciare libero passo all’economia (questa fu sostanzialmente la caratteristica della Comunità Economica Europea), sulla proclamazione di  un sistema di diritti umani fondamentali (è una delle caratteristiche fondamentali della nuova organizzazione creata dal Trattato di Lisbona del 2007, entrato in vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono stati ideati dai vertici dell’organizzazione europea, ma, prima di essere formulati in un testo normativo, in quella Carta dei diritti fondamentale la quale con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è divenuta legge europea, hanno corrisposto a un’esigenza forte posta dai popoli ora federati nell’Unione Europea. Su di essa si è fondata la duratura pace continentale e il processo straordinario di inclusione di nazioni che per millenni si erano combattute che ha convinto la celebre istituzione svedese a riconoscerne il merito non a questa  o a quella personalità, ma a tutti noi.Bravi!”, ci hanno detto, “avete fatto una cosa grande”.  E noi? Noi siamo rimasti perplessi, come è scritto che rimarranno i giusti, quando, alla fine dei tempi e presentatisi per il giudizio su ciò che sono stati e su ciò che hanno fatto, verrà loro indicata la porta del Regno beato.  Che abbiamo fatto per meritarci questo apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…

  Ad esempio noi cattolici siamo divenuti più tolleranti verso le altre confessioni cristiane e verso le altre religioni che sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta di un impegno attuato solo dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica molto diffusa tra le nostre genti, forse anche al di là di una chiara consapevolezza delle questioni implicate. In certi casi, come nei rapporti con l’ebraismo, a rapporti di aspra conflittualità è subentrata una franca amicizia. E’ uno sviluppo veramente importante, tenendo conto che la tremenda storia europea è stata duramente travagliata da guerre e altre stragi a fondamento religioso, in particolare nello scorso millennio. Abbiamo costruito in tal modo una civiltà fortemente inclusiva, in cui questo e quello possono trovare la loro patria indipendentemente dal loro rapporto con il soprannaturale, e infatti il moto fondamentale che riguarda l’Unione Europea è un afflusso di popoli dall’esterno verso l’interno, un moto centripeto, tanto che addirittura gli eredi di un nemico storico come l’Impero Ottomano turco bussano alle nostre porte nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede islamica; è qualcosa che richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel brano in cui si profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno verso una Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino e umano, vale a dire di certi principi supremi e realtà  di vita. Questa cosa non c’è mai stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza. Dispiace che non sia una cosa cattolica? Oh, ma è anche una cosa cattolica.

  Due giorni fa, con una fiaccolata, qui a Roma abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano 2°. In quella occasione, avanzando in processione verso piazza San Pietro ci siamo manifestati come Chiesa che vuole essere luce delle genti, secondo l’insegnamento di uno dei documenti conciliari fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: luce delle genti). Ebbene, convinciamoci che negli anni passati lo siamo veramente stati, tutti noi. Il papa Giovanni Paolo 2° volle invitarci a rifletterci su durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000. Considerate come siamo cambiati in meglio, noi Chiesa, da quando su certe cose andavamo molto per le spicce, come si suole dire. Ho cinquantacinque anni e non sono un nativo conciliare, vale a dire che ho avuto modo di vivere la Chiesa di prima, anche se da molto piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio. E comunque ci si può informare sui libri di storia. Ai nativi conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente nella nuova era, coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima sembrano un po’ strani. Non è così? Ma ci sarà modo di approfondire di più in questo che è stato proclamato, innanzi tutto come obiettivo del nostro impegno, Anno della fede.

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11

Insieme per agire da gente di fede

(14 ottobre 2012)

 

 Qualche anno fa partecipai a una riunione del mio gruppo  del MEIC – Movimento ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella universitaria dell’Università La Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò dei vari modi di pensare una dimensione comunitaria della vita di fede e di interventi nella storia dell’umanità motivati religiosamente e osservò che spesso si erano scelte delle vie che poi avevano costretto a dire molti “si, però…”, vale a dire a cercare di giustificare in qualche modo quelle che, con il senno del poi, venivano individuate come insufficienze in base all’etica religiosa proclamata. Ad esempio, la cristianità medievale,  in cui indubbiamente affondano alcune di quelle che possiamo considerare come radici delle società europee di oggi e che talvolta viene considerata un modello ancora attuale per la sua forte integrazione culturale del cristianesimo, produsse anche l’Inquisizione e le Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi abbiamo preso le distanze dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò detto, siamo portati ad  aggiungere si però … l’idea di una società civile fortemente ispirata alla religione in fondo ci piace e cose simili. Non ci si poteva pensare un po’ meglio, prima, per non dover poi essere costretti a pentirsi? E’ un problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire nella società in cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di determinare collettivamente scelte ispirate a certi valori che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe meglio non agire affatto e limitarsi solo ad attendere con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal disegno provvidenziale, mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda edificandoci nelle nostre comunità religiose con salmi, inni e canti spirituali, secondo le espressioni di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1 Lettera ai Tessalonicesi 5,11)? Tenuto conto di quante sono le cose di cui abbiamo sentito il bisogno di chiedere collettivamente perdono, da quando ci siamo consentiti un simile esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.

 Riprendo a questo punto a seguire, in queste riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E., collana Le Tessere e il Mosaico, 2011, euro 8,00, pagine 131, con prefazione di Giorgio Campanini.

 Il mondo nuovo che religiosamente attendiamo non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi la responsabilità. I nostri progetti non possono e non devono estendersi fino ad esso. Né possiamo immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una società da noi edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti (pag.45-46):

  Il Regno, giunge a noi, senza di noi.

[…]

   ,,,il Regno verrà, per un decreto del Pare in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1, 6-7).

 E allora sarà non il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in ictu oculi [trad.:in un batter d’occhio – greco: en ripè oftalmù] (1 Lettera ai Corinzi 15,52).

 Quest’ordine di idee è un bel sollievo. Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati colpevoli di non aver saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe approssimazioni, il Regno, la società perfetta che non ha bisogno di lampade o di sole, “perché il Signore Dio li illuminerà”, secondo l’emozionante profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3,  e anche di non aver asciugato ogni lacrima dagli occhi dei sofferenti, e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il lutto, il pianto e il dolore. Fatemi sapere se condividete questo discorso.

 Ciò posto, se guardiamo all’Unione Europea di oggi, per la quale inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio Vaticano 2°, nella quale abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo stati Luce delle genti, ce ne compiacciamo, pur pentendoci del male che in esse non siamo riusciti ad evitare e sentendoci pur sempre impegnati a migliorarci, perché non solo ad esse apparteniamo, ma anche esse ci appartengono, nel senso che sono un nostro modo di essere e quindi riflettono coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e noi, lo sappiamo, non possiamo dirci perfetti, anche se in qualche modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo  e addirittura ci sforziamo, di corrispondere al disegno che religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in definitiva, quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non sono tati accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi che  lo volevamo fare e l’abbiamo fatto. Sono effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo e vediamo in esse cose buone  ma anche cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e zizzania, di Città secondo Dio  e di Città secondo l’avversario di Dio che non è in  fondo in nostro potere sciogliere del tutto.

 Ha un significato, per la nostra fede, l’aver agito e costruito? Dossetti ritiene di poter concludere di sì. Per amore infatti abbiamo agito. Scrive (pag.103-104):

 Tutto nella via del cristiano agito dallo Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente sulla contrapposizione fra “contemplazione” e  “azione” […] “contemplazione” per il senso originario   [che aveva nell’antica filosofica greca, in particolare in Plotino (3° sec.) – nota mia] ,,, non [è] propriamente un concetto cristiano e [continua] a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della spiritualità cristiana.

 In senso propriamente cristiano tutto è azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il concetto abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.

 Azione è l’Eucaristia: prima di tutto azione di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la celebra, del cristiano che vi partecipa.

 Ogni preghiera, se fatta come deve essere fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.

 La lettura, e ancor più la “ruminatio” della Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.

 La malattia che riduce immobile in un letto, accettata nella fede,  è azione […].

  La concentrazione dell’anima nel suo oggetto più proprio […] è azione”.

  Per Dossetti, si agisce come risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è una carità verticale, appunto dall’alto, che è “generante e condizionante rispetto ad ogni altro amore, sia pure il più santo e benefico” (pag.117).

  “L’amore rivolto ai fratelli ne sarà un segno necessario e precipuo: ma derivato…”.

 Dossetti segnala l’esistenza di un paradosso della carità eucaristica, dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento religioso:

 “L’altissima risposta d’amore trinitario sarà tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà e saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che se ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente” [Libro della Sapienza 7,25].

 Insomma: si agisce, si agisce insieme  e si agisce per amore, ma amore di una specie particolare, che  è risposta ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così, non si fa conto del risultato, che poi si è convinti che verrà in un battito di ciglia a tempo debito e non per opera nostra: lo scopo dell’azione è infatti solo quello di diffondere nella società un “effluvio puro della gloria dell’Onnipotente” (Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997). Questo equivale, detto in termini profani, a infondere nella società intorno a noi dei valori. Tutto ciò definisce bene il compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si prepara, si ragiona, si fa pratica e, infine,  ci si organizza  e si va in prima linea, dove per quei valori si lotta, e addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario, nel senso che in esso sono avversati quei valori. Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace, con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli specificamente mariani, segno dell’anelito a valori anche specificamente nostri, di quelle radici cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il richiamo alla corona di dodici stelle della donna vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene, l’Unione Europea di oggi ci appare veramente un segno grandioso, anche in senso specificamente religioso.

 Ho parlato di amore e questo termine, con il quale traduciamo tutti  i termini del greco neotestamentario con i quali specificamente si descrivono le relazioni tra i fedeli e tra essi e il mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri umani e il fondamento soprannaturale,  suona equivoco, e anche un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel greco del Nuovo Testamento (per quello che ho letto – ma la mia in merito è solo erudizione di liceale, neanche tanto studioso; non sono uno specialista) si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di quando si sta insieme per fare un bel pranzo; il secondo si riferisce all’amicizia, a un rapporto di reciproca simpatia e di preferenza, il terzo richiama l’idea di quando si partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario del greco del Nuovo Testamento non viene riportato il termine èros, che pure rientra nei significati della nostra parola italiana amore, e definisce la passione sessuale, quella che trascina emotivamente dalle viscere e acceca.  Penso quindi che questa metafora non sia stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente nell’Antico, mentre anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di molto più complesso, perché è insieme èros (come base emotiva della predilezione per una persona fisica), agàpe, filìa e coinonìa, oltre a patto  ed alleanza.

 Poiché la qualità e la direzione del nostro agire  dipende molto dalle ragioni e del modo del nostro stare insieme, è interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe sapere  a quali conclusioni siete giunti, cari lettori; come vi regolate nelle vostre vite.

 

 

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12

Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza

(12 ottobre 2012)

 Continuo le mie riflessioni sulla base del libretto di  Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.

 Non possiamo ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):

          […] si deve inculcare al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia          (secondo la misura      dei doni ricevuti e le opportunità pratiche): ma insieme gli si deve       inculcare    che   questo egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la         perdita di tutta la credibilità come testimone ed esploratore dell’invisibile.

 In definitiva il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace  e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato, quindi  compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,

         […] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo          presente ed avere gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non          solo nella felicità, ma anche nella sofferenza […] La speranza procede attraverso la   gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio  un futuro anche per ciò         che è transitorio, moribondo e morto.

  La speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa  essere sempre minacciati e caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della storia.

 Proporre alla gente intorno a noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo  questione di ragionamenti e di argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal  modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In quest’ottica il profano, ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.

 

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Noi: popolo di Dio

(15 ottobre 2012)

 

 Nella riunione di martedì 16 ottobre 2012 ci è stata presentata la costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°. Si tratta di un atto normativo, di una legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha bisogno di leggi? Come ogni società di esseri umani, sì. Ma quella costituzione conciliare è molto più di una legge. E’ l’indicazione di una strada da prendere. Con autorità siamo stati chiamati a percorrerla, tutti noi che siamo stati persuasi dalla fede cristiana e quindi confidiamo in Gesù, il Cristo,  affidandoci a lui qui nella  vita terrena e oltre, sperando in quella eterna. Noi siamo convinti di costituire un popolo, il nuovo (rispetto all’antico popolo israelitico) popolo di Dio, non fuso in unità sulla base di discendenza etnica (secondo la carne), ma mediante la nostra fede (nello Spirito).

 Riconosciamo nostro capo Cristo, che riteniamo regni glorioso in cielo,  quindi al di sopra di tutto: il suo è un nome al di sopra di ogni altro nome. Il nuovo popolo:

 Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio [noi ci chiamiamo anche così],nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un Tempio [Lumen Gentium, cap.2°, n.9],

 Nella fede siamo stati come rigenerati dall’alto: La nostra legge suprema è ora di amare come lo stesso Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium, cap.3°,n.9]. Siamo così popolo costituito per una comunione di vita, di carità e di verità [Lumen Gentium, cap.2°, n.9].

 Riteniamo che ci sia stato affidato un compito, in particolare di essere stati inviati a tutte le genti del mondo,  come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].

 Bene, ma che cosa c’è di nuovo in questo rispetto alla fede della Tradizione, dei secoli precedenti? Ci ragioneremo su, in questo Anno della fede. Chi ha fatto esperienza ravvicinata della Chiesa prima del Concilio Vaticano 2° sa bene che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma, nella nostra Chiesa, quando si cambia si cerca comunque di tenere tutto insieme, in particolare di collegarsi sempre alle esperienze delle origini, dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i documenti ufficiali. Così, leggendoli superficialmente, si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando si parla del Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si presenta come una sorta di svolta rivoluzionaria, che non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?

 Vi voglio però indicare un segno. Pensateci su. In parrocchia, davanti all’altare qualche volta ho visto esposta una grande menorah, il candelabro a sette braccia che è uno dei simboli dell’ebraismo. Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici e forse scomunicati, vale a dire tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa  del tutto lecita e, anzi, ci edifica.

 Insomma, da sempre abbiamo saputo di essere stati inviati alle genti, ma dopo il Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con esse, come collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli del passato.

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Essere popolo unito da una fede religiosa

(16 ottobre 2012)

 

Uno dei temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) ha riscoperto nella dottrina della tradizione potenzialità meno sviluppate nella storia bimillenaria della Chiesa è quello dell’essere tutti  i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da una missione. E, in questo parlare di popolo, hanno influito non poco concezioni moderne della politica, intesa come organizzazione della convivenza civile, così come quando in passato si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad altre concezioni in merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in quanto tale è anche opera nostra e risente delle nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da ultimo è sempre stato ben presente nell’idea che, riflettendosi sistematicamente sopra, si aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da secoli, quando iniziò il Concilio Vaticano 2°, nella ideologia ecclesiale, vale a dire in quella visione semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita la gente in una collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si confidava molto negli effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme realtà umana e soprannaturale e corpo sociale sottomesso ai Pastori  (il Papapadre universale e vicario di Cristo, capo invisibile: viene dal greco pàpas che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos, che significa sorvegliante), si pensava che essa potesse sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo e nei vari luoghi in cui viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio che c’era in un certo momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre una società perfetta. Ma vi è di più. Una conseguenza che si traeva da quest’ordine di idee era che la Chiesa, attraverso i propri Pastori, potesse, non solo insegnare con autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a tutte le altre organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva. Fin da quando, nel quarto secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire, dalla clandestinità e cominciò ad influire con le proprie idee sulle società politiche in cui era immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con i capi civili, i quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla Chiesa come essa doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di compiti e di materie da trattare tra le organizzazioni politiche civile e l’organizzazione della Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La troviamo attuata per la prima volta nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione nordamericana, nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti d’America (“nessuna professione di fede religiosa sarà mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una carica pubblica degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione federale), benché i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione di indipendenza forti idealità religiose cristiane.

 Nella storia dell’umanità dalla fine del Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un mutamento delle organizzazioni politiche da modelli monarchici, in cui il potere supremo era attribuito a una persona fisica o ad essa e a suoi stretti parenti, a modelli più partecipati da altri strati della società civile. Questo moto è all’origine delle democrazie di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza – intesa come pari dignità sociale – dei cittadini. In qualche modo esso si è espresso anche nella concezione di Chiesa che è stata proclamata con autorità durante il Concilio Vaticano 2°, anche se esso non ha avuto esiti propriamente rivoluzionari, né nelle intenzioni, né nella volontà espressa, né soprattutto nella pratica ecclesiale postconciliare.  Bisogna però osservare che ciò è dipeso anche dal fatto che la Chiesa ha rinunciato ad una sovranità politica su società civili, come quello che storicamente era stato attuato nello Stato pontificio, nell’Italia centrale, con capitale Roma. Sotto questo profilo ebbero effetti propriamente rivoluzionari la Repubblica romana napoleonica  (1798), quella  di Mazzini (1949) e la conquista e soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che l’ordinamento politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle occasioni  sovvertito, nel primo caso il Papa regnante fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e nel terzo dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.

 Possiamo misurare la rapida evoluzione di certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce autorevoli, datate 1882 la prima e 1965 la seconda:

“[…]Presso i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e costanti nella religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà della Chiesa, di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da tutte le pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in forza dei quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini religiosi; confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le unioni contratte fuori del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale, cadde necessariamente nel potere di altri.

E Roma, la più augusta città del mondo cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e si vede profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad accogliere i rappresentanti e i capi della setta più ostile alla religione cattolica, i quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È abbastanza palese il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al Papato, sfidandolo nella sua stessa sede. Non è certamente da dubitare che la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e distruggere, se fosse possibile, la religione.[…]

[Dall’enciclica Etsi nos, del papa Leone 13°, del 1882.]

 http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html

“76. La comunità politica e la Chiesa

È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori.

La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana.

La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L'uomo infatti non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna.

Quanto alla Chiesa, fondata nell'amore del Redentore, essa contribuisce ad estendere il raggio d'azione della giustizia e dell'amore all'interno di ciascuna nazione e tra le nazioni. Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell'attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.

Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell'esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre.

Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni. “

[Dalla costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Concilio Vaticano 2°-         1965]

 In sostanza il fattore unificante della Chiesa intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio ecumenico, più nella fede  e nella missione comune, vale a dire di tutti, che nell’essere soggetti alla sovranità del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della Chiesa,  è stato posto l’accento sulla sua finalità di servizio della vocazione personale  e sociale delle persone umane.

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Unire le genti per una vita buona

(17 ottobre 2012)

 

 La prima e fondamentale esperienza di una relazione con un’altra persona è quella che si fa da molto piccoli e qualcuno, di solito la madre, si prende cura di noi. E’ una cosa che ho letto, ma che corrisponde anche a quello che è successo a me. Da bambini piccoli non si potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro. Quel rapporto tra un adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto profondamente in noi. Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in particolare approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra la parola mamma. L’ho sentita pronunciare da diversi morenti. In qualche modo quel legame tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne sentiamo l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta La Pietà, posta nella basilica di San Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso. Ci attraversa  e, riflettendosi in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente  da ogni condizione esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122]. Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo delusi. Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé stesse come (utilizzo un termine di Dossetti) micro modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente impegnate nel realizzare una comunità di vita amorevole. E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito di istruire i nuovi arrivati alle costumanze di un ordine o di una congregazione di vita religiosa, si sentivano in dovere di disilludere subito in merito i giovani. Del resto nelle disposizioni date da alcuni fondatori di collettività di frati e monaci ci sono esplicite disposizioni che riguardavano questo aspetto. Non si entra in una vita come quella per ottenere soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.

 Più le dimensioni di un agglomerato di persone che per varie ragioni devono vivere vicine crescono, più i problemi aumentano. Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur come individui sociali, siamo infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.

 Considerate ad esempio la situazione che si crea quando in piazza S. Pietro il Papa si affaccia, all’Angelus della domenica, e si rivolge alle migliaia di persone convenute ad ascoltarlo, dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto di una relazione profonda. Ciascuno/a ha un posto per lui nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un cervello elettronico che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a costruire eseguirebbe probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni singolo individuo nella piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca di dati. Un essere umano non funziona così. Guarda in basso e vede una folla  indistinta. Il Papa per la folla è un fattore di unità. Ma il Papa, essere umano, non è in grado biologicamente di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore. Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro  le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo  quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane  Papa, e via dicendo, tanto che io, pur avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora  bene e mi ci commuovo.

 Ora, la Chiesa cattolica ha preso sempre molto sul serio l’impegno a radunare i figli di Dio dispersi, per estendere il suo popolo, mantenendolo però uno e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per farne una comunione di vita, di carità e di verità (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e 13, del Concilio Vaticano 2° - passi riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si passa da una comunità delle origini di poche decine di discepoli a una di diverse centinaia di milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in crescita) occorre porre molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi due millenni il principale di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito dai Papi, nei quali si concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra tuttora, nonostante qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa, non essendo mai stata  concepita altra autorità che, all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare quella del Papa (altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo profilo i Papi ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia che, nel primo millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa inoltre, come persona fisica, a volte con l’aggiunta di una certa idealizzazione, che in alcuni casi confinò con una sorta di mitizzazione della sua persona (ne era espressione il fasto che in certe epoche la circondava),  poteva agevolmente conquistare i cuori dei fedeli.

 Fin dai primi secoli sono stati importanti, al fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati anche fonte di divisione) anche quelle definizioni sintetiche dei principali argomenti di fede che sono detti simboli, due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo degli Apostoli che recitiamo insieme nella liturgia della Messa. Queste solenni e autorevoli definizioni sono state raccolte in un libro, il H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum [Raccolta di simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni in materia di fede e morale], molto utilizzato in teologia.

186. Fin dalle origini la Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative per tutti. Ma molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire l’essenziale della sua fede in compendi organici e articolati, destinati in particolare ai candidati del Battesimo.

 Il simbolo della fede non fu composto secondo le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il seme della senape racchiude in un granellino molti rami, così questo compendio della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento.

187.Tali sintesi della fede vengono chiamate “professioni di fede”, perché riassumono tutta la fede professata dai cristiani. Vengono chiamate “Credo” a motivo di quella che normalmente ne è la prima parola: “Io credo”. Sono anche dette “Simboli della fede”.

188.La parola greca “Sy’mbolon” indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come segno di riconoscimento. Le parti venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.

[dal Catechismo della Chiesa Cattolica 1992-1997]

 I Simboli  della fede, alcuni dei quali per la loro origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la comprensione legando affermazioni  che riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può facilmente tenere nel proprio cuore.

  Non va infine dimenticata l’importanza che storicamente ha avuto, come fattore unificante, la liturgia, anch’essa regolata spesso da leggi della Chiesa, quindi con autorità.

 Ora, per capire l’importanza che il Concilio Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica, bisogna comprendere questo: esso ha in qualche modo inciso su tutti e tre quei tradizionali  fattori unificanti  e ciò anche se, da un punto di vista teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti conciliari, di stabilire una continuità tra l’aggiornamento realizzato e la precedente Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una cesura non c’è e non si avverte nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I capi della Chiesa ebbero l’impressione, nel dopo concilio  di un marcato sbandamento del corpo ecclesiale e se ne preoccuparono. La biografia dell’attuale Papa ce ne parla.

 Nel corso di quella grande assemblea mondiali dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al Papa, ci fu però la riscoperta di un ulteriore fattore unificante che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto sempre consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della Chiesa non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche volte aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.

 

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Un popolo nuovo

(19 ottobre 2012)

 

 E’ possibile che alcuni dei lettori che entrano in questo blog non abitino nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va sotto il nome di Valli, perché le sue strade portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con gli altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto lontano, oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di Ardigò che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò  del mondo, emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è poi solo una potenzialità, perché una sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari lettori, che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa di una piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia di San Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11 ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza associativa e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a  proporsi nella società che la circonda e convocare in tal  nuovi amici che condividano i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati, per cui argomenti più generali vengono condensati e sistemati sulla base dei problemi che sono emersi nell’attività del gruppo.

 Roma è, a confronto con le maggiori metropoli del mondo, una piccola città, che, tutto sommato, conserva ancora una dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di Firenze e i fiorentini se ne sono risentiti.  Ma non è una cosa negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si vive meglio che in altre agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere l’idea, invito a portare l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo del Brasile, che conta una trentina di milioni di abitanti. Il nostro quartiere, poi, è, all’interno della città di Roma, una zona periferica del nord est senza particolari problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla riva destra dell’Aniene, uno dei principali affluenti del fiume Tevere, non molto distante dalla confluenza tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne abitata da molti dipendenti pubblici, dello Stato, in particolare del Ministero del Tesoro e di quello delle Finanze, ma anche da militari,  e da dipendenti di altri enti pubblici, poi da una popolazione più varia.  I romani de Roma, quelli che discendono da famiglie insediate a Roma da molte generazioni, non prevalgono: i primi abitanti del quartiere arrivarono da varie parti d’Italia, dal Nord e dal Sud, ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed erano piuttosto giovani. Poi la popolazione si è fatta più anziana e solo negli ultimi anni sono cominciate ad arrivare famiglie con bimbi piccoli. Si è aggiunta anche un’emigrazione dal continente indiano, dalla Cina e dalla Romania. Nuovi poveri hanno ripreso ad abitare in rifugi precari nelle vicinanze del fiume, dove nel primo e secondo dopoguerra e fino agli scorsi anni ’70 c’erano i baraccati, gli sfollati per la guerra mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal Meridione.

 Il nostro gruppo di Azione Cattolica è composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie che per prime si insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica dalla metà degli scorsi anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere difficoltà ad attirarne di nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò che è successo. I fattori negativi si sono succeduti e sommati. Complessivamente si può dire che la fede religiosa, come fattore sociale aggregante, ha perduto forza e questo, paradossalmente, proprio in anni in cui alcune convinzioni tratte dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano poste alla base dello straordinario processo di unificazione continentale europea, una cosa mai accaduta nella storia dell’umanità,  e determinavano il convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione politica per inclusione e non per conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e dell’Italia si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in  momenti cruciali. Si è infatti trattato innanzi tutto  di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare ancora insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.

 Si osserva qualche volta che il Concilio Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi. Effettivamente, considerando quell’evento complessivamente, può essere osservato che i capi ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una certa fiducia nella gente comune, in particolare in noi laici. E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati. Scrutarono, come scrissero, i segni dei tempi  e vi videro straordinarie opportunità, determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in genere succube dei propri capi politici, si era mostrata in grado di influenzare positivamente il corso della storia.

 I documenti conciliari furono scritti da teologi cattolici. Il particolare metodo seguito dalla teologia cattolica comporta che il nuovo  in genere non venga proposto come trascinato dal futuro e verso di esso in rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e  spinto verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare cambiamenti molto significativi.

 Ad un certo momento diventò centrale, nei discorsi conciliari, l’idea di popolo animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato come nuovo (benché iniziato quasi duemila anni prima e animato da una missione analoga di salvezza) rispetto a quello antico costituito dall’Israele storico, senza che però il nuovo privasse di senso l’antico, data l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del cristianesimo nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano generalmente problemi, ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e di  molto grossi, e questo sulla base di una teologia molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della Chiesa, dalla quale si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo) conseguenze molto gravi dall’idea di un nuovo che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale di nuovo popolo (in senso prevalentemente storico e religioso) al quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto  ad assomigliare abbastanza, per come veniva caratterizzato,  a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale: nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo l’attributo nuovo - manifestatosi solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda si faceva riferimento a un tipo di società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata storicamente nelle Nazioni Unite e in altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in particolare dall’affermazione dell’universalità di certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i cristiani, per  quegli ideali umanitari non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che  consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere coloro che consideravano l’antico. In questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo  del  popolo di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione  di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo, venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.

  Ecco quindi un compito che si può individuare per noi cattolici europei che viviamo in una relativamente tranquilla periferia della  Roma di oggi: contribuire a consolidare come nuovo popolo (in senso religioso) il popolo nuovo (in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri i quali, anche se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe nostre idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come dire: consolidare nella società di oggi certi valori che hanno base religiosa, come non cessano di ricordarci  i nostri vescovi.

 

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Micro-Macro e la ricerca della felicità

(20 ottobre 2012)

 

Riprendo la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 129, euro 8,00, formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione di Giorgio Campanini e un pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione alla precedente edizione del 1997 (si tratta del testo di un intervento che Dossetti, ormai prete e monaco dopo essere stato molti anni prima professore universitario e politico, fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso eucaristico della diocesi di Bologna):

 Come la Chiesa riunita dell’assemblea eucaristica è l’epifania [=manifestazione. Nota mia] anticipata del Regno, così la Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania della “polis” [=città in senso politico, come organizzazione sociale. Nota mia] salvata: “politicità” tutta “sui generis” [=in un senso particolare, suo proprio. Nota mia], che non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per quello che sono “in mysterio” [nel mistero della loro realtà che rileva per fede religiosa. Nota mia] (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso. Nota mia], creando e divulgando ovunque – nel seno di ogni società grande o piccola, soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni sociologi laici ora raccomandano – un’atmosfera di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli altri, con spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine 121 e 122].

 Queste parole di Dossetti ricordano quelle che troviamo nella costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°, al capitolo 2°, n. 19:

 […] il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (si confronti  Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.

 Essere inviati collettivamente al mondo per essere strumenti di redenzione, vale a dire per influire su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente perché rifiuta di dominare gli altri e si propone di incontrarli nel loro intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto un tipo di felicità, una società in cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune (notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).

 Ora, naturalmente quest’ordine di idee presenta già qualche problema se lo si applica a piccoli gruppi, i quali pure vogliano impegnarsi effettivamente a realizzare quel tipo di comunità  a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776)  si limitarono prudentemente a riconoscere il diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere stati ad essa inviati), è particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive,  interagisce con quanto altri sono, fanno, sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono,  e può produrre determinazioni comuni su ciò che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere comunque vitali quelle dimensione sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno, orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso, significa non incontrare l’uomo dall’esterno e in superficie, ma nel suo “sé” più intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi tenere insieme macro e micro. Questo lavoro di cui ho parlato è il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.

 Per oggi concludo osservando, nella linea di Dossetti, che in tutto questo agire collettivo ben ispirato si è indubbiamente esposti a una tentazione piuttosto forte, che è quella di ritenere che l’opera del nostro ingegno, le costruzioni sociali che riusciamo storicamente a realizzare, corrispondano ad un certo punto a un modello di perfezione sotto il profilo propriamente religioso, si tratti di famiglia naturale, di comunità religiosa, di organizzazione  di una città, di uno stato nazionale, di un ordinamento pubblico sovranazionale e, al limite, di un ordinamento globale di tutti i popoli della Terra, come nelle intenzioni vorrebbe essere l’organizzazione delle Nazioni Unite. Questa identificazione tra soprannaturale e naturale, espressa storicamente dal motto Dio è con noi, non la possiamo però legittimamente mai affermare, perché ci è stato detto che il Regno beato non è di questo mondo, con tutto ciò che da questo consegue. Nella visione di Dossetti, per quanto (giustamente) ci si dedichi a costruire comunità amorevoli e materne, ogni espressione della socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e in essa elementi positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre mescolati a elementi negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti storicamente ad attuare e quello che definiamo come  “il Regno”. E ciò si avverte con più forza a misura che le collettività organizzate diventano più grandi, aggregando moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le dimensioni dell’umanità intera, e a misura in cui esse incidono maggiormente nelle vite delle persone. Dossetti precisa:

 Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.

  Rimane pertanto questo paradosso, che, inviati verso gli altri per migliorare sulla base dei nostri principi di fede le società in cui insieme ad essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle società degli estranei, degli stranieri, dal punto di vista religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione. C’è sempre infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati ottenuti e questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da poco nell’ottica della nostra completa integrazione civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.

 

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18

Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli

(21 ottobre 2012)

 

  Sintetizzo le riflessioni che ho svolto nei giorni scorsi su uno dei temi ancora caldissimi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), nel senso che in quella grande assemblea fu intuito e sviluppato concettualmente, ma ancora la sua realizzazione è, come dire, in corso d’opera,  e si tratta di un lavoro in cui l’Azione Cattolica è particolarmente impegnata.

 Prima di cominciare richiamo alla vostra memoria questo che segue, di cui mi sono occupato in interventi precedenti: a)dalla fine del Settecento e in particolare dalla metà del secolo scorso, si è prodotta nel mondo una evoluzione politica delle istituzioni supreme per la quale si è passati da forme di governo caratterizzate dall’accentramento del potere in poche persone, dalle quali poi il potere veniva delegato in un scala gerarchica discendente, ad altre che consentivano una più larga partecipazione delle genti; b) questi sviluppi erano basati sull’idea di uguaglianza  intesa come pari dignità sociale; c) la pari dignità sociale è fondata sull’affermazione di diritti fondamentali che devono essere riconosciuti a moltitudini di esseri umani; d) il riconoscimento di questi diritti fondamentali è alla base del metodo democratico, quello che rende possibile la partecipazione di masse al potere supremo e che quindi non consiste solo nella regola secondo la quale vince la maggioranza; e) dopo il secondo conflitto mondiale il movimento per il riconoscimento universale dei diritti umani fondamentali di tutti gli esseri umani ha avuto il suo massimo sviluppo, producendo, ad esempio con a Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, una serie di dichiarazioni in cui quei diritti fondamentali non vennero più legati a una condizione di cittadinanza politica particolare (essere cittadini italiani o di un altro stato), ma alla sola condizione di esseri umani; f) nel mondo globalizzato (che significa unificato dal farsi più deboli le frontiere politiche che lo dividevano) di oggi il sistema dei diritti umani fondamentali sta avendo la sua massima estensione ed è alla base dell’idea di cittadinanza universale, realizzata la quale non vi sarebbero più nel mondo apolidi, genti private di una qualche possibilità di influire sui destini comuni; g) l’idea dell’esistenza di diritti umani fondamentali ha fondamento religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano, perché, in fondo, non può argomentarsi per altra via l’idea della pari dignità degli esseri umani, che per i cristiani dipende dall’essere stati tutti gli esseri umani creati uguali sotto quel profilo della dignità, da un unico Padre.

 Questi sviluppi democratici dell’ordine mondiale trovarono eco nella gerarchia cattolica a partire dal radiomessaggio natalizio del 1944  del papa Pio 12° (la Seconda Guerra Mondiale era ancora in corso in una sua fase particolarmente cruenta):

Il problema della democrazia

 Inoltre — e questo è forse il punto più importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.

 Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.

 In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html

 Poiché ha rinunciato ad esercitare un potere politico diretto, salvo che su una specie di simulacro di stato nel quartiere Vaticano in Roma, e ritiene di avere la missione di custodire inalterati alti ideali che riguardano il senso dell’universo, il destino degli esseri umani e la morale, la gerarchia della Chiesa cattolica, intesa come il papa e i  vescovi, non ha voluto, sulla scia del movimento democratico globale, democratizzare anche la Chiesa cattolica, nel senso di sottoporre certe decisioni supreme, ma anche molte di minore spessore,  al consenso della maggioranza. Paradossalmente quindi la Chiesa, pur consigliando la democrazia al suo esterno, rimane una potenza non democratica, essendo tutto il potere canonico (sull’organizzazione ecclesiale) concentrato nel Papa romano e nella sua piccola corte (la Curia vaticana) e solo parzialmente decentrato ad altri vescovi. Tuttavia gli sviluppi contemporanei dell’idea di pari dignità degli esseri umani, che del resto ha fondamento religioso, non sono stati del tutto senza conseguenze nella  Chiesa. Ciò si rileva particolarmente nei documenti del Concilio Vaticano 2°, che per altro, secondo il metodo della teologia cattolica, la quale si sforza di tenere sempre insieme  vecchio e nuovo, passato, presente e futuro, l’umanità antica e quella nuova, i morti e i vivi e i popoli di tutta la Terra, secondo il comandamento di unità ricevuto, sono formulati in modo da evidenziare particolarmente la continuità piuttosto che la novità.

 Un passo centrale lo si ritrova nel capitolo 4°, n. 32, della Costituzione dogmatica Lumen Gentium  sulla Chiesa, dove è affermata la vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo. Questo il brano:

Dignità dei laici nel popolo di Dio

32. La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).

 Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).

Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo.

 http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html

 Che cosa comporta, per noi laici, questa pari dignità nella Chiesa?

 

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19

Città di Dio, città dell’uomo, città del diavolo

(22 ottobre 2012)

 

  Il peccato che è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più vaste e complesse: queste ultime possono assicurare agli uomini vantaggi sensibili in varie direzioni, ma tendono a porsi come grandi concentrazioni di potere (le megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto consentire uno sfrenamento più incontenibile delle peggiori passioni umane: l’ambizione prevaricatrice, l’avidità di illimitati guadagni, il lusso spettacolare, la lussuria sempre più cupida di ogni perversione, l’adulterazione industrializzata della verità, lo spargimento ingiusto di sangue ecc. Sicché non si può parlare di un’ambivalenza delle forme sociali e del potere, come fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente deve riconoscere un loro inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio più grave di tutti è la guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a livello planetario.

[da Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]

 Dossetti pronunciò le parole sopra riportate dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e l’esperienza biblica, dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si era nel 1987, in un mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in particolare, non si era ancora nell’era della globalizzazione, della interconnessione planetaria delle economie e delle società umane.  L’umanità era dominata da due grandi sistemi politici sovranazionali, quello centrato sugli Stati Uniti d’America e quello che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e seguiva due gruppi di sistemi economici, piuttosto articolati al loro interno, quelli di tipo capitalista e quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse di perversione sociale venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli schieramenti, che concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno il rovescio dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli universi sociali contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti della  civiltà umana in cui si trovava, poteva fare riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno del bene, a un modello positivo. Ai tempi nostri quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta da potenze umane omogenee ed è diventata così più significativa la critica globale alle società umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo Dossetti: il male appare come universalmente connaturato con l’esperienza delle società umane e da esse ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una semplice ambivalenza tra male e bene, ma un inquinamento profondo che ora si manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E tuttavia, paradossalmente, il rischio di guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un tempo in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche opera umana. La pace ha anche una valenza religiosa e quindi si è spinti a ragionarci su anche sotto questa prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare le esigenze di impegno nel mondo nuovo in cui ci troviamo a vivere con il pessimismo biblico sulle organizzazioni sociali umane.

 Bisogna allora evidenziare un importante problema che noi, gente di fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre persone al di fuori della cerchia di chi condivide le nostre convinzioni religiose, le cose del nostro mondo: i principi ai quali vogliamo riferirci per orientare le nostre condotte individuali e collettive sono tratti da un’antica sapienza che si è formata in un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo. Non si tratta di una differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad esempio, il  mondo è più popolato; le armi oggi sono più potenti e via dicendo), si tratta di una novità profonda, strutturale e piuttosto recente. Non dobbiamo però pensare che si tratti di un processo anche irreversibile. I tempi nuovi in cui ci troviamo dipendono da una certa organizzazione sociale molto complessa e quindi anche particolarmente fragile, nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni fa uno scrittore italiano scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli,  della crisi di un’organizzazione sociale umana moderna molto articolata e complicata. Un nuovo medioevo, in senso negativo, una regressione catastrofica, è quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo prefigurare le condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche su scala globale ne possono essere considerate in qualche modo delle avvisaglie.  Oggi più che in qualsiasi altra precedente epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre società, una sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e dall’interazione solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per preservarla dai pericoli e dal  male che sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge verso la Città di Dio e quella che invece tenta verso la Città del diavolo, compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per la costruzione della Città dell’uomo, espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una specie di carestia biblica che coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane  a cui ho accennato e dal concepirci sempre come stranieri in ogni patria terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato che questi sforzi collettivi possono avere successo.   Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca: per ogni problema se ne possono infatti  pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani. Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa, che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità di una dottrina con quelle pretese formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a un contesto teologico, di coerenza teologica.

 Mi piacerebbe, a questo punto, concludere anticipandovi la soluzione delle soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in modo rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo apparente e che vi è ancora una via semplice per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo, perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga collettivamente in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba aspettare.

 Voglio precisare che la novità della situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su scala globale, mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città, quartieri, condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede, caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra nella nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in essa, nella nostra vita feriale, e può, ad esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che chiede il riconoscimento di una cittadinanza universale sulla base di quella nuova organizzazione globale delle cose umane  di cui dicevo. In questioni come queste anche noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel continente europeo.

 

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20

Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!

(24 ottobre 2012)

 

 Nella riunione di ieri del nostro gruppo ci siamo interrogati su quale debba essere il nostro atteggiamento in questo Anno della Fede, indetto dal papa Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta Fidei  (trad. porta della fede) dell’11 ottobre 2011  e aperto lo scorso 11 ottobre, cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).

 Potete trovare il documento all’indirizzo WEB:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html

 Leggendo le parole del Papa possiamo individuare questi presupposti e  obiettivi dell’iniziativa:

                               ·            entrare nella Chiesa significa impegnarsi in un cammino che dura tutta la          vita. La fede cristiana è come una porta che, attraverso il Battesimo,  ce lo fa iniziare;

                               ·            bisogna riscoprire questo cammino nella fede, perché la fede ai tempi nostri non è più un presupposto ovvio;

                               ·            dobbiamo ritrovare il gusto di nutrirci del cibo che rimane per la vita eterna, vale a dire della Parola di Dio trasmessa dalla Chiesa e del Pane di vita, per continuare a credere in Gesù, il Cristo;

                               ·            attraverso la propria testimonianza di vita i cristiani sono poi chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato;

                               ·            l’Anno della Fede in questa prospettiva è un impegno a una rinnovata e autentica conversione al Signore, unico Salvatore del mondo;

                               ·            in questo spirito è anche necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede; esso scaturisce da una fede rafforzata;

                               ·            il percorso comune nell’Anno della Fede deve portarci a capire in modo più profondo non solo i contenuti della fede ma anche il senso del credere, l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo;

                               ·            la professione di fede comporta anche assumersi la responsabilità sociale di ciò che si crede: non è un fatto privato e implica anche una testimonianza ed un impegno pubblici; essa quindi è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede;

                               ·            per la conoscenza sistematica dei contenuti della fede cristiana tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa cattolica (1993; 1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;

                               ·            non dobbiamo temere di argomentare razionalmente la fede, anche in quest’epoca in cui molti ritengono che certezze razionali possano conseguirsi solo nell’ambito del pensiero scientifico e tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la scienza non vi sia conflitto, in quanto entrambe, anche se per vie diverse, tendono alla verità;

                               ·            sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato;

                               ·            In questo tempo siamo invitati a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento; in lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di salvezza”;

                               ·            nell’Anno della fede dobbiamo vedere anche un’occasione per intensificare la nostra testimonianza della carità; la fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino;

                               ·            nell’Anno della Fede siamo inviati a scuoterci da una certa pigrizia nel conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa comune; in particolare ciò riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di gioventù: “Giunto ormai al termine della sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’ (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.

                               ·            nella fede siamo ricolmi di gioia perché, pur vivendo anche l’esperienza della sofferenza “noi crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del maligno (cfr Lc 11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno della riconciliazione definitiva con il Padre”.

 Ora, uno dei modi di intendere gli impegni proposti nell’Anno della Fede è quello di presentarli come un cammino di ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro,  riconoscendo il male che c’è in noi e che da noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma esso presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora bella e  suggestiva fino a che corrisponda a come la Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare, questa idea del ritorno nella lettera apostolica citata non c’è (c’è quella di conversione, che è un’altra cosa: è cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge (versione CEI 2008):

 Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto capire per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.

  Quel passo si riferisce al ritorno di Paolo e di altri suoi compagni da una missione in città del mondo pagano del loro tempo.

 Per quanto indubbiamente nella vita delle persone ci possano essere momenti in cui esse si allontanano dalla Chiesa e poi le si avvicinano nuovamente, in un movimento effettivamente di ritorno, e quindi ci sono anche dei gruppi per così dire specializzati nel favorire questa decisione di rientro (anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi impegnata in questo), nella lettera apostolica citata non è questo ad essere centrale. Piuttosto il Papa appare preoccupato di una certa pigrizia  e distrazione  di noi fedeli nel rispondere alle esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato,  a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali, culturali e politiche di esso che della sua origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per come io credo di aver compreso l’invito che ci è stato rivolto, deve così servire a scuoterci da questa pigrizia e a porci nuovamente in cammino secondo l’orientamento che ci viene dalla comune fede religiosa: appunto un cammino nella fede. Come battezzati infatti, a prescindere da quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.  Questo dobbiamo sempre ribadire con la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente purtroppo   è sempre presente di quando in quando.

 Per come la vedo io, noi, piccolo gregge dell’Azione Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno della Fede, non dobbiamo prendere la strada per andare da qualche parte indietro, ma siamo spinti proprio dalla nostra fede in avanti.

La lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli impegni per l’Anno della Fede, quello di “ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.

“Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va incontro.”

 In questo ci indica anche quell’impegno  di purificazione della memoria, che significa comprendere ciò che nel nostro passato ecclesiale non andava nella direzione giusta e distaccarsene per il futuro (senza con questo volere anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone che di  quel passato furono artefici), sulla quale la nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni Paolo 2° in occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.

 La concomitanza tra l’apertura dell’Anno della Fede e il cinquantesimo anniversario dell’inizio del  Concilio Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento della nostra Chiesa, pur nella fede della Tradizione, rende chiaro che non è al passato che ci viene chiesto di guardare, in particolare a modi organizzativi che si riferiscono ad epoche che non sono più.

 Ciò che del passato ci viene richiesto di riscoprire è la fede della Tradizione, la fede di sempre, che è fede in colui che riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri, oggi e domani: egli vive e trae a sé tutto.

 Certo, cari amici, ieri contandoci e considerando le nostre forze reali, dico noi del nostro gruppo in San Clemente papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il quale siamo spinti in questo Anno della Fede non superi di molto le nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci, perché, e questa è una delle cose che possiamo riscoprire in questo Anno della Fede, noi non siamo soli: siamo parte di un lavoro collettivo molto più grande e poi confidiamo, nella fede, in colui che può dare successo a tutte le nostre opere.

 

 

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E pluribus unum: quale fondamento per l’unità?

(25 ottobre 2012)

 

 Sullo stemma degli Stati Uniti d’America compare il motto latino E pluribus unum, che significa da molti, uno. Fu proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams, Jefferson e Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si riferisce alla volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di unirsi in una dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata sulla convinzione della  pari dignità umana, per essere stati gli esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.  Perché mi riferisco spesso alla nascita degli Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano. Essa mostra quindi che ideali cristiani e ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto. Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato un altro motto: Ribellarsi al tiranno è obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico nell’ideologia cristiana e fosse stato in particolare  affermato, su basi bibliche, nell’ordine concettuale di S.Tommaso D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne approvato ufficialmente con l’enciclica Aeterni patris del Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come  è intesa oggi (con l’affermazione del diritto politico di resistenza al tiranno che violi quei diritti umani fondamentali inalienabili) venne accettata dalla Chiesa cattolica come regime politico preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio natalizio del papa Pio 12°).

 Anche lo stato dal quale i rivoluzionari nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di diversi popoli (Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso però il fattore di unità era la sudditanza a una dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di precise accuse storiche esplicitate nella Dichiarazione di indipendenza  del 1776, venne vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto come tirannico.

 La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di quelle fortemente critiche anche nella Chiesa cattolica, in particolare da quando, nel quarto secolo della nostra era, essa divenne rilevante per l’unità politica dei popoli unificati nell’impero romano e successivamente  anche per quella dei nuovi stati sorti dalla dissoluzione, nell’Europa Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole riferire anche  a questo. In questa materia ha inciso potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.

 Il punto di partenza del nuovo ordine concettuale è la pari dignità delle persone che formano il popolo di Dio.

  ...comune è la dignità dei membri per  la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché “non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).

[…]

… vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].

 Questa pari dignità conduce a rispettare la varietà nella Chiesa che raduna quel popolo

La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà.

[…]

Così nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo.

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].

  Il fattore di unità è di ordine spirituale:

… infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la  Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr At, 2,42).

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]

 La realizzazione dell’unità è impegno comune di tutti i fedeli:

…le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono con uno scambio mutuo universale verso la pienezza dell’unità.

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]

 Ad essa siamo spinti dalla legge dell’amore cristiano:

Questo popolo messianico ha per capo Cristo […] Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel core dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).

[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]

 Per capire a che tipo di amore ci riferisca quando si parla della legge cristiana dell’amore è opportuno leggere il testo greco del brano del Vangelo di Giovanni citato nella costituzione dogmatica: “Entolèn cainèn dìdomi umìn, ina agapàte allèlus, cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.(trad.:Vi do un comandamento nuovo che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato [egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.

 Riassumendo: secondo le concezioni conciliari, l’unità non significa necessariamente uniformità e trova fondamento dal basso, in una comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].

 Ora, non è che queste idee siano veramente nuove, perché erano tra quelle fondamentali fin dalle origini. La loro portata innovativa sta nel fatto che esse sono stata proclamate nel Concilio Vaticano 2° dopo che per quasi due millenni i fattori di unità nella Chiesa cattolica erano stati visti principalmente nella sudditanza sacrale ad un unico Pastore terreno  e nella stretta uniformità ideologica e liturgica (ad esempio nell’uso universale del latino liturgico).

 Dove voglio andare a parare con tutto questo? Cerco di dirlo nel modo meno “traumatico” possibile.

  Il fatto che l’Anno della Fede che è appena iniziato  sia stato così esplicitamente collegato al Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto iniziare nel giorno del cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel concilio, rende ben chiaro che non si vuole da noi il ritorno alla preponderanza degli antichi fattori di unità. Quell’era della nostra confessione religiosa è finita. Dobbiamo resistere alla tentazione di “ritornare” nel senso di incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della Chiesa, della quale nella  lettera apostolica Porta Fidei di indizione dell’Anno della Fede siamo chiamati a prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso del  Grande Giubileo dell’Anno 2000.

[…]

Un Rappresentante della Curia Romana: 

Preghiamo perché ciascuno di noi, 
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale, 
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici 
nel pur doveroso impegno di difesa della verità, 
sappia imitare il Signore Gesù, 
mite e umile di cuore. 

Preghiera in silenzio. 

II Santo Padre: 

Signore, Dio di tutti gli uomini, 
in certe epoche della storia 
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza 
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore, 
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa. 
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori 
e accogli il nostro proposito 
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità, 
ben sapendo che la verità 
non si impone che in virtù della stessa verità. 
Per Cristo nostro Signore. 

R. Amen. 

R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie, eleison. 

[Dalla liturgia della Giornata del perdono, celebrata il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]

 Come risulta chiaramente dalla lettera apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno della Fede noi fedeli approfondiamo un cammino comune nella fede, aiutandoci gli uni gli altri in unione spirituale pur nella legittima varietà  di stili di vita individuali e comunitari, anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in cui viviamo, per influire in tal modo su di essa con rinnovata sapienza e consapevolezza infondendo  valori cristiani, cercando di promuovere, secondo il comando ricevuto, l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare un’unità discriminatoria, separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente fedeli”, coloro che su alcune cose legittimamente la pensano diversamente da altri, nel presupposto che questi ultimi siano monopolisti della retta dottrina, della retta liturgia, dei retti principi di vita comunitaria. Questo significherebbe in un certo senso  tornare al nostro tremendo passato, equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.

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Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella società

(27 ottobre 2012)

 

 Leggo in Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie meditazioni religiose:

[…] nella … nuova economia l’amore –motivo fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina il santo timore filiale che, con soggezione totale e trepidante adorazione della maestà di Dio, deve permanere a ogni livello della vita spirituale.

 Perciò, anche restando nel Nuovo Testamento, vediamo che c’è un timore di Dio che e inculcato assiduamente dagli apostoli (la stessa Lettera ai Romani 11,10; la Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato da Gesù stesso come necessario (Mt 10,28),

[…]

Certo l’Eucaristia, se davvero vissuta nella fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia sensibile.

 Deve esser una gioia non adolescenziale, ma da adulto, che non presuppone … di saltare il timore, ma che nasce proprio da un timore virile e consapevole: stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo eterno di Dio”.

 Questo  discorso che Dossetti riferiva specificamente all’Eucaristia può essere esteso all’atteggiamento che complessivamente la persona religiosa può avere nei confronti del tempo e della società in cui si trova a vivere. Il timore deriva dalla consapevolezza della grandezza degli ideali professati e dalla conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della stessa fonte e, in particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano basati solo sulle proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso, sia tratto da una forza irresistibile, non spinto da noi, verso un  suo beato compimento. In altre circostanze, al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla considerazione dell’insufficienza delle proprie forze e  conseguentemente la gioia, se anche c’è, finisce per essere piuttosto precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia nell’oggi e anzi addirittura solo nell’ora corrente. Quella che scaturisce dal timore religioso è invece gioia per il passato, per il presente e per il futuro, quindi si basa su una valutazione complessivamente positiva e fiduciosa della storia. Si fonda su una considerazione realistica delle cose come vanno, e questa è come si dice nel lessico attuale la sua laicità, perché la fede non è solo immaginazione e sentimento, ma anche su una spiritualità intima e quindi profonda che cambia molto l’atteggiamento che si ha verso ciò che ci circonda e che, in tanti modi, ci determina, ci interroga, ci sollecita e, a volte, ci atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di fronte ad ogni difficoltà della vita, sia  essa di quelle proprie personali o di quelle di realtà vicine come la famiglia o l’ambiente umano abituale, come anche su scala maggiore, di quelle che riguardano la propria città, regione, nazione o, al limite, l’intera umanità, innanzi tutto si raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare il suo legame con il fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti indica come di devozione filiale, quindi in una familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento di stupore e trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa sorprendentemente  animato da amore viscerale, materno, ma anche virile, paterno, nei confronti di noi umani. Il passo successivo è quello della comprensione del mondo intorno a sé e poi dell’azione in esso, nel tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica, Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di quel fondamento religioso, nell’impegno laicale nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte, innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente responsabilità globale  in ciò in cui di fatto si influisce su di essa o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio si definisce come cattolicità attiva, che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti della nostra confessione religiosa  (ad esempio per procurarle privilegi ed esenzioni) o di militi o messi di una potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità, insegnando loro ad osservare tutto ciò che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.

 Questo programma, che ho esposto brevemente, non è facile da attuare e, innanzi tutto, richiede che si impari a collaborare con gli altri. L’impegno religioso, come ci  è stato ricordato nella lettera apostolica Porta Fidei (2011) con cui è stato indetto l’Anno della Fede iniziato l’11 ottobre scorso, non è un fatto privato. Ecco che in questo può essere interessante l’impegno in Azione Cattolica. Esso è appunto un impegno, quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del tutto scontati e in cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una base di partenza negli esercizi di laicità che si faranno, vale  a dire nello sforzo di comprensione  realistica del mondo in cui si vive alla luce di una spiritualità religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di Azione Cattolica ricette  di vita, personale o comunitaria, già pronte e ammaestramenti globali su ciò  che si deve fare o si deve pensare in ogni occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta  i propri doni in un mutuo scambio che accresce gli altri, in uno sforzo comune per promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più vicine fino a quella globale.

 “[…] la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito con lui.

[,,,] In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”

[dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n.13, del Concilio Vaticano 2°]

 Ora  è chiaro, riprendendo il discorso da cui sono partito, che l’universalità di questo impegno comune, la sua cattolicità, la sua effettiva apertura a tutte le genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal suo fondamento religioso e quindi da quel timore  di cui si diceva, il quale, in particolare, deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare una soluzione, un modello, un’esperienza, un  cammino, una ideologia, una concezione filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto caratterizzata, appunto, da devozione filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità.  Questo, ben lungi dallo scoraggiare e umiliare, è anche la base della creatività religiosa  nella società e quindi dell’efficacia della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi  e determinarsi con sapienza di conseguenza, rinnovandosi incessantemente.

 

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Fare memoria di un’alleanza

(30 ottobre 2012)

 

“…nell’episodio del roveto ardente (Es 3,2-6) sul monte Horeb, l’angelo del’Eterno (malakh Adonai) che appare a Mosè ‘in una fiamma di fuoco’ nel mezzo del roveto che non si consuma gli dice molto esplicitamente: ‘io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe’. La visione dell’angelo è dunque una teofania. […]  L’Invisibile si presenta di nuovo, sotto la forma di un angelo, per vivificare in Mosé … quella alleanza ‘per le generazioni’ (ledorotam) (Gn 17,9).

[…]

 Quella teofania rende visibile all’anima l’alleanza immemoriale tra Dio e la Sua creazione, alleanza che abitualmente l’anima non percepisce fintanto che guarda il mondo e le creature che vi si trovano attraverso una morsa di paura e di collera, di anticipazione avida e invidiosa, o fintanto che si rassegna alla protezione tragica della rinuncia e sprezza il desiderio”,

[da: Chaterine Chalier, Angeli e uomini, Giuntina, 2009, euro 16, pag.19, 20 e 26]

   L’altro giorno discutevo di come, per quello che so, la nostra parrocchia perde la gran parte dei giovani adolescenti e ventenni iniziati nel catechismo alla vita religiosa e non li recupera più. E, in effetti, viene il momento in cui, nello sforzo di approfondire i temi della nostra fede e di ottenere un maggiore impegno, viene detto chiaramente loro, più o meno esplicitamente, che sono sbagliati, che la loro vita è tutta da rifare, che devono essere ricostruiti dalle basi, perché hanno toccato il fondo, in particolare perché vogliono fare l’amore e questo è, per loro che non sono sposati, peccato mortale. E’ chiaro che a questo punto loro scappano, perché, secondo natura, il loro mestiere, in quell’epoca della loro vita,  è proprio fare l’amore. Non tollerano di sentirsi in questo come in libertà vigilata e di vivere con rimorso ogni soddisfazione sotto questo profilo, dovendo immediatamente pentirsene. Non è più come quando il prete diceva loro di “non toccarsi” e questo poteva essere accettato in un’ottica umana e religiosa insieme, perché si sentiva che quelle consuetudini, pur nella loro banalità, sarebbero state superate crescendo e che, anzi, crescere consisteva proprio nel superarle. Quando poi si cresce, e di solito ad un certo punto si trova un equilibrio nelle cose dell’amore, il problema si ripresenta sotto un altro aspetto, perché, quando si riprende in considerazione una prospettiva di fede, che in molti casi è la fede della propria tradizione familiare, quella dei “propri padri”, si trova un ostacolo nella pretesa etica religiosa di non porre ostacoli alla procreazione e quindi di affrontare l’amore con una fiducia che, ad un animo ragionevole, può apparire come un gioco d’azzardo, in cui però si punta tutta la propria vita. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà che sorgono nel caso di crisi e di fallimento dei matrimoni e di ricostituzione di nuovi rapporti coniugali. Non sono problemi di oggi, ma di sempre, fin dalle origini, millenni fa, tanto che si ritrovano nella Bibbia, ma un tempo ci si faceva meno caso, un po’ perché dai laici si tollerava una maggiore ipocrisia, specialmente dai maschi, e poi perché per la maggior parte delle persone il tirare a campare, in un mondo tutto sommato molto più difficile di quello dei nostri tempi, sovrastava tutto (con i problemi economici, le guerre, le malattie inguaribili, la violenza sociale che c’erano). Una certa ideologia repressiva nei confronti delle donne era poi vista come necessaria al mantenimento dell’unità delle famiglie e, come contropartita, si era poi più comprensivi verso di loro, viste come la parte debole e sottomessa di rapporti personali dominati inevitabilmente dal capriccio degli uomini. Nella nostra epoca invece, e specialmente dopo il Concilio Vaticano 2°, si pretende dai laici un’adesione molto più consapevole e coerente in tutti gli aspetti della vita e questo in un tempo in cui i modelli sessuali e familiari sono in veloce evoluzione e in cui il successo sessuale viene visto, anche in tarda età, come manifestazione di affermazione sociale in una società dominata dal consumismo e dall’esteriorità.

 Cari lettori, non sono un sacerdote. A ognuno la sua parte. Non ho assunto il difficile impegno di risolvervi quei problemi o anche solo  di aiutarvi in questo dandovi una direzione spirituale. E, lo dico francamente, non ho in tasca la soluzione per tutti, non saprei proprio come fare. Se poi volete conoscere la posizione del magistero, vi rimando al Catechismo della Chiesa cattolica. Nella mia esperienza di solito si riesce ad un certo punto a pacificarsi sotto quei profili ma si tratta di accomodamenti sempre piuttosto precari che vanno rivisti di quando in quando, e in questo la pratica sacramentale della penitenza qualche volta può aiutare. E’ più che altro un esercizio  di sapienza umana, non facile, all’esito del quale, se le cose vanno bene e fintanto che vanno così, ci si compiace anche da un punto di vista religioso. Ognuno in questo deve essere piuttosto creativo, non deve aspettarsi che gli altri, anche autorevoli, abbiano modelli di stili di vita adatti alla sua propria condizione particolare. Lo sviluppo di una spiritualità adulta, matura, con l’aiuto del sacerdote, è fondamentale in una prospettiva religiosa. Penso in definitiva che un laico come me, nel relazionarsi con gli altri intorno a lui, dovrebbe lasciare certi temi alla coscienza delle persone, nel rispetto della loro dignità umana.

 In Azione Cattolica, specialmente in quest’Anno della Fede in cui cerchiamo di approfondire le ragioni della nostra appartenenza religiosa, sentiamo di avere molto bisogno di persone di fede  più giovani d’età, che però si tengono ancora lontane. Non possiamo assicurare loro che in parrocchia non troveranno problemi sulle questioni delle relazioni sessuali, perché questo è un aspetto della vita delle persone umane che interroga gli spiriti religiosi e quindi ci si discute su. Accade anche in altre religioni. Quello che possiamo garantire è che in Azione Cattolica sarà sempre rispettata la loro dignità umana e che non si tenterà di imporre loro da parte nostra, sotto sanzione di esclusione, un certo stile di vita. Come ci è stato ricordato nel Sinodo dei vescovi che si è concluso domenica scorsa, la Chiesa è la casa di tutti i battezzati, anche di coloro che, pur sentendosi persone di fede, per tanti motivi non riescono a vivere in tutto secondo le prescrizioni della morale religiosa corrente. Su certe cose si ragiona, per cercare insieme soluzioni che poi ognuno proverà ad applicare nella propria vita, se crede. E possiamo anche dire che l’impegno in Azione Cattolica non è principalmente diretto a dare orientamenti sessuali. Esso ha invece maggiormente a che fare con l’idea di cercare di radunare le persone umane in un popolo nuovo, unito intorno a certi grandi ideali, che per noi assumono anche una prospettiva religiosa. In questo viviamo un’epoca propizia, perché nell’Europa di oggi viene data molta importanza a questo sforzo, tanto che si è prodotto un imponente moto centripeto di genti verso il nostro continente. Di recente noi europei abbiamo avuto il Nobel per i tanti decenni di pace che si è riusciti ad ottenere da noi e la pace è un tema che ha una forte valenza religiosa. L’aspetto peculiare dell’esperienza religiosa è che essa non cerca di federare le genti sulla base di compromessi di interessi o di uno scambio di equivalenti, come accade nei contratti commerciali, ma a partire da un’interiorità che per noi, comprendendo per molti aspetti realtà soprannaturali, assume il connotato di una spiritualità. Accade, ad un certo punto, in molte vite che, nel mondo di tutti i giorni, si colga, nella propria interiorità ma non solo emotivamente perché c’entra anche la ragione, un senso dello stare insieme dell’umanità che va oltre quello che ordinariamente guida le nostre azioni e che spesso ci lascia insoddisfatti. E’, in un certo senso, l’esperienza di Mosè sull’Horeb evocata nel libro della Chalier. Una interpretazione di quell’episodio è che le fiamme del roveto fossero immagine di fiamme interiori. Mosè era fuggito dall’Egitto dopo aver ucciso un sorvegliante che vessava gli ebrei, asserviti dalla violenza del popolo in cui si erano rifugiati. Nella paura per la propria sopravvivenza, che lo aveva determinato alla fuga, aveva represso il desiderio di tornare per attuare la liberazione di coloro che erano schiavi. E’ a partire dalla sua interiorità che si attua un suo cambiamento di vita. Egli si sente in esilio nella terra di Madian, il luogo del suo rifugio, così come l’Egitto del faraone era terra di esilio per il suo popolo,  e ora anche per lui. Egli vorrebbe agire in favore della sua gente, ma è bloccato dalla paura. La forza di determinarsi secondo il suo profondo desiderio, vincendo quel timore per la propria vita, gli viene dalla memoria dell’antica alleanza, che non era un patto tra potenze terrene, ma con l’Eterno, del quale egli, ad un certo punto, riesce nuovamente a sentire la voce che chiama all’azione, quindi ad alzarsi e andare.

 

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Azione Cattolica: insieme per promuovere la pace universale

(1 novembre 2012)

 

Siccome il regno di Cristo non  è di questo mondo (cfr Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva.

[…]

 Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza

[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]

 

Nei mesi di  mese di settembre e ottobre scorso, scrivendo diverse riflessioni sulla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, mi sono limitato a riferirmi ai soli numeri 9  e 13 di quel documento, inseriti nel capitolo 2°. Questo può dare un’idea della vastità delle questioni affrontate in quella grande assemblea, che segnò un punto di passaggio importante nella storia ecclesiale, dando inizio a un gran fermento e a sviluppi ancora in corso. Prenderne sufficiente consapevolezza non è lavoro breve né facile, dato il linguaggio teologico con cui sono scritti i testi dei documenti che furono allora approvati e diffusi nel mondo.  E tuttavia bisogna tener conto del monito di quel Concilio, rivolto a noi fedeli cattolici (Lumen Gentium, n.14), della necessità di corrispondere con il pensiero, con le parole e con le opere all’azione soprannaturale per la quale, non per nostri meriti, siamo stati pienamente incorporati nella nostra Chiesa, e questo  sotto pena di essere giudicati più severamente degli altri nel caso di diserzione.

 Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici.

[…]

  Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati.

 In quell’elenco di doveri del fedele, prima viene il pensiero, vale a dire l’ascoltare  e il comprendere, ma anche l’ideare e progettare per il presente e il futuro, propri e delle collettività delle quali si è partecipi. Poi viene l’interloquire con gli altri e l’operare: nella visione conciliare questa parte deve farsi collaborando con tutte le persone bene intenzionate, anche al di fuori del nostro contesto religioso (“sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione”, brano della Lumen Gentium citato all’inizio). Questo impegno ideale e sociale rientra in quelli in cui l’Azione Cattolica si sente da sempre particolarmente coinvolta.

 Per quanto l’Azione Cattolica com’è oggi sia stata istituita e regolata dall’autorità ecclesiale, quindi dai papi e dai vescovi, sia pure con l’importante partecipazione degli associati nelle forme statutarie, essa storicamente nacque, visse e tuttora vive per iniziativa e impulso della società dei fedeli laici, mossi in particolare dall’esigenza di pensare e di attuare, sulla base delle idealità religiose, modi  nuovi per influire come collettività sulle società dei tempi in cui le persone di fede si trovano inserite e specialmente su quelle con organizzazione democratica. Essa può considerarsi espressione di quel grande movimento di popolo che dalla fine del Settecento si è espresso in varie forme per una più larga partecipazione delle genti alla determinazione dei destini dell’umanità, quindi per il passaggio delle persone dalla semplice condizione di sudditi all’altrui potere alla condizione di cittadinanza democratica. Per altro il coinvolgimento popolare venne visto all’inizio  in funzione essenzialmente  difensiva di un ordine sociale nel quale la Chiesa era storicamente bene  inserita, con privilegi, esenzioni e uno spazio riconosciuto di autorità e di libertà, quindi, per semplificare, contro i fermenti liberali e socialisti che si andavano largamente diffondendo a partire dall’Ottocento.  Questa impostazione si andò rafforzando dopo la rivoluzione sovietica attuata nei domini dell’Impero russo. Diciamo che a lungo l’esperienza democratica venne considerata con un  certo sospetto dall’autorità gerarchica della Chiesa. Questa posizione mutò dopo l’esperienza storica dei fascismi europei e la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Fu allora che i capi della nostra Chiesa cominciarono a chiedersi se la democrazia sarebbe potuta essere un valido ostacolo a quei disastri. Come ho spesso ricordato, questo punto di svolta si manifestò nel radio messaggio natalizio del papa Pio 12° del 1944:

Il problema della democrazia

[…] Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.

 La pace universale ha sicuramente una valenza religiosa, come è ricordato nel passo della Lumen gentium  che ho citato all’inizio. Nel mondo di oggi, ed è la prima volta che accade, si pensa concretamente di poterla attuare con una diversa organizzazione globale dell’umanità, sfruttando le opportunità che derivano da quattro fattori: assetto democratico delle istituzioni, miglioramento generalizzato delle condizioni di vita determinato anche da una più equa distribuzione delle risorse consentita in ordinamenti democratici, miglioramento diffuso dell’istruzione ricercato anche per l’esigenza di consentire la più larga partecipazione alla vita sociale democratica, effettività di un sistema universale di diritti umani, sul quale i sistemi politici democratici di fondano. Anche la Chiesa dei nostri tempi crede in queste potenzialità:

57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari affermavano: « Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo centro e a suo vertice ». Per i credenti, il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore.

 [Dall’enciclica Caritas in veritate Amore nella verità (2009), del papa Benedetto 16°]

  Non bisogna fraintendere pensando che la straordinaria opportunità storica che ci si è aperta sia una manifestazione dell’avvento del Regno beato che religiosamente stiamo attendendo. Sappiamo che quel Regno non è di questo mondo. Questo significa che esso non può in alcun modo confondersi con alcuna delle nostre realizzazioni, anche con le più grandi. A volta si è tentati di farlo. E’ accaduto, ad esempio, nel ’91, con la fine dell’Unione Sovietica, organizzazione politica imperiale che in tutta la sua storia ha costituito un ostacolo micidiale per le Chiese cristiane. Ma si è visto che quello che ne è uscito è il consueto insieme di grano e zizzania, di bene e di male, che troviamo da sempre in ogni società umana e in ogni persona. Ricordo ciò che sostenne Dossetti un suo celebre intervento pubblico del 1987, pubblicato nel libretto Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011 (pagine 45 e 46):

Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per  volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si prepara  o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.

 Il Regno giunge a noi, senza di noi [… ] per un decreto del Padre, in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato alla sua potestà (At 1,6-7).

 E allora sarà non il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, “in ictu oculi” [trad. mia “in un batter d’occhio”] (1Cor 15,52).

 Sentiamo però nostro dovere religioso di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo (espressione che si trova nell’enciclica pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes La gioia e la speranza  n.4) per scoprire in concreto quale sia il nostro dovere oggi, per noi che siamo stati mandati nel mondo per radunare le sue genti come in un’unica famiglia umana (encicl.Caritas in veritate, n.53) in una comunione di vita, di carità e di verità (cost. Lumen gentium, n.9).

 Come non cessano di rammentarci il papa e i nostri vescovi, il sistema dei diritti umani fondamentali sul quale si basano le democrazie contemporanee ha fondamento religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano. Su che base, altrimenti, può essere riconosciuto che esseri umani tanto diversi per etnie, culture, religioni, lingue, condizioni sociali, ricchezze  e altre importanti differenziazioni, quali sono gli abitanti della Terra, hanno uguale dignità e quindi sono titolari di  quei diritti umani fondamentali? Fondamento religioso significa soprannaturale, vale a dire a prescindere da quello che si osserva in natura. La derivazione cristiana del fondamento sta nel fatto che l’ordine soprannaturale al quale fa riferimento è caratterizzato da amore oblativo e viscerale, al modo dei genitori –padre/madre- per i loro figli, e tuttavia universale, per tutti, oltre ogni differenziazione e ogni divisione. Ebbene, quel fondamento religioso di principi di civiltà che si sta cercando di attuare globalmente ci indica con chiarezza una via importante di impegno cristiano (non l’unica). Perché, come ci è stato ricordato due domeniche fa da un sacerdote missionario, i cristiani, cattolici e di altre Chiese, sono una minoranza sulla Terra, circa il 15% dell’intera popolazione umana. E’ veramente impressionante quindi che, nonostante ciò e nonostante le stragi, vessazioni, oppressioni perpetrate nei secoli passati da nazioni sedicenti cristiane, certi valori della nostra fede improntino ancora così profondamente la nostra civiltà a livello globale. In questo si può senz’altro vedere la manifestazione del disegno provvidenziale, senza però nascondersi che la realizzazione storica di quei valori è seriamente minacciata. Essa è infatti opera umana e, come tale, suscettibile di degrado e di estinzione. La storia dell’umanità non è infatti necessariamente una storia di progresso, come dimostra il medioevo europeo, e, senza un valido impegno di  sufficienti forze umane che amano quei valori e sono disposte a rischiare anche la propria vita nella lotta per essi, può prendere un altro corso. L’ideologia dei diritti umani fondamentali regge  infatti le democrazie contemporanee e queste ultime rendono credibile la prospettiva di una pace universale, per il tramite di una giustizia sociale che mantenga in concreto, estenda o ristabilisca l’uguale dignità degli esseri umani. L’Azione cattolica è schierata per la pace e la giustizia universale e intende lavorare con particolare impegno in questo campo. La nostra Chiesa, con il Concilio Vaticano 2°, ha rimosso ogni ostacolo che, per incrostazioni storiche, poteva ostacolare al suo interno la riscoperta e l’attuazione di tutte le potenzialità dell’antica dottrina della paternità divina universale. Ad esempio la grave storica inimicizia verso le persone di altre religioni, innanzi tutto gli ebrei e i cristiani di altre confessioni, e i non credenti. Ecco come si esprime la costituzione pastorale Gaudium et spes:

Il rispetto e l'amore deve estendersi pure a coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo.

 Certamente tale amore e amabilità non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l'amore stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la verità che salva. Ma occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da false o insufficienti nozioni religiose.

Solo Dio è giudice e scrutatore dei cuori; perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza interiore di chiunque. La dottrina del Cristo esige che noi perdoniamo anche le ingiurie  e il precetto dell'amore si estende a tutti i nemici; questo è il comandamento della nuova legge: «Udiste che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per i vostri persecutori e calunniatori » (Mt5,43).

[Gaudium et Spes, n.28]

 

La Chiesa, poi, pur respingendo in maniera assoluta l'ateismo, tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: ciò, sicuramente, non può avvenire senza un leale e prudente dialogo. Essa pertanto deplora la discriminazione tra credenti e non credenti che alcune autorità civili ingiustamente introducono, a danno dei diritti fondamentali della persona umana. [Gaudium et spes n.21]

  Passando a trattare della nostra microscopica, sotto un certo profilo, realtà di gruppo di Azione Cattolica in San Clemente papa, può sembrare che l’impegno del quale ho trattato sia manifestamente sproporzionato alle nostra forze. E’ un’impressione sbagliata: infatti l’apocalittica battaglia che decide le sorti dell’umanità del nostro tempo passa anche per quella piccola parte del mondo in cui abbiamo voce, nelle nostre famiglie, nel nostro quartiere, nei nostri luoghi di lavoro.  Partecipare al nostro lavoro comune in Azione Cattolica è uno dei modi in cui ci si può preparare per fare la nostra parte nella direzione che in religione ci è indicata. Come ho detto si tratta infatti di esprimere una sapienza umana, una creativa e sapida integrazione di conoscenze profane e di spiritualità per ideare e realizzare opere che, in quanto riguardanti il mondo fuori dello spazio liturgico, spettano principalmente a noi fedeli laici.  Ma da soli in questo si va poco lontano. Le prospettive umane individuali sono infatti sempre limitate. Queste cose fanno affrontate insieme, per arricchirsi dei punti di vista, della cultura, della fede, delle strategie altrui e anche per farsi coraggio a vicenda nelle difficoltà e negli insuccessi. E’ così che i cristiani hanno fatto sin dalle origini.

 

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25

Un nuovo modello globale di organizzazione e convivenza dell’umanità. Il modello della famiglia umana.

(2 novembre 2012)

 

 Per molti versi l’umanità contemporanea si viene organizzando  sulla base di principi religiosi cristiani. Religiosi perché non basati sull’osservazione di come va la natura, quindi nel senso di soprannaturali. Cristiani perché improntati all’idea di pari dignità di ogni persona umana e ad una solidarietà compassionevole verso chi sta peggio. Questo può sembrare paradossale nel momento in cui le Chiese cristiane registrano una crisi grave delle adesioni nelle società umane più avanzate, quelle da cui scaturiscano i modelli organizzativi su grande scala. in realtà non è la visione religiosa delle cose che ha perduto credito popolare, ma il fondamento mitologico dell’autorità religiosa, per cui c’è chi si presenta come autorizzato ad imporre agli altri stili di vita parlando per conto del mondo soprannaturale. Questo equivale a dire che ai tempi nostri ha meno forza nelle grandi religioni storiche dell’umanità l’uniformità intesa come sudditanza ad una autorità sacrale.  Di questo fenomeno, da non confondere con la secolarizzazione, vale a dire con l’indifferenza verso il soprannaturale, si è presa coscienza ai tempi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e si è cercato di rimediarvi recuperando, e in un certo senso strutturando innovativamente per renderla praticabile nella contemporaneità, la concezione religiosa dell’umanità come popolo di Dio, basata su un’uniformità fondata su principi condivisi. In questo contesto l’autorità perde una certa connotazione di arbitrarietà che era venuta storicamente ad assumere e si propone come servizio alla verità, per promuovere quel nuovo tipo di uniformità. Si tratta di un’esperienza che tutti noi fedeli di oggi, se ci pensiamo bene, abbiamo vissuto nella nostra esperienza di Chiesa, anche in quella parrocchiale.

 Un  modello alternativo di organizzazione globale dell’umanità è quello basato sul riconoscimento delle differenze tra le stirpi e le società umane e la competizione tra di esse perché emergano le migliori e, in particolare, una umanità migliore, nel senso di fisicamente, spiritualmente e intellettualmente più performante e società più potenti e ricche. In questa prospettiva non tutte le persone umane hanno pari dignità. Questo modello ha improntato di sé la colonizzazione europea dell’Africa e delle Americhe. Esso quindi storicamente ha convissuto con il cristianesimo, che pure è fondato su principi opposti. Il punto di conciliazione tra le due opposte visioni della vita è stato il concepire la colonizzazione come evangelizzazione. Il contrasto tra di esse è emerso con forza quando, all’inizio della colonizzazione delle Americhe, nel Cinquecento, ci si è resi conto che la  colonizzazione stava portando allo sterminio degli amerindi, dei nativi americani. Analoghi scrupoli sono emersi molto più tardi riguardo allo schiavismo contro le popolazioni nere dell’Africa.

 Il modello basato sulla diversa dignità delle vite umane e sulla competizione tra stirpi e società umane si ritrova nella concezione politica nazionalsocialista tedesca tra le due guerre mondiali. Su di essa venne costruita anche una mistica religiosa, per giustificare la pretesa di prevalenza del tipo umano ariano-germanico.

  Concezioni basate su idee in qualche modo analoghe si rinvengono in alcune dottrine economiche correnti anche oggi, ma senza connotati religiosi espliciti. Ci si rifà ad estensioni del modello di evoluzione delle stirpi umane basato sulla sopravvivenza del più adatto proposto da Charles Darwin (1808-1882): queste ideologie sono chiamate neodarwiniane.

 Dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale (1939-1945) prevalse l’ideologia della pari dignità umana e della solidarietà mondiale per la pace e lo sviluppo. Essa si rinviene nei documenti del Concilio Vaticano 2°. Ci troviamo quindi a vivere una straordinaria opportunità per il cristianesimo, in un mondo in cui  i principi religiosi cristiani sono divenuti legge globale dell’umanità. Naturalmente ciò è avvenuto senza che la nostra religione in sé, quindi con quella che al di fuori delle Chiese cristiane può essere considerata la sua mitologia e con la sua organizzazione gerarchica sacrale, sia stata nuovamente imposta  in qualche modo  alle società umane del nostro tempo. Questo può essere spiegato in vari modi. Innanzi tutto l’esperienza storica europea aveva dimostrato che il confessionalismo religioso era stato fonte di sanguinose divisioni.  Poi, in un mondo in cui prendeva piede l’idea di una unità e di una pace fondata su una solidarietà sorretta da  principi diffusi tra la gente, le autorità religiose non avevano sufficiente consenso popolare. E, infine, l’idea di una imposizione alle coscienze contrastava con la comune dignità umana sulla quale si voleva costruire un futuro finalmente pacificato, pacifico e pacificante. Può sembrare pericoloso l’aver affidato grande idealità a fondamento religioso alle masse, ma, almeno da noi in Europa, questa si è rivelata una buona scelta, visti i sessantasette anni di pace che abbiamo costruito insieme, una cosa mai vista nella storia dell’umanità e per la quale ci hanno dato il premio Nobel.

  Poiché stiamo vivendo qualcosa di veramente nuovo, c’è il problema di pensare e attuare forme di organizzazioni dell’umanità che rendano stabile il nuovo modello. E’ il lavoro che  è in corso da molte parti e, in particolare, da noi in Europa, verso la quale si è prodotto un gigantesco movimento centripeto che addirittura ha coinvolto un nostro storico nemico come la Turchia, erede dell’Impero Ottomano.

 La più recente dottrina sociale della Chiesa, diciamo dal 1944 in avanti, si è spesa molto nello sforzo di suggerire nuovi modelli di convivenza umana in linea con i nuovi principi diretti al mantenimento della pace mondiale e allo sviluppo globale di tutti i popoli.  Uno dei più recenti e importanti contributi è l’enciclica Caritas in veritate (2009) del papa Benedetto 16°. In essa è proposto  il modello dell’umanità intera come famiglia.  Si veda ad esempio,al n.7 di quel documento:

 Quando la carità lo anima, l'impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.

 Questo modello che possiamo dire della famiglia umana, piuttosto evocativo, presenta alcuni aspetti critici. 

 Esso si presenta fin dalle origini della dottrina sociale della Chiesa, sebbene con minore forza dei tempi più recenti:

 Dal passato possiamo prudentemente prevedere l'avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia.

[Enciclica Rerum novarum (1981) del papa Leone 13°]

 Nella Costituzione Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2°:

Per questo il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. A tutti vuol esporre come esso intende la presenza e l'azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi dell'uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall'amore del Creatore: esso è caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo, con la croce e la risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l'ha liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento.

  Un primo problema sta in questo: il modello dell’umanità come famiglia richiama l’esperienza della famiglia come forma di società naturale basata sulla propensione sessuale delle persone, su finalità di procreazione e di cura della prole e su una gerarchia parentale che regola la solidarietà familiare. Ora, le società umane più vaste come le nazioni o le unioni sovranazionali si basano su altri principi. In particolare in esse si fanno più labili le relazioni profonde tra gli individui, per cui esse richiedono una organizzazione politica che è costruita, non presupposta. Inoltre la solidarietà sulla quale si fonda il loro ordinamento pacifico non scaturisce, se non ideologicamente, da un legame di stirpe. Infine la difficoltà più seria di tutte: la famiglia naturale non è una società democratica e si ritiene, nel nuovo ordine di idee oggi prevalente, che la democrazia sia indispensabile per il mantenimento della pace universale. Il problema si propone con estrema forza quando si passa a ragionare dell’intera umanità, fatta di circa otto miliardi di individui. 

 E c’è dell’altro.

 La nuova organizzazione che si vuole costruire a livello mondiale deve essere stabile, quindi destinata a durare per diverse generazioni. La famiglia come piccola società naturale basata sulla propensione sessuale è destinata fondamentalmente ad esaurirsi in non più di due generazioni. Delle precedenti si ha labile memoria, salvo che, per ragioni di casta o di dinastia, ci si incaponisca a mantenerla. Di solito solo due generazioni sono tra di loro contemporanee, raro che lo siano i trisnonni.

 Le famiglie, inoltre, non sempre sono società pacifiche e fondate sulla uguale dignità dei propri membri. Non si dice forse “fratelli, coltelli”? Nella mia esperienza di pratico del diritto, certe controversie ereditarie tra parenti sono acerrime e incomponibili.

 Infine: i modelli familiari sono in rapida evoluzione. Di fatto nelle società umane contemporanee più progredite si viene affermando un modello di famiglia parentale di durata limitata, in molti casi con un solo genitore, e, con l’affermarsi sociale delle famiglie basate su propensione omosessuale e il diffondersi della poligamia, si viene creando nel mondo in cui viviamo una pluralità di tipi di famiglia. Quindi la forza evocativa dell’analogia tra la famiglia parentale e la convivenza dell’intera umanità viene scemando. Non do qui una valutazione etica del fenomeno, ed è chiaro che secondo la nostra morale religiosa esso è visto come negativo: sto solo descrivendolo.

 In una prospettiva religiosa, il modello dell’umanità come famiglia presenta un pregio per la nostra gerarchia ecclesiale. Esso consiste in questo: essa intende esprimere una autorità paterna (“papa”, ad esempio, deriva da un termine greco che significa “padre”); in un’ottica di analogia familistica essa può quindi presentarsi come fondata su basi naturali, a prescindere da un consenso della base. Esso però ha anche un altro pregio, per tutti noi, che lo rende tutto sommato effettivamente appropriato, pur bisognevole di precisazioni: richiama l’idea di solidarietà incondizionata e oblativa, fino al rischio della propria vita, nella buona e nella cattiva sorte, qualcosa di più della semplice amicizia.

 Ho parlato di modelli universali, ma si tratta di cose che vanno costruite sperimentalmente anche a partire da scale molto più piccole, addirittura microscopiche, come ad esempio può essere considerato, a confronto con l’intera umanità, il nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica.  Come viviamo la nostra appartenenza? Parlando con diversi soci  ho avvertito in loro la nostalgia di tempi in cui le relazioni associative erano più  forti. E, d’altra parte, relazioni più forti significano anche condizionamenti più forti e, crescendo, si diventa sempre un po’ intolleranti verso cose simili. Vale la pena di ragionarci su?

 

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26

Realtà invisibili

(3 novembre 2012)

 

Fondamentale carattere della scienza moderna è la capacità di varcare i confini del visibile.

 Nessuno ha mai visto un fotone [particella di energia luminosa]. Nessuno vedrà mai un sequenza cistronica [parte dell’RNA messaggero, una molecola che svolge funzioni nella costruzione delle cellule organiche]. Tali entità sono reali, ma ricostruite da una laboriosa indaffarata convivenza tra prove sperimentali e attività ipotetiche della mente. Essi sono invisibili disvelati agli occhi dell’intelletto […]. Nella sociologia ci troviamo in una situazione terribilmente arretrata. Siamo ancora timorosi nel compiere il salto verso l’invisibile, già compiuto da duemila anni nella matematica e da oltre cento anni nella fisica”.

[passo tratto da un articolo di  Giorgio Prodi, Lineamenti di una sociologia degli invisibili, citato nel libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e Città, Editrice A.V.E., 2011, a pag.66]

 Può accadere che noi persone di fede si sia presi in giro o, comunque, sottogamba perché ci occupiamo anche di realtà invisibili. Ci sono uomini di cultura che considerano la Bibbia e molte altre storie che circolano in religione come delle fiabe. Altri, pur con meno scienza, fanno loro eco e ci accusano di credulità. Ma, nella mia esperienza, l’atteggiamento dei più non è di questo tipo. Di solito infatti la gente crede nel soprannaturale, in genere perché trova più facile spiegare in quel modo ciò che le accade. Ma trova difficoltà nel credere in un dio amorevole, benevolo. Pare più rispondente alla realtà di tutti i giorni l’esistenza di geni, demoni o folletti, e simili, che possono essere favorevoli o avversi, secondo il loro capriccio. Questa può essere considerata una religiosità di tipo naturalistico, che risale ai primordi della vita sociale umana, quando si riteneva che ogni manifestazione del mondo intorno agli esseri umani fosse mossa da un dio. Essa poi si sviluppò nel politeismo dell’antica religione latina e greca, che precedette il successo del cristianesimo in Europa, nel Vicino Oriente e nel Nord Africa e fu da esso combattuta ed estirpata, almeno nelle sue manifestazioni pubbliche e nelle istituzioni. Nell’antica Preneste, l’attuale Palestrina, nei dintorni di Roma,  venne edificato un grande santuario alla dea Fortuna primigenia, molto venerata dagli antichi romani. In certi accaniti giocatori alle lotterie e simili, che vediamo anche nel nostro quartiere, potremmo in un certo senso riconoscere dei seguaci di quell’antico culto. Come spiegare altrimenti tanta passione in  giochi in cui le probabilità matematiche di vincita sono tanto basse?

 Certamente senza un legame con l’invisibile la nostra non sarebbe una religione. Secondo la nostra fede, tutto ciò che esiste è stato creato da una divinità che ama noi esseri umani con amore di padre/madre e questo nonostante le nostre imperfezioni e, in particolare, la nostra cattiveria. Questa convinzione trova molte smentite nella realtà naturale. E’ quindi una fede soprannaturale, che ci porta a  rettificare abbastanza ciò che si osserva nella natura intorno a noi e in noi. Lì dove la vita appare ad un certo punto finire, noi, ad esempio, siamo convinti di una vita eterna. L’esistenza degli esseri viventi appare dominata dalla violenza. Gli animali si mangiano gli uni gli altri e anche noi ci nutriamo di altri viventi. Le terre emerse si spostano generando terremoti. Oceani appaiono e scompaiono. Le stesse stelle collidono o esplodono. Noi però siamo convinti, per fede, che tutto ciò avrà, alla fine dei tempi, un compimento beato. Il mondo in cui viviamo sparirà, certo, ma sarà sostituito da un mondo diverso, preparato per noi e promesso. Esso non sarà però opera nostra, ma dell’amorevole potenza creatrice dalla quale deriviamo. Dossetti nel discorso da cui è scaturito quel libretto che ho sopra citato, invita a non metterla troppo semplice parlando di questo con gli altri, come se tutto fosse ovvio, chiaro, scontato. La fede, che in genere da bambini si acquisisce con una certa facilità, confidando nei propri genitori e nelle persone da loro accreditate, crescendo è messa alla prova. La religione serve appunto a custodirla e a rafforzarla.

 Come ho osservato in altre occasioni, l’aspetto che va costantemente e sapientemente curato, come quando, da bambini, si difende pazientemente un castello di sabbia costruito sulla riva del mare, che l’acqua tende costantemente a sciogliere avanzando verso la terraferma, non è tanto la convinzione che Dio c’è. Spesso i “non credenti” partono da questo, parlando con le persone di fede, e trovano poca soddisfazione. Certo, noi portiamo argomenti razionali a sostegno dell’esistenza del nostro Dio, ma egli rimane pur sempre invisibile. Chi può negarlo? E’ la stessa Bibbia che a dircelo chiaramente.

 Scrive Dossetti, nel libretto sopra citato,  a proposito dell’Eucaristia:

 Il mistero cultuale rende oggettivamente presente l’evento del sacrificio di Cristo, ma contemporaneamente lo vela: debbo trapassare il velo e questo mi è possibile solo nella fede, che mi fa andare oltre le apparenze sensibili e oltre il tempo […]

 Nella mia esperienza di fede, ad un certo punto, viene una voce che noi siamo capaci di udire; viene dalla storia umana tramite la Chiesa, che l’ha fedelmente custodita nei secoli, e reca buone notizie. Ci parla infatti di un creatore amorevole e suscita in noi, nel nostro animo, nella nostra interiorità, una risposta, perché appunto quella voce è ciò che si attendeva da sempre di ascoltare. E’ stato notato che noi, nell’evo presente, non vediamo, ma possiamo udire. Detto in termini esplicitamente religiosi, questo denota l’importanza che attribuiamo a ciò che sinteticamente definiamo la Parola, vale a dire a quello che religiosamente ascoltiamo e che ci narra delle realtà invisibili che sorreggono le nostre vite. Nell’esperienza religiosa  è questo che è centrale, come spesso ci ricorda anche il nostro assistente ecclesiastico nelle nostre riunioni: ascoltare e comprendere la Parola.

 Questa relazione che abbiamo con il soprannaturale ci cambia e ci arricchisce nello spirito, ma non ci aggiusta le cose nel mondo  in cui viviamo, che continua ad andare come deve andare in base alle sue dinamiche naturali. La nostra fede infatti non ha nulla a che fare con la magia. Non portiamo un dio dalla nostra parte negli affari che abbiamo in corso in società e riguardo ai problemi che abbiamo con la natura, innanzi tutto con i nostri corpi, che infatti ad un certo punto ci danno qualche dispiacere, e sempre di più invecchiando. Attendiamo invece un beato compimento che è completamente nelle mani di colui nel quale religiosamente confidiamo e al di là di ogni nostra immaginazione. Non tentiamo di portare un dio sulle nostre vie, ma cerchiamo la nostra strada verso colui che ci chiama, ci trae a sé e ci attende alla fine della storia dell’universo.

  In conclusione: quando ci mettiamo a immaginare nuove organizzazioni sociali, anche al fine di corrispondere  a quella benevolenza soprannaturale che ci sovrasta e ci colma, non dobbiamo dimenticare che il punto di partenza, sia come individui che nei nostri gruppi, è nella realizzazione di una spiritualità, lavoro questo non facile perché non si tratta solo di tirar fuori cose da noi stessi, in particolare dalla nostra immaginazione e dalla nostra emotività,  ma di inserirci in una tradizione molto antica dalla quale la Parola  è scaturita per noi. Per questo è stata istituita la Chiesa della quale siamo parte viva, essa stessa realtà visibile e invisibile, punto di contatto e di mediazione tra il visibile e l’invisibile.

 

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27

A occhi aperti

(5 novembre 2012)

 

“Condizione di qualunque progetto da parte di gruppi cristiani

[…]

  Occorre … che siano adempiute molto più di quanto non sia stato finora tre condizioni precise:

-che questo progetto sia non solo nominalmente, dire per una “pia fraus” [trad.: per una bugia a buon fine], ideato e perseguito anche praticamente, in modo totalmente distinto dalla comunità di fede;

-che esso abbia una sua genialità creativa (cioè non sia solo una rimasticatura di dottrina e progetti altrove nati) e abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un momento reale della storia, interpretato non solo con scienza (cioè con l’intelligenza), ma anche con sapienza (cioè con l’intuizione);

-e che infine esso nasca da un senso di giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina verso i compartecipi sociali, specialmente verso le categorie evangeliche privilegiate (i poveri, gli umili, i piccoli).”

[da: Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, euro 8,00, pag.57]

  Nel momento in cui a noi laici viene richiesto di influire sulla società del nostro tempo per promuovere certi valori che hanno un fondamento religioso, dobbiamo chiederci come farlo. Infatti i cristiani storicamente hanno a lungo improntato della loro fede le civiltà in cui si trovavano a vivere, in Europa almeno fin dal quarto secolo della nostra era, ma non tutti i modi in cui lo hanno fatto sono oggi praticabili, sia da un punto di vista oggettivo, delle forze in campo, sia da un punto di vista etico. Oggi, ad esempio, non ci affideremmo in questo a un imperatore cristiano o anche solo a una dinastia monarchica cattolica. E non accetteremmo di imporre alla gente la fede cristiana sotto pena di  sanzioni criminali. Né lanceremmo una crociata contro popolazioni di scismatici. Si tratta di forme di intervento dei cristiani nelle società del loro tempo che sono state storicamente attuate. Ai tempi nostri in genere la si pensa diversamente. Ma non è solo questione del senso comune, dell’opinione corrente, ma è proprio la nostra Chiesa che si è data leggi diverse, che le vietano quelle vie. Sono regole che troviamo nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), i quali, come ho ricordato varie volte in precedenza, non sono solo testi edificanti e istruttivi, ma leggi. Per alcuni di essi lo rivela il nome stesso che è stato dato loro: costituzioni, decreti. Ma anche quelli che sono stati denominati dichiarazioni hanno la stessa natura. E si tratta di leggi che, promanando dal Papa in unione con un Concilio ecumenico, hanno una particolare forza. Queste leggi, nonostante che nella loro stesura si sia avuta particolare cura nell’evidenziare la continuità con il pensiero precedente dei capi della nostra Chiesa, con le idee dei più autorevoli scrittori religiosi dei primi secoli, con le liturgie praticate fin da tempi molto antichi e, naturalmente,  con le Scritture sacre, divergono molto, quanto alle indicazioni operative, concrete, con quelle che ebbero vigore in altre epoche della nostra confessione religiosa. La fede è rimasta sostanzialmente la medesima, ma il modo di vivere dei cristiani nella storia è molto cambiato. Per altro, a mio parere, il Concilio Vaticano 2° non ha inventato nulla di ciò che di nuovo si è prodotto. Nelle intenzioni del papa Giovanni 23°, il quale lo indisse, esso aveva come scopo principale un aggiornamento delle leggi della Chiesa a una realtà che già  i fedeli stavano vivendo e praticando. Il risultato fu però qualcosa di più: quelle leggi furono concepite in modo da imprimere un movimento in avanti nel corpo ecclesiale, rendendo possibili ulteriori sviluppi delle dinamiche in atto, che infatti si produssero. Il magistero e l’azione di governo del papa Giovanni Paolo 2° ne sono stati straordinarie manifestazioni. Ma ancora più rilevante, anche se forse meno evidenziata nelle grandi fonti informative del nostro tempo, è stata la spinta che si è creata nella masse dei fedeli. C’è stata, nella nostra Chiesa, un profondo mutamento della religiosità popolare, del quale di solito si sottolineano gli aspetti negativi, ma che ne ha avuti anche di positivi.

 Vorrei evitare, in queste mie brevi note quotidiane, di ripetere cose che potete leggere, scritte meglio, con più scienza, in altri testi, ai quali rimando. Ragiono partendo dalla mia personale esperienza, tenendo presenti le esigenze di lavoro del nostro gruppo di A.C. . Quello che penso di poter dire è questo. A partire dalla metà del secolo scorso il ruolo delle masse cattoliche, in particolare dei laici, è diventato  più importante nella nostra Chiesa. Si richiede alla nostra gente un impegno nella società che prima non era preteso e veniva addirittura visto con sospetto. Lo si vuole informato e consapevole. Ma non è solo questo: lo si vuole creativo. Infatti l’assunto che i capi ecclesiali avessero il segreto della migliore organizzazione delle società civili si è rivelato fallace. E quando il beato Toniolo (1845-1918) scriveva che la salvezza sarebbe venuta da una società di santi, non da diplomatici, dotti o eroi, non  si riferiva innanzi tutto alla gerarchia ecclesiale. Questi nuovi compiti che, come laici, siamo chiamati ad assumere comportano che si decida anche come lavorare insieme, con piena responsabilità. Non si tratta più infatti di attuare nel concreto decisioni di massima prese ai vertici.

 In qualche modo, quella che stiamo vivendo è un’era veramente nuova.

 Si è presa, ad esempio, maggiore consapevolezza della rilevanza religiosa delle realtà profane, di ciò che accade fuori degli spazi liturgici. In passato si era giunti a una sorta di compromessi tra le autorità religiose e quelle civili, che condividevano le popolazioni a loro soggette. Certe questioni, come ad esempio le guerre, rimanevano fuori del campo del religioso. Popolazioni cristiane potevano essere arruolate le une contro le altre, i sacerdoti e i vescovi di ciascuna di esse invocavano il favore divino e prestavano l’assistenza spirituale ai combattenti e alle loro famiglie, e non si pensava che qualcuno potesse lecitamente, anche da un punto di vista religioso, sollevare una obiezione di coscienza in tutto questo. Una volta che, invece, si decida di intervenire, animati da spirito religioso, bisogna decidere come farlo tenendo conto che su certe scelte ci si può dividere, ma che, come Chiesa, bisogna rispettare il comandamento dell’unità del credenti, ma direi di più, dell’intero genere umano.

 Anticipando quello che mi pare di avere capito, bisogna considerare che sulle questioni sulle quali la gente di fede ritiene ora di aver voce in capitolo anche sulla base di moventi religiosi si deve discutere anche  in chiesa. Sarebbe strano che non lo si facesse, che cioè ognuno su argomenti di tale rilevanza fosse lasciato solo nel capire  e nel decidere. Anche perché nessuno, da solo, può veramente pretendere di poter ideare o scegliere la soluzione migliore. L’intelligenza dei fatti collettivi richiede una sapienza collettiva. Ma poi l’attuazione delle scelte deve essere demandata alla responsabilità di ciascuno, non della Chiesa, che ha rinunciato a questo tipo di potere dal momento che è espressione embrionale di una realtà che non è di questo mondo, e ognuno poi agirà insieme ad altri che compongono i vari corpi sociali implicati nelle decisioni, in modo laico, inteso come non esplicitamente religioso, in modo da poter coalizzare il massimo consenso possibile. Pensare di attuare esigenze di fede con lo strumento di corpi sociali civili riproporrebbe infatti la modalità desueta e impraticabile dell’impero cristiano.  Mentre rivestire di abiti religiosi certe soluzioni storiche, certe forme organizzative, certi modi di trasformare la società e la natura intorno ad essa, contrasterebbe con la libertà di coscienza.

 L’Azione Cattolica, nel suo percorso formativo, ci consiglia esercizi di laicità, vale a dire di provare in concreto, nei nostri gruppi, a prendere in esame le nostre relazioni di fedeli cristiani con i corpi sociali nei quali siamo inseriti e di capire come si possa fare per esprimere nell’azione civile le nostre idee a fondamento religioso. Questa è una parte importante del lavoro in Azione Cattolica e che differenzia molto i nostri gruppi da quelli molto più centrati, ad esempio, su esperienze di spiritualità religiosa o di preghiera. In questo Anno della Fede possiamo però sentirci chiamati a qualcosa di più. Ne parla la lettera apostolica di indizione. Sappiamo abbastanza della storia della nostra Chiesa, dei problemi che ha dovuto affrontare, delle soluzioni che di volta in volta sono state attuate? Questa è una parte importante dell’attività alla quale siamo stati sollecitati. Non si tratta, quindi, solo di conoscere meglio il catechismo, fosse anche un’opera piuttosto estesa come il Catechismo della Chiesa cattolica, il quale pure è sicuramente un utile punto di riferimento. Bisogna aprire gli occhi sul mondo intorno a noi. Se non lo conosciamo bene, non possiamo influire su di esso. E a volte a chi ci circonda può sembrare che la nostra esperienza religiosa abbia la realtà di un sogno, tanto è distaccata dalle dinamiche umane concrete. Eppure in certe storie bibliche è proprio da certi sogni che scaturiscono importanti decisioni nell’animo della persona di fede. Come in ogni cosa, quando si tratta di religione, si tratta di tenere tutto insieme, prospettive religiose e prospettive profane, il cielo e la terra, pur nella consapevolezza della loro diversità. E’ quello che Giuseppe Lazzati (1909-1986) definiva unità dei distinti.

 

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28

La città dell’uomo

(7 novembre 2012)

 

“… il concilio ha fatto quello che, nella storia della chiesa, fino ad allora non era stato fatto: ha espresso chiaramente quale sia la vocazione del fedele laico, precisando non tanto il fine (la santità a cui tendere, di cui è pina, in dottrina e in fatto, la storia della chiesa), quanto la via attraverso la quale tendervi e giungervi.

 Il fine è espresso nelle parole “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio” [ Lumen gentium, n. 31]. La via da percorrere è indicata, con altrettanta chiarezza: “trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”[Lumen Gentium n.31]

[da: Giuseppe Lazzati, La città dell’uomo – Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo, Editrice A.V.E., 1984, pag.50]

 

“Col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.

[…]

 Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli i doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni di vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi all’interno e a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante  l’esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo, a manifestare Cristo agli altri,  principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e  ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano sempre fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e Redentore.”

[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), cap.4° n. 31, lett.a) e b)]

 

 Le parole della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2°, che ho sopra citato sono uno dei punti fondamentali dei vari ragionamenti e delle decisioni di quella grande assemblea di vescovi che si riunì tra il 1962 e il 1965. Una novità assoluta nella legislazione nostra Chiesa, come rilevò Giuseppe Lazzati (1909-1986) nel libro che ho menzionato (purtroppo non più in commercio). Non certo del tutto una novità nell’esperienza storica dei cristiani. Bisogna dire però che, a mio parere, solo con i moti europei e nordamericani  di fine Settecento la questione di un ruolo più attivo in religione della gente comune, di coloro che quindi non erano capi religiosi riconosciuti, si pose in  modo nuovo, rendendo possibili gli sviluppi che, nella Chiesa cattolica, hanno portato alla situazione dei tempi nostri, che manifesta ancora potenzialità non sfruttate. I problemi che in merito sono sorti e che ancora sorgono sono analoghi a quelli che si sono prodotti nell’evoluzione politica democratica delle società contemporanee. Questo manifesta con una certa evidenza che si tratta di movimenti della stessa natura, pur in ambiti diversi. Nel passaggio dalla posizione di sudditi, solo soggetti a un potere altrui, a quella di cittadini, partecipi delle decisioni più importanti che riguardano le collettività, c’è chi si sente disorientato, impreparato, deluso dai risultati ottenuti, sfiduciato nelle prospettive, e allora guarda con una certa nostalgia al passato, per altro piuttosto idealizzato, quindi abbastanza distante dalla realtà storica. Infatti nella via verso la cittadinanza compiuta si incontrano le masse, grandi collettività, composte di persone che si vuole con la medesima dignità, di gente che reclama di poter dire la propria e di essere ascoltata. Non sempre è un bello spettacolo. Decidere insieme, ascoltando le ragioni di tutti e poi però accettando di seguire il volere di una maggioranza, soprattutto subordinando il bene proprio personale a quello dell’intera collettività, è difficile, a volte sfiancante. E’ problematico in particolare avere una visione sufficientemente affidabile delle cose, perché questo significa perdere tempo  e fare uno sforzo per informarsi, cercando di raggiungere un punto di vista realistico, anche ascoltando chi ne sa di più. Chi ne sa di più deve da parte sua avere la pazienza di comunicare con gli altri, anche se ignoranti di certe cose, e di dialogare con loro, anche quando pongono obiezioni palesemente infondate. La tentazione che c’è sempre è quella di tagliare corto e, da  un lato, di seguire la gente che pare più decisa nell’imporre la propria volontà e, dall’altro, di forzare la  mano imponendosi sugli altri sovrastandoli e tacitandoli in qualche  modo.

 Come c’entra tutto questo nell’esperienza di un piccolo gruppo parrocchiale di laici come il nostro? C’entra perché il lavoro per elevarsi, collettivamente, a quella nuova dignità laicale che è espressa nelle parole della Lumen gentium è ciò che maggiormente caratterizza l’Azione Cattolica dei tempi nostri. Come si spiega questo? Si tratta di cosa che deriva da una realtà sociale di impegno di fede che ha preceduto   i deliberati conciliari e di cui l’Azione Cattolica e le organizzazioni che storicamente la precedettero furono protagoniste. Le decisioni del concilio vennero infatti viste come un aggiornamento. Ma aggiornamento di che e verso che cosa? Ad essere aggiornata è stata la legislazione della nostra Chiesa; essa fu aggiornata per riconoscere la bontà di un’esperienza laicale che già esisteva, dall’Ottocento. Questo significa ammettere che i padri conciliari non furono veramente degli innovatori, ma, appunto degli aggiornatori, e che l’innovazione si era già prodotta  e attendeva solo di essere riconosciuta.

 Tornerò sulle questioni della nuova concezione dell’impegno laicale formulata nel corso del concilio, ma, per rendere meglio l’idea del cambiamento e della sua origine, voglio riferirmi alla questione, molto grave, dell’antigiudaismo cristiano, una realtà molto antica e pervasiva.

 Chi oggi, tra i fedeli cattolici, sottoscriverebbe queste parole:

“Niente è più miserabile … di questo popolo che non ha mancato occasione per rinunciare alla propria salvezza, sono bestie selvagge … come gli animali, anzi più feroci di loro … il profeta espresse la insania della loro libidine con una parola che si riferisce agli animali”

scritte a proposito degli ebrei?

 Sono citate nel libro di Gianna Gardenal, L’Antigiudaismo nella letteratura cristiana antica e medievale, Morcelliana, 2001, a pagine 56 e 57, e attribuite a S. Giovanni Crisostomo (344-407), il quale le scrisse in due delle sue otto omelie contro i giudei.

 L’antigiudaismo cristiano, ancora piuttosto marcato nel corso del Novecento, fu ripudiato dalle genti cristiane dopo la tragica esperienza della persecuzione e dello  sterminio degli ebrei perpetrati dai regimi nazisti e fascisti europei, prima di esserlo dalla legislazione della nostra Chiesa. Anche in questo caso i deliberati del concilio furono un aggiornamento, un tenersi al passo con i  tempi in ciò che essi avevano prodotto di buono.

 Per quanto riguarda il nuovo impegno laicale dei cattolici nella società, in particolare dalle società rette da regimi democratici, in cui la gente aveva più voce e possibilità di influire sulle scelte supreme, esso iniziò a manifestarsi nel corso dell’Ottocento, molto vivacemente, e non venne sempre assecondato dai capi religiosi. Si tratta di una storia che presentò anche aspetti dolorosi, in particolare in Italia, dove la frattura con l’organizzazione civile del nuovo stato unitario, retto su basi democratiche, fu estremamente netta, a causa della cosiddetta questione romana, che riguardava le rivendicazioni territoriali dei papi sul territorio del Regno d’Italia, in particolare sulla città di Roma. In generale i papi furono, almeno fino al 1944, piuttosto sospettosi sull’impegno sociale autonomo dei laici cattolici e, di solito, ammisero un’attività sociale del laicato solo come attuazione puntuale di deliberati pontifici, principalmente in funzione difensiva del papato e delle organizzazioni del clero e dei religiosi.

  Il fatto che i capi della nostra Chiesa siano venuti a sancire dopo certi cambiamenti che si erano già prodotti nel loro popolo non deve però stupire. Essi infatti hanno formazione prevalentemente teologica e ogni teologia, anche quando appare innovativa rispetto  ad una precedente, non innova veramente, perché ragiona sempre sulla fede della Chiesa, quindi su qualcosa che già c’è. La fede è sicuramente creativa, di questo abbiamo sicura esperienza, non così la teologia. Innovare non è il suo mestiere. Essa però può dare veste teologica a un’innovazione, chiarendo, ad esempio, che certi principi, come la comune dignità degli esseri umani, sono presenti nella fede delle origini, quindi nel cosiddetto deposito di fede, pur se come potenzialità storicamente poco o per nulla sfruttate e, innanzi tutto, capite.

 Per oggi mi fermo qui. Vorrei invitarvi a tenere a mente e a riflettere su queste parole della Lumen Gentium: “Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.”. Vi tornerò sopra, riassumendo quello che in merito mi è stato insegnato in tanti anni di formazione alla fede. Vi prego di ragionarci su anche voi e, in particolare, di correggere o integrare quello che su quell’argomento scriverò. In particolare terrò conto dell’insegnamento di Giuseppe Lazzati, dichiarato Servo di Dio, il primo grado nel processo di  proclamazione di uno dei santi ufficiali della Chiesa, e del beato Giuseppe Toniolo, la cui esperienza ho potuto conoscere fin da ragazzo attraverso ciò che ne scrisse in un libro un mio zio professore. Invoco religiosamente la loro intercessione in questa mia opera di divulgatore parrocchiale che faccio da ignorante colto, da persona quindi che si è un po’ familiarizzata con certi concetti, ma senza essere veramente esperta sulla maggior parte di essi, in particolare nella materia teologica. La mia formazione specialistica è giuridica.

  

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Una lunga storia

(8 novembre 2012)

 

 Nei miei precedenti interventi su cose della nostra fede comune c’erano molti richiami a fatti storici. Si tratta di un modo di procedere che non è molto diffuso, in particolare nella fase dell’iniziazione religiosa. E’ una cosa che si può constatare, ad esempio, nel Catechismo della Chiesa cattolica, un’opera destinata al grande pubblico su scala mondiale, e che pure ha avuto una evoluzione storica dalla prima edizione, nel 1993, alla seconda, nel 1997, in particolare sul tema della pena di morte. In quel testo non emerge con chiarezza, anche se se ne parla, che la Chiesa, nella sua componente “terrestre”, “nel secolo” come si suole dire, ha avuto una storia, quindi diverse manifestazioni le quali hanno riguardato anche concezioni molto importanti. Del resto si tratta di uno scritto su base teologica e la teologia, in particolare quella cattolica, tende a lavorare per stabilire una  continuità con le origini, in primo luogo perché quella continuità accredita la verità della religione, per il legame molto stretto che nel cristianesimo si vuole mantenere con il primo maestro, e poi perché essa è in linea con l’idea che la Chiesa abbia anche una componente soprannaturale in virtù della quale è sempre la stessa in ognuna delle sue varie espressioni compresenti sulla Terra e succedutesi nella storia. Questo qualche volta porta a mettere in secondo piano l’evoluzione storica che c’è stata anche nelle nostre collettività religiose e, comunque, a presentarla fondamentalmente solo come una serie di progressi verso una maggiore e migliore comprensione del messaggio di fede nei quali il passato è comunque tutto contenuto nei tempi successivi, ponendo così in risalto il dispiegarsi di un disegno soprannaturale coerente che regge le cose umane. Questa visione è utile per dare il senso complessivo dell’interpretazione della storia umana come noi la proponiamo in religione. Può creare qualche problema se però, nel compito che è proprio dei fedeli laici, vale a dire quello di trattare le cose temporali e di ordinarle secondo Dio, secondo l’espressione utilizzata nella costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), quindi, in termini correnti, di realizzare un’organizzazione delle società umane più in linea con i nostri ideali religiosi, noi trascuriamo certi dettagli della storia e certi meccanismi delle cose umane e, in particolare, che il nostro presente per certi versi ha significato il ripudio di una parte del passato ed è fatto anche di questo. Bisogna infatti rendersi conto che noi non costruiamo sul nulla, ma ci inseriamo in dinamiche preesistenti e utilizziamo il materiale e le persone che ci sono. Giuseppe Lazzati definì questo lavoro costruire la città dell’uomo.

 Egli scrisse nel libro La città dell’uomo – Costruire da cristiani la città dell’uomo a misura d’uomo, Editrice A.V.E, 1984, pag.19:

Tenendo presente l’immagine del “costruire” che guida la nostra riflessione, è immediato il riferimento all’architetto o all’ingegnere; al progettista, insomma, che, per prima cosa, vuol rendersi conto del terreno sul quale costruire l’edificio che gli è commissionato […] E’ questa  l’immagine di quell’indispensabile coscienza di un passato  di cui non [si] può fare a meno […]  

 Il ricordato architetto elaborerà poi il progetto dell’edificio commissionato tenendo conto dei materiali che ha a disposizione e pensando le strutture rispondenti alle esigenza che, in quel momento e per un certo periodo di tempo, possono soddisfare meglio coloro che nell’edificio porranno la loro abitazione, i loro uffici, la loro industria.

  Bisogna ragionare molto su questo sapiente costruire nel mondo che ci compete come laici e che è quell’attività che nella Lumen Gentium viene definita, con linguaggio teologico, ordinare le cose temporali secondo Dio. Qualche volta noi tendiamo a concepirci più che costruttori come dei restauratori di un edificio che c’era già e che nel tempo ha subito danni. Interroghiamoci: questa idea è affidabile, realistica?

  Io vi propongo questa riflessione: ci sono nel mondo in cui oggi viviamo tante cose che non c’erano nel passato. Questo non ha influenza sul nostro lavoro di costruttori di mondi? Tutto ciò che di nuovo si è prodotto è male?

 Queste differenze con il passato non riguardano solo gli oggetti, i materiali e gli strumenti, ma anche le persone, le idee e le organizzazioni sociali. Ad esempio, considerate come è mutato, dai tempi delle prime comunità cristiane, il ruolo delle donne nelle società occidentali. Quella che nella Palestina di due millenni fa era in un certo qual senso la regola, vale a dire la discriminazione sociale nei loro confronti, oggi è considerata come un illecito, perché vietata dalla nostra Costituzione e da altre leggi nazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (entrata in vigore il 1-12-09) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1955).

 Poiché la nostra azione nel mondo in cui viviamo ha anche un significato religioso e la nostra fede religiosa ha una sua importanza nel lavoro che svolgiamo nella società civile, in particolare come cittadini di una democrazia, anche la storia rientra nel campo dei nostri interessi specificamente religiosi. Questo significa che, pur attendendo la manifestazione piena di ciò che nella fede religiosa crediamo, il nostro atteggiamento nella storia non può essere solo quello dell’attesa. Parafrasando un simpatica espressione in romanesco che una volta pronunciò in una udienza pubblica il papa Giovanni Paolo 2°, dobbiamo darci da fare. Questo darsi da fare richiede appunto di prendere coscienza di ciò che si muove intorno a noi e delle dinamiche storiche delle società in cui viviamo, perché non sia sconsiderato, improvvisato, superficiale e quindi vano o addirittura controproducente. Il Concilio Vaticano 2° ha usato per rendere questa idea un’espressione che molti sicuramente conoscono: scrutare i segni dei tempi:

È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.

Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.

Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.

[…]

Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.

[dalla costituzione pastorale Gaudium et spes]

 Ieri ho richiamato la vostra attenzione sull’espressione trattare le cose temporali per ordinarle secondo Dio (nella costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°), che, secondo l’interpretazione di Giuseppe Lazzati, significa costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo; oggi faccio la stessa cosa con scrutare i segni dei tempi (nella costituzione Gaudium et spes), che significa vivere, da cristiani, ad occhi aperti nel mondo, consapevoli della sua storia e di ciò che in esso si agita. Penso che, addirittura, trattandosi di cose che riguardano la nostra religione, potremmo provare a costruirci sopra una preghiera da mandare a memoria. E dovremmo riflettere su come fare, nel nostro lavoro associativo, nelle occasioni che abbiamo di riunirci, per dare uno spazio a questi aspetti.

 Ad esempio, nella riunione del martedì abbiamo uno spazio di meditazione biblica, utilizzando le letture della Messa della domenica seguente, un altro spazio di riflessione e discussione su temi ecclesiali: potremmo forse dedicare almeno qualche minuto a quell’esercizio di laicità che consiste nel prendere coscienza del corso della storia che stiamo vivendo a partire dalla nostra concreta esperienza, dalle nostre vite. In questo costituisce senz’altro una ricchezza avere un gruppo nutrito di anziani tra noi, che possono riferirci del passato non sulla base di quello che hanno letto, ma di quello che hanno vissuto. E’ una cosa che abbiamo iniziato a fare prima dell’estate. Ricordate quando Maria Cretella ci ha narrato della sua esperienza di giovane di Azione Cattolica in tempo di guerra, con gli aerei che, nei tempi di plenilunio, venivano a bombardare, partendo dalla base britannica di Malta, la ferrovia che passava vicino al suo paese? Non abbiamo allora apprezzato meglio, a partire da quella storia così coinvolgente, il lungo periodo di pace che, dalla fine di quella guerra, abbiamo vissuto in Europa?

 Poiché si tratta di un’opera religiosa, anche se  si tratta di recuperare ricordi di una storia molto concreta che si è vissuta nel mondo profano, vale a dire di quello che c’è fuori delle nostre chiese, la possiamo affrontare senza certi assilli che guastano le cose quando le si affronta, ad esempio, negli studi, con l’ansia degli esami, o in politica, con la premura di sovrastare gli avversari. Si procederà anche in questo con il ritmo lento e attento di una preghiera, cercando di far reagire i fatti di cui facciamo memoria con la nostra fede. Certe volte, quando si prega intensamente, pare che il tempo si dilati e che quindi basti a dire tutto ciò che si agita in noi. Allo stesso modo, con il ritmo della preghiera, dobbiamo ricapitolare la nostra storia e il mondo in cui viviamo, curando molto i dettagli, senza fretta, nello sforzo di non dimenticare nulla e nessuno, nell’anelito religioso di venire incontro a tutti. Possiamo agire così nel presupposto di fede che il beato compimento della storia, in cui confidiamo, non sarà opera nostra, ma verrà dall’alto. A noi compete solo assecondare questo movimento, non perché esso dipenda da noi, ma semplicemente per continuare a farne parte, per assentirvi (questo effettivamente dipende da noi), in quello che potremmo riassumere con la parola amen.

 

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Sentirsi responsabili di tutto

(10 novembre 2012)

 

“Il questa solitudine, che ciascuno ‘regala’ a se stesso, si perde i senso del ‘con-essere’ … e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole …. sino alla riduzione al singolo individuo.

[…]

C’è da chiedersi, a questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero occidentale, come sostiene Lévinas [Emmanuel Lévinas, 1905-1995, filosofo francese]. A suo parere, possono essere evitate non con il semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà; ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto:  ‘Faremo e udremo (Es 24,7)’.

 Cioè essi scelsero un’adesione al bene, precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea ‘pratica’ anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via della vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del ‘senso’, l’evento fondante l’instaurarsi di una ‘responsabilità irrecusabile’”.

[Dal discorso Una sentinella nella notte,  pronunciato da Giuseppe Dossetti nel 1994 nell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati. Ora in Armando Oberti (a cura), Lazzati, un cristiano nella città dell’uomo, Editrice A.V.E., 1996, pag.27]

 Una delle caratteristiche dell’esperienza religiosa cristiana è che essa non nasce da una contrattazione con un dio, per assicurarsene i favori nelle cose della vita. Non ha quindi molta importanza sapere che cosa si guadagnerà in concreto avendo fede e che cosa di preciso si dovrà fare per avere un certo risultato. E, in definitiva, rimangono in secondo piano anche le stesse questioni dell’esistenza di una controparte soprannaturale, quindi l’argomento “un dio c’è”, e dei prodigi che il soprannaturale produce nella storia. Questo è paradossale agli occhi dei non credenti, i quali invece attribuiscono molta rilevanza a tutte quelle cose e, pensando di scuotere le convinzioni religiose, fanno notare che il soprannaturale è invisibile, che non si manifesta nel mondo dal momento che le cose vanno sempre come devono naturalisticamente andare e che tutte le nostre storie religiose hanno la consistenza di fiabe, per altro neppure costruite in modo tanto coerente. Non sono questioni che lasciano indifferente la persona di fede, certamente la fanno soffrire; è scritto ad esempio nei salmi, che sono parte della Bibbia: i nostri nemici ridono di noi (Sal 80,7), le lacrime sono il mio pane giorno e notte / mentre mi dicono sempre: “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 42,4). Ma, in definitiva, l’animo religioso sente di non poter rinunciare a una certa visione della vita, per una questione che riguarda la giustizia e che apre il cuore: corro sulla via dei tuoi comandi / perché hai allargato il mio cuore (Sal 119, 32). Non accetta la violenza che vede intorno a sé e non sopporta di fuggirne la responsabilità rispondendo a quella voce interiore che ode in sé con un “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Gen 4,9). Come argomentato da Dossetti, sulla linea di Lévinas, la nostra adesione religiosa al bene precede qualsiasi contrattazione, qualsiasi ragionamento di convenienza, è assoluta, non dipende in alcun modo dal corso naturale delle cose (infatti diciamo che ha origine soprannaturale) e per questo non è smentita dalle sconfitte, nasce da un sentimento molto forte di giustizia che origina nello stare con gli altri e che è piuttosto duro reprimere. Quest’ultimo ha a che fare con la felicità umana. Lo avvertiamo in noi, ma capiamo che non ha fondamento in noi: infatti siamo cresciuti imparando a conoscerlo, è oggetto di un insegnamento, che il più delle volte abbiamo ricevuto fin da molto piccoli. E’ un comando interiore, ma non è costrizione: esso infatti dà gioia e ha storicamente avuto intense espressioni sociali, tanto da improntare di sé l’Europa fin dal tempi molto antichi. E’ a questo che ci si riferisce quando si parla di radici cristiane dell’Europa.

 Ci sono altre forme di religiosità? Certamente sì. Quindi pensare al fenomeno religioso come un qualcosa di unitario, perché “si crede in un dio” è errato. Ciascuna religione ha un suo specifico, in particolare quelle che hanno avuto una lunga storia. Ma non è solo questo. Anche all’interno delle singole confessioni, di ciascuna collettività religiosa esistono molte varianti ammesse. Accade anche nella Chiesa cattolica, la cui principale caratteristica, nonostante un’opinione corrente, non è l’uniformità.

 Nell’Italia di oggi, oltre alla storica presenza di Chiese cristiane riformate si è aggiunta, per l’immigrazione, quella di confessioni dell’ortodossia dell’Europa orientale. Con gli altri cristiani i cattolici condividono, in misura maggiore o minore, quasi tutto di ciò che nella nostra concezione religiosa è essenziale.

 C’è poi l’ebraismo italiano, una presenza che è coeva con la diffusione del cristianesimo nella penisola. Dopo oltre millecinquecento anni di discriminazioni e vere e proprie persecuzioni subite dagli ebrei da parte dei cristiani, il cui inizio si fa risalire al quarto secolo della nostra era in concomitanza  con l’affermarsi  del cristianesimo nelle istituzioni dell’impero romano,  a partire dal Concilio Vaticano 2° si sono dischiusi ai cattolici i tesori del pensiero ebraico, che sempre più spesso vengono menzionati dai nostri teologi e che sono stati divulgati in ambienti più vasti da autori come il Levinas, sopra citato da Dossetti.

 Sempre per via dell’immigrazione, dall’Asia e dall’Africa, stanno affermandosi anche da noi fedi islamiche, le quali sono piuttosto distanti dal cristianesimo, pur condividendone alcune storie religiose.

Ma il panorama della religiosità in Italia non si esaurisce qui: conviviamo, ad esempio, con genti che praticano l’induismo, il buddismo e il sikhismo.

 Infine, nella nostra Italia sono abbastanza diffuse credenze di tipo magico, in cui si pensa di poter ottenere vantaggi soprannaturali nelle cose della vita mediante certe pratiche, in particolare certi riti. Fedi di questo tipo hanno preceduto e accompagnato il cristianesimo e quest’ultimo in genere le ha contrastate, anche piuttosto duramente.

 Ai tempi nostri appare anche possibile in concreto un’esistenza umana priva di esplicite convinzioni religiose, dell’adesione a una confessione istituzionalmente costituita. Su Il Venerdì di Repubblica  di questa settimana, Andrea Tarquini, nell’articolo I senza Dio, riferisce del fatto che, come scritto dal giornalista polacco Mariusz Szczygiel nel libro Fatti il tuo paradiso (Nottetempo editore),  solo il 14 % degli abitanti della Repubblica Ceca si definisce credente nei sondaggi, questo nonostante che in quella nazione la vita sociale sia  improntata a forti valori etici. Ma, in definitiva, quel dato non sorprende perché è tutto sommato in linea con i dati sulla pratica religiosa nell’Europa del nord, che per altro registra anche valori ancora più bassi. L’Italia di oggi, con il suo circa 30% di praticanti, di persone che vanno a Messa la domenica, costituisce in questo una eccezione (ma la percentuale di coloro che si definiscono genericamente credenti e che mantengono un riferimento al cristianesimo come religione è molto più alta, superando la maggioranza assoluta della popolazione).

 Dopo il Concilio Vaticano 2° e a seguito dei principi in esso affermati, possiamo vivere da cattolici con più serenità l’attuale pluralismo in materia religiosa e instaurare e mantenere rapporti amichevoli con fedeli di altre religioni e con persone non religiose. Non è stato sempre cosi, siamone consapevoli.

  In particolare, l’iniziativa dell’Anno della Fede, che stiamo vivendo nella nostra Chiesa, non è stata pensata per contrastare quel pluralismo o per conseguire una maggiore uniformità nella nostra confessione religiosa. Non c’è questo nella lettera apostolica di indizione Porta Fidei dell’11 ottobre 2011.

 In questo Anno della Fede siamo stati invece invitati a riflettere, acquisendone maggiore e più precisa consapevolezza, su ciò che specificamente caratterizza la nostra esperienza religiosa. Abbiamo infatti la convinzione che il cristianesimo abbia ancora qualcosa da dire e da fare nel mondo di oggi, che quindi sia possibile  e necessaria una nuova evangelizzazione, a partire innanzi tutto da una rinnovato impegno pubblico nel quale la professione religiosa sia concepita e vissuta come un atto personale ed insieme comunitario.

 Poiché è venuto ad avere meno credito nella società, per il pluralismo di cui dicevo, l’affidamento sacrale nelle autorità religiose cattoliche, che pure mantengono un ruolo importante come punto di riferimento etico, e nella dottrina da esse insegnata, sta divenendo più importante l’azione svolta dai fedeli laici nella società per promuovere valori in linea con la nostra fede religiosa. Essa è stata finora piuttosto efficace, consentendo una certa pervasività delle idee religiose nella società, nonostante la diminuzione delle vocazioni sacerdotali e di quelle religiose. E lo è stato perché non si è limitata alla mera propaganda religiosa e al proselitismo, ma ha agito in concreto per quell’azione di costruzione della città dell’uomo, di cui parlava Giuseppe Lazzati nei brani che ho citato nei giorni scorsi. Ognuno ha sicuramente in mente esempi di quello che dico.  Questo si è fatto in tempi che, per vari motivi, non sono stati molto favorevoli allo sviluppo dell’azione propriamente laicale, tanto che il laicato italiano è stato definito il brutto anatroccolo (in Fulvio De Giorgi, Il brutto anatroccolo, Paoline Editoriale Libri, Saggistica paoline, 2008, euro 16).

  L’Azione Cattolica è da sempre particolarmente impegnata nel miglioramento della presenza dei laici cattolici nella società del loro tempo, non tanto con il metodo della contrapposizione, del fare blocco sociale  o del costituire piccole isole di salvati, ma con quello del farsi evangelicamente lievito o sale per metaforicamente fare crescere e rendere sapidi in umanità.  Una delle ragioni che possono spingere a un impegno in un gruppo di Azione Cattolica è quella di voler vivere in questo modo l’impegno di responsabilità religiosa di cui ci si sente partecipi.

 

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 31

Costruire la città dell’uomo come dovere religioso

(12 novembre 2012)

 

[…]

APPELLO FINALE

Cattolici

81. Noi scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell'ordine temporale. Se l'ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi risolutamente a infondere loro il soffio dello spirito evangelico. Ai Nostri figli cattolici appartenenti ai paesi più favoriti Noi domandiamo l'apporto della loro competenza e della loro attiva partecipazione alle organizzazioni ufficiali o private, civili o religiose, che si dedicano a vincere le difficoltà delle nazioni in via di sviluppo. Essi avranno senza alcun dubbio a cuore di essere in prima linea tra coloro che lavorano a tradurre nei fatti una morale internazionale di giustizia e di equità.

[dall’enciclica Populorum progressio (termini latini. Traduzione: Lo sviluppo dei popoli), del papa Paolo 6°, del 1967]

 

 “Considero l’enciclica Populorum progressio, del papa Paolo 6°, pubblicata il 26 marzo 1967, di gran lunga il documento del magistero ecclesiale in materia di dottrina sociale più coinvolgente ed emozionante. Ad essa si è esplicitamente collegato il papa Benedetto 16° nell’enciclica Caritas in veritate” [traduzione: l’amore nella verità], del 2009, un altro testo importantissimo.

 Potete leggere la Populorum progressio sul WEB  a questo indirizzo:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_26031967_populorum_it.html

  Quando fu pubblicata ne sentii parlare in famiglia, ma ero troppo piccolo (avevo dieci anni) per capirne l’eccezionale rilevanza. Da adolescente, negli anni ’70, ne vissi gli ideali e gli sviluppi, ma non mi curai di conoscerla in dettaglio. Solo da universitario, in FUCI, ne fui come folgorato.  Da allora l’Appello finale che ho sopra trascritto sta fisso nel mio cuore. Rimpiansi di non aver cercato di capire meglio l’anziano papa dei miei anni più giovani, che era da poco morto. Era stato molto criticato, anche tra i suoi. Anch’io avevo avvicinato la sua figura con un po’ di sufficienza, come spesso usano fare i ragazzi con i molto anziani, con le persone che appartengono a un altro tempo. Può sembrare strano oggi, dopo che con il papa Giovanni Paolo 2° ci siamo abituati a folle di giovani che acclamano il papa. Negli anni ’70 era molto diverso. Fu un’epoca che parve molto promettente, ma che fu anche tragica, attraversata da conflitti durissimi e da sconsiderate esagerazioni polemiche. Il papa Montini, fine intellettuale e profondo conoscitore delle cose del mondo, soffriva. Vedeva la Chiesa che sembrava sbandarsi, nei contrasti accesi tra rivoluzionari e conservatori. Intuiva meglio di altri le gravissime conseguenze che potevano derivare dall’affermarsi di ideologie che svalutavano la famiglia come fonte di relazioni amorevoli. Nello stesso tempo resisteva a chi proponeva di cancellare o di neutralizzare l’aggiornamento  ordinato dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Il dolore interiore che traspariva dalla sua figura fu scambiato per incertezza dai conservatori. I rivoluzionari videro in lui un ostacolo al progresso. Eppure egli fu il papa della Populorum progressio. Si pensava che fosse un uomo del passato, di un altro tempo: egli fu effettivamente uomo di un altro tempo, ma del tempo futuro, di questo nostro tempo che stiamo vivendo. Il gigantesco riequilibrio a livello globale tra popoli un tempo poveri e i popoli più ricchi, che caratterizza la nostra epoca, è infatti la manifestazione ancora travagliata e minacciata di un nuovo ordine mondiale che potrebbe realizzare su scala globale l’era di pace sperimentata da noi europei dalla fine della Seconda guerra mondiale. Come per ogni cosa umana questo movimento è suscettibile di regressi e di mutamenti di direzione.  La Populorum progressio ci insegna che è nostro dovere religioso intervenire nella sua storia per evitare che le cose si mettano male.

 Costruiamo sulle parole di Paolo 2° una preghiera, una specie di salmo:

 

Noi laici rispondiamo all’appello:

assumeremo  come nostro compito specifico il rinnovamento dell'ordine temporale;

di nostra libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, al fine di penetrare di spirito cristiano la mentalità delle nostre comunità di vita.

 

Promuoveremo cambiamenti e le  indispensabili delle riforme profonde;

ci impegneremo risolutamente ad infondere in essi il soffio dello spirito evangelico.

Porremo la nostra competenza nella nostra attiva partecipazione, in prima linea, alle organizzazioni ufficiali o private, civili o religiose che si dedicano a  tradurre nei fatti una morale internazionale di giustizia e di equità.

 

 Oggi in genere c’è scarsa consapevolezza della storia ecclesiale che precede quella del papa regnante. E’ come se la morte di un papa chiudesse un’era.

 Quando morì il papa Paolo 6°, il mio zio professore di Bologna, Achille Ardigò, mi portò su Ponte Sisto, qui a Roma, che allora era sovrastato da strutture metalliche, delle passerelle pedonali costruite nell’Ottocento, e, guardando il “Cupolone” mi disse  proprio così “E’ la fine di un’era; ogni morte di papa chiude un’era nella storia della Chiesa”. Con una chiave incise sul parapetto metallico della passerella la frase “E’ la fine di un’era”, perché, ogni volta che sarei passato di lì, mi ricordassi di questo concetto. Ma, circa vent’anni dopo, le passerelle metalliche vennero levate e con esse anche quella frase, che tuttavia mi porto dentro molto chiaramente.

 La Populorum progressio  non è una legge della Chiesa, ma un documento del magistero ecclesiale e contiene insegnamenti particolarmente autorevoli provenendo da un papa. Quel magistero non è stato mai revocato; è quindi ancora attuale e vive nella Chiesa di oggi in vari modi. Quell’enciclica liberò forze potenti nella nostra Chiesa a livello mondiale. In un certo senso costituì una sorta di ordine di esecuzione dei deliberati conciliari. Essa conteneva un appello ai popoli della Terra che non aveva precedenti, in quanto diretto a suscitare a partire da essi stessi un movimento mondiale per la realizzazione nelle società civili di una pace fondata sulla giustizia. In particolare esso coinvolgeva i laici cattolici, con una grandissima apertura di credito nei loro confronti, chiamati ad agire nella storia senza attendere  consegne o direttive dal clero.

 In Italia una delle conseguenze più importanti di quell’appello fu il fondamentale convegno ecclesiale nazionale tenuto a Roma nel 1976 sul tema Evangelizzazione e promozione umana, preceduto da una lunga fase di preparazione in cui tutto il laicato italiano fu coinvolto. Dalla fine degli anni ’60 i concetti di promozione umana e di liberazione cominciarono ad essere affiancati a quello di evangelizzazione, nello spirito della Populorum progressio. Questo segnò una discontinuità nella storia dell’impegno nella storia dei fedeli laici italiani. In precedenza infatti essi erano stati prevalentemente chiamati a un attivismo pubblico in difesa dell’organizzazione del clero, in particolare in difesa delle prerogative dei papi, dei vescovi, dei sacerdoti, degli istituti religiosi e per la tutela del patrimonio della Chiesa, ancora imponente pur dopo le spoliazioni conseguenti all’unità nazionale dell’Italia, in cui il papato era stato tra le monarchie italiane sconfitte.

 Riassumendo molto, si può dire che, a partire dalla Populorum progressio, l’azione per la realizzazione della giustizia sociale venne considerata una forma di evangelizzazione e, anzi, la più efficace tra esse. Si noti, per avere un’idea della cosa, che l’introduzione di quell’enciclica aveva come titolo: “La questione sociale è oggi mondiale”.

 Cercando di dare una valutazione complessiva agli sviluppi della storia ecclesiale negli anni ’70 si deve riconoscere che questa nuova prospettiva non entusiasmò la gran parte dei fedeli cattolici italiani, anche indubbiamente produsse movimenti di tipo nuovo centrati sull’idea di azione sociale per la promozione umana, in particolare per l’elevazione degli ultimi,  e della conversione religiosa come esperienza di liberazione. Non si riuscì veramente a cogliere il nesso tra religione e azione sociale diretta a rimuovere e sostituire strutture sociali ingiuste. Non si trattò (solo) di resistenze nella gerarchia ecclesiale locale, ma di una incomprensione molto più radicata e diffusa. Si possono individuare diverse cause di questo.

  La prima, a mio avviso, per quello che ricordo, fu l’impreparazione del laicato italiano, del quale negli anni ’70 iniziai anch’io ad essere parte attiva. Ricordo che da ragazzo, pur militando negli scout cattolici, in cui quelle nuove idee circolavano molto, conoscevo poco della Bibbia, della storia della Chiesa e dei concetti teologici fondamentali. Per me Chiesa significava liturgie e Sacramenti, i sacerdoti della parrocchia e il papa.

 Una seconda causa è che i cattolici italiani erano stati storicamente abituati, a volte sotto minaccia di esclusione ecclesiale, a dipendere molto dalle direttive dei papi.

 Infine c’era il fatto che la democrazia italiana, che costituiva anche, indirettamente, un presidio per l’organizzazione del clero, era fondata sull’unità politica dei cattolici nella Democrazia Cristiana. Per realizzarla si era dovuto centrare l’impegno politico sull’interclassismo, del resto sulla base degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa risalente all’Ottocento; tuttavia sulla via della realizzazione della giustizia sociale emergevano conflitti sociali che contrastavano con quell’obiettivo. Essi inoltre erano stati storicamente il terreno dell’impegno politico delle forze socialiste, le quali, benché nell’Ottocento avessero sviluppato punti di contatto con l’azione sociale dei cattolici, già in quel secolo ma soprattutto a partire dalla rivoluzione sovietica in Russia erano state considerate dalla gerarchia cattolica come avversarie della Chiesa. Nell’Italia degli anni Sessanta, essere cattolici significava nella maggior parte dei casi votare democristiano per dovere religioso. La conseguenza era che, se ad un certo punto, per motivi anche religiosi, si era insoddisfatti della politica democristiana, si era tentati dall’abbandonare la Chiesa. Bisogna dire che a questa conseguenza si era tentato di rimediare, intuendo con lucidità i possibili sviluppi storici del Concilio Vaticano 2°, durante la presidenza nazionale dell’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet (1964-1973). In quegli anni, in cui l’Azione Cattolica era ancora molto forte e diffusa sul territorio, radunando la gran parte del laicato italiano, si cercò di sciogliere il legame di collateralismo  tra l’organizzazione religiosa del laicato italiano e l’organizzazione politica della Democrazia Cristiana, centrando l’impegno religioso sulla formazione delle coscienze e rendendo in tal modo legittimi impegni politici su diversi fronti senza che ne fosse pregiudicata l’appartenenza ecclesiale. I tempi erano tuttavia prematuri. Solo dopo la fine dell’Unione Sovietica, a partire quindi dal 1991, si produsse una situazione simile. In quegli anni si era però già realizzata nella nostra Chiesa la svolta impressa dal papa Giovanni Paolo 2°. Diciamo che con lui l’impegno laicale tornò ad essere molto centrato sulla figura del papa. Il papa Giovanni Paolo 2° ripropose sostanzialmente il modello di impegno storico laicale che era stato sperimentato nella sua Polonia, nel duro confronto con il regime comunista che all’epoca dominava quella nazione. In esso era vista con un certo sospetto l’autonoma azione laicale finalizzata alla realizzazione della giustizia sociale, in particolare in Occidente, in Europa e nell’America latina. In quanto essa tendeva ad entrare in polemica con i regimi democratici dai quali l’Est Europeo attendeva un aiuto per la propria liberazione dal giogo sovietico, veniva vista come oggettivamente controproducente, quando non realmente influenzata dagli storici avversari della Chiesa.

 Noi oggi viviamo in un’era diversa. Conosciamo bene i profondi legami di stima, amicizia e collaborazione tra il papa Giovanni Paolo 2° e l’attuale papa Benedetto 16°. E tuttavia mi pare che, nonostante superficiali considerazioni correnti, l’attuale papato abbia una sua particolare caratterizzazione, che, in particolare, ha portato a riaprire via che sembravano abbandonate. Ad esempio, nell’enciclica Caritas in veritate  (2009) si legge:

esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come « la Rerum novarum dell'epoca contemporanea », che illumina il cammino dell'umanità in via di unificazione.

 Potete leggere l’enciclica Caritas in veritate sul WEB all’indirizzo:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20090629_caritas-in-veritate_it.html

 E’ ridiventato quindi di stretta attualità l’appello che il papa Paolo 6° rivolse al mondo, e innanzi tutto ai laici cattolici. Esso riguarda anche noi, del piccolo gruppo di Azione Cattolica in San Clemente papa. Anche noi infatti abbiamo la possibilità di fare qualcosa, nei settori di vita sociale in cui siamo inseriti, ad esempio nella famiglia e nel lavoro, e quindi dobbiamo acquisire consapevolezza della relativa responsabilità religiosa. La Caritas in veritate  ci mette però in guardia: il nostro impegno per la giustizia sociale non deve essere velleitario, deve collegarsi sapientemente con i principi di fede. Innanzi tutto, quindi, bisogna conoscerli meglio. Ecco quindi il senso dell’iniziativa in corso dell’Anno della Fede.

 

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32

Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato

(14 novembre 2012)

 

 Marco Ivaldo, in un breve saggio dal titolo Lazzati, il Movimento laureati e il MEIC inserito nell’omonimo fascicolo n.15 di Dossier Lazzati, Editrice A.V.E., 1998, € 6,00 (attualmente disponibile in commercio), scrive, riferendosi a un discorso tenuto da Giuseppe Lazzati il 7 dicembre 1968 nell’Auditorio di palazzo Pio in Roma e pubblicato sul mensile Coscienza del Movimento laureati di A.C. lo steso anno:

 Traspaiono da questo testo il travaglio di quegli anni, ardui ma fecondi, le trasformazioni del costume, la crisi del quadro politico degli anni Sessanta, la complessa ricezione del Concilio nelle comunità ecclesiali, la ricerca di nuove forme dell’apostolato dei laici, l’itinerario di ridefinizione dell’Azione Cattolica Italiana con il nuovo statuto. Lazzati non sfugge a questa problematica. Un’ampia parte del suo discorso è volta a riprendere esauriente e concreta memoria dei “valori del passato”. Ma poi egli osserva: “Non possiamo nasconderci le difficoltà  innanzi alle quali l’Azione Cattolica si è trovata e si trova in questa situazione; talora è sembrato che fosse sopraffatta da altri tipi di azione, forse più appariscenti o passibili di più definite misure; la tentazione dell’efficienza immediata l’attira; un certo senso di vera e propria crisi ha pervaso strati più o meno ampi dei suoi aderenti e l’ha condotta a quel ripensamento di se stessa, dei propri metodi di formazione e di azione, dal quale dovrebbe uscire sofferto ma vivo, semplice e dinamico il suo nuovo statuto [che fu approvato nel 1969 – nota mia]. L’ispirazione idonea, l’atteggiamento giusto per affrontare la situazione che allora si delineava Lazzati invita a trovarli in una celebre espressione di un sermone di Ambrogio, il “De paradiso” [latino. Trad. “Sul paradiso – nota mia], dove il padre e dottore della Chiesa sostiene che il compito del cristiano è “nova sempre quaerere et parta custodire” [latino. Traduzione libera mia: “Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato]. Bisogna “aprirsi al nuovo senza timori e rimpianti” e insieme occorre mantenere “fedeltà ai valori che hanno costituito la trama” della storia dell’Azione Cattolica e hanno “data la misura della sua validità”. Non è lecita la “pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è stato”, ma la “smania del nuovo” non deve “prendere il sopravvento sull’amore del vero e la ricerca di ciò che vale”.

 Cari amici del gruppo parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente papa e cari altri amici che avete occasione di leggere queste parole, oggi vi voglio parlare di questioni associative, che però sono legate ad argomenti più vasti.

 Quando, verso la fine degli anni ’70, entrai nel gruppo FUCI di Roma che si riuniva a piazza S.Apollinare, eravamo una ventina di universitari, ma ci sentivamo pronti a conquistare in mondo. Quando il cardinal vicario Poletti ci disse che eravamo i suoi occhi e le sue orecchie nel mondo universitario, non fummo colpiti dalla sproporzione di forze, dall’essere noi una percentuale minima degli oltre centomila studenti romani. Nel nostro gruppo siamo di più dei miei fucini di allora, ma ci sentiamo un po’ in crisi. Non è così? Passando una volta per i corridoi della parrocchia, ci ho sentiti definire gruppo anziani. E’ chiaro che può parlare così solo chi non ci conosce bene. Però è vero che esteriormente possiamo talvolta sembrare effettivamente un gruppo anziani. Persone più giovani ci sono, ma sono in minoranza. A volte non vengono alle riunioni del martedì perché impegnate sul lavoro o negli studi. Io stesso non di rado faccio fatica ad essere in parrocchia alle cinque del pomeriggio, dopo il lavoro in ufficio, e a volte non ci sono riuscito. Questa carenza di persone più giovani incide abbastanza anche sul lavoro che ci proponiamo di fare in Azione Cattolica, anche qui a Monte Sacro – Valli. Mancano infatti molti stimoli al rinnovamento, che come sosteneva Lazzati sulla linea di S. Ambrogio, è uno dei compiti propri di noi laici. Ma non è forse vero che anche l’altro compito, quello di custodire, ci appassiona di meno? Si va un po’ a memoria, ma la memoria degli anziani comincia a fare difetto e non si ha tanta voglia di rinfrescarla. Perché è quando si  è chiamati a comunicare qualche cosa alle persone più giovani che si ripensa più validamente al passato: questo è un fatto naturale e noi siamo esseri naturali. Ma gli esseri umani sono capaci anche di uno sguardo soprannaturale. E’ ad esso che ho chiamato le mie figlie universitarie quando ho proposto loro di aderire al nostro gruppo di A.C. . Non dobbiamo fidarci delle apparenze: dobbiamo essere capaci di intuire l’anima negli altri. Questo è un esercizio fondamentale dell’esperienza religiosa: andare oltre ciò che appare. E le vostre anime, cari amici del gruppo, sono belle e parlano dei ragazzi e delle ragazze che eravate e che interiormente ancora siete. Che soddisfazione sentire i più anziani parlare delle loro esperienze di A.C. in un mondo di molti anni fa,  tanto diverso, e per molti versi più difficile, del nostro di oggi!  Un’A.C. indomita quella loro di un tempo, il cui ardore e il cui attivismo traspare ancora in certe prese di posizione nei discorsi che si fanno nelle nostre riunioni. Cose che certamente non ci si aspetta in un gruppo anziani. Ma direi di più: cose che oggi non ci si aspetta neppure dai giovani. Come mi riferiscono le mie figlie, oggi gli universitari sono spesso dei conservatori per sfiducia nel cambiamento, non si aspettano nulla di buono dal futuro. Del resto non  è quello che nei giornali e in televisione si dice sempre loro? Paradossalmente, allora, è proprio dalla memoria del passato che possono venire stimoli per il rinnovamento, quello personale e quello della società in cui viviamo.

 Pensare religiosamente la storia ha questo di confortante: non è legato a tempi precisi, a scadenze inesorabili. Possiamo, religiosamente, curare certi dettagli, così come certe preghiere vengono recitate molto lentamente, con il ritmo della vita che scorre in noi, con il ritmo del respiro come insegnavano alcuni maestri di spiritualità monacale. E non si è nemmeno legati molto all’attualità, ai titoli di testa dei giornali e dei telegiornali. Possiamo dedicare molto tempo a fatti minimi, così come i monaci a volte dedicano molto del  tempo non impegnato nelle liturgie alla cura paziente e minuziosa di una pianta o ad altre  faccende minime o che richiedono grande applicazione per un risultato che verrà magari oltre la loro vita personale. Facciamolo, però! E’ esperienza comune dei più anziani che i giorni corrano via più velocemente e che quindi giunga sempre, presto, la sera.  Si finisce allora per sdormicchiare molto, lo ha scritto Carlo Maria Martini in uno dei suoi ultimi libri di spiritualità, Qualcosa così  personale, Mondadori, 2009, € 17,50. In questo Anno della Fede ci viene un appello forte a scuoterci, a rinnovarci, ripensando, e innanzi tutto motivando meglio, i nostri ideali religiosi. Poi ci viene chiesto un impegno pubblico che può cominciare, ad esempio, da questo (del resto siamo persone religiose): pregare perché persone più giovani partecipino di quegli ideali e ci aiutino, nel nostro gruppo, stando insieme a noi, a rinnovarci custodendo ciò che del passato merita di essere conservato. E poi pregare perché, attingendo ai tesori del passato, anche agli aspetti preziosi delle nostre vite, si abbia qualcosa da comunicare ai più giovani. Non si costruisce dal nulla: i più anziani, in quanto religiosi custodi del passato migliore e fedeli memori di quello peggiore, hanno anche, in un certo senso, il segreto per costruire un futuro all’altezza dei nostri grandi ideali.

 Non è lecita la pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è stato, riteneva Lazzati ed è sorprendente che questa sua convinzione sia rimasta fortissima anche tra i membri più anziani del nostro gruppo. E questo è ancora più sorprendente tenendo conto dell’orientamento generalmente un po’ più nostalgico del passato degli anziani del quartiere.

 Trattare le cose temporali per ordinarle secondo Dio: questo il compito di cui religiosamente dobbiamo prendere consapevolezza. Si tratta di un impegno veramente smisurato, come tutto ciò che riguarda Dio. E’ chiaro che sarebbe anche sproporzionato alle nostre forze se non confidassimo anche in un sostegno soprannaturale, innanzi tutto per la rigenerazione del nostro gruppo. La dobbiamo desiderare con molta determinazione e pregare molto perché essa si compia.

 L’efficacia storica della nostra azione dipende dai contatti che riusciamo a stabilire con la società del nostro tempo e quindi dalla nostra capacità di influire su di essa. Serve gente. Ora, nel nostro lavoro natura e sopranatura sono strettamente commiste, dunque non si fa affidamento solo sull’elemento naturale, quindi sulle nostre sole  forze umane, ma esse comunque contano e devono esserci, è legge di natura questa, il mondo è stato creato così: i nostri grandi ideali, che servono ancora al mondo di oggi, sono incarnati in noi e hanno bisogno di nuova umanità per continuare a pervadere la società, perché noi, ad un certo momento, finiremo.

 La caratteristica del nostro atteggiamento verso i più giovani deve avere, a mio parere, questa caratteristica, conformemente al metodo praticato in Azione Cattolica: non cerchiamo nuove forze per indottrinarle o per cambiare le loro vite. Noi non abbiamo infatti la ricetta della felicità per i più giovani. Essi la devono inventare da se stessi. Noi abbiamo una ispirazione ideale e siamo custodi di una tradizione di fede che ci spinge avanti, in un incessante rinnovamento. Insieme ai più giovani vorremmo quindi ideare e attuare il nuovo che necessita al mondo di oggi, secondo quell’ispirazione.

 

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La fede fa scandalo?

(16 novembre 2012)

 

In molti casi l’ostacolo alla fede è costituito da una situazione di scandalo, o voluta falsamente, ad esempio falsità diffuse contro la Chiesa e i cristiani;  o per fatti reali. Non crediamo di aiutare i lontani nascondendo o negando la verità. Se si tratta di errori  storici ristabilire la verità; ma se c’è un autentico scandalo bisogna avere il coraggio di riconoscerlo e di far capire che la fede non consiste nel negare lo scandalo; ma far comprendere che lo scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio che supera l’ostacolo rappresentato dalle deficienze e dagli scandali degli uomini, siano essi laici o uomini di Chiesa o anche Papi

 da Per la catechesi ai lontani, articolo di Giuseppe Lazzati, pubblicato nel 1967 su mensile del Movimento laureati e ora nel fascicolo n.15 di Dossier Lazzati, “Lazzati, il Movimento Laureati e il Meic, Editrice A.V.E,  1998, € 6,00]

  Verso la fine degli scorsi anni ’60, quando Lazzati scrisse le frasi che ho citato, costituiva un ostacolo alla vita di fede pensare che nella Chiesa c’erano stati tanti cattivi esempi, anche da parte di capi religiosi, e che i cristiani si erano resi responsabili collettivamente di fatti efferati, come guerre, persecuzioni, schiavismo, predazione delle terre e dei beni di altri popoli e delle loro stesse vite e altro. Ai tempi nostri mi pare che nel nostro popolo la religione sia meno apprezzata più che altro perché sembra che sia inutile nelle faccende della propria vita. Le cose sembrano sempre andare come devono, come ci si aspetta che vadano secondo natura, e non cambia nulla  se uno è religioso o non lo è. I forti vincono e i deboli perdono, così è sempre stato, si pensa. Forse però, si argomenta, non è la religione, in generale, a non andare, ma è la religione cristiana e, in particolare, la sua versione cattolica, così ragionevole, così poco aperta al prodigio nella vita di tutti i giorni (quanto ci mette, si osserva, a riconoscere un miracolo o un’apparizione soprannaturale!). In definitiva, si pensa,  la dottrina cattolica sembra volerci convincere di doverci rassegnare a ciò che accade: quindi per ora si deve cedere al male prevalente e lasciarsi schiacciare, poi, in un’altra dimensione però, avremo il premio. C’è chi allora si affida ad altre versioni religiose o varianti della fede cristiana, che danno più soddisfazioni sotto quei profili. Ma c’è anche chi decide di fare a meno del tutto della religione e si costruisce allora un’etica individuale e collettiva che si basa sul tipo di società in cui si sente meglio inserito, ottenendone poi un riconoscimento appagante, come persona buona, onesta.

  L’atteggiamento di chi si lascia alle spalle la religione, che spesso è quella appresa in famiglia e nelle comunità di riferimento, come può essere un paese, con le sue feste e le sue costumanze, anche alimentari, può dispiacere, ma noi, nel lavoro che abbiamo in mente per recuperare coloro che sono diventati i lontani, siamo piuttosto vincolati dai nostri principi di fede, da quella che crediamo essere la verità  sul mondo intorno a noi e sul soprannaturale. Non possiamo quindi approfittare di quella sorta di disposizione della gente a credere nell’azione soprannaturale, nel miracolo, che confina abbastanza con la credulità  e inventarci delle storie consolanti ma ingannevoli. Non possiamo dare alla gente quello che in fondo essa ci chiede: la religione che mette a posto le cose della vita, che risana tutte le malattie, che allontana la morte, che salva il rapporto con il coniuge e i figli, che fa trovare o mantiene il lavoro, che ci fa tornare sani e salvi a casa la sera dopo aver circolato per la città, e cose simili. Né  possiamo promettere che essendo buoni, partecipando diligentemente alle liturgie e pregando molto le cose cambieranno, che tutti i problemi si risolveranno. Non è questo che ci è stato insegnato in religione. Ricordate?: ora e nell’ora della nostra morte… Quando mai ci hanno detto che alle persone religiose sarebbe andato tutto bene in questa vita?  E io francamente non mi sento nemmeno di proporre, ai sofferenti, l’idea che il male che capita loro è in realtà il loro bene, anche se essi, proprio perché non abbastanza religiosi, non riescono a capirlo. Il male rimane male: poi si può riuscire a dargli un senso religioso e allora, come è accaduto in certe vite di santi, si può addirittura ad avere una confidenza con esso che libera dalla paura o giungere a desiderarlo perché si pensa che attraverso di esso si partecipi alla redenzione dell’umanità intera, a una grande opera di salvazione. Ed è questo lo stesso atteggiamento di chi in guerra compie un’azione eroica, altruistica, a costo della propria vita. Ma si tratta, è chiaro, di una cosa molto diversa da chi semplicemente tenta di voltare la frittata e dice sbrigativamente che il male sofferto (da un altro) è bene per il sofferente, e chi non lo capisce non ha fede (aggiungendo così sofferenza a sofferenza, alla sofferenza della vita quella del rimprovero religioso), ottenendo da parte di chi soffre un sentimento interiore di rivolta che è umanamente del tutto comprensibile.

 Come fare allora? Direi che potremmo farne argomento di dibattito tra noi. Che cosa  rispondere all’argomento Dio è inutile?  E’ qualcosa di più forte della considerazione  Dio non c’è, che noi risolviamo obiettando che in realtà Dio non si vede, ma opera: e quest’ultima è una considerazione pacifica nel pensiero biblico, mi pare di aver capito.

 Lo scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio, scrisse Lazzati nel 1967. Per me  è proprio così. Mi pare così assurda e inaccettabile un’esistenza senza Dio, dominata dalla cieca violenza delle cose e degli esseri viventi, senza amore-agape, quello che raccoglie pacificamente intorno alla tavola comune per un bel pasto che nutre e dà gioia, che contro l’idea di una vita così sento di dovermi rivoltare e proprio da questa rivolta nasce la mia religiosità. Ma penso che negli altri vi siano tanti altri motivi per i quali la fede religiosa è diventata l’aspetto fondamentale della loro vita. In questo Anno della Fede siamo chiamati ad approfondire questi argomenti, a riscoprire le ragioni del nostro atto di fede. Chissà che questo possa anche servire ad aiutare coloro che sentiamo lontani in certe loro difficoltà religiose, quelle che riguardano l’inutilità di Dio, le quali, in fondo, possono anche scaturire da un certo pessimismo sulla storia umana  e quindi non riguardare tanto il soprannaturale ma il mondo quaggiù. Poiché la storia umana è lo specifico campo d’azione di noi laici cattolici, direi che è proprio un lavoro per noi.

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Fede e promozione umana

(19-11-12)

 

 Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini costituisce uno degli aspetti più importanti del mondo di oggi, al cui sviluppo molto contribuisce il progresso tecnico contemporaneo.

 Tuttavia il fraterno dialogo tra gli uomini non trova il suo compimento in tale progresso, ma più profondamente nella comunità delle persone, e questa esige un reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale. La Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di questa comunione tra persone; nello stesso tempo ci guida ad un approfondimento delle leggi che regolano la vita sociale, scritte dal Creatore nella natura spirituale e morale dell'uomo.

[dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes (latino.Trad.:La gioia e la speranza) sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del Concilio Vaticano 2°  (1962-1965), n. 23]

 Come ho già scritto, per il metodo seguito nel redigerli, non è facile cogliere con immediatezza le novità nel documenti del Concilio Vaticano 2°, denominati costituzioni, decreti  e dichiarazioni secondo  un criterio che tenne conto della forza normativa che si volle attribuire loro, dal punto di vista giuridico e quindi nelle loro reciproche relazioni e nelle relazioni con altri atti normativi della Chiesa, e delle finalità pratiche che con essi si volevano realizzare. Essi infatti furono scritti in linguaggio teologico e la teologia, in particolare quella cattolica, tende a mettere in risalto la continuità, piuttosto che a esaltare le novità. E, quando novità ci sono, esse in genere  sono presentate come sviluppo o riscoperta di qualcosa che già c’era prima. Questo modo di procedere  è necessario per valutare se il nuovo che si propone è conforme al deposito di fede che abbiamo ricevuto dalle origini. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta di capire, nelle varie manifestazioni storiche della nostra fede, come tenere tutto insieme, il presente, il futuro e il passato, i vivi e i morti, tutti i popoli della terra, secondo il comandamento religioso ricevuto: ristabilire l’unità del genere umano. La teologia è riflessione sulla fede comune, nei suoi fondamenti e nelle sue manifestazioni storiche, compresi anche agli atti normativi di coloro che nella Chiesa esercitano l’autorità. Ecco perché nei documenti più importanti del magistero, scritti in linguaggio teologico, quelli che vogliono essere di orientamento ai fedeli, troviamo tanti riferimenti alla Bibbia e al pensiero religioso  del passato. Nei documenti più recenti, dall’Ottocento in poi, troviamo riferimenti più precisi alla storia del loro tempo, in particolare in quelli che si fanno rientrare nella materia della dottrina sociale. Un esempio di ciò che ho detto, di quel particolare metodo nell’argomentare, si può trovare leggendo un documento fondamentale per la fede del nostro tempo come l’enciclica Caritas in veritate, del papa Benedetto 16°.

 Vi posso confermare che nei documenti del Concilio Vaticano 2°  il nuovo c’è. Ne ho già trattato in altri miei precedenti interventi, mettendo in risalto, siatene consapevoli, solo di pillole  di novità, quindi una piccola parte del nuovo che c’è.

 La novità delle novità può considerarsi innanzi tutto quello che  è stato definito il metodo conciliare. Nell’annunciare l’indizione del Concilio ecumenico, il papa Giovanni 23° disse che avrebbe consultato tutti i vescovi del mondo, perché il lavoro che ci si proponeva di fare richiedeva di conoscere i punti di vista e di sfruttare le conoscenze e le capacità di molti. Ora, bisogna capire  che questa intenzione del papa veniva incontro a un moto molto esteso che già c’era  nella Chiesa cattolica, in tutto il mondo. Il papa Giovanni 23° stesso ne era stato partecipe e volle darvi voce. Insomma, il Concilio Vaticano 2°  può essere considerato il culmine di un movimento, che comprendeva, come sempre accade nelle cose religiose, vita e pensiero. C’erano state negli anni passati nuove esperienze di vita di fede alle quali erano corrisposte anche nuove analisi teologiche. In Europa, in particolare,  erano state decisivi le riflessioni  e i sentimenti indotti negli anni tra le due guerre mondiali, che avevano visto, oltre al dominio dei totalitarismi fascisti e nazisti su larga parte del continente,  anche l’affermarsi della rivoluzione sovietica in una nazione di antica formazione cristiana come la Russia. Essi avevano trovato una sfogo, dal 1945, con la vittoria sui regimi fascisti e nazisti europei, nell’epopea della costruzione di una nuova Europa, che si era articolata, con metodi divergenti e addirittura confliggenti ma con il dichiarato obiettivo comune della giustizia sociale come fondamento della pace, sia nella parte occidentale, rimasta sotto l’influsso della nuova potenza globale statunitense, sia nella parte orientale, finita sotto il dominio sovietico. Questo intenso lavorio collettivo non era stato solo tecnica: aveva avuto anche una marcata componente ideale. Ne possiamo trovare un esempio nella nostra Costituzione, approvata nel dicembre 1947, dopo un anno e mezzo di confronti assembleari di rilevante livello culturale ed etico, ed entrata in vigore nel 1948. Semplificando molto, possiamo dire che quel dibattito ideale coinvolse sempre in maggior misura anche la Chiesa cattolica, fino ad arrivare ai massimi vertici. Sarei grato a chi, più a conoscenza di questi fatti, volesse approfondire il tema delle radici lontane del movimento conciliare e segnalare testi per approfondirlo. Dal mio (limitato) punto di vista credo di poter consigliare per avere un’idea di ciò che intendo il libro Esperienze pastorali, di Lorenzo Milani, pubblicato nel 1957, ancora in commercio, edito da Libreria editrice fiorentina, € 18,00.

 E’ vero che l’annuncio del papa Giovanni 23° di voler indire un concilio ecumenico sorprese i suoi contemporanei, in particolare i cattolici. Non però perché non si sentisse nel mondo l’esigenza di una cosa simile, ma perché non ci si aspettava che proprio dal papa romano venisse questa iniziativa. Infatti, fino ad allora, i papi erano apparsi più preoccupati di porre limiti ai moti popolari, più che di dar loro strada e occasioni per manifestarsi. Nuovo era poi il metodo di consultare i vescovi del mondo, come se a Roma non si avesse già una soluzione pronta per tutti i problemi di cui si sarebbe discusso. Ora, questa consultazione rea intesa evidentemente a far emergere quel movimento che, come ho osservato, già c’era   e invocava cambiamenti. Tuttavia nella prima fase preparatoria del concilio si ebbe la sorpresa di scoprire che i vescovi non ne erano in genere consapevoli. Scrisse lo storico Giuseppe Alberigo  nella sua preziosa Breve storia del concilio Vaticano II, Società editrice Il Mulino, 2005, € 10,50, ancora in commercio:

 Caduta l’ipotesi di consultare i vescovi con un questionario, il papa fece invitare ciascuno a indicare i problemi e gli argomenti che il concilio avrebbe dovuto  affrontare. Nei mesi successivi sono arrivati al Vaticano circa duemila pareri (“vota”) da tutto il mondo. La maggioranza di questi scritti testimoniava la sorpresa e il disorientamento: Roma non ordinava, ma chiedeva suggerimenti! Moltissimi hanno auspicato che il concilio si occupasse di argomenti di modesta portata; ben pochi avevano orizzonti ampi ed erano assuefatti a prospettive coraggiose.

 Tornando alla citazione dalla costituzione pastorale Gaudium et spes con cui ho aperto questo intervento, vorrei invitarvi a porre attenzione a queste espressioni: Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini; esige un reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale; approfondimento delle leggi che regolano la vita sociale; la Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di questa comunione tra persone. Ora, tenuto conto di quello che ho osservato nei miei precedenti interventi sulle caratteristiche ideali delle democrazie contemporanee, quelle parole della Gaudium et spes, espresse in terminologia teologica, inquadrano il problema fondamentale dei nostri attuali regimi democratici: una diversa organizzazione della società basata su nuove relazioni umane scaturite dall’idea di una comune dignità di tutti gli esseri umani.  Mai, prima d’ora, che io sappia, i popoli, intesi come comunioni di persone con pari dignità e  non solo come insiemi di sudditi di storici despoti o  dinastie,  erano venuti ad assumere questo rilievo in un documento ecclesiale cattolico di quell’importanza. E’ quindi veramente un linguaggio nuovo. Il movimento che si vuole produrre nei fedeli è analogo a quello dal quale sono scaturite le democrazie contemporanee: la promozione umana, vale  a dire l’elevazione delle masse (infatti non si fa distinzione tra le persone umane), mediante il riconoscimento di una loro comune dignità, dalla quale deriva l’esigenza di adeguate leggi, vale a dire il riconoscimento di diritti umani fondamentali, per un miglioramento della società (nel documento denominata comunione di persone). Questo lavoro, si dichiara, ha fondamento e quindi rilievo religioso, essendo compreso nei principi fondamentali della fede (la Rivelazione).

 Quali conseguenze?

 Direi innanzi tutto che, come molte altre affermazioni o auspici dei documenti del Concilio Vaticano 2°, quel principio stabilito nella breve frase che ho citato all’inizio merita un approfondimento. Anche in questo il Concilio Vaticano 2°  non è stato un punto di arrivo ma, in metafora, un apparato propulsore che ha messo un movimento un corpo sociale, la Chiesa, che sembrava destinata al progressivo declino nel confronto con i tempi nuovi, per il fatto di rimanere sempre immobile e quindi, nell’avanzare della storia, sempre più arretrata.

 Prendiamo ad esempio questo pensiero, che si trova  a pag.14-15 di Pass-wor(l)d percorso formativo per gruppi di adulti, Editrice A.V.E., 2012, € 8,00, il sussidio che l’Azione Cattolica ci propone per la vita associativa:

 La virtù del discernimento è quella qualità che consente di distinguere in ogni circostanza cosa convenga fare e, ancor prima, che si può e si deve prendere una decisione senza restare sempre e solo spettatori della propria vita. Perché questo discernimenti può essere anche comunitario? Perché l’intera comunità di battezzati e chiamata alla corresponsabilità: ognuno porta la propria esperienza, i propri talenti, la propria umanità costruita nei luoghi di partecipazione e di vita, in famiglia, al lavoro a scuola, con uno sguardo ampio e l’orizzonte dell’intera comunità. Non è una moda, non ha una logica di democrazia, che non ha posto nella Chiesa, ma la necessità di mettere all’opera tutti i carismi del corpo della Chiesa.

 Siamo veramente certi che, nel momento in cui si richiedono ai laici azioni collettive di promozioni umane, fondate su un discernimento comunitario, inteso come distinguere in ogni circostanza cosa convenga fare, e questo viene considerato loro compito religioso, la democrazia, nel senso in cui oggi la si intende, non abbia posto  nella Chiesa? Non dico, ad esempio, per l’elezione di rappresentanti ad un concilio in cui si debba decidere qualche corollario del dogma trinitario, ma, poniamo, per decidere che posizione prendere, come comunità di fedeli, quindi collettivamente, nei confronti di una guerra incipiente, le cui origini risalgano, come sempre avviene, ad una complicata situazione politica e che, per poter essere sedata, richiede non solo solenni dichiarazioni ieratiche, ma l’esercizio di una sapienza e di un’abilità specificamente laicale, basata su una conoscenza delle dinamiche storiche e una sapienza nel trattarle che esorbita dal campo specificamente teologico e liturgico.

 L’Azione Cattolica si definisce palestra di democrazia, quindi è retta con metodo democratico, ma naturalmente, pur essendo parte della Chiesa, non parla a nome della Chiesa. Secondo l’ordinamento delle leggi della Chiesa possono farlo solo il papa e i vescovi, individualmente o collettivamente, nel sinodo o nel concilio. Essi tuttavia, sempre più spesso, e anche nella redazione di importanti documenti del magistero, chiedono la collaborazione di laici sapienti e tengono conto di ciò che si agita nel corpo ecclesiale, quindi della storia del loro tempo e delle reazioni che essa suscita tra i fedeli. C’è quindi un dialogo tra i capi e le loro comunità. Ma queste ultime, come corpi collettivi, possono esprimere una decisione unitaria veramente affidabile solo con metodo democratico. E’ lo stesso metodo che è stato utilizzato per formare e approvare i documenti del Concilio Vaticano 2°. Per ognuno di essi è riportato il numero di voti favorevoli e contrari che ha riportato ed è stato approvato il testo votato dalla maggioranza degli aventi diritto ad esprimersi. Questo anche se poi i documenti del Concilio Vaticano 2° sono entrati in vigore in quanto promulgati  (approvati, decretati, stabiliti) dal Papa.

 Pongo una questione sulla quale discutere, non do soluzioni.

 

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Il conflitto come esperienza religiosa

(19 novembre 2012)

 

 Anni fa uscì un film dal titolo Saving private Ryan – Salvate il soldato Ryan. In esso si racconta di una pattuglia di soldati statunitensi che, scelta tra i militari sbarcati in Normandia nell’invasione degli eserciti  Alleati del giugno 1944, ha avuto la missione di rintracciare e riportare in patria un soldato semplice americano che aveva diritto all’esonero, per essere l’ultimo ancora in vita di quattro fratelli partiti militari per la guerra in Europa. All’inizio c’è una sequenza che mette in scena  lo sbarco su una spiaggia della Normandia dei componenti di quella pattuglia. Di fronte alla violenza estrema e alla morte tutt’intorno vengono presentati vari atteggiamenti religiosi dei soldati americani. C’è che invoca la Madonna, chi recita il Padre nostro e c’è un tiratore scelto che, nel prendere la mira pronuncia le parole dell’inizio del salmo 144:

Benedetto il Signore, mia roccia,

che addestra le mie mani alla guerra,

le mie dita alla battaglia,

e poi, pam!, spara e colpisce il nemico.

  Nel vedere questa scena, le parole del salmo in bocca a una combattente che sta per uccidere mi hanno colpito, eppure indubbiamente erano appropriate alla situazione.

  La nostra Chiesa nel corso della storia  è rimasta molto spesso coinvolta direttamente o indirettamente in eventi bellici. Ricordo, tra i molti episodi storici, la sanguinosissima guerra combattuta da una federazione di stati cristiani, coalizzati sotto le insegne pontificie (era Papa Paolo 5°), contro l’impero Ottomano, nel Cinquecento  e culminata con la battaglia navale davanti a Lepanto (1571 – Lepanto si trova nella Grecia occidentale).  In  genere non vi ha trovato difficoltà, almeno fino agli anni della Prima Guerra Mondiale (1914-1918).

 Si ricorda in merito la Lettera del Santo Padre Benedetto 15° ai capi dei popoli belligeranti (1917)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xv/letters/1917/documents/hf_ben-xv_let_19170801_popoli-belligeranti_it.html

 

Chi ha seguito l'opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude, ha potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall'esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento.

[…]

In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali, come le circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e completarli.

E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la decisione.

Stabilito così l'impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso.

[…]

Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficai immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità.

Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l'avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage.

 Un episodio significativo del cambiamento di mentalità si ebbe quando il papa Paolo 6° incaricò l’internunzio  apostolico mons.Francesco Lardone di restituire al governo della Turchia, in persona del ministro degli esteri, lo stendardo dell’ammiraglio Muezzinzad Alì Pascià catturato agli ottomani durante quella battaglia che era conservato in Vaticano, consegna che fu eseguita il 5-3-1965 ad Ankara – Turchia. Ecco come il Papa, il 19-1- 1967, descrisse le intenzioni di quel gesto in una lettera al nuovo ambasciatore della Turchia presso la Santa Sede:

 Sotto il pontificato del Nostro predecessore Giovanni XXIII, avevamo appreso con viva soddisfazione che si stabilivano le relazioni diplomatiche tra la Sede Apostolica e il Suo Paese, e questo aveva incontrato la Nostra piena approvazione. Tali relazioni sembra a Noi che fino ad oggi si siano sviluppate in un’atmosfera di reciproca comprensione e di amicizia; e non possiamo che congratularcene, mentre ne è una nuova conferma la recente elevazione del Delegato, poi Internunzio in Turchia, al rango di Pro-Nunzio Apostolico.

Poiché Noi stessi desideravamo manifestare in qualche modo i Nostri sentimenti, con un gesto che potesse essere gradito alle Autorità della Turchia contemporanea, è stata per Noi una gioia restituire un antico stendardo, preso al tempo della battaglia di Lepanto, che, da allora, si conservava nelle collezioni del Vaticano.

Questo Le dice, Signor Ambasciatore, quali siano le disposizioni che Ci animano nei riguardi della Sua grande e bella Nazione. Crediamo di poterle garantire che i membri della Chiesa Cattolica, che abitano sul Suo territorio, professano la fedeltà più sincera alle Autorità del Paese. Se la Chiesa si preoccupa che i Poteri civili riconoscano sempre ai suoi figli i loro diritti e ne assicurino la piena libertà di azione, Essa non intende certamente sminuirne gli obblighi di cittadini e di sudditi. Anzi, la fede ch’essi professano impone loro il dovere di non essere secondi a nessuno in tutto ciò che riguarda l’attaccamento alla Patria, e il giusto rispetto, dovuto alle legittime Autorità.

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/speeches/1967/january/documents/hf_p-vi_spe_19670119_ambasciatore-turchia_it.html

 Nelle epoche che hanno preceduto la Prima guerra mondiale, i conflitti bellici venivano considerati facenti parte della natura dell’umanità, in quanto degradata dal peccato e bisognosa di redenzione, cose inevitabili come la morte stessa e destinate ad essere superate alla fine dei tempi. Ancora nell’Ottocento il papato impegnò propri eserciti in guerre italiane (Prima guerra d’Indipendenza – 1848/1849; difesa di Roma nel 1848 e nel 1870). Successivamente si orientò per una posizione di neutralità, almeno fino al 1944 (Radiomessaggio natalizio di Pio 12°). Nel corso della contrapposizione tra blocco delle potenze influenzate dagli Stati Uniti d’America e il blocco influenzato dai sovietici parteggiò per il primo. Nel 1968 il cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, si dimise dopo le polemiche causate da una sua presa di posizione contro il bombardamenti statunitensi in Vietnam (fonte: Lorenzo Bedeschi, Il cardinale destituito, Gribaudi, 1968 – titolo non più in commercio). Dopo la fine dell’Unione Sovietica e della contrapposizione per blocchi, il papato è diventato una potenza di pace, anche se non del tutto pacifica, in quanto, con Giovanni Paolo 2°, è giunto ad invocare interventi militari umanitari, come durante la crisi tra la Serbia e il Kossovo secessionista (1996-1998).

 Le dinamiche conflittuali sono ancora un grave problema irrisolto nella nostra confessione religiosa. Conflitti ci sono sempre stati, fin dalle origini, nella Chiesa e intorno alla Chiesa. In genere, storicamente, i cristiani e anche la Chiesa, intesa come papi e vescovi,  vi hanno partecipato, senza confidare di poterli prevenire. E’ molto recente l’idea di poter riuscire a farlo. Essa risale alla fine della Seconda Guerra mondiale. Per riuscirci si confida negli ordinamenti democratici, in cui i popoli hanno più voce. Il paradosso  è questo: il magistero confida nella democrazia come fonte di relazioni pacifiche, evidentemente ritenendo che i popoli, liberi da despoti, si orientino per la pace, ma nella sua organizzazione diffida profondamente della democrazia, perché in fondo ritiene che i supremi principi non siano in buone mani se lasciate a quelle dei popoli. L’insegnamento attuale del magistero, che in questo non è cambiato da quello più antico, è che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa. All’interno della nostra Chiesa le dinamiche conflittuali, talvolta assai aspre, in genere vengono negate; la via principale per risolverle è il cercare il favore dell’autorità sovraordinata.

 Nel momento in cui si confida nella democrazia per promuovere la pace nel mondo bisogna però prendere coscienza che il metodo democratico non nasconde, ma porta alla luce i conflitti e le loro ragioni. Nel dialogo ragionevole tra fautori di opposte fazioni si cerca innanzi tutto di far emergere ciò che unisce e, facendo forza su di questo e, in particolare, sul rispetto della dignità degli avversari, si cerca poi di giungere a decisioni condivise. Quando ciò non è possibile, la regola è che decida per tutti la maggioranza. I soccombenti si impegnano ad accettare tale decisione perché non sono mai in questione i principi fondamentali della convivenza civile, quelli che sono sottratti agli arbitri delle maggioranze. Si tratta di ciò che rientra nei diritti umani fondamentali. Questo metodo richiede che nel conflitto si abbia comunque un’etica, delle regole morali. Questo accade anche nell’esperienza religiosa del conflitto, anche se ai tempi nostri se ne ha meno coscienza. Oggi ad esempio può essere difficile accostare l’esperienza umana di un personaggio storico come santa Giovanna d’Arco, una santa combattente. Eppure in religione potremmo essere facilitati per il fatto che nella Bibbia, in particolare nell’Antico Testamento, ci sono moltissime storie di guerre, vissute in un orizzonte etico.

 Dall’esperienza storica, anche recente, come quella dei gruppi resistenziali cattolici combattenti tra il ’43 e il ’45, può trarsi l’insegnamento che il vero pacifico non è quello che elude o nega i conflitti che ci sono, o si limita a subirli passivamene, ma che invece vi partecipa con spirito religioso. Questa azione può essere vista, sull’esempio dell’esperienza democratica, come finalizzata alla promozione umana, al miglioramento degli assetti sociali. In questo essa può avere una valenza religiosa. L’ispirazione etica può portare al rifiuto di certe tecniche convenzionali di conflitto e, ad esempio, all’impiego delle tecniche non violente che per la prima volta sono state esposte da Ghandi.

 Comunque, se nel perseguimento della pace le masse devono avere un ruolo, e oggi la dottrina sociale della Chiesa ritiene che debbano averlo, l’obiettivo a cui si mira richiede l’impiego del metodo democratico. Ritenendo diversamente le masse possono trasformarsi rapidamente anche in quelle bestie spaventose di cui scrissero gli antichi, quindi in folle violente e sanguinarie che frequentemente hanno dato nella storia il peggio di sé.

 

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Una riunione “politica”

(23-11-12)

 

  Per ragioni di lavoro non ho potuto partecipare alla riunione del gruppo dello scorso 20 novembre. Mi è stato riferito che è stata molto interessante. Ci si è confrontati sul temi politici, in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento,  in particolare sull’ideologia comunista e sul suo carattere ateo, sul confronto tra i programmi di Obama e Romney alle passate elezioni presidenziali statunitensi e tra i programmi proposti dalla destra e dalla sinistra politica, qui in Italia, alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento.

 La politica entra in chiesa? Certo che deve entrarci, perché, specialmente dopo le decisioni assunte nel Concilio Vaticano 2°, all’impegno nella società civile, e quindi pure a quello politico, viene riconosciuta una valenza anche religiosa. Religione e politica, fede e ideologia civile, non sono mondi che non si toccano mai, per cui una persona possa passare con disinvoltura dall’uno all’altro e viceversa semplicemente cambiandosi d’abito ed assumendo in ciascun ambiente un contegno diverso, come quando, usciti dall’ufficio, si va allo stadio e si fa il tifoso. I nostri capi religiosi ci hanno inoltre avvertito: non dobbiamo confidare di poter avere da loro la soluzione di tutti i problemi della nostra civiltà:

Se l'ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro [ai laici], attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di vita.

[dall’enciclica Populorum progressio – 1967 – del papa Paolo 6°].

 Ragionare sulla società è un compito necessariamente collettivo. Nessuno, da solo, senza compagni, può pretendere di avere una visione completa dei problemi, specialmente in società complesse e molto popolate, composte globalmente di sette miliardi di individui le cui vite sono sempre più strettamente connesse (così argomentava la filosofa Hanna Arendt). Quando ci si confronta sulla politica con spirito di dialogo, quello che consente di prendere in esame le ragioni di tutti, occorre poi farlo con metodo democratico, quindi innanzi tutto rispettando la pari dignità di ciascuno. Questo non toglie che chi ne sa di più, per cultura ed esperienza, potrà dare un contributo maggiore al dibattito, ma solo se renderà quello che dice accessibile anche a chi ne sa di meno, non pretendendo quindi di essere obbedito in virtù di un’autorità riconosciuta a priori alla stregua di un titolo nobiliare. Certe volte anche i sapienti si ingannano e le virtù dei semplici illuminano dotti sofismi.

 In ambito religioso e in particolar modo tra i cattolici c’è il problema di che ruolo riconoscere in questo ai preti. Sarebbe strano escluderli da questi temi, proprio loro che hanno tanti tesori di sapienza e di etica da comunicare. Essi hanno quindi facoltà di parola, ma con pari dignità con gli altri laici che partecipano al dibattito. Questo deve essere molto chiaro. Come laici dobbiamo resistere alla tentazione di seguirli per spirito di obbedienza religiosa, anche se, erroneamente, ci venisse d richiesto di farlo. Ragionando diversamente si costruirebbe un partito dei preti, in cui chi ubbidisce eluderebbe in fondo  le proprie responsabilità storiche di cittadino. Sappiamo poi che la nostra Chiesa rifiuta di essere organizzata democraticamente: un partito della Chiesa introdurrebbe una forza non democratica nel governo della nazione. Il mantenimento di una organizzazione democratica della società è invece una delle principali responsabilità dei cittadini, la base della pacifica coesistenza civile.

 Sappiamo del resto che l’organizzazione del clero storicamente non sempre ha espresso decisioni illuminate in materia politica, essendo stata spesso bloccata dal timore di rompere con i potenti di turno e di subire persecuzioni contro il suo personale o espropriazioni o danneggiamenti di suoi beni (che in Italia costituiscono un patrimonio imponente). In generale si è attestata, specialmente dall’Ottocento in poi su posizioni attendiste, a volte opportuniste, se non francamente reazionarie, timorose del nuovo. Nel Novecento hanno fatto eccezione i papi da Giovanni 23° in poi. In Italia dobbiamo sempre avere ben presente l’esempio storico della Conciliazione  con il Regno d’Italia,  stipulata dai capi della nostra Chiesa nel 1929 con il dittatore Mussolini. Molti laici illuminati del tempo l’avevano vivamente sconsigliata e poi se se sono vergognati. Con il senno del poi la possiamo considerare una pagina veramente controversa nella storia della nostra Chiesa. Quei Patti hanno pesato, e molto, sui destini della cattolicità italiana, e non in senso positivo. Vennero superati solo nel 1984. Prima di allora, in forza del Concordato lateranense, le cui disposizioni vennero quasi interamente sostituite con l’accordo del 1984, vescovi, preti e religiosi non avrebbero potuto intromettersi in alcun modo in politica. Quel Concordato venne a contrastare con la Costituzione italiana entrata in vigore nel 1948 che non consentiva una discriminazione dei cittadini su base religiosa. Tuttavia, per espressa disposizione costituzionale, i rapporti tra la Repubblica italiana e la Chiesa continuarono, fino al 1984, ad essere regolati dai patti del 1929, pur se certe norme limitative caddero progressivamente in desuetudine. Con il protocollo addizionale all’accordo del 1984 di revisione del Concordato lateranense la Santa Sede e la Repubblica italiana si diedero reciprocamente atto di non considerare più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano. [art.1 del protocollo addizionale].  Si pose in tal modo rimedio a una decisione che non era più accettabile neppure nel 1929 e che nondimeno era stata condivisa in sede di stipula degli accordi del 1929, i quali, fra l’altro, istituirono a Roma la Città del Vaticano, strutturata come un vero stato, con un piccolo esercito, giudici propri e, oggi, anche un solo suo prigioniero, come sappiamo dalle cronache.

 Ai tempi nostri la Chiesa cattolica italiana, intesa in senso stretto come organizzazione strutturata per l’esercizio di attività religiose, ha suoi specifici interessi politici che riguardano le a) erogazioni che riceve dalla Repubblica Italiana, le quali ammontano ogni anno ad oltre un miliardo di euro, alle quali si aggiungono altre elargizioni che sotto varia forma le pervengono per altre vie da organizzazioni statali o da altri enti pubblici (in particolare per la conservazione dell’imponente patrimonio architettonico ed artistico di sua proprietà), b) il regime fiscale delle sue attività, c)le erogazioni che le pervengono per attività sanitarie svolte da strutture religiose in convenzione con il Servizio Sanitario Regionale e c) gli aiuti che intenderebbe ottenere per le attività nel settore dell’istruzione privata svolta da enti religiosi. In questo campo, come è agevole intendere in base ai principi generali, non vi è per il fedele che in quanto cittadino italiano abbia la possibilità di influire sulla politica l’obbligo religioso di aderire a tutte le pretese dell’organizzazione del clero. Si tratta di valutare priorità che richiedono di considerare realisticamente tutte le attività svolte dallo Stato e dagli enti pubblici che funzionano su base di partecipazione democratica in relazione alle risorse disponibili e alle esigenze comuni, innanzi tutto di chi sta peggio. Noi fedeli cattolici non siamo, in questo, una sorta di sindacato cattolico o addirittura una lobby (vale a dire un gruppo di pressione politica) in difesa di quegli interessi particolari. Questo rileva in particolare in un’epoca, come quella che stiamo vivendo, caratterizzata da una progressiva diminuzione delle risorse destinate ai servizi pubblici.

 La Chiesa cattolica italiana, intesa come i suoi capi, i vescovi italiani, ha anche una piattaforma di richieste specificamente politiche in alcuni settori dell’organizzazione della società civile. Esse, in particolare riguardano: a) la disciplina legale dell’aborto volontario, che si vorrebbe abolire; b) la disciplina legale del divorzio, che si vorrebbe abolire o rendere meno facile da ottenere; c) la disciplina legale della procreazione assistita, quindi della fecondazione al di fuori dell’utero nei casi in cui la coppia di aspiranti genitori abbia difficoltà a generare, con il correlato problema della sorte da dare agli embrioni generati in soprannumero, disciplina che si vorrebbe molto restrittiva; c) la disciplina legale delle famiglie composte da persone omosessuali, che si vuole impedire;  c)la disciplina legale dell’interruzione di terapie non più utili e della respirazione artificiale e dell’alimentazione e idratazione artificiale nel caso di persone in coma irreversibile o che, sebbene non in quella condizione, si trovino in gravi condizioni di menomazione fisica e chiedano la sospensione di quegli ausili per porre fine a sofferenze non più necessarie a fini terapeutici, per morire con dignità, secondo natura, disciplina che si vorrebbe molto restrittiva. Su questi temi la posizione dei capi cattolici è fortemente minoritaria nella popolazione italiana. Le materie del divorzio e dell’aborto sono state già, nel 1974 per il divorzio e nel 1981 per l’aborto, sottoposte a referendum abrogativi e le leggi che le contemplavano sono state mantenute in vigore dalla volontà popolare. Da allora molti indici sociali denotano che il consenso popolare a quegli istituti si è fatto ancora più forte. E’ esperienza comune di coppie di fedeli cattolici che divorziano (anche se nel caso di matrimonio religioso si parla di cessazione degli effetti civili del matrimonio, perché le leggi religiose considerano ancora indissolubile il vincolo religioso tra i coniugi), tanto che anche il recente Sinodo mondiale dei vescovi (ottobre 2012) ne ha trattato, auspicando un’apertura verso le persone che dal punto di vista religioso vivono in una condizione irregolare a seguito di divorzi. Nella mia esperienza è piuttosto comune anche il ricorso all’aborto volontario in strutture pubbliche da parte di donne cattoliche. Lo possono confermare i sacerdoti che, abilitati a rimuovere la scomunica che consegue di diritto alle pratiche abortive, operano nei grandi santuari religiosi italiani. Sulle leggi riguardanti il divorzio e l’aborto la Democrazia Cristiana, il grande partito dei cattolici italiani cessato come esperienza unitaria agli inizi degli anni ’90, anche se si ritiene che giuridicamente sopravviva ancora per questioni procedurali relative alla sua trasformazione nel 1994 in Partito Popolare, si trovò in minoranza in Parlamento già in epoche in cui il consenso alle tesi dei vescovi era maggiore. Comunque, su tutte quella piattaforma politica dei nostri capi religiosi, i cattolici, pur in minoranza, nella nuova realtà bipolare prodottasi dal 1994, con una forte de-ideologizzazione di tutte le formazioni politiche, sono riusciti spesso ad influire nel senso desiderato dai vescovi, con alleanze informali al di là degli schieramenti politici di appartenenza. I risultati qualche volta non possono essere considerati pienamente soddisfacenti. La legge sulla procreazione assistita è incorsa in censure di incostituzionalità ed è dubbia la sua conformità alla Convenzione di Strasburgo sui diritti umani e allo stesso diritto dell’Unione Europea. Il ritardo nella regolazione legislativa del fenomeno dei nuovi tipi di famiglia, che si sono affiancati a quella naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna, ha impedito di dare stabilità e certezza a rapporti non illeciti che già ci sono nella società e non ha risposto a una domanda di normazione che espressamente viene dalle persone coinvolte. Anche la nuova disciplina sul cosiddetto accanimento terapeutico, che sta per essere varata, ha sollevato molte critiche, anche in ambito cattolico.

 Bisogna considerare, in merito alla piattaforma politica, di cui ho detto, che tutte le attuali principali formazioni politiche sono altamente laicizzate, nel senso di scarsamente connotate dal punto di vista religioso, tranne piccole formazioni che ancora si richiamano all’esperienza democristiana e alla dottrina sociale della Chiesa. La vera differenza tra destra e sinistra è che a destra si ammette la libertà di opinione tra i parlamentari, mentre a  sinistra si tende a imporre ai parlamentari scelte che non vanno nel senso desiderato dai nostri capi religiosi. Questa  è stata la causa di alcune defezioni di parlamentari cattolici dalla sinistra.  Quelle materie, tuttavia, non sono al centro del dibattito politico di oggi. Nessun partito politico di un qualche rilievo si propone di realizzare integralmente questo programma politico dei nostri vescovi, perché in Italia, su quelle idee, non c’è consenso maggioritario e, anzi, su alcuni temi il consenso si va riducendo sempre più. Talvolta vi si fa riferimento in politica, ma spesso ciò appare strumentale ad ottenere un appoggio politico dall’organizzazione religiosa, senza una vera condivisione dei moventi ideali. In passato ci sono stati effettvivamente indizi di tentativi di uno scambio politico su singole e limitate questioni, su questa o quella proposta di legge, nel senso di promettere un certo orientamento parlamentare su questa o quella proposta di legge a fronte di un consenso politico della Chiesa verso certe formazioni. Per quanto mi riguarda, penso che non vada comunque mai perso di vista il contesto generale; occorre sempre considerare, tenendo conto della situazione reale della nazione, che cosa si vada a produrre con alleanze contingenti di quel tipo, posto che, come ho detto, la piattaforma politica dei vescovi riguarda aspetti marginali della politica di oggi. Bisogna chiedersi che cosa si produrrà per quanto riguarda gli altri aspetti politici, che, ad esempio, riguardano anche gli impegni bellici della nazione, l’equità fiscale e i servizi pubblici che consentano ai meno ricchi una vita dignitosa. Sarebbe accettabile, ad esempio, barattare un’azione di interdizione parlamentare su singole proposte di legge con un impoverimento delle classi svantaggiate, alle quali tradizionalmente la destra politica è meno sensibile (consideriamo in merito le questioni e prese di posizioni emerse nel confronto politico negli Stati Uniti tra Romney e Obama)?

 Per quanto riguarda la tematica del comunismo ateo, osservo innanzi tutto che parlare genericamente di comunismo non rende bene l’idea di ciò a cui ci  si vuole riferire. Storicamente infatti vi sono stati molti comunismi e non tutti sono stati atei, in particolare quelli che regolano la vita di alcune società primitive. L’idea di mettere in comune i beni in attesa della manifestazione del soprannaturale in cui si confidava era presente anche in alcune della comunità cristiane delle origini; se ne parla negli Atti degli apostoli. Tuttavia, nonostante che qualcuno definisca comunistico quel modo di organizzazione di gruppo, non si può parlare a quel proposito di comunismo, perché era assente in quella esperienza l’idea di instaurare un nuovo ordine di tutta la società.

 I comunismi di impronta marxista, dei quali di solito si vuole parlare quando si parla di comunismo ateo, furono in genere effettivamente antireligiosi in quanto anticlericali. Essi consideravano infatti la religione, quindi la fede nel soprannaturale organizzata in una collettività strutturata, come un imbroglio organizzato dai preti ai danni dei ceti più poveri, per mantenerli  sottomessi a gruppi di privilegiati con i quali il clero era in combutta, sopendo  su basi fideistiche ogni conato di rivolta. Noi, con spirito religioso, sappiamo naturalmente che la fede non è un inganno, ma certamente nella storia vi sono state epoche in cui il clero ha appoggiato i dominatori delle società contro masse sottomesse ad ordinamenti ingiusti. L’affermazione della democrazia, in particolare, è avvenuta anche contro la Chiesa cattolica, ricordiamolo bene,  la quale solo nel 1944 ha accettato il regime democratico come quello preferibile.

 Fu fortemente antireligiosa l’ideologia sovietica, tanto da propagandare l’ateismo tra le popolazioni dominate. Ma non tutti i comunismi furono allo stesso modo antireligiosi e anticlericali.

 In particolare il comunismo italiano si è caratterizzato per un significativo apporto dei cattolici (si veda ad esempio la figura di Franco Rodano), specialmente dopo la Seconda guerra mondiale. Nel 1946 con una modifica dell’art.2 dello statuto del Partito comunista italiano venne consentita l’adesione al partito anche a coloro che non professavano l’ideologia marxista leninista, ma condividevano il programma del partito. Ciononostante anche la sola iscrizione al quel partito o il sostenerlo vennero ufficialmente  dichiarati peccato mortale, passibile anche di scomunica come forma di apostasia, con un provvedimento del 1949 del Sant’Uffizio (una congregazione della Curia Vaticana che oggi ha diversa denominazione). Nel 1976 il segretario del Partito Comunista Italiano dichiarò di accettare l’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica (che all’epoca si contrapponeva al sovietico Patto di Varsavia) e nel 1977, durante la celebrazione a Mosca del sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, esplicitò al cospetto dei massimi leader  comunisti del mondo la peculiarità del comunismo italiano e la presa di distanza dall’esperienza sovietica. Nel 1979, durante il 15° Congresso, venne modificato l’art.5 dello statuto del Partito comunista italiano che faceva obbligo agli iscritti di conoscere e praticare l’ideologia marxista leninista. Da questo momento può considerarsi venuta definitivamente meno la pregiudiziale antireligiosa di quel partito, anche se permaneva indubbiamente una sospettosità anticlericale determinata essenzialmente dagli schieramenti politici dei vertici della Chiesa cattolica, in sede nazionale e internazionale, e, in parte, anche dall’idea che in genere i preti tendessero a stare con i padroni  e promuovessero una pacificazione sociale intesa come sottomissione ad un ordine sociale ingiusto. Nel corso della presidenza Gorbaciov dell’Unione Sovietica, dopo la crisi dei regimi europei vassalli dei sovietici (a partire dal 1989) e con la fine dell’Unione sovietica (1991), il Partito comunista italiano ha subito profonde metamorfosi, espresse anche nel cambiamento della denominazione e del simbolo, nell’accettazione della democrazia interna, nel ripudio del monolitismo, tanto che andò incontro a diverse scissioni, e, infine, alla fusione con formazioni di diversa ispirazione e tradizione. Oggi nessuno dei gruppi che sono derivati dal quel processo di metamorfosi, frazionamento e fusione, benché alcuni di essi mantengano la denominazione comunista, si rifà alle ideologie antireligiose e anticlericali di matrice sovietica. Tutti, in particolare,  hanno pienamente accettato l’ideologia democratica contemporanea. Possiamo quindi concludere che oggi il comunismo ateo non è tra le proposte politiche in lizza per le prossime elezioni. Mette conto di farne ancora menzione in un dibattito sull’attualità politica?

 Questa evoluzione del comunismo italiano comincia a non essere più nota nemmeno agli italiani. Possiamo pretendere che ne abbiano consapevolezza, ad esempio, gli immigrati che giungono da noi da ogni parte del mondo? C’è in questo un compito da svolgere, per chiarire bene le cose, in vista di un maggiore reale loro coinvolgimento nelle questioni italiane, che possa preludere anche all’acquisizione della cittadinanza. Ad esempio, per un ucraino parlare di partito comunista può suonare veramente minaccioso, perché il suo modello di riferimento è il PCUS (Partito comunista dell’Unione sovietica di un tempo).

 Posto quindi che a)non sarebbe degno della nostra comune cittadinanza politica determinarsi, nel voto prossimo, sulla base di direttive od ordini precisi ricevuti dal clero e non veramente condivisi, b) che la piattaforma politica dei nostri capi religiosi  è tutto sommato marginale e  non ha nessuna possibilità di essere attuata nelle attuali dinamiche democratiche, potendosi al massimo esercitare un’influenza per attenuare certi estremismi e che c) il comunismo ateo  non c’entra nulla con la politica di oggi, quali sono i temi centrali della prossima campagna elettorale?

 A mio parere sono due: rendere più coerente la struttura istituzionale della Repubblica, correggendo certi eccessi di autonomia locale che sono derivati dalle politiche del cosiddetto federalismo e in particolare, ristrutturando il sistema e i poteri degli enti pubblici minori che governano porzioni locali del territorio nazionale e consentendo al governo nazionale di intervenire con maggiori poteri nel sistema delle autonomie locali; contrastare la criminalità organizzata che sembra essere riuscita ad infiltrare la politica, venendo a costituire una minaccia per l’ordinamento democratico della nazione; individuare interventi per rivitalizzare l’economia nazionale e, al tempo stesso, per mantenere un accettabile livello di servizi, in particolare nel sistema sanitario e in quello scolastico, pur continuando a seguire la linea di contenimento della spesa pubblica e di riduzione del debito pubblico convenuta in sede di Unione europea. La crisi della finanza pubblica, correlata a quella dell’economia nazionale, lascia meno spazi di azione. Per questo i programmi delle varie formazioni in lizza non divergono molto e la competizione tra di loro si fa su giornali, televisione e internet essenzialmente sulla base della personalità dei candidati. Tuttavia differenze ci sono, quanto ai risultati sperati. Bisogna solo avere la pazienza di ragionare sui dati. Perché, ad esempio, tutti si propongono di ridurre “le tasse”, ed è chiaro che di questo beneficerebbero i più ricchi che hanno aliquote più alte e redditi maggiori, ma se poi le tasse fossero ridotte veramente di molto mancherebbero le risorse per assicurare i servizi pubblici universali, vale a dire che si vuole destinati a tutti, anche ai meno ricchi, sulla base di certi livelli di prestazioni. Mi riferisco in particolare ai trasporti pubblici, alla manutenzione delle strade, agli ospedali e alle scuole.

 Concludo dicendo che uno dei fondamentali esercizi di laicità che la nostra associazione ci propone di fare è proprio quello di acquisire, nel dialogo con gli altri, maggiore consapevolezza dei problemi della società in cui viviamo, al di là delle solite parole d’ordine e frasi fatte che non accrescono di nulla la nostra conoscenza delle cose, tendendo a farci assumere decisioni d’impeto invece che sulla base di mature e ragionevoli considerazioni, in cui tener conto non solo del nostro particolare interesse, o di quello della nostra Chiesa, ma anche di quello ti tutti gli altri.

 

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37

Noi e la storia. Chi siamo veramente?

(28 novembre 2012)

 

Su quale bilancia si pesa la vita di un uomo? Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui risultano il guadagno e la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso ultimo? Di fronte alla natura non si può parlare di bilancia, perché tutto va come deve andare secondo la sua legge intrinseca. Ma nell’uomo l’agire e l’essere sono affidati alla libertà, e libertà significa che si può fare qualcosa di giusto, ma anche di sbagliato, che si può preservare qualcosa ma anche che qualcosa si può corrompere. Qual è dunque la bilancia, e quale l’ordine?

 [In: Romano Guardini, La Rosa Bianca, Morcelliana, 1994, pagine 84, € 8. Commemorazione di Sophie e Hans Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf  e prof. Dr Huber* – discorso pronunciato a Tubinga il 4-11-1945]

*membri del gruppo di resistenti tedeschi La Rosa Bianca, giustiziati dal regime nazista nel 1943.

 

 Di solito quando si pensa all’espressione scrutare i segni dei tempi, che venne usata nella costituzione pastorale Gaudium et spes (n.4) del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si pensa ai tempi correnti, a quelli che stiamo vivendo nell’oggi. Il grande insegnamento del papa Giovanni Paolo 2° (regnante dal 1978 al 2005) fu di considerareil dovere di fare memoria veritiera anche del passato, per discernere anche in esso ciò che merita di essere preso ad esempio e quello che invece deve essere lasciato alla storia come manifestazione non più attuale o addirittura negativa: si tratta del lavoro che egli chiamò di purificazione della memoria.

  In un certo senso siamo abituati a farci narrare la nostra storia di collettività religiosa dai nostri capi, ma questo non rientra nel compito che riteniamo essere esclusivamente loro. Tutti siamo chiamati a ragionare sulla nostra storia, in particolare noi laici che abbiamo il compito specifico di ordinare secondo Dio le realtà temporali, vale a dire di costruire, in ciò che è umanamente possibile, un ambiente e una società dove gli esseri umani possano essere felici, secondo le nostre prospettive religiose.

 Non si tratta naturalmente di mettersi al posto di Dio e di anticipare presuntuosamente il giudizio finale sull’umanità e sui singoli suoi membri, evento sul quale in questo tempo liturgico di Avvento poniamo particolare attenzione. Poiché però noi non siamo stati creati dal nulla e in un nulla, ma siamo nati una determinata storia nella quale ci siamo progressivamente inseriti con un ruolo sempre più attivo e dalla quale siamo stati anche determinati e condizionati, innanzi tutto in ciò che si definisce la cultura del nostro popolo, il complesso di concezioni, abitudini, schieramenti, modi di esprimersi e via dicendo,  è nostro dovere, anche religioso, darne una valutazione, che ci riguarda da vicino, in quanto ha ad oggetto una esperienza di cui siamo parte.

 Nella coscienza religiosa si è sempre saputo che intere società possono andare contro i  valori religiosi: è questo anche l’insegnamento biblico. Molto più recente è la consapevolezza di doversi attivare religiosamente per combattere quelle che vengono definite strutture sociali di peccato. Questa espressione si trova in particolare nel magistero degli anni ’80 del papa Giovanni Paolo 2°. Certe organizzazioni della società, intese come istituzioni o movimenti, favoriscono o inducono al peccato, cioè a violare doveri religiosi. E’ un fenomeno che i cristiani hanno sperimentato fin dalle origini, fin da quando le istituzioni dell’impero romano pretendevano da loro l’ossequio religioso agli dei antichi. Ai tempi nostri abbiamo preso coscienza che lo schiavismo fu una struttura di peccato, ma si è trattato di una evoluzione culturale piuttosto lunga e travagliata. E’ stata considerata una struttura di peccato quella dei movimenti che inducevano alla lotta di classe, ma parallelamente, e su base biblica, si è anche presa maggiore consapevolezza che pure l’ingiustizia su base classista, dunque quella di coloro contro i quali si dirigeva la lotta di classe, è una struttura di peccato. Nel 2000, durante il Grande Giubileo che si celebrò quest’anno, si assistette a una spettacolare evoluzione di questa concezione: la Chiesa, guidata dal Papa, si impegnò a riflettere su ciò che nel proprio impegno storico aveva costituito struttura di peccato, proponendosi di distaccarsene.

 Di solito, quando riflettiamo sulla nostra esperienza religiosa, tendiamo a schierarci tra i buoni e poi partiamo con varie critiche, più o meno veementi, che riguardano quelli che non la pensano o non fanno o non sono come noi e facciamo loro la morale. Non sto a fare esempi, perché sicuramente ciascuno li ha in mente.  Pensiamo di essere gente pacifica, ma in realtà l’Italia ha un corpo di spedizione militare in Asia. Facciamo parte della parte più ricca dell’umanità e siamo piuttosto preoccupati del processo globale di ridistribuzione di una parte delle ricchezze del mondo che si sta producendo a favore di popoli che solo recentemente sono usciti dal sottosviluppo. E se dovessimo fronteggiare strutture sociali di peccato che furono quello che schiacciarono i resistenti tedeschi del gruppo della Rosa Bianca, come ci comporteremmo. Innanzi tutto: saremmo capaci di esprimere una veritiera, coraggiosa ed efficace critica sociale?

 Qualche volta, quando si parla dell’impegno dei laici cattolici nel mondo, li si pensa un po’ come dei piazzisti del sacro, dei venditori porta a porta di religiosità, sulla base delle indicazioni espresse dai capi della ditta, del loro catalogo. Si ha qualche difficoltà nel vederli invece impegnati un una riflessione creativa che riguardi anche i principi  e i valori, sulla base del lavoro di purificazione della memoria  e di approfondimenti personali che facciano reagire fede e vita. Questo accade all’interno della nostra Chiesa, ma anche fuori di essa. Spesso la persona di fede viene vista come un soggetto eterodiretto e incapace di autonomia di giudizio. Un credulone affascinato dal sacro.

 Riprendere in mano i documenti del Concilio Vaticano 2° può far apparire la sproporzione tra gli impegni che, già negli anni Sessanta, si ritenne di affidare al laicato e ciò che poi si è fatto in questo campo. E tuttavia dobbiamo tener conto che un lavoro religioso non è condizionato dalle forze concretamente disponibili in  campo o dal tempo che si ha a disposizione per agire. Esso vive nella prospettiva degli ultimi tempi ed è sempre svolto nella prospettiva dell’Avvento. Per quanto effettivamente la nostra buona disposizione d’animo e i nostri sforzi concreti contino, e siano manifestazione della nostra adesione interiore alla fede comune, il compimento di tutto non dipenderà da noi e c’è tutto il tempo che occorre per fare quello che si deve.

 Anche il piccolo gruppo dei resistenti della Rosa Bianca, che agiva anche in una prospettiva religiosa, non fu paralizzato dal considerare la scarsità del numero dei propri aderenti rispetto al mostro sociale contro il quale si dirigeva la loro critica sociale. A maggio ragione non dobbiamo esserlo noi, del gruppo parrocchiale di A.C. in San Clemente papa, che viviamo, tutto sommato, in tempi tanto meno complicati e pericolosi. Forse dovremmo però riscoprire l’entusiasmo dei nostri anni di gioventù, questo sì. E pregare che il nostro lavoro sia continuato anche da gente più giovane, nel nostro stesso filone ideale. Anche il sacrificio della Rosa Bianca fu fecondo in questo senso.

 

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La parrhesia* evangelica

(29 novembre 2012)

 

*parrhesia: vocabolo del greco antico. Significa franchezza, libertà nel parlare. Parlare pubblicamente, apertamente, coraggiosamente

 

…in condizioni di innegabili (ma non imprevedibili) necessità, piuttosto che tacere tutti, occorre che qualcuno si assuma l’iniziativa –non per velleità di protagonismo, ma con cuore umile e mosso solo da “parrhesia” evangelica- di professare pubblicamente la legge evangelica dell’amore e del rispetto dovuto ad ogni uomo

“Parlerò delle tue testimonianze davanti ai re

e non ne avrò vergogna” (Sa 119,46)

 E poiché ciò avvenga occorre che –nelle forme e con lo spirito dovuti, sempre di più nell’educazione interna e nella formazione della Chiesa di Cristo di faccia spazio non solo ai singoli episcopati, orientandoli a una coscienza eclesiale propria ma non nazionalista, veramente “cattolica” ma che anche si dia respiro alle grandi componenti in cui si articolano le Chiese locali, specialmente le loro associazioni qualificate di laici: perché divenga sempre più vero quello che si dice, e cioè che ai laici particolarmente spetta intervenire direttamente nella costruzione politica e nella organizzazione della vita sociale, agendo di propria iniziativa e cooperando con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità.

 …occorre compiere una revisione rigorosa di tutto il proprio patrimonio culturale e specialmente religioso, purificandolo radicalmente da ogni infiltrazione emotiva e da ogni elemento spurio che non attenga al nucleo essenziale della fede e che possa favorire anche solo in maniera indiretta ritorni materialistici o idealistici capaci di alimentare miti classisti, nazionalisti, razzisti ecc.

[Da Non restare in silenzio mio Dio, di Giuseppe Dossetti, introduzione scritta per il volume di L. Gherardi, Le Querce di Monte sole; ora in Giuseppe Dossetti – La parola e il silenzio – Discorsi e scritti 1986-1995, Paoline Editoriale Libri, 2005, €22,00]

 

 Su certi temi religiosi è inutile cercare istruzioni nei vari catechismi in commercio. Si tratta infatti di materie sulle quali ancora si discute e si sperimenta e non si è ancora trovata una posizione stabile, se non definitiva. In particolare questo accade per quanto riguarda l’impegno  religioso nei laici nella storia per influire sulla costruzione degli ambienti umani e delle società.

 Occorre riassumere brevemente alcuni punti che ho trattato precedentemente:

         -alle origini, diciamo nei primi quattro secoli della nostra era, le Chiese          cristiane erano ben distinte dalle istituzioni civili, alle quali prestavano          obbedienza in ciò che non contrastava con doveri religiosi ma sentendosi come stranieri (“ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra   straniera”, citazione dalla Lettera a Diogneto, scritto anonimo che si fa      risalire alla fine del secondo secolo della nostra era);

         -dal quarto secolo il cristianesimo diviene l’ideologia unificante dei sistemi          politici delle nazioni dominate dalle istituzioni imperiali romane e poi,          nell’Europa occidentale dei sistemi politici succeduti al crollo delle istituzioni          imperiali romane; in questa nuova situazione si instaura una dialettica, fatta          di accordi e scontri tra le autorità religiose e quelle civili, in cui i popoli          vengono in rilievo essenzialmente quali sudditi di una specie di condominio          in cui è molto importante stabilire chi comanda nelle varie questioni,  a          seconda che abbiano rilievo esclusivamente o prevalentemente religioso o          rilievo civile; oggi può sembrare strano, ma, in queste dinamiche e    concezioni, la pace tra i popoli non è un veramente un valore nella prassi   politica, compresa quella delle autorità religiose; non lo è neanche       l’autodeterminazione dei popoli (le concezioni democratiche contemporanee       sono molto lontane);

         -Dal Cinquecento comincia ad affermarsi l’idea che i sistemi sociali possano          essere mutati per corrispondere ad esigenze razionali. Si tratta dei   movimenti ideali precursori delle concezioni democratiche contemporanee.        In queste epoche i popoli cristiani sono dominati da monarchie ereditarie,   che si sentono minacciate dalle nuove idee. Il Papato solidarizza con le dinastie monarchiche  diventa una forza di reazione. Questo atteggiamento         si inasprisce di fronte ai sommovimenti politici della fine del Settecento e poi        nell’Ottocento. I movimenti democratici vengono essenzialmente concepiti     dai Papi come fonte di disordine sociale e di disubbidienza anche alle      autorità religiose. In Italia la situazione è particolarmente grave perché      l’unità nazionale si costruisce anche contro  il Papato, che domina Roma. Le   ultime condanne papali della democrazia, sia pure orientata in senso          cristiano, risalgono agli inizi del Novecento;

         -la situazione muta molto con l’esperienza delle due Guerre Mondiali del          Novecento (1914/1918; 1939/1945) e, in particolare, in nel confronto con i          regimi totalitari fascisti e nazisti (la Chiesa cattolica invece in quel periodo non fece esperienza diretta del totalitarismo sovietico, in quanto quest’ultimo    dominava nazioni cristiane ortodosse); in quell’epoca comincia a diventare       centrale il tema del perseguimento della pace universale e perpetua non più     solo mediante accordi con i capi delle nazioni (che con i capi fascisti, nazisti       non avevano funzionato e che non si era neppure potuto iniziare a intavolare con i capi sovietici), ma attraverso un’azione collettiva di masse illuminate;

         -da quell’esperienza, dalla quale la posizione morale del Papato esce          gravemente pregiudicata pur se la nuova Europa era andata strutturandosi          anche in base si riallaccia a principi        cristiani soprattutto per merito di          movimenti laicali che, allontanandosi     dall’atteggiamento prudenziale del          Papato, avevano partecipato alla resistenza europea contro i fascismi e i          nazismi, scaturì un diverso atteggiamento verso la democrazia, vista ad    un certo punto come una forza che poteva impedire il riaffacciarsi dei    totalitarismi. Richiamo il celebre Radiomessaggio Natalizio del 1944 del       papa Pio 12°:

 Il problema della democrazia

 Inoltre — e questo è forse il punto più importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.

 Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.

 In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?”

http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html

 

         -Bisognerà però arrivare agli anni Sessanta, al Concilio Vaticano 2° (1962-         1965)  e all’enciclica Populorum Progressio  (1967) del papa Paolo 6°,          perché il Papato chieda ai popoli cristiani una autonoma e originale iniziativa          dei laici cattolici per la realizzazione di un ordine giusto e pacifico.

 Siamo arrivati ai tempi nostri, caratterizzati da discussioni e sperimentazioni sul tema dei rapporti tra impegno religioso, promozione umana, in particolare elevazione degli umili,  e contrasto  di strutture sociali di peccato, in esso compresa la liberazione degli oppressi. Il fine è di pacificare la società costruendo ordini sociali  fondati sulla giustizia (per il legame che biblicamente si vuole vedere tra giustizia  e pace). Tuttavia si è vista che un’azione di pacificazione di questo tipo può non essere del tutto o per nulla pacifica, richiedendo di combattere le forze che promuovono e mantengono l’ingiustizia. In Italia questa è stata appunto l’esperienza storica delle forze cattoliche che aderirono alla resistenza armata al fascismo e all’occupante nazista, tra il ’43 e il ’45: si definivano ribelli per amore.

 Il più notevole tentativo di costruire un movimento di quel tipo, che si situasse tra l’organizzazione ecclesiale in senso proprio e le organizzazioni della società civile, non caratterizzate religiosamente, è stato quello delle varie teologie della liberazione, che originarono negli anni Sessanta e vennero duramente contrastate e represse, in particolare sotto il Papato di Giovanni Paolo 2°, per motivi prettamente teologici e per motivi politici, in quanto le si sospettava di cedimento alle ideologie marxiste e di assecondare i disegni sovietici nell’America latina.

 Negli anni ’80 e ’90 abbiamo assistito ad un forte attivismo politico internazionale, nel senso di cui dicevo, da parte del papa Giovanni Paolo 2°. Esso lasciò poco spazio ad autonome iniziative laicali. Si affermò in questo il modello di impegno laicale della Polonia, molto legato al collegamento con i vescovi. In Italia, dopo la fine dell’esperienza unitaria democristiana, poco spazio è stato lasciato ai laici e sui temi specificamente politici con rilevanza religiosa ha inteso esercitare un’azione di coordinamento la Conferenza Episcopale Italiana. Negli ultimi due anni ha ripreso ad essere molto attiva anche la Segreteria di stato Vaticana, qualche volta con iniziative che divergevano dalle concezioni della Conferenza Episcopale Italiana. Insomma, il laicato italiano è continuato ad essere quel brutto anatroccolo di cui ha parlato Fulvio De Giorgio nel suo bel libro omonimo del 2008.

 Un momento di particolare tensione si ebbe al tempo del referendum abrogativo in merito ad alcune norme della legge sulla procreazione assistita (2005), in cui la gerarchia cattolica aveva, indirettamente naturalmente, consigliato l’astensione, per non far raggiungere il numero minimo di votanti perché la consultazione fosse efficace e invece diversi cattolici decisero di andare a votare, pur votando contro l’abrogazione della legge (che era conforme alle concezioni dei vescovi). Volarono parole grosse tra laici schierati su posizioni opposte. Chi era conosciuto come cattolico e andava a votare veniva visto come in aperto dissenso con la gerarchia. In quell’occasione si manifestò chiaro il problema aperto dall’attivismo autonomo che si era iniziato a pretendere dai laici cattolici: esso doveva necessariamente svolgersi con metodi democratici e quindi rispettando la dignità morale e la libertà di coscienza di ciascuno. Questa convinzione fa fatica ad affermarsi nella nostra Chiesa, dominata da una gerarchia che rifiuta il metodo democratico nei compiti che sono suoi propri, ma è costretta a tollerarlo nell’azione nella società, se vuole veramente coinvolgere le masse nello sviluppo di una società ispirata a valori religiosi.

 Le cose si sono complicate ulteriormente per l’alta laicizzazione delle attuali formazioni politiche, per cui l’adesione a un determinato orientamento religioso, ad esempio alla dottrina sociale della Chiesa, non è più presentato come caratterizzante e da tutti si fa professione di tolleranza e multiculturalismo. Ma sono più complicati anche i problemi e i dilemmi davanti ai quali ci si trova. Vi è la necessità di ragionare bene sulle cose e sugli effetti delle proprie decisioni, in uno spirito che, in democrazia, non può tener conto solo degli interessi della propria parte, fosse anche la propria Chiesa, ma del bene di tutti i consociati. E allora certi sbrigativi appelli a votare questo o quello, che sicuramente verranno anche in occasione delle prossime elezioni politiche, come sono venuti nel passato, vengono accolti spesso con fastidio, perché gli anni del dopo Concilio non sono stati senza effetto e quindi non si tollera più umiliarsi nell’atteggiamento di sudditi di un potere indiscutibile, fosse anche a base sacrale, ma ci si sente impegnati a un atteggiamento responsabile che impone di capire e di convincersi bene sui vari temi. L’autorità, nelle cose della politica e, in genere, della costruzione delle società umane, la Città dell’uomo di Lazzati, non va data per scontata, ma deve essere conquistata giorno per giorno con buoni argomenti ed esempi edificanti.

 L’Azione Cattolica si sente particolarmente impegnata nell’azione di formazione delle coscienze necessaria per svolgere responsabilmente la missione che ai laici compete nel mondo di oggi.

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Eterno presente o apertura verso un futuro diverso?

(30 novembre 2012)

 

 

Da parte di Abramo dunque … emerge una disponibilità all’accoglienza dei tre uomini, dei tre stranieri che, inesplicabilmente, si trovano improvvisamente davanti a lui. La tradizione mistica di Israele qualificherà questa disponibilità come bontà o carità (“chesed”) ... li riceve: non come dei simili o degli uguali, ma come esseri misteriosi … e di grande importanza. […] Il presente di Abramo … improvvisamente è messo allerta da un mistero. Li riceve come se dei visitatori fossero, per principio, sempre messaggeri dell’Eterno, esseri che bisogna servire senza chiedersi se lo meritano. Messaggeri che per di più dovrebbero essere serviti prima di Colui che li ha inviati. Il che sembra –in ogni caso qui- il modo migliore per servirLo. [… ] Il presente … si trova liberato dalle limitazioni insopportabili e mortali perché si mostra capace di essere toccato dal mistero dell’altro, dalla sua presenza discreta e inafferrabile.

 In questo racconto della Torà è questo mistero che  fa dell’altro un inviato dell’Eterno –un angelo- e non è il fatto di aspettarsi dall’altro che risponda finalmente al mio desiderio e sia lo strumento della mia soddisfazione che porta a vedervi un angelo. [… ]

 Ricevere un angelo –il soffio e le parole dell’Eterno incarnati, fugacemente, qui e ora, in un uomo, in uno straniero – è dunque prendere delle iniziative – preparare da bere e da mangiare –senza cercare prima di familiarizzarsi con l’identità dell’altro e ancor meno chiedersi come trarne profitto per sé ,,, è considerare l’altro … irriducibile a ogni conoscenza che si pretenda di avere di lui.

 […] Il racconto studiato qui mostra come, grazie all’accoglienza di questo mistero, la chiusura nel presente si schiude e come ciò che sembrava impossibile è annunciato come possibile, la novità, l’avvenire, la nascita di un figlio […] Infatti solo l’alleanza della Parola e della carne fa vedere a una persona ciò che, fino a quel momento, restava invisibile, impercettibile o senza presenza di carne.

[In: Catherine Chalier, Angeli e uomini, Giuntina, 2009, pag.53-55; commento al racconto biblico di Gen 18,1, l’apparizione ad Abramo di tre uomini alle querce di Mamré]

 

 Uno dei pregi maggiori che alcuni pensatori del passato hanno visto in alcuni tipi di religiosità è l’apertura al futuro, all’inaspettato.  Nel cristianesimo è l’aspetto della speranza che ha colpito particolarmente anche fuori del nostro mondo.

 In religione si confida di essere liberati dalla morte e di essere salvati dalla pena eterna. Quando accadrà questo? Nessuno lo sa, ci viene insegnato; è scritto. Nei travagli dell’oggi siamo convinti però che qualcosa è cambiato, proprio nel mondo in cui viviamo, con la nascita di Gesù, migliaia di anni fa. E che alla fine dei tempi si avrà il compimento beato di tutto ciò che nella fede religiosa crediamo, con il ritorno glorioso di Cristo. Nel frattempo siamo però invitati a non rimanere inattivi. Bisogna rimanere vigili e pronti, come le sentinelle nella notte (così sosteneva Dossetti). In particolare bisogna scrutare i segni dei tempi, come fanno gli agricoltori nel loro mestiere, per capire quando è tempo di seminare e quando di raccogliere. Ma c’è di più: abbiamo la possibilità di influire sul corso dei tempi, su come vanno le cose nel mondo, e, in particolare noi laici, siamo stati invitati a farlo dai padri del Concilio Vaticano 2° e i nostri capi religiosi non cessano di ricordarcelo. Questa nostra attività sembra che non abbrevierà di un secondo il tempo che manca alla fine di tutto, ma manifesta il nostro assenso a ciò che religiosamente crediamo, è il nostro concreto amen.

 A parole sembra tutto facile, nella pratica molto meno. Chi decide che cosa si fa per cambiare il mondo? Il Papa e i vescovi, i quali hanno formazione prevalentemente teologica e ci chiedono aiuto in tutto il resto? Decidiamo a maggioranza? E se poi le maggioranze, come è accaduto, si pervertono e, invece di tendere a ciò che conta, pensano prevalentemente al proprio tornaconto? E se non andiamo d’accordo su ciò che deve fare, come mantenere l’unità della nostra collettività religiosa?

 Come ho scritto, si tratta di temi sui quali soluzioni soddisfacenti non sono state ancora trovate, a mio parere naturalmente.

 Nella nostra parrocchia, ad esempio, convivono stili di religiosità molto diversi, che in qualche campo sono addirittura contrastanti. Alla fine allora si tende a stare con chi la pensa come noi e si fanno molte chiacchiere, spesso malevole, sugli altri. Una ricerca sul WEB ci convincerà facilmente che circolano in rete le accuse più tremende contro gli avversari, e sono sotto accusa addirittura Papi e Concili ecumenici.

 Non è che al di fuori della Chiesa le cose vadano meglio. Si parla in merito di estesa frammentazione sociale e di corporativismo. Ognuno pensa per se e, di scontro in scontro, si arriva solo a provvisori compromessi.

 Un esempio storico di ciò a cui voglio riferirmi lo abbiamo nella Palestina contemporanea. Proprio  lì, in luoghi sacri  a tre religioni, sembra rivivere l’esperienza desolante della biblica Babele. E anche noi cattolici pretendiamo di dire la nostra al massimo livello, concludiamo accordi, intavoliamo trattative. Ma con che risultati, poi? La mia spiritualità è poco legata a quei posti, che mi sembrano anche piuttosto inospitali come ambiente naturale, visti con gli occhi di un italiano. L’unico luogo a cui sono legato emotivamente è il “mare” di Galilea, che è tanto simile al lago dove vado in vacanza d’estate, quello di Bolsena. Ma capisco che il mio è  un punto di vista particolare, limitato, e che ci sono buoni motivi religiosi per occuparsi di quelle terre. Farlo pacificamente sembra però piuttosto difficile e la storia ce lo ha confermato e lo conferma ancora.

 Eppure l’attesa del futuro, la vera speranza, può avere in fondo solo natura religiosa.

 Un primo atteggiamento che vorrei provare a sperimentare è confrontarsi con gli altri senza preventivamente calcolare i vantaggi che ci verrebbero da un’alleanza con loro o, viceversa, gli svantaggi. E’ l’insegnamento che la Chalier ricava, sulla base della riflessione dei saggi ebrei, dal racconto biblico dell’incontro misterioso di Abramo alle Querce di Mamre. Quindi di cogliere negli altri ciò che supera l’utilità materiale che le loro vite possono darci.

 La religione ci dà la capacità di uno sguardo soprannaturale che consente di cogliere ciò che prima restava invisibile, impercettibile, e che quindi veniva trascurato. E’ così che ho spiegato alle mie figlie la protezione che i cattolici vogliono fornire a organismi umani che non hanno ancora o non hanno più la capacità di entrare in relazione con noi nei consueti modi degli esseri umani. E questo a prescindere da altre questioni più complicate come quelle che riguardano l’anima e via dicendo. Ma anche nei riguardi dei morti, di quelli che dal punto di vista scientifico non vivono più, che mi capita di incontrare spesso in certi miei turni di lavoro, l’animo rimane incredulo di fronte alla realtà fisica della fine, del disfacimento dei corpi, della cosificazione dell’essere umano, disgregabile in pezzi minuti nelle pratiche autoptiche, e, potente, emerge l’esigenza di aderire alla promessa di salvezza che in religione abbiamo accettato e professato.

 

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Sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente e rilevanza religiosa della democrazia

(1 dicembre 2012)

 

l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, tale progresso, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, è di grande importanza per il regno di Dio.

  Ed infatti quei valori, quali la dignità dell’uomo, la comunione fraterna e la libertà, e cioè tutti  i buoni frutti della natura e della nostra operosità dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre “il regno eterno e universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace” [ dal Prefazio alla festa del Cristo Re]. Qui sulla terra il regno è già presente, in mistero; ma non la venuta del Signore, giungerà a perfezione.

[ dalla costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n.39 Terra nuova e cielo nuovo, del Concilio Vaticano 2°  -1962/1965]

 

 Il tempo che ogni martedì dedichiamo alla riflessione sui temi dell’Anno della Fede è troppo poco per un vero aggiornamento, se già certe cose non le abbiamo conosciute e assimilate molto prima, nel corso della nostra vita. Può al più dare spunti per ulteriori approfondimenti. Siamone consapevoli: se vogliamo esercitare utilmente il diritto di parola che ci viene riconosciuto su certi temi, dobbiamo fare uno sforzo per apprendere, innanzi tutto leggendo i documenti che oggi generano i dibattiti più attuali. Potremmo quasi dire che ci competono compiti a casa. Ma non si tratta solo di questo. Poiché questa è azione religiosa ne dobbiamo fare materia di preghiera, perché ogni cosa sia vista, pensata e agìta, come è scritto nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto, nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto.

 Molti anni fa, quando facevo ancora le medie, mio zio Achille, che era un importante sociologo italiano, piuttosto seguito anche nel mondo cattolico, mi parlò della discesa della Gerusalemme celeste (Ap 21), nuovo cielo e nuova terra. All’epoca ero molto appassionato di fantascienza, leggevo ogni due settimane i fascicoli della collana Urania, e mi figurai la cosa come una grandissima astronave che atterrava da noi. Mi sorprese che uno scienziato come mio zio, una persona che nel suo  lavoro era molto legata al dato statistico, all’immagine realistica delle società del suo tempo attraverso sondaggi condotti con metodi precisi e razionali, si appassionasse a cose come quella. Per me, allora, la religione significava la Messa la domenica e le altre feste tradizionali, le preghiere al mattino e alla sera (quando me ne ricordavo), non eccedere in certe abitudini personali che i preti deploravano, fare quello che i miei genitori mi dicevano, confessarmi ogni tanto. Non immaginavo che ci fosse molto di più. La società andava come andava e io stavo ancora imparando a vivere in essa, non mi passava per la mente di cambiarla. Pensavo anche che, tutto sommato, mi era capitato di nascere tra gente buona.  Poteva andarmi peggio. Sapevo che c’erano anche i cattivi e quelli che soffrivano, ma li situavo in regioni lontane. Della morte avevo un’immagine vaga, in genere collegata ai film eroici di guerra, in cui si facevano belle morti, nel senso di apprezzate dagli altri. “…adesso e nell’ora della nostra morte” erano soltanto parole per me, frasi mandate a memoria.

 Certe idee ho cominciato a capirle e ad apprezzarle veramente solo crescendo.

 Dunque c’è, in religione,  un lavoro da fare. Non c’è  solo la parte, come dire, liturgica. E non si tratta solo di sforzarsi di non cedere agli istinti. C’è una fatica che dobbiamo sobbarcarci ed essa riguarda il mondo in cui viviamo, il tempo presente. Essa consiste nell’ordinare meglio la società in cui siamo inseriti. Perché è fatica? Perché, in genere, le società resistono ai cambiamenti, tanto più in quanto sono fondate sull’ingiustizia, quindi su privilegi di alcuni rispetto ad altri. Non è questa anche la vostra esperienza?

 Questo lavoro nella società, ci dice il Concilio Vaticano 2° sulla base della tradizionale teologia, non è senza importanza per il regno di Dio. Ma, come? Non doveva venire dal cielo, la santa città, la nuova Gerusalemme, già tutta pronta per noi, come una sposa pronta per andare incontro allo sposo? La nostra idea religiosa è che ciò che avremo costruito sulla terra secondo i precetti di fede lo ritroveremo ai tempo del compimento beato, illuminato e trasfigurato. Capiremo quindi che esso era già una manifestazione del regno beato, eterno e universale. Cose come la dignità delle persone umane, la comunione fraterna, la libertà. Siamo ben consapevoli, naturalmente, dei limiti insiti in tutte le nostre costruzioni, per cui, qui e ora, non ci azzarderemmo mai a dire  il regno è qui. Confidiamo, ma senza poterne avere la sicurezza, che certe cose che facciamo possano averci a che fare: è questo il mistero di cui si parla nel brano che ho sopra citato. Ma perché mistero? Perché, anche se contemplando l’opera nostra non possiamo, in fondo, concludere, come nel Sesto giorno, che è cosa molto buona (Gn 1,31), perché non ci illudiamo e ne vediamo le imperfezioni, tuttavia l’animo nostro  è pur sempre pieno, religiosamente, non tanto razionalmente, di speranza, confidando che ciò che per mezzo nostro è stato generato dal contatto con un  appello soprannaturale, poi sarà portato a termine, quindi al compimento, da colui che ci ha chiamati e attirati verso di sé.

  Ora, bisogna prendere coscienza che in quel brano della Gaudium et spes ci sono cose che appartengono da sempre alla tradizione cristiana e cose nuove. Queste ultime le possiamo considerare come manifestazione viva di quel lavoro di cui si parla nel brano medesimo. La cosa veramente nuova è l’appello a tutti coloro ai quali il Concilio volle rivolgersi, vale a dire a tutte le persone umane [Gaudium et spes, 2], alla sollecitudine nel lavoro per il progresso delle società umane verso la dignità delle persone umane, la comunione fraterna e la libertà, attraverso nuovi e migliori ordinamenti.

  Vogliamo approfondire un po’ di più? Come potremmo dire in modo diverso gli obiettivi di quei nuovi  e migliori ordinamenti sociali indicati nella Gaudium et spes? Butto lì: uguaglianza, fraternità, libertà, i principi cardine delle democrazie moderne.

 Si legge nella nota 793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004)

793« Libertà, uguaglianza, fraternità » è stato il motto della Rivoluzione francese. « In fondo sono idee cristiane » ha affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia a Le Bourget (1º giugno 1980), 5: AAS 72 (1980) 720.

  Per oggi finisco qui. Per riflettere su certe cose serve tempo. Quando parlo con gli altri non noto una grande consapevolezza della natura anche religiosa del lavoro che si fa in democrazia per il miglioramento della società. Anzi sento spesso contrapporre religione e democrazia ed alcuni con compiacimento proclamano che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa. Ne siamo proprio sicuri?

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La pace universale come finalità religiosa

(3 dicembre 2012)

 

 Tutti gli uomini quindi sono chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, si infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.

[dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium – n.13 -, del Concilio Vaticano 2°]

  La prima volta che mi posi veramente il problema della pace come finalità religiosa fu quando partecipai, la sera dell’ultimo dell’anno del 1981, a una Marcia della pace che fu percorsa qui a Roma, dal Colosseo a piazza San Giovanni e che terminò con la Messa nella basilica lateranense.  All’inizio pronunciò un  breve discorso il rabbino capo di Roma prof. Elio Toaff e il tema che svolse fu quello del rapporto tra pace e giustizia: non si poteva essere vera pace senza giustizia e la vera giustizia non era quella dei compromessi che si fanno nelle storie umane ma quella religiosa.

 Negli anni ’70, che pure erano stati piuttosto turbolenti in Italia, si era parlato molto di pace nel mondo giovanile, ma in genere non se ne era colto il senso religioso e questo nonostante la dottrina sociale della Chiesa cattolica e il Concilio Vaticano 2° l’avessero molto messo in risalto. Il mondo all’epoca era diviso in due blocchi, quello capitalista e quello comunista, e la Chiesa cattolica veniva annoverata nel primo. Nella società italiana, poi, la Chiesa cattolica veniva vista come alleata di chi comandava, in politica con la Democrazia Cristiana, nelle relazioni di lavoro con i padroni, tanto che c’era l’uso di chiedere raccomandazioni di lavoro al parroco, quando non c’era di meglio.

 Il problema è che, in genere, il conseguimento della giustizia richiede una lotta, non è una cosa naturale nelle società umane. In esse i rapporti vengono strutturati sulla base della forza delle componenti che si scontrano per l’affermazione dei propri interessi. Questo lega la stabilità delle società umane all’impiego della forza e quindi, come conseguenza, la possibilità del mutamento di un ordine sociale all’esercizio di una forza maggiore. Le democrazie contemporanee sono i regimi politici in cui si fa un minor impiego della forza, ma anch’esse si sono affermate con la forza, per scardinare ordini politici precedenti, i quali resistevano al cambiamento.

 Ma anche se si riuscisse a realizzare un ordine giusto esso tuttavia non potrebbe fare a meno di prevedere l’impiego di una certa forza, per resistere a sua volta a cambiamenti prodotti dall’aggressione opportunistica di chi voglia di più per sé o per il proprio gruppo. Nell’antichità romana si era soliti ricordare il detto secondo il quale se si vuole la pace, bisogna preparare la guerra, ma poi quel tipo di pace sarebbe veramente tale? Tacito scrisse la celebre frase, a proposito della politica romana: fanno un deserto e lo chiamano pace.

 Il problema della pace universale è piuttosto recente. Risale fondamentalmente al periodo storico in cui si affermò il movimento filosofico detto dell’Illuminismo, nel Settecento. L’idea che in questo movimento per la pace universale possano essere coinvolti tutti  i popoli della terra, anche, per dire, gli aborigeni o le genti socialmente meno sviluppate, è ancora più recente: risale al periodo tra le due guerre mondiali del Novecento. Le immani stragi che ne conseguirono, che non si erano mai verificate in alcun altro periodo della storia dell’umanità, e soprattutto la possibilità concreta di stragi ancora maggiore derivanti da un conflitto con l’impiego di armi nucleari, portarono alla revisione delle idee che si avevano sul problema della guerra. Fino ad allora la guerra, vista essenzialmente come manifestazioni di conflitti tra dinastie regnanti, non era stata un vero problema per la Chiesa cattolica, che vi si era, anzi, trovata spesso invischiata e, in ogni caso, aveva sempre voluto dire la propria sulle guerre che coinvolgevano potenze europee. Del resto nella Bibbia ci sono molte guerre, alcune che vengono presentate come giuste, quelle a beneficio degli israeliti e dell’unità del loro popolo, e altre malvagie, quelle contro gli israeliti e che comportano la divisione di quel popolo. Fondamentalmente l’ideologia cattolica sulla guerra si era sempre rifatta a quell’ordine di idee. Nell’Apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo Testamento e della Bibbia cattolica, si narra di molte guerre sanguinose e si situa alla fine dei tempi l’avvento della pace religiosa, ma non come opera degli esseri umani, ma come iniziativa portentosa soprannaturale, per cui la nuova Città dell’uomo la si vedrà venire dall’alto, già tutta pronta, adorna come la sposa per lo sposo.

 Nelle guerre tra popoli in prevalenza cristiani, i rispettivi preti e religiosi parteggiavano per i propri stati e i propri eserciti, invocando il soccorso divino per le pretese nazionali. Alla fine delle guerre, nelle nazioni dei vincitori si celebravano Messe di ringraziamento per la vittoria e  pochi vi videro un’incongruenza religiosa, mentre il filosofo tedesco Emanuele Kant (1724-1804) vi scrisse sopra pagine roventi nella sua opera  Per la pace perpetua (1795). Secondo lui si sarebbero invece dovute celebrare Messe funebri e riti penitenziali per ricordare i tanti morti che la pace era costata sui due lati del fronte e, soprattutto, l’insuccesso della ragione umana che non era riuscita se non con quella barbarie a regolare i rapporti tra nazioni.

 Un precursore come don Lorenzo Milani entrò in contrasto con i cappellani militari per discorsi come quelli e, quando si disse a favore dell’obiezione di coscienza su basi anche religiose al servizio militare, fu messo sotto processo penale.  Si era negli anni Sessanta, e si era già dopo il Concilio Vaticano 2°.

 Il modo in cui nel Novecento la Chiesa manifestò per un certo tempo la sua adesione alla pace fu quello della neutralità. Dopo la Seconda guerra mondiale esso risultò profondamente insoddisfacente. Si disse, ad esempio, che non era stato detto e fatto abbastanza di fronte all’enormità del disegno criminale hitleriano dello sterminio delle popolazioni ebraiche europee, manifesto fin dall’inizio come proposito e noto alla Santa Sede anche nella fase attuativa attraverso i suoi canali diplomatici. Rimanere neutrali è un modo debole di promuovere la pace: semplicemente si cerca di non accrescere le ragioni di conflitto e di non portarvi nuovi combattenti, ma si rimane sostanzialmente indifferenti sulle cause della guerra, che in genere si fondano su pretese ingiustizie sociali.

 Dopo la Seconda guerra mondiale la Chiesa cattolica parteggiò apertamente per il blocco capitalista, che si contrapponeva a quello sovietico, in cui si era apertamente avversi alla religione e al clero. Si vide un senso religioso allo stallo per cui le grandi potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si trovavano nelle condizioni di dover evitare un conflitto globale con l’impiego di armi nucleari per il concreto pericolo di sterminare le loro stesse popolazioni. Si trattava in effetti di un paradosso: la pace poteva essere mantenuta mantenendo un equilibrio nelle armi più devastanti che andava sempre situandosi al rialzo.

 In Europa si andò ideando un ordinamento diverso da quelli che avevano preceduto nella storia dell’umanità, nel quale la pace fosse mantenuta attraverso una forma di collaborazione e di integrazioni dei popoli. Questo processo vide protagonisti politici cattolici, ma non la gerarchia cattolica, in genere piuttosto sospettosa verso iniziative del genere. Essa infatti ragionava essenzialmente, nella politica internazionale, in termini diplomatici e una nuova entità europea sovranazionale sarebbe stato un altro organismo con cui patteggiare  un accomodamento, una specie di nuovo concordato, qualcosa che metteva in questione gli accordi che già in varie parti si erano raggiunti con gli stati nazionali.

 In questo periodo, e ancora oggi, l’idea di un’istituzione di promozione della pace universale che la gerarchia cattolica ha è quella di una potenza sovraordinata a tutte le altre potenze, capace di imporre una sorta di polizia internazionale per il mantenimento della pace. Essa confida molto nell’organizzazione delle Nazioni Unite. Si è visto però che quest’ultimo organismo, che realizza una forma di effettiva concertazione permanente tra nazioni, è in definitiva alla mercé delle potenze maggiori, che oggi non sono più solo le potenze vincitrici della Seconda Guerra mondiale. E la concertazione di maggior rilevo è quella che si assume nel Consiglio di sicurezza in occasione di crisi internazionali, quando viene data l’autorizzazione a una superpotenza militare di intervenire in un teatro di guerra, come ripetutamente accaduto negli anni passati.

 L’ordinamento pacifico su cui si fonda l’idea europea è profondamente diversa, perché la si vuole fondare dal basso e, in particolare, attraverso la realizzazione in concreto di diritti umani fondamentali e di una comune dignità delle persone dei popoli coinvolti nel processo di pacificazione. Questa soluzione si è dimostrata capace di mantenere la pace in Europa dal 1945, tra popoli che si erano storicamente combattuti per secoli, anche su basi religiose. Essa ha anche determinato un moto centripeto, per cui i popoli d’intorno chiedono di unirsi a quelli che si sono già in tal  modo federati. Addirittura questo moto ha coinvolto un popolo erede di uno storico nemico come la Turchia, islamica.

 Attualmente la dottrina sociale della Chiesa oscilla tra l’idea di una pace mantenuta con la forza da un’autorità mondiale e quella realizzata a partire da popoli profondamente federati. La prima soluzione è conforme alla storica tradizione diplomatica della nostra Chiesa, quindi alla sapienza con cui ha saputo intavolare di volta in volta trattative con i sovrani, la seconda presenta l’incognita della volontà popolare. La gerarchia cattolica è piuttosto diffidente verso quest’ultima, tanto da rifiutare la democrazia come metodo organizzativo al proprio interno. Eppure è proprio dalla pace come obiettivo culturale dei popoli che sono venuti i migliori risultati, lì dove si è avuto un disarmo degli spiriti che ha reso inutili le armi materiali. La convergenza dei popoli ha prodotto l’abbattimento di storiche e sanguinose frontiere come quelle tra l’Italia e l’Austria o tra la Francia e la Germania. Ma il suo fondamento ideologico, pur dovendo molto alle idee religiose dei cristiani, in particolare a quelle che erano state meno sviluppate nella storia europea, non coincide totalmente con la dottrina cattolica e, anzi, su certi punti può addirittura contrastare con essa, in particolare in sviluppi recenti, come quelli che riguardano le libertà religiose o la discriminazione su base sessuale.

  C’è inoltre il problema di costruire un nuovo ordine economico, fondato su principi di giustizia sociale ma anche di efficienza economica. Questo è prettamente un lavoro in cui devono impegnarsi i laici cattolici, ma che succede quando sono in questione interessi economici della Chiesa cattolica intesa come organizzazione?

 Per la prima volta nella storia i cattolici sentono che la questione della giustizia come fondamento della pace universale coinvolge anche la loro Chiesa, la sua struttura e i suoi interessi come organizzazione sociale. In particolare è centrale il tema del ruolo delle donne, le quali, con varie argomentazioni, vengono tenute fuori dai centri di elaborazione della dottrina comune. Ma vengono in rilievo molte alte questioni che sono rimaste irrisolte e che in qualche modo possono essere riassunte nel dibattito sull’appartenenza ecclesiale come unica via di salvezza. Questa è stata storicamente l’occasione di infiniti conflitti a base religiosa.

 In queste settimane sono stati tra noi membri del movimento che si è formato intorno alla comunità ecumenica di vita religiosa di Taizé, in Francia. Lì è concretamente dimostrata e prefigurata la possibilità di una coesistenza pacifica tra diverse idealità religiose cristiane che, dal punto di vista teologico, non è invece ancora del tutto scontata.

 Nel processo ideale di unificazione europea la gerarchia è stata come trascinata dagli eventi, non ne è stata protagonista. La dottrina sociale in merito è ancora insufficiente. In questo noi laici siamo chiamati ad avere oltre che un ruolo esecutivo, un ruolo ideativo, a pensare un modo nuovo di essere persone religiose nella nuova Europa. Poi, come sempre è accaduto, seguiranno la teologia e la dottrina, per sancire ciò che si sarà dimostrato valido.

 Azione cattolica  è anche tutto questo. Non consiste solo nel portare gente in chiesa. E’ un compito molto complesso nella società del nostro tempo. E’ un lavoro che supera le capacità del nostro piccolo gruppo parrocchiale? In realtà no, perché noi ragioniamo religiosamente. Così come nella Messa pensiamo di rendere presente l’unica Chiesa universale, allo stesso modo possiamo ragionare tra noi sentendoci parte dell’intera umanità, per escogitare, secondo la terminologia del filosofo e giurista Norberto Bobbio, le vie della pace (1966, ripubblicato da Il Mulino nel 2009).

 

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Che fanno i laici cattolici nel mondo?

(3 dicembre 2012)

 

Col nome di laici si intende qui l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, compiono nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.

[…]

Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo  esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e al Redentore.

[Dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium (n.31), del Concilio Vaticano 2° (1962-196)]

 Vi propongo come pio esercizio per questa settimana di imparare a memoria i due brani della Lumen Gentium che ho sopra riportato. Sono legge molto importante della nostra Chiesa. E contengono alcune delle affermazioni più rilevanti del Concilio Vaticano 2°. Dalla mente devono scendere nell’anima e poi di nuovo devono tornare alla mente, per progettare il futuro con la determinazione che è richiesta dal carattere religioso dell’impegno a cui siamo chiamati.

 Abituati forse ancora a considerare Chiesa il Papa, i vescovi, i sacerdoti e i loro stretti collaboratori, i monaci e le monache, i frati e le suore, dobbiamo sforzarci ora di figurarci l’immane massa di persone, quasi un miliardo di cattolici, che compone il resto, quella parte del Popolo di Dio che viene denominata il laicato (l’espressione, usata in questo senso, risale agli scritti di San Clemente papa, I secolo della nostra era, al quale è intitolata la nostra chiesa parrocchiale).

L'occasione immediata della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull'identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell'affievolimento della carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i fedeli all'umiltà e all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa: “Siamo una porzione santa”, ammonisce, “compiamo dunque tutto quello che la santità esige” (30,1). In particolare, il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso “ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà... Al sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri. L'uomo laico è legato agli ordinamenti laici” (40,1-5: si noti che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana, compare il termine greco “laikós”, che significa “membro del laos”, cioè “del popolo di Dio”).

[dalla meditazione svolta dal papa Benedetto 16° all’udienza generale del 7-3-07]

 La valorizzazione dell’impegno religioso dei laici è uno dei temi  chiave lanciati da padri conciliari soprattutto per sviluppi futuri, che ancora sono in corso.

 Naturalmente considerare quasi come un resto la gran massa dei fedeli, detratti  i membri dell’ordine sacro e i religiosi, è una particolare prospettiva che risente del metodo della teologia di ordinare le argomentazioni. Per la gran parte della storia della chiesa i laici sono stati poi considerati essenzialmente come sudditi della potestà religiosa esercitata dal clero, allo stesso modo in cui lo erano, nel campo civile, delle dinastie regnanti e dei loro vassalli e funzionari. In effetti i Papi ebbero anche, e ancora hanno sebbene in un ambito poco più che simbolico, la condizione giuridica di monarchi, ad un certo punto equiparati come dignità agli imperatori, ai re dei re, e i vescovi ebbero effettivamente la condizione di feudatari e così i capi degli ordini religiosi maschili. Un suddito onora il proprio Signore e gli ubbidisce e lo serve. Il potere religioso trovava limitazione in quello politico civile e storicamente si ebbero varie combinazioni tra gli stessi, con accomodamenti e anche conflitti. La gente del popolo era, come dire, oggetto di una sorta di condominio tra autorità religiose e civili. Questo assetto c’era nella Bibbia e, in particolare, nel Vangelo? Diciamo che ci si costruì una teologia sopra, imposta ai fedeli laici per vincolo di obbedienza religiosa. Il Concilio Vaticano 2°  consacrò al massimo livello un profondo ripensamento (già in corso da diversi anni), il quale naturalmente venne espresso in termini teologici, collegandolo alle Scritture e alla Tradizione, ma fondamentalmente originò dall’esperienza storica dei movimenti laicali cattolici nell’Ottocento e nel Novecento e dalla constatazione che solo l’azione di masse illuminate poteva contrastare i moventi ed esordi di conflitti catastrofici come quelli che si erano prodotti in Europa fin al 1945. Ricordo di nuovo il Radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12°, la prima manifestazione pubblica della nuova mentalità:

Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.

 In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui e della società?

 Forse, per una certa pigrizia e rassegnazione, che anch’io, ormai cinquantacinquenne,  comincio ad avvertire, pensiamo al nostro impegno religioso come un farci intrattenere con discorsi edificanti e belle liturgie. E invece dovremmo essere costruttori di mondi, questo appunto significa l’espressione trattare le cose temporali ordinandole secondo Dio. E lo dobbiamo fare in modo creativo, perché si tratta di cose per i tempi nuovi. Con competenza e guidati dallo spirito evangelico. E’ qualcosa che viene anche espresso anche con il concetto di regnare. Ma siccome dobbiamo farlo tutti insieme e pacificamente, lo dobbiamo fare democraticamente rispettando la dignità di ciascuno, compresa la libertà e la franchezza (in greco parrhesia) di espressione. Ne siamo consapevoli?

 

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Laicità dello stato: nuovo fronte religioso?

(9 dicembre 2012)

 

1. Il Discorso alla città pronunciato lo scorso 6 dicembre 2012 dal cardinale arcivescovo di Milano Angelo Scola sul tema L’editto di Milano:initium libertatis (l’editto era quella del 313 dell’imperatore romano Costantino che concedeva libertà di culto e di professione religiosa pubblica ai cristiani) interroga sull’apertura di un nuovo fronte religioso in materia di laicità e aconfessionalità dello stato.

 Aconfessionalità dello stato significa che lo stato non riconosce come propria alcuna religione, in particolare quella cattolica, e quindi non si impegna a integrarla nel proprio sistema di potere, anche solo come sistema di valori etici.

 Nello Statuto  del Regno d’Italia del 4-3-1848 e nel Trattato Lateranense dell’11-2-1929 (uno dei due accordi che sono noti come Patti Lateranensi; l’altro è il Concordato) era previsto, con forza di legge (ai Patti Lateranensi fu data esecuzione nel Regno d’Italia con legge n.810 del 1929) che la religione cattolica, apostolica romana fosse l’unica religione dello stato.

 Con l’Accordo di revisione del Concordato Lateranense  del 1984, la Repubblica Italiana e la Santa Sede:

·        tenuto conto del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano 2°

·        avendo presenti da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano 2° circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico:

nell’art.1 del Protocollo addizionale di quell’accordo, stabilirono:

·        “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi,della religione cattolica come sola religione dello Stato.”

L’aconfessionalità della Repubblica Italiana si ricava poi ulteriormente dal fatto che tutte le  confessioni religiose sono dichiarate libere davanti alla legge (art.8, 1° comma della Costituzione). La posizione della Chiesa cattolica risulta particolarmente rafforzata in quanto la si dichiara con norma costituzionale (art.7 della Costituzione), indipendente e sovrana nel proprio ordine, quindi un vero e proprio potere autonomo, di cui lo staterello di quartiere Vaticano vorrebbe essere una sorta di rappresentazione,  e in quanto, con l’art.7 della Costituzione si è prodotto un riconoscimento costituzionale del diritto concordatario e, innanzi tutto, del principio concordatario, che esclude modifiche unilaterali da parte dello stato,  per cui si ritiene anche che il diritto concordatario cederebbe solo dinanzi ai principi supremi dell’ordinamento dello stato.

 Il principio di laicità dello stato è qualcosa di più della semplice aconfessionalità dello stato. Significa che la dignità civile dei cittadini non deve essere discriminata sulla base della religione professata.

 Ricordo, ad esempio, che quando mio padre mi mandò a Dublino, negli anni ’70, per imparare un po’ di inglese, all’epoca, nelle contee settentrionali ancora sotto dominio britannico, si era nel periodo dei cosiddetti Troubles, dei moti degli irlandesi di religione cattolica che lamentavano di essere discriminati nell’organizzazione statale e nell’economia nazionale a  motivo della loro religione.

 Il principio di laicità dello stato si ricava dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione ed è considerato un principio supremo dell’ordinamento della Repubblica italiana, capace di prevalere anche su norme di rango costituzionale, ““uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica” (sentenza della Corte costituzionale n.3 del 1989).

  Per i principi di aconfessionalità e laicità dello Stato le religioni non possono ottenere che lo stato imponga ai cittadini le loro norme etiche e le proprie visioni del mondo.  Esse dovranno conquistarsi autorevolezza conquistando il consenso delle persone. Comunque nessuna maggioranza religiosa potrà mai ledere il principio di laicità e quello di aconfessionalità dello stato, a meno di fare una rivoluzione, di rovesciare uno dei principi supremi della Repubblica.

  L’accordo di revisione del Concordato Lateranense concluso nel 1984 menziona i deliberati del Concilio Vaticano 2°.

 Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, al n.76 è enunciato il principio della laicità dello stato:

·        La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo

Segue tuttavia un temperamento che corrisponde anche all’attuale concezione delle nostre autorità religiose:

·        Ma tutte e due, anche se a titolo di verso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra loro, secondo le modalità adatte alle circostanze di tempo e di luogo.

 Questa formulazione è stata ripresa nell’art.1 dell’Accordo del 1984 di revisione del Concordato Lateranense:

·        La Repubblica italiana e la Santa sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti per la promozione dell’uomo e il bene del Paese.

 I  conseguenti problemi (che ci sono sempre quando organizzazioni che si riconoscono reciprocamente lo stato di poteri devono necessariamente coesistere, condividendo, al modo condominiale, dei sudditi) si sono fatti più acuti in Italia per tre ragioni:

·        il decremento della popolazione che si riconosce cattolica (secondo una statistica pubblicata ieri si tratta di poco più del 60%);

·        la vasta inosservanza pratica da parte di chi si riconosce cattolico dei precetti religiosi riguardanti l’esercizio della sessualità (compresa quella omosessuale), la contraccezione, l’indissolubilità del matrimonio;

·        il favore di larga parte dei cattolici a una regolazione giuridica di forme di famiglia diversa da quella tradizionale (basata su matrimonio eterosessuale tendenzialmente di lunga durata) e di limitazioni su base volontaria a sussidi meccanici o farmacologici alla sopravvivenza in condizioni di sofferenza estrema in cui non vi è alcuna prospettiva di miglioramento;

·        il vasto dissenso, anche tra i cattolici e specialmente in periodi crisi, all’aumento delle erogazioni di fondi pubblici a sostegno di attività della Chiesa cattolica e di altre confessioni religiose e a forme di esenzione fiscale che riguardano in particolare molte attività svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica;

·        l’aumento, a seguito di imponenti fenomeni migratori, di fedeli appartenenti ad altre confessioni religiose, i particolare a confessioni islamiche e cristiane ortodosse.

 La Chiesa cattolica appare oggi particolarmente preoccupata sulle seguenti questioni:

·        la progettata introduzione di una disciplina giuridica del matrimonio tra persone omosessuali, con la conseguente possibilità di adozione di figli;

·        l’equiparazione, ai fini degli interventi pubblici di sostegno, alle famiglie tradizionali basate sul matrimonio eterosessuale tendenzialmente di lunga durata ad altri tipi di famiglia, basate sulla semplice convivenza o su forme di matrimonio omosessuale;

·        il potenziamento della rete delle strutture sanitarie in cui possano essere praticati gli interventi di interruzione volontaria della gravidanza (allo stato assai carente in alcune Regioni, in particolare del Meridione);

·        l’autorizzazione al commercio di farmaci abortivi, che consentano l’interruzione volontaria della gravidanza senza interventi chirurgici invasivi;

·        la possibilità sempre più larga, a seguito di sentenze dichiarative di incostituzionalità della legge in materia di fecondazione assistita, di ricorrere a diagnosi di salute degli embrioni realizzati al di fuori dell’organismo della donna e ancora da impiantare, in modo da selezionare quelli non affetti da patologie rilevabili;

·        la possibile introduzione di una disciplina giuridica sulla eliminazione, o impiego a fini di ricerca, degli embrioni prodotti in soprannumero nel corso di procedure di fecondazione assistita;

·        la revisione in peggio di esenzioni fiscali ad attività svolte da organizzazioni della Chiesa cattolica o ad essa collegate, in particolare nel campo assistenziale, scolastico e sanitario;

·        il diniego di finanziamenti, sotto varie forme giuridiche, a organizzazioni scolastiche della Chiesa cattolica o ad esse collegate;

·        la progettata introduzione di norme giuridiche in materia di fine vita che attribuiscano al malato grave la decisione finale dell’interruzione di sussidi meccanici o terapeutici alla sopravvivenza in caso di patologie gravi, irreversibili e che creino grandi sofferenza, sia sulla base di una volontà espressa al momento in cui si pone il problema, sia su volontà anticipatamente espressa in un atto che debba valere per un  momento futuro, al realizzarsi di certe condizioni, sia sulla base della ricostruzione della presumibile volontà del malato in base a certe sue manifestazioni di pensiero prodotte nel corso della sua vita.

·        l’esclusione di manifestazioni esplicitamente cristiane (Crocifisso, Presepio, preghiera, visita di autorità religiose) nelle scuole pubbliche con forte presenza di alunni di altre confessioni religiose o non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica.

Complessivamente si tratta di quel principio di valori che il papa Benedetto 16° ha dichiarato come non negoziabili. Si discute abbastanza su che cosa si debba intendere come non negoziabili. E’ stato fatto osservare che in democrazia non esistono temi non negoziabili, su cui quindi non si possa dialogare e discutere. In sede costituente lo si è fatto anche sui principi fondamentali della Repubblica, come quello di laicità dello stato. Quell’espressione è stata intesa anche nel senso che in nessun caso si devono appoggiare partiti che non si impegnino espressamente a realizzare quei valori secondo l’interpretazione che di essi dà in concreto la gerarchia cattolica. Ma, oggi,  i partiti maggiori non sono disposti ad accogliere in tutto la volontà dei capi religiosi cattolici in materia e questo in quanto le posizioni espresse dalla gerarchia in quelle materie che ho ricordato è in genere più o meno minoritaria tra gli elettori, anche tra quelli cattolici. La differenza  è tra quelli che manifestano in materia agnosticismo e lasciano libertà di scelta ai propri parlamentari e quelli che invece seguono una linea precisa, divergente da quella del Papa e del vescovi, e pretendono fedeltà dalla propria forza parlamentare. Si è anche inteso quel non negoziabili come un invito al massimo impegno per ottenere concretamente il miglior risultato possibile, ma in realtà si tratterebbe di una  contraddizione in termini, perché questo risultato non potrebbe essere raggiunto se non mediante un negoziato, sia pure particolarmente agguerrito su certi punti sensibili.

2.   Con il Discorso alla città del 6 dicembre 2012 il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, sembra voler  aprire un vero e proprio fronte con le istituzioni pubbliche. Le accusa di agnosticismo  verso la verità. Le accusa di voler promuovere, in tal modo, una propria visione del mondo (da lui definita mondovisione), in cui la religione e Dio non hanno parte. Propone quindi di rivedere le interpretazioni che si sono date della dichiarazione Dignitatis humanae, del Concilio Vaticano 2°, in cui è stato proclamato che “l’adesione alla verità è possibile solo in maniera volontaria e personale e la coercizione esterna è contraria alla sua natura”. Queste condizioni non sono in realtà realizzabili, proprio per l’interferenza di uno stato che, facendo professione di neutralità, impone di fatto una propria mondovisione, con la forza derivante dalla propria pervasiva e autorevole organizzazione.

 Scola giunge ad affermare che il contrasto in atto non è, come generalmente si crede, tra credenti di diverse religioni, ma tra le religioni e le culture secolariste di cui si fanno portatori gli stati che finiscono in tal modo per proporre una propria mondovisione alternativa a quella delle religioni.

 Secondo il cardinale, per come ho capito, la libertà religiosa non può essere disgiunta dallo sforzo di ricercare la verità, compito nel quale anche lo stato deve impegnarsi, innanzi tutto per distinguere tra religioni  e sette (queste ultime da considerarsi al di fuori della tutela della libertà religiosa?)

·        “D’altra parte, ci si deve chiedere a quali condizioni un “gruppo religioso” può rivendicare un riconoscimento pubblico in una società plurale interreligiosa e interculturale. Siamo di fronte alla delicata questione relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è.”[discorso citato, n.2]

 e poi per discernere tra le proposte religiose quelle che meglio corrispondono all’edificazione del bene comune. Secondo Scola occorre quindi ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. In questo il cardinale, dopo aver dichiarato che il cattolicesimo popolare ambrosiano è affetto da profonde fragilità, conclude:

·        Il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico. I molti frammenti ecclesiali e civili che già oggi anticipano la Milano del futuro sono chiamati a lasciar trasparire il tutto. L’insieme deve brillare in ogni frammento a beneficio della comunità cristiana e di tutta la società civile. Vita buona e buon governo vanno infatti di pari passo.

3. Il discorso del cardinale, con la prospettazione di un conflitto tra  culture statali secolariste, in esse compresi i principi supremi di laicità dello stato e di aconfessionalità dello stato, è suscettibile di aprire una gravissima crisi tra le istituzioni democratiche della Repubblica e le confessioni religiose, coinvolgendo i rispettivi credenti, costretti a scegliere tra fedeltà costituzionale e fedeltà religiosa ai propri capi. Prima di rassegnarsi a un disastro del genere, la persona di fede dà corso a tutte le proprie risorse razionali e di discernimento per capire se è possibile un diverso sviluppo.

 Innanzi tutto: in Italia non è in questione la libertà religiosa. Qualcuno trova veramente limiti nell’espressione privata e pubblica della propria fede? Io, pur esse noto come cattolico “praticante” non ne ho trovato nessuno. In questi ultimi anni si sono insediati nel mio quartiere numerosi islamici, provenienti dal continente indiano, e anche loro non hanno trovato difficoltà nell’espressione della loro fede. A due passi da casa mia c’è una delle più grandi e belle moschee europee e un altro centro di preghiera islamico è stato aperto proprio nella via in cui abito. Alcune donne islamiche girano velate e nessuno ci fa caso, così come le non islamiche circolano vestite come credono e nessuno le rimprovera.

 In parrocchia ho detto che bisogna stare più attenti al linguaggio che si usa, anche nella liturgia, perché offendere gli dei altrui è ancora vietato (art.724, 1° comma- illecito amministrativo), così come è vietato l’incitamento alla discriminazione su base religiosa (art.3 della legge n.654 del 75- reato).  Quando ero bambino ricordo che ci si prendeva spesso gioco di certe consuetudini islamiche (si pensi a certi film con protagonista Totò): ora non  è più possibile farlo.

 Detto questo. il vero problema è che alcune norme etiche promulgate dall’autorità religiosa cattolica sono venute a contrastare con l’etica pubblica. Quest’ultima trova il suo fondamento in movimenti diffusi nella società (che trovano credito anche tra molti cattolici) i quali hanno espresso democraticamente una forza parlamentare che si è determinata di conseguenza. Pensare di riuscire a convincere le autorità pubbliche, con un discorso razionale, che la verità è una sola, precisamente quella sostenuta dalla Chiesa cattolica e, inoltre, che quest’ultima su certe questioni deve avere maggiore voce in capitolo, perché migliore di altre confessioni religiose  è irrealistico. Pretendere di riuscirci con la forza è irrealistico (tenendo conto degli orientamenti della maggioranza degli elettori) e, in fin dei conti, anche immorale, in quanto contrasta con principi fondamentali sanciti con forza di legge della Chiesa durante il Concilio Vaticano 2°. Riuscirci negoziando la propria forza ecclesiale  di influenza elettorale (che in Italia si stima intorno al 10% dell’elettorato) con i gruppi che, opportunisticamente non per convinzione, si impegnino a seguire i desideri della gerarchia in certe questioni, in particolare nell’impedire novità legislative sgradite  potrebbe essere considerato umiliante per i cattolici democratici, tale da ricacciarli in una condizione di minorità dalla quale faticosamente sono emersi.

Mia opinione

La mia opinione è che occorra sempre negoziare, ma non per uno scambio  politico-elettorale, ma per proporre con sapienza le ragioni e i metodi che su ogni tema controverso consentano di arrivare a soluzioni condivise che rispettino a pieno la dignità delle persone umane, rifuggendo in particolare gli estremismi ideologici. Questo si potrà fare nei vari schieramenti politici in cui i cattolici si sono attualmente divisi, salvo poi recuperare l’unità quando si tratterà di decidere su certi determinati temi sensibili in cui i cattolici hanno maturato convinzioni comuni.

Concludo osservando è che, nella mia opinione, andranno inevitabilmente riducendosi certe incrostazioni di confessionalismo cattolico che ancora permangono nel costume delle istituzioni pubbliche italiane e che, del pari, saranno inevitabilmente superate le discriminazioni su basi sessuale che ancora travagliano il dibattito legislativo, in particolare in materia di normative riguardanti le famiglie. A questo punto tutto, nella mia visione, l’impegno dei cattolici dovrebbe essere centrato sull’impegno a mantenere gli spazi di libera e pubblica espressione della loro fede religiosa (compresi quelli negli spazi e nelle istituzioni pubbliche, senza tuttavia imporli ai diversamente credenti) e nella particolare tutela della famiglia tra uomo e donna fondata su un matrimonio tendenzialmente stabile in vista della generazione della prole.

 

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Civiltà cristiana e Azione Cattolica

(15 novembre 2012)

 

 A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento la polemica tra il movimento dei cattolici denominato “guelfo”, perché nella spaccatura tra Regno d’Italia e Papa cattolico seguita alla presa di Roma nel 1870 parteggiava per il Papa, e gli altri movimenti politici che animavano all’epoca la società civile italiana riguardò in particolare la questione del conflitto di civiltà. I cattolici consideravano sé stessi come i veri eredi delle glorie della nazione e portatori di un ordine sociale fortemente radicato nel popolo, minacciato dall’orientamento liberale delle istituzioni del nuovo stato unitario. A quell’epoca vi era effettivamente una larga base sociale che condivideva le idee guelfe e che, a lungo, rimase per tale motivo esclusa dalla partecipazione politica alle nuove istituzioni democratiche del Regno d’Italia.

 I movimenti precursori dell’Azione Cattolica e l’Azione Cattolica, nel corso della sua articolata storia, si adoperarono per sanare quel contrasto e per conquistare ai cattolici la piena cittadinanza civile. Questo risultato fu conseguito realmente solo tra il 1946 e il 1948, con la stabilizzazione del regime democratico scaturito dall’abbattimento cruento del regime fascista e  con la partecipazione fondamentale delle forze democratico cristiane italiane (in particolare nell’Assemblea Costituente), a lungo emarginate nella Chiesa cattolica all’epoca della dominazione fascista e dei compromessi raggiunti in quei tempi infausti dalla gerarchica cattolica con il Mussolini.

 Per certi versi, nonostante che, nel sistema dei diritti umani, importanti principi religiosi siano venuti a costituire le basi delle nuove istituzioni europee, quel conflitto sembra oggi rinascere, in particolare sulle questioni della laicità degli stati e del principio di non discriminazione delle persone su basi religiose e sessuali.

 E’ stato notato che permangono in Italia importanti elementi di confessionalismo nelle istituzioni e che, in particolare, la gerarchia cattolica pretende che le sia riconosciuto un ruolo preminente nella collaborazione con le istituzioni pubbliche, in modo corrispondente allo speciale regime giuridico che le viene riservato dall’art.7 della Costituzione. Essa inoltre ritiene di poter giungere a certe conclusioni di natura anche politica sulla base di discorsi razionali incontrovertibili  e quindi di dover avere udienza non solo per argomentazioni fideistiche, opinabili per i non credenti, ma per la forza della ragione rettamente esercitata.

 E’ chiaro però che la situazione italiana è caratterizzata da:

         -un pluralità di opinioni politiche tra i cattolici, che evidentemente non può          essere risolta da quegli argomenti razionali;

         -una diminuzione sensibile, di circa trenta punti percentuali, delle persone che dichiarano di accettare le regole della confessione religiosa cattolica e       una percentuale molto minore dei praticanti (persone che vanno     regolarmente a Messa la domenica e nelle feste comandate) che seguono          effettivamente in tutto quelle regole, soprattutto in materia sessuale e         matrimoniale;

         -un forte aumento di persone per le quali la religione non è una questione          particolarmente importante, perché non sentono la necessità di ricorrervi          spesso nella loro vita quotidiana, salvo che in alcune occasioni cerimoniali          (nascita, matrimonio, morte);

         -un forte aumento di fedeli di altre religioni, in particolare di confessioni          islamiche e cristiano ortodosse;

         -la marcata insofferenza delle donne verso le residue forme di discriminazione nella Chiesa cattolica;

         -la sempre più marcata insofferenza dei giovani verso pratiche pastorali          troppo autoritarie nei loro confronti;

         -il potente emergere del movimento contro la discriminazione sociale delle          persone omosessuali.

 Manca quindi, nel contesto sociale di oggi, la base sociale per sostenere in conflitto di quella natura, vale a dire per ripristinare una specie di  ordine sociale cristiano, di una civiltà cristiana, secondo le opinioni della gerarchia cattolica. Ma, in realtà, a parte alcune questioni specifiche, che si fanno rientrare nel tema complessivo dei valori non negoziabili (contraccezione, aborto, procreazione assistita, divorzio, patti matrimoniali tra omosessuali, manifestazioni di volontà per il fine vita, sussidi alla scuola cattolica) la Chiesa cattolica, pur con la sua complessa e  articolata dottrina sociale, non è più nemmeno portatrice di un progetto di società complessivamente valido per i nostri tempi, anche considerando la sola Europa. Nell’attuale epoca di crisi globale le istituzioni sovranazionali, in particolare l’Europa Unita, stanno costruendo nuove modalità di intervento per il governo e la risoluzione dei problemi che si sono manifestati. In questa dinamica può prevedersi che tutte le residue forme ingiustificate di discriminazione tra le persone verranno gradatamente rimosse, divenendo addirittura illecite.

 Naturalmente rimane un possibilità di influenzare i movimenti in corso nelle società civili, ma questo deve necessariamente farsi non su basi fideistiche, non condivise all’esterno della cerchia dei più volenterosi praticanti, ma con argomenti razionali, tenuto conto però che questo metodo in genere non consentirà mai di arrivare ad una e una sola conclusione che si imponga agli altri per forza di ragione. Questo non accade sempre neanche nella matematica, figuriamoci nei fatti sociali. Sarà quindi sempre necessario, su certe questioni, un negoziato responsabile, in cui l’identità di gruppo potrà valere come argomento sulla base dei buoni risultati eventualmente conseguiti (non per l’argomento Dio lo vuole). In materia di discriminazione su base sessuale noi cattolici non ne abbiamo molti. Piuttosto l’argomento che, a mio parere, va sfruttato molto è quello del principio di precauzione, per cui intorno a realtà umane sulle quali si sa ancora poco e che sono suscettibili di sviluppi catastrofici, occorre imporre una serie di limiti per evitare che i pericoli supposti si avverino. In questo lavoro l’Azione Cattolica può senz’altro svolgere un’opera positiva, essendo stata fin dall’origine aperta ai tempi nuovi e impegnata a comprenderli in una prospettiva cristiana, non invece chiudendosi in un intransigentismo settario che porta solo soddisfazioni effimere. Purtroppo questa esperienza di metodo non è più patrimonio culturale di larghe fasce della popolazione dei più volenterosi nostri praticanti, che del resto lo ammettono francamente, essendosi formati in un diverso ambiente ecclesiale.

  Vi è la necessità quindi, in particolare nelle nostre riunioni settimanali, di riprendere migliore conoscenza del senso del lavoro e dell’associarsi in Azione Cattolica, che, a differenza di un qualsiasi gruppo parrocchiale di spiritualità, riguarda la religione e la spiritualità ma anche l’impegno nella società civile. Non si tratta di seguire un catechismo, quindi di farsi spiegare da altri quello che si deve sapere, fare  o non fare, ma di scoprire insieme, capendo bene la società del nostro tempo, ciò che è meglio fare.

 

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L’incontro della Chiesa col mondo

(23 dicembre 2012)

 

 Nel 1982 un amico mi condusse alla presentazione dell’ultimo volume degli scritti di mons. Enrico Bartoletti, vescovo che ebbe un ruolo fondamentale, quale segretario della Conferenza Episcopale Italiana, nell’attuazione del Concilio Vaticano 2°. L’opera completa, in quattro volumi, era stata curata da don P.G.. So che ora è parroco in Toscana. Quel giorno un suo amico e collaboratore, che era sacerdote e svolge anch’egli il suo ministero in Toscana, mi diede da leggere tutti i quattro libri e io lo feci. Non ebbi più occasione per chiedergli se intendesse riaverli indietro. Da allora fanno parte della mia biblioteca, mi hanno sempre accompagnato dove ho abitato e mi sono stati preziosi per formare la mia spiritualità e, innanzi tutto, per capire il clima di quel Concilio.

 Nel quarto volume dell’opera citata, intitolato La Chiesa e il mondo, ho trovato questa citazione, da un discorso che mons.Bartoletti  tenne nel gennaio 1962 (nella fase preparatoria del Concilio) al Movimento Laureati Cattolici, che oggi si chiama MEIC- Movimento ecclesiale di impegno culturale:

“E giacché il primo incontro della Chiesa col mondo avviene in noi, che già siamo in lei, e pur portiamo la cultura, e istanze, le incertezze del mondo, si tratta di offrirci alla Chiesa in consapevole disponibilità, perché inizi o rinnovi in noi il suo compito di penetrazione e di santificazione”.

  Per intendere la portata anticipatrice di queste considerazioni, bisogna figurarsi la Chiesa come era a quell’epoca. Era un’organizzazione che vedeva in prima fila il Papa e i vescovi, la gerarchia, poi i  loro collaboratori, i preti, e poi, come quasi come truppe scelte, gli istituti religiosi, frati, monaci, suore e monache. Tutte le altre persone, gli altri fedeli, erano oggetto di una normazione di carattere giuridico e morale: si diceva loro che cosa dovevano fare e si pretendeva che lo facessero. Al più si ammettevano libertà di dettaglio, per tradurre meglio nella società quello che si era deciso in alto. Naturalmente c’erano eccezioni. Proprio nel Movimento Laureati Cattolici, che all’epoca era una delle organizzazioni professionali dell’Azione Cattolica, ci sforzava di formarsi meglio, di approfondire le questioni, di dare un contributo più ampio. Questo in particolare dopo che il cattolici, nell’Europa ricostruita dopo al disfatta del nazismo tedesco e dei vari fascismi suoi alleati, avevano avuto tanta parte nelle riconfigurazione delle istituzioni pubbliche e dei principi.

 Le attese (e i timori) maggiori erano per quello che saremmo diventati noi laici, dopo tanti secoli di posizione subordinata nelle cose religiose, anche se riguardavano poi le cose del mondo, di ciò che si muoveva fuori dello spazio liturgico.

 Nel corso degli anni ’50, sulla scorta di riflessioni avviate già nei precedenti anni ’30 in Francia, si pensava che l’efficacia dell’azione della Chiesa nella storia sarebbe stata in futuro molto più condizionata dall’atteggiamento dei laici.

 Da alcuni si temeva una deriva protestante dei cattolici, ma, in realtà, movimenti analoghi si erano prodotti anche in alcune Chiese non cattoliche. Ad esempio nel movimento promosso negli Stati Uniti d’America da Martin Luther King, pastore della Chiesa Battista.

 Certe storiche divisioni tra cristiani erano state spesso già superate nella pratica. E in molte cose il Concilio Vaticano 2° più che essere un aggiornamento a ciò che si muoveva nel mondo, fu semplicemente un aggiornamento a ciò che si era già prodotto nella  Chiesa cattolica.

 Bisogna dire che, dopo un inizio piuttosto effervescente e promettente, qualcosa venne meno nello slancio sulla strada indicata dal Concilio Vaticano 2°, i cui deliberati, più che bisognosi di essere attuati chiamavano ad essere sviluppati. Ci furono resistenza da varie parti, ci furono insufficienze in molti, in particolare nei laici. Talvolta si assistette, nelle sperimentazioni che vennero promosse, a una clericalizzazione dei laici e a una laicizzazione dei preti e dei religiosi. Questi ultimi entrarono in crisi, non riuscendo più a inquadrare bene il senso del loro ruolo nella Chiesa, mentre i laici, spesso anche per remore clericali, stentarono a conquistare il campo loro proprio, di ordinare secondo i principi religiosi le cose del mondo, in cui erano immersi, di cui erano coautori e partecipi.

 Ci furono aspre controversie negli ambienti laicali più impegnati, delle quali oggi solo i più anziani serbano lo spiacevole ricordo. Non merita nemmeno di perderci ancora tempo su, visto che ai tempi nostri sono divenute insignificanti. Ma certamente, specialmente nella realtà italiana, i laici si sono formati a due scuole con obiettivi divergenti, per cui, quando in parrocchia ci si trova insieme e si cerca un accordo sulle cose da fare e specialmente su come manifestarsi all’esterno, la differenza di impostazione si sente. In realtà oggi si pensa di solito che occorra agire dall’interno della società in cui si vive, come lievito, che fa crescere l’impasto ma non è più riconoscibile nel prodotto finale, e nello stesso tempo anche rendersi presenti come gruppi sociali organizzati. Sempre più spesso assistiamo a vaste convergenze tra gruppi che in passato si guardavano piuttosto in cagnesco.

 Una parte del lavoro che dobbiamo fare in Azione Cattolica, per la nostra vocazione specifica, è di fare unità, di promuovere l’amicizia e la comprensione tra chi vive la fede nei tanti modi in cui lo si può legittimamente fare, senza che ci si scambi arbitrariamente scomuniche o simili.

 L’altra parte di quel lavoro è di capire meglio le società in cui viviamo e in cui democraticamente abbiamo diritto di parola e di scelta, senza scegliere la via della separazione settaria, nel presupposto che tutto il male sia fuori della nostra Chiesa e che il mondo in cui viviamo sia la città del diavolo destinata alla perdizione.

 C’è infine un ultimo lavoro che occorre fare, e che è la parte forse più dolorosa del nostro impegno, che è quello della purificazione della memoria, del riconoscimento franco e veritiero del male che, come Chiesa vivente sulla Terra, è stato storicamente fatto, per sterilizzare i conati reazionari che vorrebbero riproporre infelicemente ciò dal quale solo di recente, in particolare sotto la guida del Papa Giovanni Paolo 2°, ci siamo distaccati. Non illudiamoci che sia un compito facile. Né che l’arrendevolezza ai voleri altrui, spacciata per ubbidienza gerarchica, sia la via più virtuosa. In questo si dovrà praticare la virtù della fortezza, della fermezza sui principi acquisiti. E questo sforzo è tanto più difficile perché sono stati veramente tanti i secoli bui dai quali velocemente, nella seconda metà del Novecento ci siamo distaccati come confessione religiosa.  L’Azione Cattolica ha fatto parte storicamente del movimento laicale che ha spinto per questo risultato, trovando udienza nei capi religiosi. Ricordiamo che le radici del Concilio Vaticano 2° affondano addirittura nei moti religiosi dell’Ottocento.

 

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Cattolicesimo forza di progresso?

(29 novembre 2012)

 

  Dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.36

 

I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro, affinché i beni creati, secondo i fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua luce che salva.

Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.

 

 Ai tempi nostri probabilmente la definizione del cattolicesimo come forza di progresso non troverebbe un generale consenso. Eppure è proprio questo, in fondo, il fine che durante il Concilio Vaticano 2° si pensò di assegnare all’azione dei laici nelle società in cui vivono e operano. Ne è un esempio il brano della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: Luce per le genti) che ho sopra trascritto. Possiamo considerarlo una novità in un documento della gerarchia ecclesiale, tenendo conto delle precedenti millenarie prese di posizione in merito.

 Come ho osservato in altri miei interventi, non è facile, leggendo le deliberazioni del Concilio Vaticano 2°, individuare quelle parti che contengono sviluppi innovativi. Questo accade in particolare in un documento di particolare rilevanza, normativo, come la Costituzione dogmatica citata, che riguarda la Chiesa. Ad uno sguardo superficiale tutti i temi che solitamente si facevano rientrare in questo argomento sono esposti nell’ordine consueto. Infatti troviamo le parti che spiegano di dove, da chi e come la Chiesa originò, la ripartizione dei compiti in esso, da chi e  come l’autorità in essa venga esercitata, il carattere sacro di alcune funzioni, come quelle del papa, dei vescovi e dei preti, le caratteristiche dell’impegno dello stato religioso, la posizione degli altri fedeli, la missione della Chiesa nella società del suo tempo, vale a dire in quello che nel gergo teologico viene definito il mondo o anche il mondo profano.

 Eppure le novità ci sono, anche se esse non vengono mai presentate come idee che si contrappongono alla precedente tradizione, in particolare a  quella che riguarda i principi fondamentali, ma, al limite, come scoperta, o riscoperta, di potenzialità di bene che storicamente erano state poco capite o praticate. E ciò anche quando, sostanzialmente, si viene a ripudiare qualcosa di male che si riconosce esserci stato nel passato. 

 E’ solo con il Grande Giubileo dell’anno 2000, indetto e guidato dal papa Giovanni Paolo 2°, che si giunge a richiedere a tutti, come esercizio specificamente religioso, un lavoro particolare per raggiungere una memoria storica veritiera sull’azione della Chiesa del mondo e il ripudio, vale a dire l’impegno a non riproporli in futuro, di certi modi di essere, di organizzarsi, di entrare in relazione con le altre persone, individualmente considerate o nei gruppi in cui sono inserite vitalmente.

 Le conseguenze sono state molto rilevanti, perché i principi normativi del Concilio Vaticano 2° sono stati fecondi e hanno ispirato molteplici sviluppi, che, in larga parte, corrispondevano a modi di vivere la religiosità che si erano già affermati, più o meno largamente, tra i fedeli e che attendevano solo di essere riconosciuti in un documento normativo della gerarchia. Questo in particolare ha riguardato i compiti dei laici cattolici, anche se su questo tema in genere c’è ancora insufficiente consapevolezza e ciò per vari motivi.

 Il primo è di ordine culturale: mentre per i sacerdoti e i religiosi è previsto e obbligatorio un processo di formazione continua, questo non è previsto per i laici, dopo il periodo dell’iniziazione ai Sacramenti nell’infanzia e nell’adolescenza, che di solito termina con la Cresima, se non ancora prima, con la Prima Comunione.

 Il secondo motivo  è di ordine organizzativo: poiché nella Chiesa cattolica i principi morali e di organizzazione e le linee guida delle varie attività vengono formulati da appartenenti all’Ordine Sacro, quindi dal clero, è ovvio che abbiano avuto il massimo risalto le questioni che riguardavano questa parte qualificata dei fedeli, innanzi tutto per mantenere un loro ruolo preminente in ogni settore e poi per conservare l’integrità della struttura gerarchica del clero, centrata su centri di potere sostanzialmente monarchici, con temperamenti di collegialità a vari livelli. Lo scopo è di rendere coerenti su scala mondiale gli insegnamenti religiosi, le liturgie e l’organizzazione ecclesiale, in modo, in particolare, che la Chiesa appaia parlare con una sola voce, diventando manifestazione dell’unità dei fedeli, secondo il comandamento ricevuto evangelicamente.

 Il terzo motivo è che spesso i laici sono appagati da una religiosità meramente liturgica, e in particolare sacramentale, della quale essi, sebbene coinvolti molto profondamente nella loro interiorità, sono partecipi ma non protagonisti, in quanto in tale campo emerge e prevale la missione del clero. Del resto, per millenni è solo questo che, in definitiva, si è preteso dai laici, vale a dire da chi non era prete, vescovo, monaco o monaco, frate o suora.

 Le società civili, e le loro popolazioni, erano lasciate al dominio di monarchi, con i quali la Chiesa, a diversi livelli, tramite suoi plenipotenziari, e al massimo livello in persona dei papi, entrava in relazione innanzi tutto per garantire spazi di libertà alla propria organizzazione (clero e religiosi, con esenzioni e privilegi che riguardavano le persone e i beni) e poi per assicurarsi il riconoscimento di un potere spirituale sui sudditi dei monarchi civili, venendosi in tal modo a realizzare una sorta di condominio sulle posizioni assoggettate al trono e all’altare. I due tipi di potere, quello civile e quello religioso, venivano poi a sostenersi a vicenda, specialmente dove il monarca civile riconosceva quella cattolica come unica religione ammessa nel suo dominio e/o le autorità della Chiesa riconoscevano la qualifica di cattolica a una dinastia monarchica civile. Per queste relazioni politiche tra autorità civili e religiose, la critica sociale su base religiosa, di cui si trovano tanti esempi nell’Antico Testamento e che quindi aveva una salda base biblica, era in genere scoraggiata dalle autorità religiose, perché avrebbe messo in crisi quegli accordi, a volte semplici armistizi piuttosto precari, raggiunti con le autorità civili. Ad esempio nel documento normativo denominato Sillabo (=elenco), allegato all’enciclica Quanta Cura (1864) del papa Pio 9°, con l’indicazione di quelli che la dottrina cattolica riteneva essere i principali errori del tempo, si dichiarava erronea l’idea che fosse logico negare obbedienza e anzi  ribellarsi ai prìncipi legittimi. 

 L’esperienza delle due guerre “mondiali” combattute nel Novecento manifestò l’insufficienza dei princìpi che erano stati seguiti per millenni nelle relazioni con i capi delle nazioni, secondo l’espressione utilizzata dal papa Benedetto 15°, nel 1917, nel chiedere di fermare l’inutile strage in cui si era risolta la Prima Guerra mondiale.

 Il primo di quei due conflitti bellici catastrofici era stato iniziato da monarchi cristiani e combattuto fra popoli di antica civiltà cristiana. Il secondo era stato scatenato da despoti rivoluzionari che si erano avvalsi in modo nuovo dei popoli assoggettati, non più come storici sudditi di una dinastia, ma come espressioni di una nuova condizione umana di dominatori, in virtù della quale avevano il diritto, come sorta di stirpi elette, di predare e soggiogare il mondo. Qualcosa di simile aveva travolto la dinastia imperiale cristiana russa, portando all’ordine sovietico, in cui la religione era considerata una impostura di classe per tenere soggiogata la parte subalterna delle popolazioni. Risolutiva, in entrambe le guerre mondiali, era stata l’azione della democrazia statunitense, la quale aveva fondamenti religiosi espliciti ma che, nello stesso tempo, era struttura con un’organizzazione politica pluralista. Ad essa, nel pensare l’Europa che sarebbe sorte dopo la fine dei totalitarismi guerrafondai nazisti e fascisti, si cominciò a guardare come esempio di coesistenza pacifica di popoli con diverse tradizioni etniche, culturali, linguistiche, religiose. E’ questo il momento il cui, anche sulla scorta di antecedenti storici risalenti all’Ottocento, comincia a prodursi nella Chiesa cattolica quel movimento che ebbe piena manifestazione molto più tardi, negli anni Sessanta, in particolare con il Concilio Vaticano 2°.

 In Francia e in Italia ci si stava ragionando fin dagli anni ’30, sullo spunto del pensiero dei filosofi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier.

  Maritain intervenne nel Concilio Vaticano 2° quale rappresentante degli intellettuali e in tale veste ricevette uno specifico messaggio del Papa.

 L’idea era che la sfida lanciata dai regimi popolari totalitari, quello nazista tedesco, i diversi fascismi europei e il regime comunista sovietico, non poteva essere vita con i metodi e i principi del passato, quindi con la riproposizione della restaurazione di una civiltà cristiana europea retta da un condominio di dinastie civili e di monarchi religiosi, ma che occorresse coinvolgere più profondamente, non solo chiamandole all’ubbidienza, le masse dei popoli europei, rendendole protagoniste della costruzioni di civiltà, intese innanzi tutto come istituzioni politiche, economiche e sociali, che non configgessero con gli ideali di sempre della cristianità.

 Una prima pronuncia in questo senso della gerarchia cattolica al massimo livello si trova nel radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12°, che ho più volte citato, in cui ci si chiede se gli sconvolgenti avvenimenti dei decenni passati avrebbero potuto essere evitati se i popoli europei avessero avuto più voce in regimi democratici.

 Questa lunga premessa è stata necessaria per comprendere il senso del brano della costituzione Lumen Gentium che ho trascritto all’inizio. Ci ritornerò sopra in altri interventi. Vorrei però che chi legge lo facesse interiormente proprio, direi quasi mandando lo a memoria.

 La prima caratteristica di questa che è giuridicamente una legge fondamentale della nostra Chiesa, parte di un documento normativo molto importante, è che non pone divieti e non indica nemmeno precisi obblighi di fare, come, ad esempio, nel Decaloco, quando si prescrive di non rubare (obbligo negativo – di non fare) o di santificare le feste (obbligo positivo – di fare).

 Il discorso che viene sviluppato in quel brano è in sostanza un appello, una chamata ad un lavoro, rivolto in primo luogo ai laici, a coloro che quindi non fanno parte del clero o dei religiosi (frati e suore, monaci e monache).

 Si riconosce ai laici una competenza, vale a dire un insieme di conoscenze e di saper fare, nelle discipline profane, che sono tutte quelle che non sono comprese nella teologia, in cui sono formati il clero e i religiosi. Li si chiama ad essere, come persone singole ma ance associandosi, forze di progresso a beneficio non solo della Chiesa cattolica, ma di tutti gli esseri mani senza eccezione.

 Ecco in che cosa consiste l’auspicato progresso: a)nel far progredire i beni creati mediante il lavoro umano, la tecnica e la cultura civile; n) nella giustizia distributiva, perché i beni creati aumentati e migliorati dall’azione umana, siano più convenientemente distribuiti perché aia fonte di libertà umana e cristiana per tutti. L’obiettivo finale è risanare le istituzioni e le condizioni del mondo, perché siano rese conformi alle norme di giustizia e in tal modo favoriscano, anziché ostacolare, l’esercizio delle virtù e, in particolare, quelle predicate nell’evangelizzazione dei popoli.

 In sostanza l’appello è per operare per un progresso tecnologico, culturale, civile e sociale, se del caso cambiando anche le istituzioni, perché a tutti gli esseri umani sia aperta la via delle virtù nella libertà. Questa è definita come opera di illuminazione dell’intera società umana e l’utilizzo di questa espressione è analogo a quello che ne fecero gli illuministi nel Settecento. Solo che nella prospettiva cattolica non si vede contraddizione tra la luce portata dalla ragione e la luce portata da Cristo.

 Se volessimo individuare dal brano citato della Lumen Gentium delle parole d’ordine, potremmo individuarle in queste: progresso, libertà, giustizia sociale, unità per risanare il mondo comprese le sue istituzioni sociali, virtù, illuminazione religiosa.  Esse non sono rivolte dalla gerarchia cattolica (solo) ai capi delle nazioni, ma in primo luogo a tutti  i fedeli laici. E’, a mia conoscenza la prima volta che accadde nella storia della Chiesa in un documento normativo della gerarchia. Vi invito a verificare la correttezza di questa mia osservazione.

 Certamente nel passato nella dottrina del magistero di era fatta questione del buon governo, ama gli insegnamenti era rivolti essenzialmente ai capi delle nazioni e, a partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone 13° (1891), alle parti sociali, imprenditori e lavoratori, invitate a trovare una composizione dei reciproci interessi essenzialmente nello spirito di non sfruttare le classi lavoratrici a tal punto dallo spingerle alla rivolta. La giustizia sociale, come la intende ai nostri giorni a partire da movimenti politici che si diffusero nell’Ottocento, era estranea a questa prospettiva.

  Bisogna precisare che in questo la Chiesa cattolica, scrivendo sue norme fondamentali, non intese, all’improvviso, aggiornarsi a come andava il mondo, corrispondendo in tal modo alle attese di molta gente. Non è di questo aggiornamento  che si è trattato. In realtà la Chiesa cattolica, nella sua dottrina teologica e nella sua normazione, si aggiornò a come essa era già diventata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto nell’impegno alla costruzione della nuova Europa dopo la catastrofe bellica degli anni ’40. Già i cattolici si stavano infatti da tempo impegnando nel senso auspicato dalla Lumen Gentium, trovando però difficoltà nella normazione e nella teologia ufficiale della loro Chiesa. In qualche modo, in questo campo, i deliberati conciliari vennero semplicemente a ratificare e a sistemare teologicamente, creando una continuità dogmatica tra il passato e il presente, ciò che già i laici erano diventati e stavano facendo.

 E infatti questo che fu effettivamente un significativo cambio di rotta nel magistero gerarchico no fu effettivamente avvertito come una novità, mentre fecero molta più impressione le riforme che, dopo il Concilio Vaticano 2° e sulla base dei suoi deliberati, vennero attuate nella liturgia della Messa: in questo campo infatti fu effettivamente introdotto un rito diverso, pur se articolato nelle parti tradizionali, e, soprattutto, iniziarono ad essere usate le varie lingue nazionali dei popoli cristiani, in luogo del solo latino liturgico.

 Concludo questo intervento scrivendo che il difficile per noi laici non è tanto il capire gli appelli che ci sono venuti dal Concilio Vaticano 2°, ma, esercitando collettivamente le competenze che si sono proprie, ciascuno ragguagliando gli altri sulle proprie specifiche e acquisendo dagli altri notizie sulle loro (nessuno infatti nel mondo di oggi è capace di interloquire validamente su tutto), capire il mondo in cui viviamo per individuare come farlo progredire verso una migliore giustizia sociale, per rimuovere gli ostacoli all’esercizio delle virtù e, innanzi tutto, quello che è costituito dalla mancanza di libertà, determinata dall’ignoranza e dal bisogno.

 

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Fede religiosa, forza di progresso

(4 gennaio 2013)

 

L’angelo è … il messaggero che, secondo le immagini bibliche, collegando il cielo alla terra, annuncia a un essere umano che la Parola divina che l’ha creato vive ancora nel suo intimo più profondo, anche nel momento della sua disperazione. L’esteriorità  è dunque necessaria a questa speranza, essa aiuta a combattere il destino, a imporsi su di esso e a crescere. Per coloro i quali  non percepiscono angeli nella loro esistenza quotidiana così spesso tormentata, questa esteriorità – dice il Rabbi di Gur – proviene dalle parole della Torà. Sono esse che hanno la forza stupefacente di rinnovare il desiderio di vita in ognuno. Questa esteriorità talvolta prende anche la forma della voce di un’altra persona, che, proponendo parole di vita a colui o a colei che si trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa più trovarle. Ma in ambedue i casi, e del resto uno non esclude l’altro, è necessario affinché quella persona le intenda e colga il filo di chiarore che gli viene teso –attraverso parole udite da una voce che non è la sua – che quella persona resti attenta a ciò che quelle parole vengono a toccare in lei: quel punto di speranza non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli scacchi subiti.

[da Caterine Chalier, Angeli e uomini, Giuntina, 2009, pag.62]

 

 Ai tempi nostri, e anche nell’insegnamento catechistico, si è piuttosto cauti nel proporre una visione religiosa della vita, pensando che poi possa risolversi, nell’interpretazione personale, in qualche tipo di stranezza per cui mediante certe pratiche liturgiche o ad esse somiglianti,  o comunque mediante una disciplina personale, si confidi di poter cambiare, quasi magicamente, la realtà intorno a sé. Si preferisce parlare della santità personale come risultato del confidare nella Parola di Dio, la quale però, nelle situazioni concrete che si presentano, non è facile da individuare e allora poi si finisce per consigliare di fidarsi dell’interpretazione che ne dà la Chiesa in persona del clero o addirittura dei capi della comunità a cui si è più legati. Ecco quindi che una parte di quelli che sono stati raggiunti dal messaggio religioso si allontanano dalla comunità in cui l’hanno ascoltato, cercando l’autonomia e la libertà di pratica e giudizio. Questo pregiudica l’efficacia propria dell’azione laicale, che ha bisogno di gente per essere attuata, essendo anche un lavoro collettivo, ma anche della possibilità di sviluppare in concreto concezioni particolari, adatte ai vari problemi che si affrontano, facendo quindi reagire in modo originale e autonomo fede religiosa e vita concreta, senza però aspettative eccessive quanto a felicità qui su questa terra.

  Sarebbe bello poter dire che se si ha fede si è felici, in qualsiasi situazione ci si trovi, ma non è vero che questo accada sempre. Anzi, per ciò che mi è stato dato di sperimentare accade piuttosto di rado e non penso nemmeno che ci si debba sentire in colpa per questo, perché non si è felici pur essendo parte di una collettività religiosa e avendo in misura maggiore o minore una fede religiosa. E’ vero che invece  i cambiamenti in meglio della vita delle persone possono dipendere da azioni, individuali e collettive, a fondamento religioso, nel senso di motivate non sulla base di come vanno di solito le cose, quindi su un realismo materialista, ma su considerazioni paradossali, fondate su come vorremmo che fosse il mondo, quindi su un’esigenza interiore che ci fa essere diversi perché collegata all’idea di essere creature, non un accidente della natura, quindi esseri dotati di una speciale dignità. E’ qualcosa che, come scritto nel brano che ho sopra riportato, giace e opera nel nostro intimo più profondo ed è a volte suscitato, riportato alla superficie della coscienza, dall’esterno: qualcuno la descrive come esperienza angelica, per altri è il contatto con le scritture sacre, per altri ancora si tratta della voce di un’altra persona o di un’altra situazione in cui ci si trova. E’ allora che si risveglia in noi “quel punto di speranza non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli scacchi subiti.” E che si comincia a costruire un mondo nuovo, in cui le tante cose dolorose della realtà che viviamo e che pure è appunto la realtà siano superate e migliorate. Ad esempio una società basata sul principio di uguaglianza intesa come pari dignità, una cosa che in natura semplicemente non c’è, come ricordavano gli schiavisti contro le obiezioni degli abolizionisti. Tra gli esseri umani c’è stato sempre chi ha sfruttato e chi è stato sfruttato, osservavano. Eppure questa realtà umana storica dello schiavismo è stata contrastata sulla base di motivazioni in fondo religiose, quindi paradossali, almeno fin dal Cinquecento, e dal Settecento con particolare efficacia, e ha portato l’abolizionismo a prevalere a livello globale. E ciò anche se nella Bibbia, composta di scritti composti in tempio piuttosto antichi, in cui lo schiavismo era realtà giuridica accettata non c’è una parola esplicita contro di esso, dico un appello alla rivolta contro di esso. Eppure il movimento contro lo schiavismo, specialmente nell’Ottocento, ebbe anche motivazioni religiose cristiane (pur avendone avute anche di analoghe le pratiche schiavistiche degli Europei contro gli africani e i nativi americani).

 A una persona più giovane di me che ha lasciato le consuetudini di fede respinta dal fideismo irriflessivo che le era stato proposto, non attesterei mai che recuperando la fede sarà felice su questa Terra, ma certamente le farei notare che su basi religiose, dunque di ribellione contro le cose come normalmente vanno, in particolare in natura, potrebbe capitarle di collaborare a cambiare in meglio il mondo, in particolare nello sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo nel pensiero e nella pratica. La nostra fede non ci impone di rassegnarci ad accettare le cose come vanno e a ritenerle volontà di Dio, anche se si trattasse, ad esempio, di una malattia grave o di un altro accidente “naturale”. L’altro giorno sono stato in visita ad un centro oncologico e alle persone che ho incontrato in sala d’attesa davanti agli ambulatori non avrei mai fatto questo discorso. Né avrei promesso che, seguendo certi riti, Dio le avrebbe salvate. O che, comunque, anche nella prospettiva della morte avrebbero trovato la beatitudine, la felicità. La mia infatti non è una fede consolatoria o di rassegnazione, ma di ribellione, di rivolta, a partire da una realtà affrontata senza facili illusioni. E’ vero tuttavia che, in una prospettiva religiosa, in particolare cristiana, si può dare un senso a ciò che ci accade e quindi si può essere portati ad agire di conseguenza: questo rafforza il sentimento della propria dignità di fronte a una realtà sociale o naturale che invece porta a deprimerla. Fa bene e porta a fare il bene. Non mi sentirei di dire che accada sempre e non ne faccio una colpa a quelli ai quali non accade. Per un malato grave, ad esempio, la fede può essere solo un problema in più da affrontare e talvolta il problema della teodicea, di giustificare l’operato di Dio nel mondo, quindi il mondo come risultato di creazione, può superare effettivamente le nostre forze. Ma di solito nella sofferenza è ancora possibile, come scrive la Chalier, percepire un filo di chiarore, e ciò sovente deriva da un’esperienza francamente religiosa, di voce o situazione che risveglia una convinzione paradossale, che riguarda “parole di vita a colui o a colei che si trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa più trovarle”.

 Il primo dovere religioso del laico è quello di capire realisticamente ciò che sta succedendo, per lui la fede non è quindi un fattore anestetizzante, e poi di agire per realizzare un mondo diverso (ordinare le cose temporali secondo Dio, nel gergo teologico). In particolare è questo appello, non di rassegnazione, che viene ai laici, e a tutti gli esseri umani di retta volontà, dal Concilio Vaticano 2°  e dai documenti del magistero che si sono proposti di svilupparne i deliberati.

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48

Noi, la Chiesa e la società nella crisi

(7 gennaio 2013)

 

 Il duro inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di sacrificio per i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi, per le famiglie con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa provvidenzialità di questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la sollecitazione a rinnovate opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero rapporto della Chiesa con la società italiana e col mondo che viene in primo piano. E non più solo o tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del sistema sociale e politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma soprattutto per la sfida che la crisi economica, istituzionale e culturale pone al presente e al prossimo futuro nella società e civiltà italiana.

 Il nostro paese è in incombente pericolo di precipitare in un nuovo periodo di decadenza, secondo una triste regolarità della nostra storia. C’è già chi si rassegna. Ed è forse proprio contro la inclinazione anche di molti cattolici alla rassegnazione che questo convegno acquista ora la sua drammatica attualità.

 Tra le non molte interpretazioni complessive della situazione attuale della società italiana, che ho trovato tra i documenti di risposta pervenuti dalle diocesi, da singole comunità e gruppi di lavoro di Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da qualche comunità cosiddetta di base – la rassegnazione non trova però spazio.

 Il senso di gran lunga prevalente delle risposte sul tema generale del rapporto fra la Chiesa e la società italiana, è che occorre accrescere il mutuo aiuto tra Chiesa e mondo nello spirito della “Gaudium et spes”. E proprio la ricerca, da parte della cattolicità italiana, di vie e modi e obiettivi specifici, per una congiunta e non contraddittoria azione, di annuncio del Vangelo e di impegno per la giustizia e per la partecipazione alla trasformazione del mondo, configura lo specifico apporto della Chiesa alla società profana.

 

[Dall’intervento del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al convegno  ecclesiale  Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976 – in Evangelizzazione e promozione umana – atti del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice A.V.E, 1976]

 

 Le parole che ho sopra trascritto sembrano scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema della nostra Chiesa che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in relazione con il mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a trentasei anni fa.  Che significa questo? Significa che un lavoro che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto e che ora può essere ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte nuovamente favorevoli, in particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo nell’enciclica Caritas in veritate del papa Benedetto 16°.

 Che cosa è la nostra Chiesa? Non parlo naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue finalità sotto il profilo teologico, della fede comune professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di vista sociale, delle relazioni come collettività con il mondo in cui è storicamente inserita. Questo è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire  la società arricchendola con i principi evangelici che riguardano la vita comune.

 Non vi aspettate che vi dia qui delle risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse nelle nostre riunioni infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito prendessero parte anche coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla vita della parrocchia e anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa come è ora e lo dicono francamente, ma tuttavia nella loro interiorità apprezzano ancora, al di là di quelle critiche anche dure, un discorso religioso.

 Siamo, ad esempio, una ditta per la propaganda del sacro? Siamo una federazione di collettività che in senso molto lato condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che fanno vita separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui? Siamo una federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che vuole dare una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla contro le critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire un’organizzazione che ha come scopo principale sostenere l’azione del Papa nel mondo di oggi e in particolare in Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo di avere la ricetta giusta per cambiare il mondo rovesciando i principi perversi su cui esso si fonda? Siamo gruppi di oranti che pensano di ottenere il cambiamento del mondo con la preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i vescovi e il Papa per noi? In che cosa i preti si differenziano dagli assistenti sociali, dagli psicologi, dagli psichiatri e dagli insegnanti delle scuole? Quale autorità riconosciamo loro, di fatto?

 In questo Anno della fede queste domande mi sembrano importanti. Possiamo aspettarci che la risposta ci venga dall’azione catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa siamo  o come dovremmo essere? O dovremmo, come punto di partenza, riconoscere francamente come abbiamo voluto essere finora e capire se questo modo di essere è sufficiente in relazione ai principi che proclamiamo e che, come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di sé e ancora informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?

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Un processo continuo di liberazione

(8 gennaio 2013)

 

Se c’è, come non può non esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la Chiesa, il cristiano con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in questo processo di liberazione. In che modo? Con la triplice azione sacramentale che è propria della Chiesa e del cristiano.

[…]

Con la parola.

Nel processo di liberazione e di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano deve essere innanzi tutto presente con la parola di Dio.

[…]

Con la vita.

La Chiesa. … e il cristiano nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno, deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.

[…]

Con il sacramento.

Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata da Cristo.

 

[ da La Chiesa sacramento di Cristo e segno e strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI, in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo – a cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].

 

 Lo scritto che ho sopra riportato rende bene il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale, se non una organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo nuovo, nel senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente motivati, in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni o strati di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla sofferenza e alla minorità.

 Bisogna dire che di certi temi in Italia si parlava accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello dell’elevazione e liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia. Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici sono migrati dalle nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.

 E’ necessario anche aggiungere che il disegno conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici in questi nuovi compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro di preparazione di questa parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune sue porzioni particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello di presenza  dei fedeli laici nella società in cui vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80, nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.

 Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel nostro complesso e parlando francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana, o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?

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Pace come promozione umana

(13 gennaio 2013)

 

Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:

“In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.

In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).

Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”

 

 

Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.4:

“E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.

Aumenta lo scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi.

Infine, con ogni sforzo si vuol costruire un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il progresso spirituale.

Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte recenti.

Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l'angoscia, mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.

Questo sfida l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”

 

Dalle relazione tenuta da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972 Segretario generale della C.E.I.) al seminario della Caritas italiana del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982, pag.123.

 

Ecco allora quello che è la Chiesa o per lo meno quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve di continuo divenire: una comunità, una comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli uomini: “ogni uomo è mio fratello”.

  Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero, rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco, Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per lui.

 

 Intendere la Chiesa comunità pacificante è stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio Vaticano 2° (1962-1965).

 Bisogna considerare che sul tema della pace non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in particolare dopo il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso le concezioni che oggi sono diffuse dal magistero.

 Il tema della pace, nei documenti conciliari, si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è cosa da realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi dove dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito principalmente laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica per l’instaurazione e il mantenimento della pace  tra i popoli è quello di un’autorità mondiale, universalmente riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una sorta di polizia di pace, nel senso di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione di un ordine pacifico, in una accordo tra autorità costituite, con una cessione di sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.

  In realtà un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata. L’esperienza europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è  fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello, secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa, della sussidiarietà. In questo quadro ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici, intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.

 Il lavoro di pacificazione può farsi rientrare nell’impegno di promozione sociale, quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo fondamentale al laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli scritti che ho sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo da un intervento fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono indicate specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come realizzare la pace in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta considerazione del contesto sociale umano ( lo scrutare i segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei laici, che, nella visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con tutti le altre persone bene intenzionate.

 Pace, in senso religioso, non è solo assenza di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la personalità degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente, secondo il vero bene di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà esercitarsi l’azione laicale.

 Nei discorsi religiosi e su base biblica, si collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà essere realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia, realisticamente, non è garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace nelle società umane, in cui si manifestano sempre, ad un certo livello, delle devianze rispetto all’ordine costituito, talvolta sulla base esclusivamente degli appetiti e degli interessi individuali e di gruppo. Questo significa che per  il mantenimento della pace occorrerà sempre l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e, comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di punizione dei colpevoli.

 Mons. Bartoletti metteva in guardia dal parlare con troppa disinvoltura di amore come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi magicamente, dal parlare di amore.

 Pacificare le società umane non è sempre facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale  e dall’Asia, l’integrazione sociale degli stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa. Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.

 A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona. Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della nostra comunità.  Molti sono impegnati nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari.  Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai millenni bui delle guerre continue!

 Non abbiamo la pretesa, noi del gruppo parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite degli altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un impegno enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che stiamo facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale, che passa anche il prendersi cura degli altri  a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo, ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.

 Ma, in definitiva, lo sforzo che si fa in un gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi tutto un progresso spirituale, che, come contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui entriamo in contatto con essa.

 

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Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana

(13 gennaio 2013)

 

Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:

In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.

In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).

Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”

 

Da “Una Chiesa in ricerca, in servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:

 

“…se le due funzioni di servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi nella unità organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il vero contributo della evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in Italia il primo problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito dal convegno) è quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.

 

 Venerdì prossimo inizierà la settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo tema, pensiamo alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno organizzazioni separate mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte legate a un unico pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad un unico Signore.

 Tuttavia il problema dell’unità sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione religiosa. Esso si è fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio Vaticano 2°, come indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che ho sopra trascritto. Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha fatto le spese in particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80 ha visto ridursi molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura messo in discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e i vescovi e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.

 Ad esempio nella nostra parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non sia più, da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è sostituita l’organizzazione del Cammino Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella Chiesa e  nel mondo hanno caratteristiche piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica.  Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione. L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.

 Come ho cercato di riassumere nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2° l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si  è sentita di meno l’esigenza dell’unità di pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere, vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società, sul modo in cui vivere una buona vita  cristiana e poi, principalmente, sul problema degli alleati che si vogliono avere per fare  progredire la società, vale a dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente  con le ideologie liberali, fasciste  o socialiste che esprimevano un’azione di forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si individuava una cultura della mediazione, impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come  portatrici varie organizzazioni, tra le quali il Cammino Neocatecumenale. In genere si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa abbia scelto il metodo della presenza. Oggi  si è ormai perso il senso di questo diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora ci sono quelli per  i quali  i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal magistero.

 Certamente siamo chiamati all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati a parlare delle nostre scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover essere in comunione. Mancano però di solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo separato.

 Ma non  è detto che poi, parlando, discutendo, si arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise. Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da venire, mi pare.

 Uno dei luoghi in cui essa potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la quale appunto non ha le caratterizzazioni forti  di altri gruppi e pratica il metodo democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.

 Se però guardiamo alla nostra realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano dall’essere realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza associativa, se non riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro. Eppure esso sarebbe ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è ancora un contributo che potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo, non ci sono altre organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale storicamente l’Azione Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare efficacemente nell’idea dell’evangelizzazione come promozione umana e della promozione umana come evangelizzazione.

 

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Scrutare i segni dei tempi

(15 gennaio 2013)

 

 

Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965):

Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.

Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.

LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO CONTEMPORANEO

4. Speranze e angosce.

Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.

Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione reca con sé non lievi difficoltà.

 

 L’Azione Cattolica è particolarmente impegnata non solo ad attuare i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare ciò che si debba fare nel dopo Concilio. Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha nostalgia della Chiesa-di-prima, anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al mondo  in cui i cristiani vivono, a ciò che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in particolare la seconda questione.

  Riassumendo molto, le posizioni che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle piuttosto fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo in vari campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della politica. Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano producendosi e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli aspetti religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi in un tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui risultati di questo processo. Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad esso. Si volle quindi aprire gli occhi e il cuore a quello che accadeva nel mondo, per capirne le opportunità religiose di bene. Si usò a questo proposito l’espressione evangelica scrutare i segni dei tempi, parlandone come di un dovere permanente  per la Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che, storicamente, questa può essere considerata una novità rispetto alle posizioni precedenti del magistero.  E giunse in un tempo in cui ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia  non esplodeva in una conflitto guerreggiato, in una nuova guerra  mondiale, per il timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno  provvidenziale. Dovettero però passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello mondiale divenissero infine realtà.

 Fino al Settecento la Chiesa cattolica  fu piuttosto integrata con il mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente al modo in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i suoi capi o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero, religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i suoi signori delle nazioni.

  A partire dal Settecento la situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i fondamenti ideali del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il potere temporale della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul mondo in cui viveva. Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero cristallizzandosi nei movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un moto di opposizione e di contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione era consentita, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva mantenuto saldi legami con fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di proporsi al mondo culminò in due momenti: l’elencazione legislativa degli errori del tempo, contenuta nel documento denominato Sillabo, allegato all’enciclica Quanta Cura, promulgata nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con provvedimento della Penitenzieria Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con l’enciclica Graves de communi, promulgata dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una politica democratica cristiana. Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose anche la conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia, quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale, sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.

  Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato viene chiarito il senso dell’espressione scrutare i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il mondo in si vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.

 La Chiesa nei secoli precedenti si era considerata e dichiarata maestra di umanità, come ancora ritiene di essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare dall’enciclica Populorum progressio, promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.

 La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea, vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev (1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo religioso  fortemente pessimistica sul mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti che idealmente agiscono come piccolo resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.

 Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la tendenza si è di nuovo invertita.

 Non che nella Chiesa cattolica non possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa. La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento fortemente pluralistico, in cui da sempre sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che specificamente vengono denominati dogmi  di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi non solo con la modalità della testimonianza di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.

 Capire il mondo è fatica, non nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma, devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù  e in questo a volte sorprendono i più giovani, i quali sono più facili allo scoramento.

 Bisogna riconoscere che nell’opera di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro, nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario, ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso, non c’è mai stato nel

 

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Fede cristiana: speranza credibile e onesta o pia illusione?

(17 gennaio 2013)

Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978 – San Giovanni in Laterano)

 

  Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce.

  Signore, ascoltaci!

  E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui.

  Signore, ascoltaci!

  Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!

  Signore, ascoltaci!

  E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!

  Signore, ascoltaci!

 

 Interrompo gli interventi sui temi del Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione sulla base del dibattito  che si è articolato nella riunione di martedì scorso del nostro gruppo.

 La fede religiosa ci salva dalla sofferenza dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto angosciati da ciò che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni momenti della loro vita. Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6° recitò nel corso della messa funebre per Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, suo amico personale, ucciso quattro giorni prima da un’organizzazione terrorista di impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.

 Una delle accuse più tremende rivolte alla nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode, che prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali invece che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli oppressori e aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.

 Noi, da credenti, non ci facciamo illusioni sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella vita degli esseri umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla via della fede, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata dal papa Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa  può essere uno dei modi per reagire alle avversità, in alcuni casi essa può addirittura essere di impaccio sulla strada della resistenza e allora ce se ne libera. Ma, di solito, quello che in certe condizioni personali difficili si rifiuta non è la vera fede, ma una sua approssimazione insufficiente, il fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare le difficoltà che anche da credenti ben formati si incontrano in certe condizioni di contrasto e di dolore. La nostra infatti è una fede religiosa paradossale, che quindi non trova  definitive conferme nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se la magnifica complessità della natura suggerisce l’idea di un disegno intelligente che si spera essere anche amorevole, visto che l’amore nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e l’incessante lotta di questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo, per prevalere a spese di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte. Per quanto poi ci si ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che le cose, in conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità interiore profonda che noi troviamo il fondamento della nostra speranza religiosa, alla quale, per quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va, sentiamo di non poter rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle cose, quindi non chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che tutto è bene. Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore Bernanos usò nel romanzo  Diario di un curato di campagna  (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita umana,  la nostra vita, merita di essere vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine. Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato che tutti riescano ad arrivarci con facilità:  ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°:  Non è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà.     

 

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La Chiesa vuole rinnovare il mondo

(19 gennaio 2013)

 

Dal  decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal latino: L'attività apostolica) sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)

 

 L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini, però abbraccia pure il rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare  e perfezionare l'ordine temporale con lo spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.

 

 In queste poche righe del decreto conciliare Apostolicam Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra confessione religiosa.

 Innanzi tutto, iniziamo a tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a loro volta, sono una traduzione dal testo originale scritto in latino ecclesiastico moderno.

 Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui viviamo, l'ambiente naturale  e sociale.  Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia teologica,  è quello della fede, in cui il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono stati considerati distinti per i cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo della nostra era, però anche legati.

 Il cristianesimo nasce nella Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione ebraica ma sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica del tempo non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui bisognava organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di  distinzione origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per la guerra ai romani, all'opposizione dura,  si deliberò  di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Cesare era l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire ai doveri specificamente religiosi.

 Nei primi secoli, quelli dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si integrò nell'ordine politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a porsi il problema del legame, vale a dire dell'influenza dei principi religiosi, oggi diremmo dei valori, sull'ordinamento politico e civile della società. Non è che, prima di allora, le società dominate dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare l'errore di considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante dei secoli dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano, chiamiamo i pagani fossero atei. Tutto al contrario, i pagani dell'ellenismo e della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si  spiegherebbe perché costruirono tutti quei grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti pensare al titolo di pontefice che si dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.

 La dialettica, che ebbe storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione  e legame. Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas, che significa papà), si era instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie, aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali (un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano, a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi. L'accusa di papismo cattolico ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy. Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535), importante  ministro e consigliere del re Enrico 8°.

  Nella visione antica del legame tra temporale  e spirituale, pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,  con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano emarginati.

 Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione. I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America, nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun potere.

 L'assimilazione alle monarchie assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un certo momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad esempio, cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui, secondo un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in quello politico, re dei re.

 E' chiaro che la prospettiva è molto diversa nel brano della Apostolicam Actuositatem che ho sopra citato. Qui  l'idea di rinnovamento delle società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni  di popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella di un tempo: essi vengo denominati città degli  uomini, espressione cara a Giuseppe Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in cui, con riferimento all'idea di rinnovamento delle società civili, sono tramontati i monarchi e sono sorti i popoli.

 La pace tra cielo e terra non è poi più affidata ad un accordo condominiale tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli ordini di sovrani: la coscienza.

 

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55

Democrazia, difficile virtù

 

  In religione si ha di solito difficoltà a pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo senso la si subisce e perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di rimettersi al giudizio della gerarchia del clero, un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura antidemocratica. E, infatti, si ripete abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti così come sono organizzate  non lo sono) e non si capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.

  Considerando che tra il 1944  e il 1991 la democrazia è entrata anche nella dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si considera una condotta politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei processi democratici moderni, a fine Settecento, la si era sostanzialmente assimilata all’eresia e condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella nostre collettività di fede, e soprattutto praticarla.

  Democrazia non è solo la regola per cui la decisione comune è quella maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di coscienza e di parola, rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da un dibattito franco, aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso i governati, temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma - “grande anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto  dire sempre la verità, perché noi non possediamo  la verità e sempre la dobbiamo cercare come a tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire  gli altri secondo un certo nostro modello promettendo la felicità.

  Bisognerebbe fare scuola di democrazia a partire dai bambini della prima iniziazione religiosa, quando scoprono l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia, perché presuppone la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i processi decisionali. Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia tra gli esseri umani, il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione relazionale che ci fa crescere, come ci è stato spiegato nel primo incontro del ciclo Immìschiati  sulla dottrina sociale della Chiesa, per cui non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la democrazia, prima di studiarla sui libri, occorre  viverla  e innanzi tutto scoprirla  nelle relazioni con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto, imparare a non diffidarne.

 

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Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°

 

  I documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione religiosa e contengono importanti disposizioni in materia di liturgia e di dottrina sociale. Le novità più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni, quelle in materia di liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente innovata.

  Nell’Ottocento, quella che consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà ne è storicamente l’ultima propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni democratici che si venivano manifestando in Europa, animati da spirito di libertà e di giustizia sociale. Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in polemica, fin dall’enciclica Le novità  del papa Pecci del 1891, con il liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora sopita, tanto che è stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del ciclo Immischiati, nella nostra  parrocchia.

 Durante il Concilio Vaticano 2° si corresse il tiro. La libertà di coscienza del liberalismo e l’impegno per la giustizia sociale del socialismo divennero virtù anche in senso religioso.

 Nello stesso tempo si cercò di avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più ampiamente l’uso delle lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato un grosso ostacolo alla formazione religiosa dei fedeli mediante la partecipazione alle azioni liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà del papa Montini l’uso della lingua nazionale divenne poi la forma normale delle liturgie con la partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti monastici o della Curia Vaticana  e di altri ambienti particolari.

 Per quanto riguarda il rito della Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella Costituzione Il Sacro Concilio:

48. Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti.

  La partecipazione attiva alla liturgia era collegata all’impegno per la giustizia che si ritenne di promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per infondervi i principi religiosi,  per ordinarla secondo Dio, come venne scritto nella Costituzione  Luce per le genti

n.31 Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.

i laici dovevano essere adeguatamente preparati e la liturgia era un’occasione molto importante per farlo.

  Il nuovo ruolo dei laici di fede nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega perché negli anni successivi venne accettata anche la democrazia come virtù politica e religiosa insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle affermazioni teoriche, con l’enciclica Il Centenario  del papa Wojtyla, ma ancora in corso nei suoi sviluppi pratici.

  Nell’incontro Immìschiati sulla persona è stato detto che la dottrina sociale non è una terza via tra liberalismo e socialismo ed è vero. In realtà si tratta di una mediazione culturale della nostra fede che recepisce, ibridandoli, principi liberali e principi socialisti. Ne costituisce una sintesi, costruita per rendere compatibili le loro principali istanze con la nostra fede religiosa.  In un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno sia libero di fare di sé stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare, perché noi non siamo dei, ma solo creature fragili.  E’ questa è sicuramente la realtà.

 Nell’Ottocento la via democratica era ancora molto di là da venire in religione.

 Il nazionalismo del Regno d’Italia privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia centrale ed essi la presero molto male.

 Il Regno d’Italia era retto da un sistema politico che integrava conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo e liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però che di quest’ultimo poteva fare a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere del contenzioso con il Papato si presentava come uno stato democratico, anche se l’elettorato era piuttosto selezionato, tra i soli uomini di un determinato censo o con un livello minimo di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto sta che il Papato, nella polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un movimento del popolo minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un arrogante e presuntuoso ceto politico irreligioso, tuttavia era ancora custode delle buone e antiche tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente appartenenti ai ceti colti,  che cercavano una via per vivere attivamente le istituzioni democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine Ottocento del movimento politico della democrazia cristiana, e anche l’ideatore del nome  e del concetto di tale politica, e cercò di  mantenere le masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato, per utilizzarle come strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato tolto con la guerra del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di avere mantenuto una sovranità sugli italiani. La prima dottrina sociale della Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date da un sovrano, il Papa, al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione all’elaborazione di quei principi sociali, sebbene le encicliche sociali non siano mai state il frutto di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre  un lavoro collettivo, a più mani, perché i Papi  hanno una formazione prevalentemente teologica, anche se, ad esempio, persone come Montini e Wojtyla si intendevano pure di filosofia. La repressione dei ceti colti dei laici di fede determinò che la religione apparisse cosa da incolti. In più, i fedeli erano indotti a non partecipare alle elezioni politiche e così si trovavano nella stessa condizione degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi a causa della loro condizione di ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi del Novecento, che si cominciò, faticosamente, a cercare di andare in altra direzione, dando una formazione ai fedeli laici, ed anche alle donne dal primo dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata per essere un più docile strumento alla politica papale in Italia rispetto alla rissosa Opera dei Congressi, indotta a sciogliersi d’autorità nel momento di più acceso scontro tra intransigenti (contrari alla partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,  divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato con il regime fascista, che consentì di chiudere  la questione romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre). L’ideologia di questi politici  democratici cristiani  fu modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla. Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo inserirono nella loro  nuova dottrina sociale.

 Ecco ad esempio che cosa  si legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:

I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.

Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.

 Sia nella liturgia che nelle cose sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo Concilio fu quello di promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la dottrina sociale non furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di tutti richiede di fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto indietro.

 Da un lato la gerarchia del clero diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto dell’apostasia e  bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo è il tremendo verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi di vita buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che cercano di imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con la forza del numero o della loro veemenza.

 In particolare si ha sempre difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e religioso dei nostri tempi.

 Le cose si sono molto complicate nella società italiana di oggi. Per molti italiani è impossibile  tornare  a una fede religiosa che non è mai stata quella della loro tradizione, perché provengono dall’ortodossia orientale e da altre confessioni cristiane, dall’islamismo, dall’induismo, dal buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il maggior livello di istruzione della gente, raggiunto per merito del sistema scolastico pubblico, ha comportato che su molte questioni  di coscienza non si sia più disposti all’obbedienza  acritica. Nessuno in genere, neanche le donne che in passato sono state le fedeli più  docili, è più disposto adabitare  ambienti sociali in cui gli è vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre certe umiliazioni non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora talvolta colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i fedeli considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.

 Così, ad esempio, si è insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi liturgici, come la Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e infarcita della simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione di tutti e la comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si pongono tanti problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.

  La partecipazione attiva nella società del nostro tempo richiede la democrazia, e innanzi tutto il rispetto degli altri, perché ci troviamo a vivere in un contesto sempre più pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto diversi punti di vista, è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai tempi nostri, può sapere tutto di tutto, salvo che in settori superspecialistici, ma per questo sempre più limitati. Come scrisse Pierre Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note di catechismo per ignoranti colti, Mondadori, non più in commercio) al più riusciamo ad essere ignoranti colti.  Insieme ci sforziamo di superare i nostri limiti individuali. La sapienza degli altri ci arricchisce e viceversa. Confrontando le conoscenze e  le opinioni, le correggiamo. E’ questo che si fa nel dialogo: ci si mette in relazione gli uni con gli altri, chiarendosi. Questo è l’inizio della democrazia.

 

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Convincersi della democrazia

 

 Ho imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati due grandi esponenti del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in fondatori della nostra nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i principali artefici di varie fasi di rinnovamento della democrazia italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione Cattolica, ucciso nel 1980. Divenne evidente il carattere antidemocratico dei moti insurrezionali dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste: la democrazia italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo, lentamente, nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire quelli che vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di Roberto Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A quei tempi egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.

 Di fronte al pericolo, si ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni negli altri, questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di duri conflitti sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici, ma non avrebbe avuto successo senza questa nuova situazione nella società italiana.

 La FUCI storicamente è stato l’ambiente sociale della nostra fede che più si  è dedicato, fin dalle origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine Ottocento, qui a Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri, prete e attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era ancora vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una generica azione sociale.

 Quello degli universitari è un mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in cui si studia all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il bisogno degli altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può stare in manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola libreria domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari, e più lo si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più limitati della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una persona di cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati in altri settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro. Bisogna, in questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i risultati della propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico, e anche per capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più si capisce quanto non si sa. Sapere di non sapere venne considerato da un antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è anche il sapere,  il rendersi conto,  di ciò che non si sa, quindi uscire dal generico e individuare bene i propri limiti, per capire che cosa occorre, quale collaborazione cerare, per andare avanti. E' in quel momento che si comincia a ricercare chi possa aiutare a superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre alla ricerca (Ricerca  è la rivista dei fucini). Nel momento in cui si capisce di avere bisogno degli altri per superare i propri  limiti nasce anche la democrazia. Infatti per interagire con gli altri occorre creare il contesto giusto, praticare un certo metodo.

 Non si può praticare la democrazia quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è convinti che gli altri non solo non servono, ma costituiscono anche un pericolo, o comunque un fastidio, perché tendono a mettere in dubbio certe sicurezze. Allora si cerca di imporre agli altri la propria visione, così come avviene certe volte nelle riunioni condominiali, e si finisce per litigare inutilmente: la cosa comune poi ne risente, si deteriora, perché non c’è accordo su come farne la manutenzione. L’incapacità di democrazia degrada la società, che richiede un lavoro comune per sostenersi, e innanzi tutto un impegno, di molti. Fino al Settecento la democrazia veniva considerata in religione, ma sulla base di un antico pensiero greco, una forma di disordine e di allontanamento dalla verità. La democrazia, come oggi la intendiamo, nel senso di potere di tutti, ha invece bisogno di ordine, di chiarezza, e anche di fiducia reciproca e di  rispetto.

 All’origine della democrazia c’è l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la democrazia come una forma di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno dell’aiuto degli altri ed essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene di tutti, irraggiungibile senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare ma anche essere rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici. Questo collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al termine del greco antico agàpe,  vale a dire a un lieto convito in cui ce n’è per tutti.

 Se la democrazia è una forma di amicizia, si capisce come non si possa praticarla veramente per via telematica. Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare esperienza concreta gli uni degli altri. In questo incontro ci si svela e si possono avere sorprese piacevoli e spiacevoli, ma comunque in genere si hanno sorprese. Finché gli altri rimangono una linea di caratteri sul video servono a poco. D’altra parte conoscerli veramente è impegnativo, in tutti i sensi: richiede uno sforzo, una pazienza nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica, un tempo da trascorrere insieme. E’ così che però si costruisce la società, si creano legami duraturi.

 Se lo stare insieme dipende solo dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale, politico, religioso e via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo con il punto di riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco perché l’ingenuo attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a poco sia per formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.

 Certe volte ci si incontra, in religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli altri le parole d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve? Si rimane estranei come prima, con in più molto risentimento.

  Un universitario per la prima volta nella sua vita viene posto di fronte alla realtà così com’è veramente, ed essa è complessa. Tutte le semplificazioni degli studi precedenti si rivelano ciò che sono, vale a dire, appunto, semplificazioni, una base di partenza. Scopre che ci sono molte interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte, anche perché è in movimento, evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche parte, ed evolve anch’essa. Questo è vero anche per tutte le verità, comprese quelle ritenute fondamentali, della nostra fede. E’ per questo che si scrive tanto di teologia. Se tutto fosse così semplice come talvolta viene presentato, non servirebbe.

 Il primo passo per affrontare il pensiero sociale della nostra fede è il convincersi della democrazia, perché questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla dottrina sociale nel corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per influire nelle società pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi i grandi principi ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è possibile dominare culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso, un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così, perché la democrazia è per tutti,  ed è solo così che è veramente efficace.

 

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Democrazia dei cristiani, democrazia di tutti

(30-3-16)

 

[dal libro: Pietro Scoppola, La democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico nell’Italia unita - intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, 2005, €10,00, disponibile in commercio]

 

Domanda: Ma ci sarà un ruolo significativo per i cattolici nella vita politica italiana di domani?

SCOPPOLA: Certamente, anche se sarà diverso da quello che svolsero in passato, al momento dell’Unità d’Italia nel 1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e mortificati proprio perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43, quando assunsero la responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato verso la libertà e lo sviluppo.

 Il loro futuro sarà di sostenere la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di una profonda ispirazione etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri credenti, alla migliore tradizione laica e alle tradizioni popolari delle sinistre europee, ma ancora una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.

 La Democrazia cristiana è stato il partito dei cattolici italiani, l’espressione più riuscita della loro maggiore età politica, lo strumento del loro enorme potere e insieme della loro crisi, come sempre accade nella storia umana.

 Ma oggi il problema è la democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico italiano si misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la Democrazia Cristiana per un proprio partito esclusivo,  e di lavorare piuttosto per la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).

 

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  Quand’è che si entra veramente in società? Un primo momento importante è quando si trova un lavoro stabile. L’altro è quando si forma un famiglia coniugale, basata su  un rapporto d’amore coniugale, più stabile perché si pensa anche a dei figli. In genere, ai tempi nostri, ci si arriva intorno ai trent’anni.

 E quand’è che si hanno le prime esperienze veramente sociali, al di fuori della famiglia, nella società generale,  che di solito coincidono con la scoperta dell’amore sessuale, la base della famiglia coniugale? Per me è accaduto al terzo anno delle superiori, a sedici anni.

 I trentenni di oggi hanno compiuto sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da cui ho tratto la citazione sopra trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un testo da universitari.  I trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le mani appena pubblicato. Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, finito dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario della metà del primo decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale esperienza, anche se era citata in un capitolo o due dei libri di storia per le superiori.

 Un trentenne di oggi, allora, potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto tra le mani quel testo di Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i cattolici abbiano vissuto sotto il dominio dei laici, intesi come gli irreligiosi, i non credenti. Invece i cattolici, dal 1946, hanno dominato la politica italiana, ininterrottamente sino ad oggi, prima con lo strumento di un partito e poi, dalla metà degli anni ’90, mediante un’azione di pressione politica attuata direttamente dalla Conferenza Episcopale Italiana per il tramite di gruppi di pressione transpartitici.

  Di solito si ricordano le leggi sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria della gravidanza (1978) come casi di sconfitta delle posizioni politiche dei cattolici. Sono stati gli unici due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia della Repubblica democratica. E in realtà non si trattava di una sconfitta dei cattolici, perché si trattò di leggi ampiamente condivise dai cattolici, come dimostrarono i successivi referendum promossi su di esse, ma di una sconfitta della politica della gerarchia cattolica.

 Un terzo caso simile potrebbe darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle persone omosessuali e sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione. L’azione di interdizione politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora impedito l’approvazione di qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo vaglio di costituzionalità, che aveva travolto la legge sulla fecondazione assistita del 2004, pesantemente condizionata dall’azione politica della gerarchia cattolica. Anche nel caso delle unioni civili omossessuali e delle unioni di fatto i sondaggi evidenziano un ampio consenso della maggioranza degli italiani, cattolici compresi. Se la legge fosse approvata, e non è ancora sicuro che lo sia, e si andasse ad un referendum, probabilmente sarebbe democraticamente confermata dalle urne.

  Tutto il resto della politica italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito con il contributo determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro volontà, ispirata in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare a quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si attenuò molto l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata dalla fine dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del pensiero laicale in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia e la sociologia.

   L’idea di trovarsi in uno stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa.  Ecco perché Scoppola parlò del partito dei cattolici  come lo «strumento del loro enorme potere».

 Il potere dei cattolici italiani raggiunse il suo massimo livello nel regime democratico post-fascista. Fu sorretto da un’ideologia originale, riconducibile al pensiero di  politici come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, che colmava le grandi lacune della dottrina sociale in materia di democrazia. Quest’ultima fu accettata pienamente dalla gerarchia cattolica solo con l’enciclica Il Centenario,  del 1991, del papa Wojtyla. Ma nei testi della dottrina sociale la democrazia non viene trattata in dettaglio. La si presenta genericamente come una forma di potere del popolo che richiede partecipazione. Ma come si debba partecipare non è precisato. In genere si è molto attenti a fissarne dei limiti nei confronti della gerarchia del clero e in materia di trasformazioni sociali. La gerarchia, in genere, diffida del popolo;  e spesso non comprende bene la vita della gente, i suoi problemi, le sue aspirazioni. Vive in un universo autoreferenziale. E poi sente il pensiero democratico come un pericolo per il suo stesso potere, perché essa non è organizzata democraticamente e addirittura se ne vanta, non vuole esserlo (ma le spiegazioni che dà in merito non sono molto convincenti). Questo spiega anche perché il tirocinio democratico non rientra in genere tra le esperienze che vengono proposte ai fedeli nelle collettività di base. Lo si pratica, ad esempio, nei circoli intellettuali della FUCI e del MEIC, due movimenti scaturiti dall’Azione Cattolica che in questo si sono particolarmente specializzati.

 In realtà la democrazia, come ai tempi nostri la intendiamo, è una forma di governo delle società umane molto particolare, perché è strettamente legata alla giustizia, la comprende al suo interno. Nelle altre forme di potere essa può essere al più un orientamento morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno: in quei casi la legge suprema del potere è il potere stesso, il mantenimento del potere, e di fronte ad essa la giustizia recede. Viene praticata se e nella misura in cui serve al mantenimento del potere, alla creazione di un consenso sociale, al mantenimento della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti, invece, vive della giustizia, perché non si può governare tutti  senza essere giusti, senza riconoscere a tutti  la medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale, oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa. Questo crea qualche problema alla dottrina  sociale, intesa come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia. Questo rende ancora difficile, talvolta,  spiegare teologicamente come una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa, fondata su democrazia e giustizia sociale.

  Io che ho fatto il liceo ai tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, o il partito cristiano come lo definì un altro fine intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a capire come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi dovrebbe forse ripartire da capo.

  Innanzi tutto occorre fare realisticamente i conti con la storia. Respingere certe interessate falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i cattolici vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti sotto il regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è stata costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel mondo cattolico, ed è  innanzi tutto crisi del pensiero democratico espresso dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica.  Tutto questo è necessario    in politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa  come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte, in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale <www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,  il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015,  del papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi, per poi approfondire ulteriormente.  In questo tempo di sviluppo  della dottrina sociale,  le novità  dei tempi hanno inciso moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina sociale  che è rimasta, appunto, una  dottrina, vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana. Questa realtà normativa  è poco adatta al pensiero sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.

 Non so quanti sarebbero disposti, ad esempio, a condividere questa affermazione, riportata nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 227, riprendendo pronunce del papa Wojtyla:

“Le unioni di fatto, il cui numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa concezione della libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del tutto privatistica del matrimonio e della famiglia”.

 Questa sentenza non corrisponde a ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche inutilmente insultante verso chi ha realizzato unioni coniugali non formalizzate in un matrimonio, religioso o civile, ma comunque stabili e feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia  a quelle unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è uscita da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale. E' stato scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste sociali.

 Alla democrazia è essenziale un pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente, vale a dire nel libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non si possono fare progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi  in politica lascia, allora,  un po’ il tempo che trova, come si dice.

 O si vorrebbe che la gente, imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse ad essere il braccio secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in politica, secondo il progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo l’esperienza di politica democratica della Democrazia Cristiana volle superare.

 Come persone di fede non possediamo  la verità, ogni soluzione giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni devono essere ricercate nel confronto democratico, in quella che Scoppola definiva la democrazia di tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava come di Omnicrazia, che significa la stessa cosa, e la vedeva attuata attraverso Centri di orientamento, in cui capire e scegliere nel confronto e dialogo democratici.

 

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Nella grande  politica

(6-6-16)

 

 Incollo di seguito il testo di un discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a magistrati convocati a Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle scienze. In esso ha ripreso il tema della necessità di immischiarsi  nella politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra natura.

 I primi commentatori delle parole di Bergoglio hanno notato il riferimento alla "grande" politica più che quello alla libertà dei giudici. Entrambi però sono importanti e connessi e rappresentano delle novità nell'ideologia proposta negli ultimi anni alle collettività di fede che riconoscono l'autorità religiosa del vescovo di Roma.

  Più o meno dal Sesto secolo della nostra era la Chiesa cattolica come complesso di istituzioni è stata uno dei più importanti attori politici europei; questo in particolare a partire dal secondo millennio, da quando si è costituita come un impero religioso ad ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in politica",  e in quella "grande". Dove sta la novità? 

 La novità sta nel fatto che nelle parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo ne ha rifiutati i segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia romana dei pontefici.

 Ci sono i popoli e ci sono delle esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze da lenire, ci sono delle vittime a cui dedicare "grande attenzione". C'è un ordine sociale da cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che viene evocato come una "buona onda", "dall'alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità e dai popoli e dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli dirigenziali", dove quei "viceversa" sono molto importanti, perché in passato non se ne faceva conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in basso e dal centro alla periferia.

 In quest'ottica sembra quasi che dal giudice si pretenda molto di più di quello che egli è autorizzato a fare, anche negli ordinamenti di tipo democratico: qualcosa che pare una rivoluzione sociale, da fare agendo insieme, in comunità, per "aprire brecce, vie nuove di giustizia". E' perché Bergoglio, prendendo lo spunto dall’udienza a quei magistrati, sembra aver considerato il giudice come un modello di cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti  a farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,  avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato" che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare  un nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre.  Può liberare forze potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o semi-liquido.

 Venendo veramente da un altro mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica per la riforma sociale, presentata come dovere religioso:   " Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento "L'80° Anniversario"].

 "Giustizia, libertà, azione collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione se ne riprende a parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento. Un capo religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare, tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi. “La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini” tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla luce della fede che rende esigente  l’impegno politico come valore anche religioso.

 

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INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]

Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016

 

 

Buonasera. Vi saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, di cui la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è capace.

Se mi rallegro di tale contributo e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione del nobile servizio che potete offrire all’umanità, approfondendo sia la conoscenza di questo fenomeno così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida, cercando di migliorare le condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi. Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo VI — la politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la Chiesa è anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.

Nel corso degli ultimi anni non sono mancate importanti attività della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente, del Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e donne di oggi e, in particolare, attività volte a sradicare la tratta e il traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha detto il mio predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in diverse occasioni, questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e plasmati nelle leggi nazionali e internazionali.

L’incontro con i leader religiosi delle principali religioni che oggi influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo, il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua incidenza.

Ora, ispirata dagli stessi aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici ministeri di tutto il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello sradicamento della tratta, del traffico di persone e della criminalità organizzata. Siete venuti qui in rappresentanza dei vostri colleghi con il lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di tali flagelli e, di conseguenza, di rendere manifesta la vostra insostituibile missione dinanzi alle nuove sfide che ci pone la globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della società e nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico della propria vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato” di cui parla il mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare della “struttura di peccato”, liberi dal crimine organizzato. So che subite pressioni, subite minacce in tutto questo; e so anche che oggi essere giudici, essere pubblici ministeri, significa rischiare la pelle, e ciò merita un riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono continuare a essere liberi nell’esercizio della propria funzione giuridica. Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no? La giustizia con gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la bocca.

Fortunatamente, per l’attuazione di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano, cioè liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che l’Accademia realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare sull’importante e decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore consapevolezza di ciò, una forte consapevolezza. Sono lieto che i rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e integrale, in particolare il numero 8.7, che recita: «Adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro infantile, inclusi il reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui la Risoluzione. Si può ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un imperativo morale per tutti i Paesi membri dell’ONU.

Perciò occorre generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci l’intera società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come hanno già fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici prendano piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria, potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza, che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti, accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una società di popolo.

L’Accademia, convocando i giudici, aspira solo a collaborare in base alle proprie possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno collaborato attivamente con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice. Gli ambasciatori che non hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati le mani o che hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla prossima riunione.

Chiedo ai giudici di realizzare la propria vocazione e missione essenziale: stabilire la giustizia senza la quale non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale, e neanche pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo odierno è la corruzione a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo, debilita la democrazia partecipativa e l’attività della giustizia. A voi giudici spetta fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela delle corruzioni.

Quando diciamo “fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si debba cercare il castigo di per sé, ma che, quando si comminano pene, queste siano date per la rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa dare loro una speranza di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà luogo alla speranza è una tortura, non è una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo che nella concezione della teologia medievale e post-medievale la pena di morte conteneva la speranza: «li affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è più così. Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento... La speranza del reinserimento nella società: “neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.

I giudici sono chiamati oggi più che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni delle vittime. Sono loro le prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella società, e per loro si devono perseguire in una lotta senza quartiere trafficanti e carniferos, i carnefici. Non vale il vecchio adagio: «Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le vittime possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei buoni giudici, delle persone che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non poche di queste persone sono uomini e donne avvocati e politici, scrittori brillanti o hanno incarichi di successo per servire in modo valido il bene comune. Sappiamo quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di parlare del suo essere vittima come di un passato che ha superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto o, per meglio dire, una persona con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. Riguardo a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare un’esperienza empirica. Mi piace, quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi. È curioso, senza voler offendere nessuno, ma la mia impressione generale è stata che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il direttore è un uomo. Questo non è femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo al tema del reinserimento, un olfatto speciale, un tatto speciale che, senza perdere energie, per ricollocare queste persone, per reinserirle. Alcuni lo attribuiscono alla radice della maternità. Ma è curioso, lo dico come esperienza personale, vale la pena rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta percentuale di carceri dirette da donne, molte donne, giovani, rispettate e che sanno trattare con i detenuti. Un’altra mia esperienza personale è che alle udienze del mercoledì non è raro che partecipi un gruppo di detenuti — di una o l’altra prigione — portati dal direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono tutti gesti di reinserimento.

Voi siete chiamati a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che insistentemente chiede giustizia (Lc 18, 1-8) alle vittime di oggi, tutte alimentano un anelito di giustizia, come speranza che l’ingiustizia che attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.

A volte può essere di giovamento applicare, secondo modalità proprie di ciascun paese, di ogni continente, di ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i beni criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti, per offrirli alla società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime. La riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre realmente possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.

Se c’è una cosa che attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo del giudizio divino con cui tutti saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo (cap. 25), è il tema della giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli che soffrono per la giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati gli operatori di pace, benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me stesso». Essi o esse — e qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici — avranno la ricompensa più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio, vedranno Dio, e gioiranno eternamente insieme al Padre.

In tale spirito oso chiedere ai giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici di continuare la loro opera e realizzare, nei limiti delle loro possibilità e con l’aiuto della grazia, le felici iniziative che onorano il loro servizio alle persone e al bene comune. Grazie!

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Il partito del Papa

 

 Con l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha diffuso un progetto integrato di riforma della società contemporanea, un vero e proprio manifesto politico. Esso deve essere discusso democraticamente, ma proprio per la fonte da cui proviene è difficile farlo in religione, e al di fuori dei contesti religiosi non lo si fa perché non interessa. Infatti il partito del Papa  non ha seguito in Italia. Il nostro è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato dominato da un artito cristiano ed è stato impressionante constatare che nelle ultime elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti che le animavano si è richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha affrontato il tema di Roma come città della fede, e questo nonostante il Giubileo in corso. Nessuno si è richiamato ai temi politici della Laudato si’, che probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e anche laddove è conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto specificamente politico. Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura pontificia, si sia considerato distrattamente un documento in cui invece ogni parola è importante perché segna un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove opportunità. Si dà uno sguardo ai titoli, si legge qualche brano scelto traendolo dai commentatori, e poi si aspetta il prossimo documento, che infatti  è venuto con l’esortazione Letizia dell’amore.

  Fare  politica ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita, sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Sarto, il Papa dei Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono riuscito a trovare uno stralcio sul WEB:


I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.

È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.


 In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi. Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica  di Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:


“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”


 Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo Anniversario[della prima enciclica sociale  Le novità, del 1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:


"Significato dell’azione politica

46 […]È vero che sotto il termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere chiarite; ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.

Questo, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui, delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio di tutti, le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell'uomo, ivi compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e interviene sempre nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene comune, di cui ha la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d'azione e le responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi concorrono alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni intervento in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già di distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente, tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani, sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini."

 Che cosa c’è di diverso tra il pensiero del Sarto e quello del Montini sulla politica? C’è la democrazia, che significa anche considerare la politica non come inevitabile sviluppo di interessi particolari,  ma come servizio efficiente e disinteressato per  realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. E c’è la mediazione, che significa concepire la politica come  ricerca  insieme ad altri, in un clima di pluralismo.

  Esercitare il potere in modo insieme democratico e  conforme allo spirito evangelico non è innato nei fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio. Negli anni ’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in cui in Italia fiorirono tante scuole  di politica.  Ma poi emerse il pluralismo della politica e si lasciò perdere. Si riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni bui dell’intransigentismo ottocentesco, quelli della polemica durissima con il liberalismo democratico, che ancora risalta moltissimo nelle parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è persa una tradizione di impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea solo sui libri. Quindi poi la rinnovata esortazione all’impegno politico democratico di Bergoglio cade nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto agli orientamenti politici  della Laudato sì, la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni francamente di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su migranti ed emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a scapito di qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare  più tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali e dell’edilizia intensiva.

  Ad essere cittadini di una democrazia avanzata si impara e se la politica democratica ha un valore anche religioso si tratta di un lavoro che deve essere impostato anche negli ambienti di fede, come una parrocchia. Si inizia con un tirocinio, con fare esperienza di democrazia negli affari minuti, nella gestione di un gruppo, di un servizio, rifuggendo e contrastando il cesarismo  dei capi. Poi ci si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che costa fatica, perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo tempo, tutte le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in disuso, a cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di legittimazione democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare quando si svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle stesse persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno ben chiaro a che titolo vi partecipino.

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Fede e politica: una relazione essenziale

 

 

[da: Ludwig Hertling, Storia della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag, Berlin, 1967)]

 

La nuova serie di papi sotto l’influenza degli imperatori

 

 Ottone I (1°) [912-973, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 962] e suo figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto, erano intervenuti nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza ottenere veri risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo Ottone [Ottone III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero dal 996], il quale personalmente non possedeva la qualità dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma deve avergli giovato il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno alla corona imperiale per merito di suo padre e di suo nonno.

 

Gregorio V e Silvestro II

 

 Quando nell’anno 996 morì Giovanni XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio verso Roma. I romani lo pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III contava allora 16 anni, era profondamente religioso, essendo stato educato  dai migliori maestri del tempo, ed inoltre era un idealista entusiasta che sognava gli splendori dell’antico Impero romano. Egli designò come papa il suo cappellano di corte, che era anche un suo parente, Brunone. Questi, a sua volta molto giovane, perché contava solo 24 anni, in fatto di idealismo non la cedeva all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio V (5°), ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai promettente. Dopo di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro Gerberto. Gerberto, un francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era molto ammirato per la sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha fatto un mago. Non meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro II (2°), era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un lungo tempo la Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente cristiana e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli ungari con la metropoli  di Gran, A colui che era stato fino allora il duca degli ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.

 

Il nuovo predominio dei signori di Tuscolo

 

Dopo la morte prematura dell’imperatore Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente un conflitto tra i conti di Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V avevano tentato di suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un antipapa. Ma il nuovo imperatore  Enrico II  (2°) fece accettare ai romani il legittimo pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della famiglia di Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due città vinsero i saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani. Nel 1020 il papa si recò in Germania e consacrò  il duomo di Bamberga, fatto erigere da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in Pavia, in cui il celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero promulgati fin d’allora decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli ordini sacri in cambio di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia si vennero un po’ alla volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal sistema delle chiese di proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della Chiesa dai signori feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta delle investiture.

 I conti di Tuscolo tornarono a essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il fratello di Benedetto VIII, Alberico, governava la città col titolo di console. Dopo la morte di Benedetto VIII, un terzo fratello divenne papa col nome di Giovanni XIX (19°).  Questi incoronò imperatore Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re Rodolfo III (3°) di Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al resto, egli non si occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°) di Bisanzio gli profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al patriarca di Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi precedenti gli avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma dovette rinunciarvi a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i monaci cluniacensi (federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di  Cluny, in Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di Tuscolo, che voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei suoi membri, impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto. Il ragazzo, che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato dopo poco tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse, dal momento che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra volta, egli ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete di San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro III (3°).

 

Intervento di Enrico III (3°)

 

 Giovanni Graziano aveva agito con le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver ora accettato egli stesso l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°), come egli si chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli ecclesiastici più rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma poiché uno dei principali punti del programma di riforma si riferiva alla simonia, e cioè al commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno un’imperfezione che il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo scopo di farlo abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua abdicazione e ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro III. In questo ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere d’aiuto. Enrico III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia. Egli tenne un sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto IX, che già aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo papa, furono definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare volontariamente il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma, l’imperatore lo prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane chierico romano, Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo storico di grande importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.

  L’imperatore sembrava l’unica personalità in grado di ristabilire l’ordine, tanto che tutti furono d’accordo che fosse lui stesso a nominare i papi seguenti. I suoi due primi papi, Clemente II (2°), precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II, vescovo di Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo tempo dopo la loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di Toul. Il nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione regolare da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa città, prese con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di Gregorio VI, s’era fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e i suoi successori, finché non venne eletto papa egli stesso [con il nome di Gregorio 7°].

[…]

 Alessandro II [papa eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e  senza l’ingerenza dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero luogo il giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di arcidiacono, il popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I cardinali si ritirarono immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo secondo le regole precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò il giorno dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico IV. A ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).

 Gregorio VII appartiene a quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché suscitino le reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio appropriato sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del medioevo, morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è cattolico e papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un barbaro. E fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute spavento al mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone la festa ogni anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali Gregorio VII è il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che Gregorio VII fece un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier Damiani lo chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò significare l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni altro. Come già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura, mobilissimo, infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile vitalità. Lo zelo lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio. Ogni cosa era per lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a sant’Ignazio di Lojola.

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  Quando da ragazzo lessi le pagine che ho sopra trascritto, da un libro di studio di mia madre, rimasi meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling di argomentare, contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in cui mi ero formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio seguente e quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi racconti sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra fede e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende dal suo attivismo, è un progetto suo.

  Nel 2013 è stato eletto papa un  vescovo, un religioso dello stesso ordine di Hertling, che ha assunto un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era mai stato prima un papa di nome Francesco. E’ andato a vivere in un albergo nella cittadella vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha rifiutato le insegne della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un nuovo corso politico, con il suoi documenti  La gioia del Vangelo,  del 2013, e Laudato si’,  del 2015. Un po’ come avvenne intorno all’anno Mille. All’epoca il moto di cambiamento fu sostenuto dai monaci della federazione di Cluny, oggi dal movimento  conciliare.

  Quanto è importante la politica nella fede?

  Una tesi che si potrebbe tentare di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto, tanto studio per farlo) è che è tutto, da un punto di vista storico e sociologico, naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine soprannaturale.

   Adottando il lessico di Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’ superficiale come è quello di un ignorante colto come io sono, uno che non è uno specialista di certi temi e che pure per rendere ragione della propria fede deve tentare di ragionare su di essi, come se dal Quarto secolo della nostra era la penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo  sia avvenuta per la massima parte per via politica. Una politica che nel primo millennio fu dominata dai sovrani civili, gli imperatori romani e poi da quelli che si considerarono loro successori, e che nel secondo millennio, da Gregorio VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai sovrani religiosi romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti come un impero religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta di condominio su un  popolo di sudditi. Questa era dei papi-imperatori sta volgendo al termine in questi anni ed è questa l’epoca in cui noi fedeli siamo finiti in mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo nascere nella Roma dominata dai signori di Tuscolo, che espressero sovrani religiosi definiti da alcuni storici, spregiativamente, pornocrati.

  Se, da un punto di vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione della fede, è evidente che chi propone l’apoliticità  della fede non fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte durissime non nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben vedere, su temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società del nostro tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare il pastore chi a questo ruolo è designato in quanto membro del clero? E poi: come combattere la povertà? Come evitare che l’industria rovini l’ambiente in cui viviamo? Chi e in base a che criteri deve fare le parti della ricchezza che si produce? Una fede religiosa che non affronti questi temi diventa inutile. E la nostra  fede non lo è mai stata storicamente e non lo è. Infatti di questi temi si discute oggi, in religione.

  La politica contemporanea si fa con metodo e secondo principi democratici, che significa partecipazione di tutti  al governo, elevazione di tutti  alla sovranità. Questo implica un tirocinio, una  formazione che non può limitarsi allo studio dell’imponente letteratura dei papi. La politica democratica richiede una partecipazione anche alla elaborazione dei principi e, vista la stretta connessione tra fede e politica, per cui la nostra mi appare essere stata sempre (questo mi sembra il suo vero tratto distintivo rispetto ai tanti culti misterici che le furono coevi nel primi tre secoli della nostra era) una fede politica, ciò finirà (come del resto è già accaduto con lo sviluppo del movimento di idee che sfociò negli scorsi anni Sessanta nell’ultimo Concilio ecumenico) per riflettersi anche sul modo di pensare  la fede. E’ stato osservato, ad esempio, che alcuni dei più importanti movimenti scaturiti nel post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la proposta politica del nostro vescovo e padre universale Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio solo degli specialisti.

  Possiamo considerare, sotto l’aspetto politico, i papi Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto 16°, gli ultimi sovrani dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da quelli del primo millennio. E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il papa che ci è venuto dal Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata dai sovrani medievali alla cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato,  il capostipite di una nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un processo che coinvolgerà anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo. Un ritorno al passato è impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il nostro  mondo è la Terra intera e non il piccolo universo umano in cui pensavano di essere signori del mondo i papi intorno all'anno Mille.

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La vita di fede come esperienza civile

 

 

 La fede può essere alla base di un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato che fosse possibile. Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una storia analoga si è vissuta in Germania.  In altre regioni europee la fede è stata integrata nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad esempio, alla Spagna e alla Polonia.  In Italia al centro di tutto ci sono stati dei valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici. Tutto ciò è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo punto, però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.

  Di tutto ciò si sono avuti riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato. Ho ricordato i fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con quell’epoca, appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose. In passato, e molto a lungo,  si è pensato che oltre a catechismo e famiglia ci fosse poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli di storia, in cui la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.

 Negli ultimi vent’anni c’è stato anche un problema di formazione del clero. Sono venuti a collaborare molti sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di quella storia di esperienza civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non conoscendola non l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte eccezioni naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica, molto centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio. Quando ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha fatto impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li ricordo sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi visitatori laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza: certo, eravamo meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo in qualche modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro erano destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime comunioni, a cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata a stare  in chiesa. Ma non è proprio questo il nostro popolo? Quando lo si idealizza nei bei documenti del nostro supremo magistero, popolo qui, popolo lì … tutto va bene, ma quando il popolo esce dalla carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona impressione. E’ perché manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in cui ognuno sia ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la liturgia serve appunto anche asuscitare  un popolo diverso, per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro  da una certa storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli ambienti con questi nugoli di incenso.  

  Si è puntato molto al perfezionamento  interiore, cercandolo di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi pare abbiano vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di  alcuni ordini religiosi, le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno l’amicizia della fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per le donne.  Ma la vita di fede non sta solo in questo.

  Agli albori del cattolicesimo democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò Fava Ghisilieri, in Riflessioni politico-morali raccolte da un solitario ad uso della gioventù libera d’Italia [citato in Vittorio E. Giuntella, La religione amica della democrazia - i cattolici democratici del Triennio Rivoluzionario (1976-1799)]:

“Quand’è che l’uomo può dirsi un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti de’ suoi fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola dolce a se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi della morale? Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata, più stabile della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle interpretazioni in spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il più dolce, e il più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual altro è mai, se non quello della Carità? E non è forse nel sistema repubblicano, che più si cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più opportuna di questa a un tal uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci tutti come fratelli. Le dissensioni civili, che son tanto nemiche della Libertà, non trovano forse ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei dinanzi al Giudice supremo persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che lacerano l’altrui fama, non che degli odi covati a lungo nel seno?”

  Ad uno spirito religioso può non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da parte in un mondo tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per diventare tutto fantasia, sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che siamo stati mandati nel mondo? Da giovane non avrei sopportato questa prospettiva, che per altro non mi fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci adatto. Però ci sono pochi posti in cui vivere un’esperienza civile animata dalla fede. Uno deve fare da sé. Certe cose non te le spiegano in parrocchia e nemmeno altrove. Viene tra noi uno come don Ciotti e sembra un marziano, una persona da un altro mondo. Eppure intorno a lui ci sono tante persone di fede che condividono la sua esperienza civile.

  Da dove ripartire?

  Direi dai più giovani perché in genere hanno più tempo per la formazione: è il loro lavoro. Il tempo degli adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane poco per qualcos’altro. Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in cui presentiamo la religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il nucleo di spinta di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante rigenerazione, è costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano: occorre che sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne diffidino, che arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro le fosche visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri ultimi sovrani religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società in disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è solo questo intorno a noi.

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Condominio o repubblica

 

C’è una bella differenza tra un condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono decisioni seguendo il metodo democratico.

 In un condominio ci si finisce perché si compra un appartamento e si diventa proprietari anche di parti comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci si serve anche di altre cose, però per queste si è obbligati a farlo  insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e, soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose  e non le vogliono cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.

  Una repubblica nasce quando ci si sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare una società migliore, in cui si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia abbandonato alla propria sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose molto meno. Ci si cerca perché si vive bene insieme. Al centro di una repubblica ci sono dei valori: questo significa una certa concezione di società. E poi la fedeltà a quei valori. Si è disposti a dare molto, anche la vita, per realizzarli. Uno  di essi, molto importante, è l’eguaglianza in dignità, che significa rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo richiede di essere sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra. Per diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni, i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide che vinca  la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad ognuno dei diritti fondamentali  che nessuna maggioranza può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni persona è  sacra, nel senso che ha diritti intangibili. Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non  è qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente, che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima  in cui non c’era e che avrà un dopo  in cui non ci sarà più. Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo? In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe, che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale.  Nessuno escluso.

   Alcuni dicono che bisogna cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il mondo. E seguono vie di perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro sforzo di perfezione  rimangono poi soli con sé stessi. Gli esseri umani non sono  fatti  per essere così. Questi cammini  allora dove portano? Ci si perfeziona, se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe, crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale, a tutto quello che c’è intorno.

  Anche in una parrocchia, come in ogni specie di società, si fa la scelta di essere condominio  o  repubblica. Dipende da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro  per noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la si condivide  al modo dell’ascensore in un condominio, con l’essere umano si entra in relazione.

 La nostra Cena rituale, con le povere cose che condividiamo, alle quali però diamo un valore  infinito perché ci mettono in relazione benevolente e universale, non è forse la celebrazione dell’agàpe religiosa? Farne una realtà condominiale  sembra impossibile, eppure è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente per il fastidio che certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare una realtà universale, in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno sia sacro… Ma non è meglio essere in meno a condividere, in modo che ce ne sia di più per quelli che ci sono? Questa  è fondamentalmente la ragione politica della crisi della nostra nuova Europa comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto delle  cose e non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione, quella per cui nell’agàpe  l’inventario contabile di ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità, stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito  repubblicano. Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata: ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in spirito repubblicano e non condominiale.

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64.

Democrazia -1

 

La democrazia è una forma di organizzazione della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione alle decisioni comuni.

  Democrazia è una parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos, che significa popolo, e cràtos, che significa potere. Dunque significa il potere del popolo.

  Gli antichi greci furono tra i primi a ragionare sul potere sociale.

  Contrapponevano la democrazia, il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e alla oligarchia, il potere di pochi.

  Anche in democrazia i capi sono pochi, ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono essere periodicamente sostituiti.

  Ciò che distingue una democrazia da una oligarchia è dunque la possibilità di critica  sociale e  l’esistenza di regole  che limitino  il potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che coinvolgano i più.

  Schematicamente: in una democrazia il potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i pochi che saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto, perché i pochi che comandano scelgono i loro successori  e quelli che comanda ai livelli inferiori.

  Ogni democrazia, degenerando, tende a diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai processi democratici, così come ogni monarchia.

  Nelle società complesse non esistono vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle oligarchie dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere supremo rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.

  Un altro tipo di oligarchia è la ierocrazia (un'altra parola greca composta da ieròs, che significa sacro, e da cràtos): in essa i capi ritengono di essere stati scelti in modo soprannaturale per fare da tramite tra il Cielo e il mondo umano.

  Attualmente la nostra Chiesa è, dal punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia in cui si stanno sviluppando processi democratici.

  La Repubblica italiana è invece attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi oligarchici: questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che in pochi stati.

  Paradossalmente le monarchie dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni,  e dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici supremi.

  Le monarchie e le oligarchie in genere cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le democrazie possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.

  Queste informazioni vengono date di solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati nell’enciclica Laudato si’.

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65.

Democrazia -2

 

Democrazia - 2

 

  Ogni forma di organizzazione sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene dallo studio dei fatti umani, fin da quelli più antichi.

  Possiamo farci un’idea di come si era in tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono e che verosimilmente vivono come i primitivi.

  L’evoluzione delle società umane è stata favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della scrittura. Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società erano già piuttosto complesse.

  Dal punto di vista biologico discendiamo da esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con  aspetti fisici e movenze simili a quelle umane) che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con molte femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità. Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi, erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di carattere sacro  perché non in dominio umano, e, nel caso venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione  e il diritto servivano a questo e venivano somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.

  Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le società umani siano radicate  in certi posti.  Questo è uno sviluppo politico  relativamente recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.

  Il radicamento  politico su un territorio sviluppò molto la concezione giuridica della proprietà, sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come figure paterne, come  padri  del loro popolo, iniziarono ad agire come proprietari  di esso. Cercarono a lungo un’investitura divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani assumessero anche la carica di pontefice massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice  è uno dei nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo collegato all’ordine universale, cosmico  (cosmo è una parola del greco antico che significa universo). Si ebbe così una sacralizzazione  del potere, che significa appunto collegare il potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei  soprannaturali. Ciò che riguardava le cose soprannaturali era sacro, nel senso di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano accostare il sacro. Sacralizzare  il potere significò volerlo sottrarre alle contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era accentrato in chi deteneva il potere politico  e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione  del potere è ancora molto forte nella nostra organizzazione religiosa.

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66.

Democrazia -3

 

Democrazia 3

 

 La sacralizzazione  del potere politico spiega perché i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità  delle istituzioni pubbliche.

  Secondo il  principio della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni discriminazione su base religiosa.

  La sacralizzazione del potere si è sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi italiani siamo europei.

   Dal Quarto secolo della nostra era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia della nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette in questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio,  nella regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella sacralizzazione: di là dominarono l’imperoromano,  ridottosi poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,  procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici,  vale a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti dagli imperatori  di Bisanzio. In questo modello c’era un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia, piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.

  La sacralizzazione giustifica il potere assoluto, vale a dire  senza limiti, del sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del delegato terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era originario nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato  politicamente subordinato all’imperatore romano, in realtà al potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne politicamente un feudatario (che significa principe  di livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso, come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che, tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione  del potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale  del potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo quadro, un potere  assoluto, per di più attribuito a una sola persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi analoghi nella nostra organizzazione religiosa.

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67.

Democrazia -4

 

Democrazia - 4

 

  Gli esseri umani, nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel corpo  e nella mente,  e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto,  mutano continuamente. Se  non se ne è convinti, è inutile procedere con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia come la si concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione  del potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato  un cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato  quando lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro  si ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato a irrogarle  per conto  della potenza celeste che l’ha delegato.  Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di volta in volta da esse espressi, governavano“per grazia di Dio”.  Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.  Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere romano di Borgo. Lo definisce stato  in modo non del tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,  con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato  si legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione  del potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità dello Stato.

   Il principio giuridico, e addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la sua strumentalizzazione politica, per lasacralizzazione  del potere politico.

  Storicamente il processo di desacralizzazione  del potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo  europeo, nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelleuniversità  europee cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.

  Dal Duecento in Europa si svilupparono università degli studi, istituzioni di studi superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione  del potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina Commedia  di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le concezioni dell’epoca sull’universo.

  Il primo regno ad essere colpito dal processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo in questione nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento, il papato romano, con la Riforma  promossa del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg, nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione  del potere politico, anche se  ad essere contestata era la sacralizzazione del papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel 1648  nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della Germania.

  Il papato romano, fino ad epoca recente,  reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare  il suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)], del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge (testo integrale su

https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html  )

 

Il "laicismo"

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.

 

 In seguito il papato romano usò toni più sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma operando attraverso la mediazione prima di un  partito cristiano desacralizzato, vale a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato  da poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate, presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.

  A conclusione di questo discorso, tengo a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono le religioni che minacciano la pace politica, come talvolta sento sostenere, ma la sacralizzazione del potere politico. Se il potere politico è sacralizzato, allora   viene a dipendere per la propria stabilità da una, e una sola, religione. Per questo diventerà intollerante della altre e queste ultime lo avverseranno per affermare il proprio diritto civico ad esistere o per affermare un potere politico sacralizzato basato sulle proprie convizioni di fede. Se invece lo  si desacralizza, quindi se trova giustificazioni non religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.

 

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68.

Democrazia -5

Democrazia 5

 

 

  L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto certi profili il passato non è sempre veramente passato. Lo vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di oggi.

  La Questione romana ha travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del suo piccolo  stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali, sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un Regno che nel suo Statuto  proclamava: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!). Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori  di fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri  fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente  il conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il Quarantennale, del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando di apprezzarne l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma anche l’azione repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna autocritica è mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il riconoscere, come fece il papa Montini, la natura provvidenziale  della fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia nazionale.

   La lunghissima sacralizzazione  dei poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro  a sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente, dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse indispensabile possedere  uno stato. Nel mondo di oggi non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale, quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per deporre dittatori  o per far cessare crudeltà  e guerre. Un potere che possieda  uno stato non può più essere considerato solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.

 Ecco come  la rivista Panorama  ha sintetizzato quella vicenda in un articolo del gennaio 2013:

 

I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44 ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si tratta del perimetro della Città del Vaticano.

È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di Religione , che però i numerosi turisti e italiani che frequentano i Sacri Palazzi non hanno.

Colpa di Bankitalia, che non ha poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia, braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.

E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .

San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.

 

 La storia ci ha lasciato in eredità il piccolo regno di quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un impaccio da chi lo governa. Sotto certi aspetti è un po’ un  parco a tema, come Disneyland, con tanti pittoreschi figuranti. Non è come capi di stato  che i papi contano nel mondo, ma come capi spirituali di circa un miliardo di fedeli. Possedere  uno stato è anche sotto certi altri aspetti controproducente per il papato romano, come segnalarono ai tempi del compromesso con il fascismo gli studiosi di diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si potrebbe tornare indietro? Il Papa è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno, certo che potrebbe farlo, ma, in realtà, non può. Quella storia di cui parlavo lo condiziona, lo limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in tante cose e, in particolare, nella questione della democrazia. Questo perché il cedimento al fascismo, avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce profonde in noi, nella cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo e religione si compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando pensiamo al modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello clerico-fascista. In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza la memoria storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o con le genti che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia. Su quella del Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si sostiene superficialmente che la Chiesa non è una democrazia  si ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo mondo? Se però,  nel mondo,  si costituiscono delle istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un ente caritativo, un’università, o una parrocchia,  perché non si dovrebbe praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene, altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene, su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.

 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

 

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69.

Democrazia - 6

 

 

 Per chi scrivo queste brevi note  sulla democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato LeggeScienze politiche  e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’ di più? Ho studiato Legge  e ho approfondito un po’.

  La democrazia, più o meno come noi ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento anni prima che si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi greci produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era legato ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita umana e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento, si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota degli adulti maschi  liberiLiberi  da che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne, e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.

  La schiavitù non venne posta in questione dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù dell’affermarsi dei processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto che riteniamo di essere stati creati e di essere all'origine  figli di un unico Padre. Da qui l’idea che si sia creati uguali. Quindi i processi democratici contemporanei sorsero in  Europa, nel Settecento, sulla base di concezioni che intendevano liberare  gli esseri umani dalle schiavitù  sociali perché li si considerava uguali  per natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro, ma come ogni figlio  è diverso dal fratello. Il padre tra loro fa parti uguali
  Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella degli schiavi.

  Benché dette con le parole della teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°  in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane ». Che progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come eretica, solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità, del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero  e giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno detto cose diverse dai papi di un tempo.

  Certo, ai tempi in cui si formarono le nostre collettività delle origini, gli antichi processi democratici si erano da tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle collettività non troviamo dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo politico. Parlò di un Regno, ma non di questo mondo.  Il detto che gli è attribuito  “Date a Cesare quel che è di Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una sorta di regolamento di condominio tra poteri nel mondo, quello di Cesare, il nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello  Celeste, ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto monarchico, come piccoli regni federati tra loro con intese di  comunione: si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica, e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un processo ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come propria forma di sacralizzazione  politica, e quindi come ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della nostra era.

 

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70.

Democrazia - 7

 

  Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della democrazia. Vi partecipava una minoranza  della popolazione che praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di saper agitare  le collettività divenendone guide. I più decidevano secondo i propri interessi privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di voleri favorire, ma chi arrivava al potere promettendo  di farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare, per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad esserlo. Al massimo furono consiglieri  di chi comandava di volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua  corte, un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri. Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura. Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.  In fondo è storia anche dei nostri giorni.

   In un mondo fatto di tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle cose della politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si manifestarono processi democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel dominio di imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica, nell’età d’oro dei Comuni  europei, le esperienze di libertà delle industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e fino al Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti che si riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare  il proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi dal lavoro, non avevano la capacità di occuparsi della politica, in particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se non fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una situazione naturale e che la ribellione fosse un grave delitto. I poteri assoluti  proposero diverse giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La loro sacralizzazione  li aiutò in questo: si presentarono come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa situazione di temuta anarchia  fu assimilata alla democrazia, dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.

  Quello che ho cercato di sintetizzare spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere  tutti  nei processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento. Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama l’Italia come una repubblica  democratica  fondata sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici sono entrati in crisi.

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Capire la democrazia

 

 

71. 1.   La democrazia: non solo regole, ma una forma di convivenza sociale per risoluzione pacifica dei conflitti.

      La democrazia è  un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società  o generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro estensione. Una volta che si è radicata in un corpo sociale, ne consente anche l’evoluzione senza che esso venga disperso nel corso di conflitti violenti. Per questo la democrazia viene mantenuta sempre in una fisiologica instabilità, in modo da consentire le dinamiche sociali di potere, ma in una instabilità controllata, come accade nei reattori nucleari per la produzione di energia elettrica, nei quali le reazioni di fissione nucleare, capaci di produrre potenze distruttive, vengono moderate e contenute, ma comunque attivate.

  Gli esseri umani, in particolare nelle società contemporanee estremamente complesse in particolare per essere composte da vastissime moltitudini di individui, dipendono dalle loro società per la sopravvivenza. Un gruppo di esseri umani diventa società quando manifesta la capacità di azione collettiva. Le azioni individuali devono quindi essere coordinate, per produrre un’azione collettiva. Questo coordinamento è dato da dinamiche di potere che coinvolgono individui e gruppi di individui. Ad un certo punto un individuo o, più spesso, un gruppo di individui riesce ad imporsi e a dettare le linea collettiva: questa è una situazione di potere. Essa tende sempre a prolungarsi nel tempo e ad estendersi, finché non incontra una resistenza. In questo momento si produce una situazione di conflitto sociale che arcaicamente veniva risolta prevalentemente mediante la violenza collettiva e, progressivamente, producendosi delle culture dalle società umane, quindi evolvendo le società umane, anche con altre modalità che preservassero la società dall’essere sfasciata nel conflitto. In particolare questo avvenne, e ancora avviene, mediante la produzione del diritto. Il diritto è uno dei modi in cui si possono  limitare i poteri collettivi e privati in modo che non giungano a confitti distruttivi. E’ integralmente una produzione sociale, che si basa essenzialmente sull’esperienza storica e sociale delle conflittualità sociali. Oggi siamo abituati a pensare il diritto come un sistema di ordini di autorità pubbliche, quindi di leggi, ma esso non si genera solo in quel modo, anzi, per millenni, la legge non ne fu la fonte prevalente. Una volta accettata l’idea che alla società convenga limitare i conflitti sociali per preservare la sua integrità e quindi la sua efficacia per la sopravvivenza collettiva, essa costituisce un valore, e un valore molto importante, che è anche tra quelli fondamentali nelle concezioni democratiche. Come risolvere senza violenza i conflitti sociali? Mediante la pratica dell’equità, che implica una certa proporzionalità negli scambi e una certa ragionevolezza nella pretesa dell’esercizio di poteri pubblici, sugli altri. L’equità  e la ragionevolezza  sono altri valori tipici del diritto, ma anche molto rilevanti nelle concezioni democratiche. Sono espressione dell’idea di dignità  della persona che si trova inserita in una società, persona della quale i poteri sociali, privati o collettivi, non possono, appunto per ragione di equità, fare ciò che vogliono, a loro arbitrio. Le democrazie contemporanee si distinguono da quelle antiche, medievali e moderne (che si sono sviluppate dalla fine del Settecento alla metà del Novecento) per aver molto sviluppato l’idea di dignità  della persona umana, fino a fare un valore  fondamentale, attorno al quale ruotano tutti gli altri. Precisamente le concezioni contemporanee della democrazia  riconoscono  ad ogni persona umana una dignità  che non può essere lesa da alcun potere pubblico o privato, che quindi viene limitato. Questa concezione di dignità è uno sviluppo del pensiero sociale cristiano, dall’epoca in cui le masse europee iniziarono ad affermarsi politicamente. Essa è anche insegnata dalla dottrina sociale cattolica, sebbene la Chiesa cattolica sia stata storicamente uno dei più accaniti avversari della democrazia contemporanea, fino addirittura a scomunicarla nel 1901, con l’enciclica Le gravi controversie sulle relazioni economiche del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°. Solo a partire dal 1939, dopo aver preso consapevolezza dei disastri che la compromissione con i fascismi mondiali aveva provocato, la posizione iniziò a cambiare, fino a giungere nel 1991, con l’enciclica Il Centenario  del papa Karol Wojtyla, ad un riconoscimento dell’utilità dei processi democratici nel governo delle società civili, per indurne la pacifica evoluzione nel senso di sviluppare la dignità delle persone. La democrazia è in genere ancora negata nell’organizzazione ecclesiastica, da cui lo sciocco e superficiale detto “La Chiesa non è una democrazia”: chi ne fa uso mostra di non avere consapevolezza della realtà sociale della Chiesa e delle sue dinamiche di potere, a cui certamente converrebbero processi democratici. Può accadere che ne abbia consapevolezza, ma tema che con la democrazia venga mutato un sistema di potere che lo avvantaggia o, molto spesso, teme, una volta scelta la strada della democrazia, si perda il controllo del corpo sociale dei fedeli.  In effetti la democrazia consente l’evoluzione delle società. Del resto solo una concezione mitica della nostra Chiesa, e in particolare della sua gerarchia, può condurre a negare che essa sia mutata anche su aspetti essenziali. Ma l’evoluzione è stata storicamente molto travagliata e a prodotto atroci sofferenze e violenze. Le guerre di religione  sono cessate, nelle loro manifestazioni più eclatanti, con l’affermarsi dei processi democratici. Essi hanno portato a riconoscere la dignità delle persone anche nei confronti delle autorità religiose e, in particolare, a negare validità pubblica alla loro pretesa di incondizionata sottomissione. Questa pretesa non è però ancora sopita ed è legata al valore dell’obbedienza incondizionata all’autorità religiosa, che senz’altro non è evangelico e umilia la dignità delle persone. In quest’ottica, la vera libertà starebbe nella rinuncia alla propria libertà, quindi alla propria dignità. Si crede, in questo modo, di prevenire i conflitti sociali e di preservare l’unità del gregge, risolvendo i confitti sociali mediante la pretesa, appunto, di  sottomissione. La sottomissione non è certamente un valore democratico. La democrazia conosce, nelle dinamiche di potere, il valore dell’adesione, a seguito di dibattito pubblico secondo procedure democratiche, e quello della  resistenza, quando pace, equità, ragionevolezza e dignità sono minacciate da poteri che si manifestano dispotici, in quanto pretendano sottomissione arbitraria, e ciò anche se si tratti di poteri maggioritari. La resistenza è un dovere democratico anche contro la tirannia della maggioranza, come venne definita dai primi teorici dei processi democratici. La democrazia non tollera alcun potere arbitrario, che si pretenda illimitato e voglia sottomissione, perché contrario alla dignità delle persone. Non tutto in democrazia è nell’arbitrio delle maggioranze: non lo sono la pace, l’equità, la ragionevolezza, la dignità delle persone.

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71.2. Cambiare democraticamente la società.

La dottrina sociale indica ai laici l’obiettivo di cambiare la società in modo da consentirvi l’attecchimento della buona novella cristiana. Non si tratta di cristianizzare  la società: questo è un fine molto diverso. Le persone possono divenire persuase della buona novella cristiana e allora vengono accolte tra i cristiani, nella Chiesa. Se consideriamo invece le società cristiane, esse non hanno mai funzionato tanto bene. La cristianizzazione delle persone può presentare grandi vantaggi per le società, la cristianizzazione della società, vale a dire costruire l’organizzazione politica intorno a una qualche ideologia cristiana, porta ad escludere molti, e non solo i non cristiani, ma anche coloro che vogliono essere cristiani in modo diverso dal modello proposto dalla politica cristiana. La democrazia come ai tempi nostri la si intende è incompatibile con la cristianizzazione  politica  della società, non può darsi questo scopo se vuole mantenersi democrazia. Questo perché deve rispettare la dignità della persona, vale a dire il complesso dei diritti fondamentali che le sono connaturati e non dipendono da un riconoscimento politico. Tra essi, anche quello di professare una fede religiosa nel modo in cui se ne è persuasi. Questo diritto fondamentale è una delle condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. E’ il diritto alla libertà religiosa. La fede non può essere imposta. Avverto che questa convinzione è molto recente tra i cattolici e non condivisa in altre confessioni religiose. Uno dei principali e più fruttuosi metodi di evangelizzazione cristiana dal Quarto secolo fino al Ventesimo è stata la violenza politica, che storicamente raggiunse punte di spietata efferatezza ed ebbe anche connotati stragisti. E’ a questo che, ad esempio, si deve l’evangelizzazione dell’America Latina. Non ci si deve però scoraggiare: quella della pace sociale è un ideale molto recente, e non universale, acquisizione in nelle culture del mondo e, in passato, ognuno si è condotto secondo la cultura di riferimento. Così fanno gli umani e non possono fare diversamente, appunto perché sono umani, esseri limitati che dipendono dalle società che costruiscono.

  Cambiare la società significa influire sul suo governo, e quindi sulla sua politica. Significa anche misurarsi con le situazioni di conflitto che sempre travagliano le dinamiche sociali, in particolare quelle tra i gruppi che dominano e quelli che sono dominati, tra chi è ricco è chi non lo è (posizioni dipendenti da situazioni di dominio sociale), ma anche, ad esempio, tra chi parla una lingua maggioritaria e chi ne parla un’altra, da anziani e giovani, tra uomini e donne anche nella sottospecie delle relazioni coniugali (che esprimono posizioni sociali di dominio), tra chi vive in certi quartieri ben tenuti e chi in altri dove vivere è più penoso e via dicendo. Le situazioni di conflitto sociale dividono la società per strati, ceti, classi. L’apparenza di stabilità è ingannevole, come quella del suolo: al di sotto sono in azione forze potenti che ciclicamente si squilibrano con conseguenti sommovimenti.  Questa situazione può osservarsi in tutti i gruppi sociali, fin dai più piccoli, e anche nelle società dei bambini. Quando l’individuo inizia a interagire in società, fatalmente emergono situazioni di conflitto. Ma l’essere umano non può liberarsi a lungo dalla società perché ne dipende per la sopravvivenza. Solo nella collaborazione sociale è possibile procurarsi beni indispensabili. L’essere umano è un vivente che crea e governa società, è stato scritto nell’antichità: è un’affermazione che tutt’ora è valida. Ma come superare i conflitti? Questo il principale problema della politica. Ciò che ho scritto della società in generale, vale anche per la nostra Chiesa, nel suo aspetto di società umana. Dal punto di vista teologico vi è anche altro di molto importante, ma considerandola come società umana vi si notano tutte le dinamiche che si osservano più in generale nelle società intorno.

  La nostra Chiesa è anche  una società umana. Questo significa che anche in essa è possibile agire politicamente, perché è una società che, come tutte le altre, deve essere governata, e lo si deve fare in particolare per creare le condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. Si potrebbe però osservare che, per definizione, la Chiesa dovrebbe essere la migliore delle società sotto questo profilo, ma nell'esperienza pratica non è così. Una volta dirlo sarebbe costato caro, molto caro. Ora che però lo hanno insegnato anche i Papi è diverso. Un grande maestro in questo fu il papa Karol Wojtyla, che regnò dal 1978 al 2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°, proclamato santo nel 2014, il Papa della mia giovinezza, al quale sono spiritualmente e affettivamente molto legato pur avendone chiari i limiti politici. Ci guidò, nel percorso di preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000, nel lavoro che definì di purificazione della memoria, che consiste nel considerare realisticamente ciò che i cristiani hanno fatto in passato per trarre esempio solo da ciò che, con il criterio del Vangelo, possiamo riconoscere come ben fatto. Non si tratta di condannare i morti. Ma di capire i limiti di come intesero essere cristiani e di cercare se sia possibile affrancarci, oggi, da quei limiti, per non ripetere un passato che non proprio non va. Si tratta, quindi, di un giudizio su di noi, innanzi tutto. Noi che, come sempre si è fatto fin dalla storia più antica, facciamo memoria degli avi per trarne orientamento.

  All’inizio del suo regno, nel 2013, l’attuale Papa, regnante con il nome di Francesco, ed era (ed è per certi versi) Jorge Mario Bergoglio, argentino,  ci ha esortato ad essere Chiesa in uscita, avendola trovata come barricata nei propri spazi liturgici con figure di doganieri  ai varchi per selezionare chi poteva entrare o non. E’ stata una dura critica a come si era stati Chiesa, in Italia, e in particolare a Roma. La leggiamo nell’esortazione La Gioia del Vangelo, del 2013, il suo primo messaggio a noi tutti. I Papi scrivono molto, anzi l’attuale Papa meno di altri, ma spesso le loro parole non ci raggiungono. Ci sono stati momenti nei quali l’imponente letteratura pontificia superava le nostre capacità di assimilazione, in un’Italia dove, stando alle statistiche, la maggior parte delle persone non legge nemmeno un libro all’anno. Bisogna dire però che papa Francesco ha integrato gli scritti con una catechesi verbale, e per gesti simbolici, molto efficace, per cui l’essenziale ci è divenuto sicuramente accessibile. Egli però viene, in tutti i sensi, da un altro mondo, lontano non solo in senso spaziale, ma anche culturale. Più lontano, in tutti i sensi, da quello da cui veniva san Wojtyla, tutto sommato vicino in senso geografico ma diviso da noi dalla barriera che fino agli anni ’90 divideva l’Europa tra sistemi politici di democrazia liberale e capitalista e sistemi politici ideologicamente di democrazia ed economia comunista ma degradatisi in autocrazie oligarchiche dispotiche, secondo la scuola sovietica ai tempi di Stalin. Il principale problema che riscontriamo con papa Francesco, come già con san Wojtyla, riguarda la concezione della democrazia, sulla quale i cattolici italiani progredirono molto, tanto che l’attuale Repubblica democratica è in gran parte opera loro. I due Papi, in particolare, appaiono disallineati con l’evoluzione ideologica che ha caratterizzato il processo di costruzione dell’Unione Europea. Ho spesso osservato che, del resto, per ciò che ne so (e mi ritengo solo una persona colta, ma non uno specialista delle scienze implicate in questa valutazione), non è stata ancora elaborata in ambito cattolico una teologia della democrazia. Il nostro potere ecclesiastico parla  e  intende  secondo la teologia e quindi non appare avere ancora gli strumenti sufficienti per intenderla bene.

  Per la gran parte dei cattolici italiani (ma residuano correnti clerico-fasciste di varia natura) quella della democrazia  è stata, più o meno dal ’39 e su esortazione pontificia del Papa Eugenio Pacelli – Pio 12° (1939-1958), la via privilegiata per incidere sui fatti sociali in modo da cambiare la società per favorire l’attecchimento della buona novella cristiana. Parlo naturalmente di un lavoro in società che è diverso da quello sulle persone, sulla loro formazione, sulla loro spiritualità. In particolare gran parte dei cattolici italiani ripudiarono il disegno perseguito sotto il fascismo storico, quello mussoliniano (1922-1945), di cristianizzare  forzatamente la società. E, con metodo democratico, riuscirono ad inserire nella Costituzione repubblicana i principi fondamentali della dottrina sociale cattolica. E procedettero nello stesso modo nel costruire l’Unione Europea, la cui bandiera è palesemente un simbolo mariano, con la corona di dodici stelle  in campo azzurro.  Va detto che a quella diffusa dai papi Leone 13° (enciclica Le novità,  del 1891) e Pio 11° (enciclica Il quarantennale, 1931), profondamente rielaborata dai loro successori,  storicamente si ispirarono anche despoti che si proposero di cristianizzare coercitivamente la società, del resto forti di apprezzamenti positivi del corporativismo mussoliniano contenuto nella seconda.

 Bisogna prendere atto che nell’Italia di oggi l’azione sociale per cambiare la società secondo le esortazioni della dottrina sociale può e deve  farsi solo con metodo democratico. Ogni altro metodo contrasta con l’affermazione di dignità inviolabile delle persone che, a ben vedere, è di diretta discendenza dal pensiero sociale cristiano.

  Tuttavia la democrazia si pratica poco nelle istituzioni ecclesiastiche, salvo che in alcuni limitati ambiti associativi  o di vita religiosa. Ad esempio n on si insegna e non si pratica, in genere, nelle parrocchie. La prima formazione religiosa, che per la maggior parte dei laici rimarrà l’unica per tutta la vita,  è fatta di solito di alcuni rudimenti di storia sacra, di alcune istruzioni etiche basate sui Comandamenti, e di un addestramento minimo su come partecipare alla Messa (in piedi, seduti, in ginocchio, come recitare le invocazioni e risposte che competono al popolo, come ricevere la Comunione). Non c’è da stupirsi che poi i ragazzi non manifestino interesse ad approfondire, visto che, crescendo, hanno bisogno di dritte  per inserirsi in società e quello che hanno imparato da piccoli al catechismo non serve. Servirebbe, invece, integrare fede  e democrazia, perché nell’Italia democratica di oggi, il saper agire in un contesto democratico fa una grande differenza. La formazione che si cerca di dare, anche raggiungendola mediante auto-formazione tra adulti,  in Azione Cattolica mira principalmente a dare quel tipo preparazione. E’ per questo che l’Azione Cattolica definisce se stessa come palestra di democrazia (nell’atto normativo diocesano per l’AC nella Diocesi di Roma).

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71.3. Democrazia e istituzioni.

 Spesso ho sentito presentare la democrazia come un insieme di regole di buona creanza civile imposte dall’alto. Lo stesso per la religione. Entrambe sono molto di più, ma anche di diverso.

  Viviamo in società che sono altamente istituzionalizzate. Questo significa che ci si muove, nelle relazioni sociali quotidiane, secondo rigide regole formali che, se violate, comportano vari tipi di sanzioni. Ci si trova inseriti in organizzazioni disegnate da quelle regole. Accade sul lavoro, nell’utilizzare servizi pubblici, ma anche, ad esempio, nella pratica della  nostra religione.

  La parrocchia, ad esempio,  è stata istituita anche come un ufficio burocratico dipendente gerarchicamente dal vescovo. E’ retta da un funzionario ecclesiastico che è il parroco, che la rappresenta giuridicamente e accentra ogni potere. In questo contesto, i fedeli sono utenti di un servizio ecclesiastico, gli altri preti e i diaconi, come anche i catechisti  e chiunque altro abbia affidate mansioni ecclesiastiche anche a titolo di volontari,  sono sostanzialmente degli  impiegati. In parrocchia  i fedeli ricevono un’istruzione religiosa e vari servizi liturgici. Sono anche organizzati spazi conviviali, specialmente per i più anziani, che si ritengono ormai usciti dal sistema della formazione. Non vi è possibilità di esercizio di una certa autonomia da parte dei fedeli, che, al più, sono chiamati a collaborare come impiegati o consulenti. Questa la realtà istituzionale  della parrocchia. Se però ne vogliamo parlare con i concetti della teologia, allora essa ci viene presentata come comunità, nella quale ognuno ha pari dignità e vi partecipa come in una famiglia allargata. Il parroco e i preti e diaconi che con lui collaborano sono pastori  che conducono il gregge  per il giusto cammino, in un contesto di relazioni di benevolenza e rispetto. Il gregge  ama  il buon pastore ed è da lui riamato. Questa realtà, di carattere spirituale, non corrisponde però a quella istituzionale, formale, giuridica. Entrambe non sono democratiche. La parrocchia, in entrambi quegli aspetti, non è un ambiente democratico, la democrazia non vi viene praticata, non vi viene insegnata, la si riserva per i rapporti civili, dove però dovrebbe essere lo strumento con il quale i laici  di fede dovrebbero influire sulla società per renderla aperta a ricevere la buona novella della fede. Dove si impara la democrazia? A scuola, viene da rispondere. In realtà, però, a scuola la si insegna sommariamente, come dicevo prima, come un sistema di regole di buona creanza imposte dall’alto. Ma ben presto si fa esperienza di una cosa fondamentale: in società le regole vivono diversamente da come sono scritte o anche solo tramandate per consuetudine. Questo perché le società, come gli esseri viventi cambiano. Quindi ognuno, nel concreto delle relazioni sociali quotidiane, è costantemente impegnato ad impersonare  quelle regole che trova in società e, innanzi tutto, a decidere se, e in che misura, valgono per lui e nei rapporti sociali in cui è coinvolto. In questo, ciascuno di noi esercita un potere sociale, anche se spesso non ne ha consapevolezza o ne sottovaluta l’importanza.

 Questo che ho osservato serve a rendere l’idea che ogni fatto sociale, come lo sono la democrazia e la religione, come anche qualsiasi altra forma di potere sociale, ad esempio quello in cui si dovrebbe essere solo sudditi di un’autocrazia, un potere che non vuole rendere conto che a se stesso, o quello rigidamente diviso per caste  o ceti corporativi, nel quale le regole cambiano a seconda del gruppo sociale in cui ci si trova inseriti o si è ammessi, vive  e quindi viene impersonato, e, in questo, viene anche cambiato, perché, per quanto ci si sforzi di ottenere uniformità, rimane il fatto che gli esseri umani sono viventi l’uno diverso dall’altro, è ciò anche nella coscienza e nella volontà.

  Il sistema politico e la religione non sono solo un sistema di regole, ma innanzi tutto sistemi di convivenza sociale sempre soggetti a mutamenti più o meno rapidi secondo le dinamiche sociali, quindi alle relazioni di potere in cui ciascuno, solo che viva in società, è coinvolto come attore e, insieme, oggetto.

  La Chiesa assume teologicamente di essere sempre la stessa dalle origini, e questo, secondo una concezione mitologica che non significa erronea ma non necessariamente corrispondente alle dinamiche sociali, perché comprende anche aspetti emotivi che sono connaturati negli umani, può anche essere accettato, tenendo conto degli elementi di continuità che indubbiamente emergono nella sua storia bimillenaria, innanzi tutto la riflessione sulle Scritture. Ma, da un punto di vista sociale, e anche giuridico, la nostra Chiesa è molto diversa da quella delle origini, perché è espressa da una società molto diversa, anzi, studiando la sua storia, ci si può convincere che nel tempo, sotto l'aspetto sociale, ci sono state molte Chiese, quindi molti modi in cui si è vissuta e impersonata la Chiesa, e certamente quelli dei bellicosi e irruenti vescovi dei primi secoli della storia della  nostra fede, che avevano l’anatema (oggi diremmo scomunica) facile,  non corrispondono al nostro  attuale modo di essere Chiesa. E, tuttavia, noi cattolici veneriamo i nostri santi, ma anche nella tradizione delle altre confessioni religiose c’è una analoga alta considerazione per certi personaggi del passato molto significativi nelle questioni di fede, perché vorremmo stabilire una continuità  ideale con le vite di chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso  quello che definiamo deposito di fede, che non è fatto solo di scritti, concetti, pensieri, regole, ma soprattutto di modi di vivere la fede. E’  per questo che troviamo annoverati tra i nostri santi anche persone di fede del passato piuttosto criticabili sotto vari aspetti, ma delle quali apprezziamo ancora l’impegno fortissimo a vivere  la propria fede come il valore  fondamentale della loro vita. Quindi non le lasciamo seppellire dal passato, ma recuperiamo il loro messaggio di vita per trarne ispirazione oggi. Ed è anche per questo che ciclicamente rivediamo  il catalogo dei santi, che una volta proclamati tali sicuramente non possono essere come dire declassificati dal punto di vista delle procedure istituite nella nostra Chiesa, nel senso che di epoca in epoca ne risaltano di più alcuni e meno altri. Ad esempio, dell’elenco dei papi “Pii” dall’Ottocento al Novecento, le scelte politiche antirisorgimentali di un papa Pio 9°, il Papa del Sillabo (1964; l’elenco di proposizioni erronee contro il liberalismo che contribuì a rendere difficilissima l’assimilazione della democrazia tra i cattolici), o quelle religiose di un papa Pio 10°, che ordinò una durissima e spietata persecuzione antimodernista causando gravissime sofferenze e lacerazioni nella Chiesa e la perdita di grandi anime (lo stesso don Romolo Murri, che aveva teorizzato tra i primi l’ida di una democrazia cristiana  ne cadde vittima), che, con il senno del poi si  sono rivelate del tutto inutili, o l’apprezzamento positivo verso il corporativismo del fascismo mussoliniano e l’elogio della repressione antisocialista di un papa Pio 11°, ci creano ora qualche difficoltà e, di fatto, non seguiamo quei loro insegnamenti. Noi, oggi, non impersoneremmo più la fede in quel modo. La nostra religione, intensa nel suo aspetto di convivenza sociale, è molto diversa.

  E, tuttavia, parlando di democrazia, che è il sistema politico in cui i più sono nati e che solo i più anziani hanno contribuito a costruire con il loro voto per l’Assemblea Costituente nel 1946, e di religione, e uno della mia età ne ha vissuto ormai almeno cinque versioni, a partire da quella degli anni Sessanta del secolo scorso, nel trapasso dalla rigidità gerarchica della Chiesa del papa Pio 12° alla Chiesa del Concilio, a che punto siamo in termini di convivenza sociale?

 

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71.4.  Democrazia, desacralizzazione e secolarizzazione. Le società creano istituzioni allo scopo di durare. Così, nella vita quotidiana, ciascuno sa qual è il suo posto, chi comanda, che si deve fare in ogni occasione, come può relazionarsi con gli altri per avere ciò che gli necessità, quando rischia una sanzione. Una istituzione è un sistema di regole formali che riguarda l’esercizio del potere pubblico. Ingloba, quindi, un sistema di potere. Per alcune istituzioni sono previste regole per modificarle, altre, quasi nessuna in democrazia, vengono presentate come non modificabili e quindi sono sacralizzate. Il sacro è appunto ciò che in nessun caso può essere cambiato. Ogni potere storicamente ambì la sacralizzazione. Le religioni, anche la nostra, vennero strumentalizzate per produrla. Di fatto le società cambiano e con esse le loro istituzioni, vale a dire i loro sistemi di potere. Se questi ultimi mantengono la loro pretesa di sacralizzazione, ad un certo punto vengono rovesciati, se non riescono a reprimere i movimenti rivoluzionari. Nella preghiera del Magnifica (Vangelo di Luca, capitolo 1, versetti 49-53)che si recita ogni sera nei Vespri, c’è un versetto che accenna a questo:

Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome;
50 di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.

  In quelle parole vi è la descrizione di un processo propriamente rivoluzionario. Un monito severo verso ogni potere che pretenda di sacralizzarsi. Per quanto si finisca umiliati da un potere dispotico, si confida che esso  abbia fine e  in un diverso modo di convivenza. La nostra Chiesa ha prodotto una forte sacralizzazione del proprio potere pubblico, ma, fin dall’antichità, i biblisti hanno concluso che quel “Ha rovesciato i potenti dai troni”,  non le si applica. Tuttavia, nonostante la sacralizzazione delle sue istituzioni, elaborata in particolare all’inizio del Secondo Millennio, quando il Papato romano si costituì in una sorta di impero religioso, affrancandosi dal precedente vassallaggio politico agli imperatori civili, esse sono storicamente molto cambiate. In particolare vanno ricordate tre grandi stagioni di riforma, nell’11°, nel 16° e nel 20° secolo, quest’ultima con il Concilio Vaticano 2°, celebrato a Roma, in Vaticano, dal 1962 al 1965. La seconda fu catalizzata dalla Riforma protestante, che, in religione, costituì un moto propriamente rivoluzionario, quindi un rovesciamento.

  La democrazia è un tipo di convivenza sociale che non utilizza la sacralizzazione per avere continuità. Quando se ne cominciò a parlare, nel Settecento se ne temette l’instabilità. Nell’Ottocento la parola democrazia  venne anche utilizzato per intendere confusione sociale. Questo perché si voleva praticarla con un’estensione che non aveva mai avuto nel passato, in particolare nell’antichità greca, da cui ricevemmo le prime teorizzazioni e il termine stesso democrazia (che in italiano e nel  greco antico e contemporaneo suona uguale),  nell’esperienza repubblicana di Roma antica, dove si contava in base al censo, e in quella del Medioevo europeo, in cui era dominata dalle corporazioni dei mestieri. Nell’era contemporanea se ne predica l’universalità senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. E’ chiaro, da ciò, il  motivo per cui l’affermarsi dei processi democratici, in particolare in Europa, comportò il ripudio del propositi di cristianizzare, con le buone (la persuasione) o con le cattive (la coercizione mediante le istituzioni), la società. Quando si parla di secolarizzazione  delle nostre società contemporanee, si vuole appunto intendere questo, non certo che la gente non creda più all’azione di agenti soprannaturali. Quindi certamente la secolarizzazione della società, nel senso di desacralizzazione  dei suoi poteri pubblici, è elemento costitutivo della democrazia: non può esservi democrazia in un ambiente di istituzioni sacralizzate. Questo spiega i problemi che i democratici, anche i cristiano democratici, hanno sempre incontrato, e per certi versi ancora incontrano, nelle loro Chiese, ma in particolare nella Chiesa cattolica, data l’elevata sacralizzazione delle sue istituzioni e addirittura delle persone stesse che dirigono ai vertici quelle istituzioni. Nella Chiesa cattolica ancora si teme la dissoluzione procedendo nella desacralizzazione dei propri poteri pubblici, e questo anche se l’esperienza delle democrazie Occidentali contemporanee dovrebbe convincere del contrario.   Quindi nella dottrina sociale, il pensiero sociale diffuso dal Papato e dagli altri vescovi, non troviamo una teologia  della democrazia, ma solo una cauta ammissione dei processi democratici nel governo delle istituzioni civili in quanto più confacenti alla dignità delle persone umane, come oggi anche nella Chiesa la si intende. Di conseguenza, la formazione alla democrazia non viene ritenuta compresa nei programmi per l’istruzione religiosa di base, e nemmeno per quella di secondo livello, venendo certamente fatta, e questo è un bel passo in avanti, prevalentemente per i fedeli che hanno un’istruzione superiore, quindi agli universitari e post- universitari. L’Azione Cattolica fa certamente eccezione perché la pratica fin dai più piccoli: anche per loro vuole essere quindi palestra di democrazia.

  Poi, naturalmente, i nostri vescovi si lamentano che i laici di fede non contano più molto nella società civile, in particolare nei processi politici. Certo, ancora dalla scuola della dottrina sociale escono ancora grandi ingegni, persone alle quali tutti si rivolgono nei tempi di crisi come riserve della Repubblica, ed esse si riconoscono per avere nelle loro biografie periodi più o meno lunghi, più o meno intensi, di formazione alla democrazia nelle istituzioni culturali religiose (molte università religiose hanno corsi specifici), ma i più hanno avuto solo la formazione alla democrazia che è comune a tutti, vale a dire i pochi cenni alla democrazia come buona creanza  civile che si fanno nella scuola e poi nulla di nulla, anzi l’anti-formazione che si riceve nel marketing politico, quel modo di accattivarsi la simpatia dell’elettore che  è pubblicità commerciale e che si base essenzialmente nello sfruttare le possibilità di inganno cognitivo su base emotiva che la nostra mente offre, un’anti-formazione che umilia  dove invece la democrazia si propone di elevare.

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71.5. Democrazia: una forma di convivenza che consente il cambiamento sociale.

 Richiamo la definizione di democrazia che ho proposto all’inizio:

«La democrazia è  un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società  o generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro estensione».

  Se la democrazia, prima che un sistema di regole formali, è una forma di convivenza, c’è molto spazio per l’ingegno e la creatività personali. Essa è stata anche interpretata in istituzioni, in organismi sociali costruiti per durare e quindi più rigidi, ma le istituzioni democratiche non coprono l’intero campo della democrazia come convivenza. E, per quanto molto dettagliate, le regole delle istituzioni democratiche non riescono mai a disciplinare ogni aspetta della convivenza democratica nelle istituzioni. Infine c’è la grande area sociale non ancora democratizzata  o non completamente democratizzata. Come si disse per la  nonviolenza,  anche per la democrazia ogni giorno può portare progressi per l’azione dei democratici, per cui si può concludere che «ieri eravamo meno democratici». Se scopo della democrazia come oggi la si intende è anche quella di aumentare la felicità e il benessere sociali, questo significa che la democrazia è una forza sociale di progresso. La mentalità democratica, come anche la nostra mentalità religiosa, comporta un certo grado di insoddisfazione nei confronti di ciò che è stato realizzato: una società democratica è necessariamente dinamica.

   L’anno scorso ho scritto:

 

«"Chi è il più grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che serve" (dal Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il più giovane" traduce con "il più piccolo" - il testo in greco antico ha "neòteros": letteralmente "il più nuovo").

   Credo che storicamente nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai principi di fede, sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando evangelico che ho sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni, vale a dire di un completo rovesciamento di un ordinamento politico, con instaurazione di un nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle precedenti.

  Rivoluzione è un termine che il pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa il moto di un corpo intorno ad un altro corpo, che si considera come centro. Una rivoluzione è compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito un nuovo ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di stare come colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza, significa introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a qualsiasi potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario. Questa appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime comunità di fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in seguito, degli analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che intesero promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.»

 

  Il sistema democratico è anche, quindi, una convivenza sociale in cui è ammessa la libera critica di ogni potere, pubblico o privato, rispetto al quale si conviene che ciascuno abbia libertà di coscienza, e dunque di pensiero, e di manifestazione del pensiero, nella parola, negli scritti, nelle arti e in ogni altro modo in cui questa libertà possa essere esercitata. Questo significa che è aliena alla convivenza democratica la pretesa e la pratica della sottomissione. Una persone che vive democraticamente non si sottomette mai. La sua osservanza alle regole stabilite democraticamente, all’esito di una procedura regolare che abbia consentito anche la presa di coscienza e il dialogo su di esse, non è sottomissione, ma adesione ad un metodo e accettazione delle decisioni pubbliche che produce. Rimane però sempre spazio per la resistenza, che in democrazia è un diritto e un dovere, quando un potere collettivo, anche con metodi corretti dal punto di vista delle procedure, leda una posizione umana che si ritenga incoercibile e non vulnerabile, un diritto umano inviolabile in quanto connesso con la dignità della persona umana. Certamente questo pone sempre la convivenza sociale democratica in una situazione di fisiologica instabilità, nella quale ogni potere deve sapersi conquistare e saper mantenere innanzi tutto con la persuasione la propria legittimazione sociale e politica, a prescindere da quella giuridica, e in cui il corpo sociale organizzato per convivere democraticamente mantiene un permanente stato di tensione dialettica verso qualsiasi potere. In particolare la delega per la rappresentanza politica non consiste, in democrazia, in una investitura, come le incoronazioni  dei monarchi, data la quale quel potere non potrebbe più essere messo in questione per tutta la sua durata istituzionale.  E’ proprio quella fisiologica instabilità che consenta al sistema di convivenza democratica di adattarsi  ai mutamenti sociali e di resistere  ad ogni potere che tenda ad espandersi arbitrariamente. E, va detto, la legge sociale del potere pubblico è che esso tende ad espandersi fino a che incontri una resistenza valida.

  La gran parte delle relazioni sociali più significative della nostra vita si svolgono in spazi non o poco istituzionalizzati. La famiglia, un’associazione ricreativa o sportiva, hanno quel carattere. Vi sono però spazi sociali quotidiani piuttosto istituzionalizzati nei quali tuttavia vi è molto spazio per configurare liberamente una convivenza sociale, ad esempio nella scuola e nella parrocchia. Gli ambienti di lavoro sono spesso poco o per nulla democratizzati, specialmente quando l’organizzazione del lavoro è fatta da un datore di lavoro proprietario. Sui luoghi di lavoro la democratizzazione è rappresentata dall’azione sindacale che è in tensione dialettica con i potere del soggetto proprietario dell’impresa. La democratizzazione delle organizzazioni del lavoro  è una grande sfida e ha un significato altamente politico dove mette in questione la concezione della proprietà. I processi politici di democratizzazione delle società europee, dal Settecento, ebbero nella proprietà quale frutto del lavoro e quindi espressione della dignità sociale personali un punto di forza, e questo in particolare verso quei poteri politici connessi alla proprietà terriera tramandata di generazione in generazione in dinastie di nobili, accreditate da un potere supremo anch’esso dinastico e sacralizzato. Ma nel progresso delle concezioni democratiche sta venendo meno l’assolutizzazione della proprietà, espressione, proprio in quell’assolutizzazione, di un potere con caratteri di arbitrarietà sociale, a favore di una diversa concezione, che troviamo scritta nella nostra Costituzione repubblicana, che ne richiede una funzione sociale, vale a dire una finalizzazione anche al benessere e alla felicità collettivi.

   Ciò detto, il primo passo per un tirocinio democratico non è studiare un complesso di regole, come viene in genere proposto agli studenti nell’insegnamento di educazione civica e allora si prende in mano la Costituzione, di creare  forme di convivenza democratica nella propria quotidianità o di modificare  in senso democratico quelle alle quali si partecipa nella propria quotidianità. Il primo campo di applicazione è il piccolo gruppo  di prossimità, ad esempio la classe scolastica, o un gruppo parrocchiale, come è il nostro dell’AC parrocchiale.

  Si riscontrerà che elevare un gruppo alla democrazia richiede uno sforzo, una fatica, per la necessità di vincere resistenze determinate da abitudini consolidate, in particolare da stati di sottomissione nei quali alcuni si trovano rispetto ad altri. Ho notato che non di rado nei gruppi religiosi i capi tendono a debordare nel loro potere, che assume carattere autocratico e addirittura sacralizzato. Data questa condizione, i capi così impostisi hanno poi in genere la scomunica facile, come i bellicosi primi vescovi delle nostre comunità religiose, anche se  si tratta di un potere arbitrario, perché nella nostra Chiesa l’allontanamento del fedele è disciplinato rigidamente da una normativa penale, analoga a quella degli stati, è riservato a casi gravissimi,  e nessuno può arrogarselo. Una delle prime manifestazione democratiche è dunque quella  chi resiste a quella pretesa di allontanamento arbitrario, ad opera di colui che, avendo conseguito una qualche posizione di potere ed avendola estesa di fatto a danno altrui, indica sbrigativamente la porta al dissenziente. Se in passato si avesse avuto più coraggio in questa azione di resistenza attiva, ci saremmo potuti risparmiare molti problemi e, innanzi tutto, una certa disaffezione da parte delle persone più giovani alla vita religiosa. La democrazia non è fatta certamente per persone remissive verso le posizioni di potere, per persone con la tendenza ad essere docili,  richiede coraggio, e innanzi tutto quello di rimanere ad occupare gli spazi sociali contro ogni potere pubblico o privato che pretenda di escludere e, lì, di prendere la parola.  

 

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71.6. Democrazia come convivenza che libera da sottomissioni umilianti.  Il conflitto è una dinamica costitutiva delle società umane ed è pertanto ineliminabile. E’ legato alla nostra struttura biologica e, in particolare, al funzionamento della nostra mente. Gli psicologi cognitivi osservano che la nostra mente risale a duecentomila anni fa e ancora possiamo influirvi in maniera molto limitata. Produce, in particolare, le emozioni, oltre al pensiero riflesso, quello che consideriamo razionale.

  Le situazioni di conflitto consentono il cambiamento delle società e quindi possono essere anche  un fattore di progresso. Ma possono semplicemente distruggerle se divengono troppo intense e, soprattutto, se coinvolgono non solo limitati gruppi sociali, ma la società intera o addirittura varie società. La democrazia è una forma di convivenza che si propone di risolvere  in progresso le situazione di conflitto sociale. A lungo è stato un lusso per ceti privilegiati, ad esempio, nell’antica Grecia, per gli uomini che non avevano necessità di lavorare per vivere. Allora, le altre persone, le donne, le persone troppo giovani, i lavoratori, e nell’antichità si faceva ampio ricorso al lavoro schiavo, insomma tutte le persone escluse dai processi democratici, erano ridotte ad una posizione di pura e semplice sottomissione  ai poteri sociali costituiti. Dall’inizio dei processi democratici contemporanei, dalla fine del Settecento, essi si fecero sempre più inclusivi, fino a comprendere ora tutte  le persone umane, anche a prescindere dalla loro cittadinanza o maggiore età. Ciò per l’affermarsi della cultura dei diritti umani fondamentali, che ancora è visto con sospetto dalla dottrina sociale, espressione del Magistero dei vescovi cattolici. Questo, appunto, per il potenziale di liberazione  da poteri dispotici e arbitrari che comporta. Da essa si teme l’inasprirsi del conflitto sociale e la dissoluzione della società, in particolare della nostra Chiesa, e questo con una considerazione realistica basata sull’esperienza, senza far tanto conto sui miti religiosi che ne predicano un fondamento soprannaturale e che dovrebbero porla al riparo secondo la profezia del “non prevarranno”.

 

«[…] io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.» [dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 16, versetto 18]

 

  Da 2013 in Italia stiamo vivendo un’esperienza propriamente rivoluzionaria:  è stata quasi totalmente rinnovato il ceto politico nazionale e locale e i partiti politici che conobbi fino agli anni ’80 non ci sono più. L’ultimo a rigenerarsi, era rimasto l’ultimo dei partiti politici che c’erano già negli anni ’80, è stata la Lega Nord, che ha completamente rivisto la propria ideologia, diventando un partito nazionalista, da anti-nazionalista che era alle origini e fino al 2013. Nella politica nazionale si sta passando da un’ideologia neo-liberista in economia ad una neo-statalista, mentre si danno battaglia neo-nazionalismo identitario ed europeismo. Nel giro di due anni si  è passati da un governo che era il più a destra di sempre ad uno che da molti viene considerato come tra quelli più a sinistra. Questi processi sono stati aggravati dalla crisi istituzionale provocata dall’emergenza sanitaria nazionale determinata dalla pandemia della malattia Covid 19, che ancora si manifesta estremamente attiva e che ha prodotto forti mutamenti nei metodi di governo e la necessità di aspri confronti internazionali. A tutto ciò si aggiungono le crisi internazionali riguardanti il conflitto libico, in cui l’Italia è coinvolta, e quella prodotta dal recente espansionismo militare turco, che minaccia importanti interessi economici italiani nel Mediterraneo, generando da ultimo potenziali situazioni di guerra. E tuttavia, nonostante questi profondi scossoni politici e una situazione sociale ed economica in veloce cambiamento, la società continua a funzionare e una persona distratta potrebbe addirittura non rendersi conto di ciò che sta accadendo. Questo perché in Italia si è radicata, in particolare nei primi quarant’anni di esperienza nella Repubblica fondata dal ’46, una convivenza democratica. Questo appunto è il miracolo delle concezioni evolute della democrazia che si sono sviluppate in Italia, in Europa e altrove nel mondo, dal secondo dopoguerra, vale a dire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945).

  Ogni situazione di conflitto che non sia risolta democraticamente genera o la sottomissione  dei ceti subalterni, che quelli dominanti riescono controllare e finché ci riescono, o processi rivoluzionari violenti. Nel primo caso si ha l’infelicità dei sottomessi, nell’altro l’infelicità sociale diffuso, perché la violenza genera sempre infelicità. Inoltre l’esplosione della violenza sociale di massa è una catastrofe che, come i terremoti naturali, non si sa che cosa porterà e come potrà essere risolta, iniziando una nuova ricostruzione sociale. Nella Somalia contemporanea abbiamo l’esempio di una situazione rivoluzionaria catastrofica che, iniziata all’inizio nel corso degli anni ’80, non si è ancora conclusa e ha portato alla dissoluzione dello stato, che era stato costituito nel 1960, alla fine della dominazione coloniale italiana e inglese, sul modello europeo, ma presto caduto preda di un dispotismo militare, che solo formalmente manteneva alcune procedure democratiche. La rivoluzione democratica italiana, tra il ’43 e il ’45, ebbe caratteristiche diverse per merito di un ceto politico democratico, che nella guerra di Resistenza fronteggiò quello fascista, del quale i cattolici democratici ispirati alla dottrina sociale ebbero un ruolo determinante. Ma il lavoro di formazione democratica del popolo, svolto in particolare in Azione Cattolica e nei partiti politici, per creare cittadini democratici dopo la lunghissima sottomissione al fascismo, così come l’adeguamento delle strutture dello stato alle regole e principi della nuova democrazia, poterono dirsi conclusi solo all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, quando, per effetto della globalizzazione  dell’economia e della dissoluzione della frattura con le economie comuniste, il mondo, e in esso l’Italia, prese nuovamente a cambiare.

  Proprio all’inizio degli anni ’90 quel lavoro di formazione popolare alla democrazia venne interrotto, in particolare per la rapida dissoluzione dei partiti italiani storici. Continuò e continua ad essere svolto in Azione Cattolica. Tuttavia in questo ambiti ci si scontra con il fatto che la Chiesa, pur investita da processi democratici dagli anni ’70, con il rinnovamento della catechesi, non è strutturata come una democrazia, ma come una autocrazia oligarchica, e ciò anche riguardo l’inquadramento del laicato. In essa i conflitti vi sono, ma vengono negati e si cerca di mantenerli, come dire, sotto traccia. La modalità con cui in genere i  laici si rapportano con le varie gerarchie che pretendono di dettare la linea è quella della sottomissione. Però la stessa gerarchia li vorrebbe anche capaci di influire nella società democratica intorno con gli strumenti e secondo i principi della democrazia. Questo è il nostro, di noi laici di fede, problema dei problemi nella Chiesa in cui siamo immersi. La conquista di una cittadinanza ecclesiale  democratica è ancora da costruire e in genere si è nella condizione di sudditi, quindi di sottomissione, della quale viene bene resa l’idea con l’immagine del gregge, che saremmo noi verso i nostri pastori terreni. Quella del gregge  è indubbiamente una figura evangelica, ma riferita al Buon Pastore soprannaturale: è solo lui che ci proponiamo di seguire e amare incondizionatamente. Ogni altra autorità, salvo per certe questioni e solo nella teologia e nel diritto canonico cattolici quella del Papa, non ha veramente titolo e legittimazione per sacralizzarsi, rifiutando di essere messa in questione, costituendosi in autocrazia, sottraendosi a processi democratici.

 

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71.7. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal basso

  Di solito a scuola si studiano le istituzioni democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza  politica popolare,  vale  a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo mussoliniano, che aveva sottomesso  le genti d’Italia. Si aggiunge che il risultato fu quello di una Liberazione politica e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà, dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo europeo, fu anche propriamente di Liberazione politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un voto popolare ad un referendum  a cui parteciparono per la prima volta nella storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°, contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali che coinvolsero in vario modo la gente di fede.

  E’ alla formazione di questa mentalità che dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad ogni livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società democratica per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona novella cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile, e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e, in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si articolano.

  Spesso l’affanno per i servizi  che la parrocchia deve rendere alla comunità, in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il ciclo liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per il matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del clero parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta la parrocchia come ente ecclesiastico con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più rimangono consulenti. E le istituzioni minime di democrazia previste per questa attività di consulenza, l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio pastorale, il Consiglio  per gli affari economici  rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio  patrimoniale ed economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone, il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.

  Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa - comunità, ma di fatto direi che siamo appena agli inizi degli sviluppi conciliari per quanto riguarda questo aspetto. Non c’è da aspettarsi molto dalla gerarchia, perché la legge del potere sociale è che  chi ce l’ha non lo lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti che pretendano condivisione. La riforma in senso democratico, dunque, può anche essere pensata  dall’alto, ma, se non si fa dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o trapasso nei sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va dal noto all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno forza i poteri che si vorrebbe ristrutturare.

  Non basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il sistema di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla dimostrazione pratica che forme più democratiche di conduzione funzionano, e non disperdono il gregge, innanzi tutto perché c’è una mentalità che,  a prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a considerare fondamentale il valore dell’unità. Ma c’è tra noi laici? Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in qualche cosa, fosse anche solo l’organizzazione delle iniziative per la festa del santo patrono della parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere particolarmente a cuore l’unità? La mia esperienza con il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni generano contrasti che rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di meglio che cercare di prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del parroco o addirittura di chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti ad andarsene. Qualche anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla Pasqua, che nella nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola accesi dissidi sul modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa, organizzò una serie di incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in frizione. Ciascuno disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva bisogno di unità, che la via che aveva scelto era la migliore e che quella della separazione  era la sola soluzione che consentisse una convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi la presenza di capi delle comunità: questo evidentemente impediva di andare avanti nel processo di assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità assumono le consuetudini del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a marcare le differenze e consolidare la sottomissione degli altri al proprio potere. La via giusta credo sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa insieme, nel contempo convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare, limitatamente a quel fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si sono riuniti per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa costituiti per specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di estensione. Questo che ho descritto è uno spazio democratico di base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione sulla presenza di un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.

 Ogni piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale, dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona. Ho letto che questa esperienza è molto diffusa in una delle culle della democrazia, in Gran Bretagna, dove ogni esigenza collettiva genera un comitato. Abbiamo ricevuto la parola comitato dal latino, lingua in cui si componeva della parole che significavano andare con, espressione corrispondente a quella sinodo,  che ci viene dal greco  antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine di idee in cui si dà dell’eretico  chi non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante  non la si pensi nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica.

 

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 71.8. Democrazia: una questione di dignità.

  «L’uomo è un vivente che costruisce e governa società»: questo è uno degli insegnamenti più noti del  filosofo greco Aristotele, vissuto nel Quarto secolo dell’era antica, quella che contiamo a ritroso partendo dall’anno in cui convenzionalmente poniamo la nascita di Gesù il Cristo. Una filosofa vissuta nel secolo scorso, Anna Arendt, osservò che esso non dice tutto delle persone umane nelle loro società. Questo perché la società è un modo di vivere in relazione e, dunque, è propria degli umani nelle loro relazioni, non dell’uomo  in sé. E costruire e governare società è appunto un modo degli umani di vivere in relazione tra loro, un modo di convivere.  E’ ciò che definiamo  politica.

 Eppure è anche vero che la società dice molto di noi, ci determina. Siamo ciò che la società riconosce che siamo.  In società riceviamo un nome, ci vengono riconosciuti dei parenti, quindi linee di discendenza biologica che si ramificano e creano legami molto forti, ci viene data una lingua, quella che chiamiamo  madre perché non la impariamo a scuola ma da una delle relazioni umane più forti della  nostra vita, ma anche molto altro, ad esempio i ritmi della vita, il modo di vestire, il modo di atteggiarci quando siamo con gli altri, crescendo anche un ruolo sociale, che comprende l’esercizio di poteri e la soggezione a poteri altrui, la nostra posizione nelle dinamiche sociali di potere. Tanto che ci riesce difficile isolare una persona umana dalla sua società e che, quando muovendoci passiamo da una società ad un’altra, anche noi cambiamo: questa è una delle esperienze fondamentali del viaggio. Il monaco eremita si isola dalla sua società appunto per cambiare, lì dove cerca una relazione privilegiata con Colui che incessantemente cerca e che nessuno ha mai visto, è scritto, ma comunque gli è stato rivelato, e dunque attende di essere cambiato in e da  quella relazione.

  Nel romanzo Robinson Crusoe, scritto dall’inglese Daniel Defoe all’inizio del Settecento, ci viene presentata l’esperienza di un naufrago su un’isola disabitata. Egli, raccogliendo cose scampate dal naufragio e costruendosi abitudini quotidiane di vita cerca di mantenersi nella civiltà di origine, ma recupera veramente la sua umanità solo quando gli giunge un indigeno, che libera da chi lo aveva fatto prigioniero per ucciderlo e mangiarlo (nella sua società di origine si praticava il cannibalismo), ed entra in relazione con lui assegnandogli anche un nuovo nome, Venerdì. Ecco il nucleo fondamentale dalla società, che manifesta immediatamente la politica perché richiede di essere governata. La governa Robinson, l’Europeo. Il contatto con il diverso ha stabilito delle relazioni di potere. Uscendo dalla società dei nativi e stabilendo una nuova relazione sociale con l’Europeo, e attraverso di lui con la società degli Europei che Robinson sta cercando di mantenere sull’isola, Venerdì  ne  ricava un nuovo nome, ma anche una nuova identità sociale. Ma anche Robinson, in fondo, ne esce cambiato. E’ un’esperienza comune nei grandi racconti di viaggio, reali o immaginari: la ritroviamo, ad esempio, nel racconto di Marco Polo, il veneziano che nel Duecento raggiunse la Cina e vi visse a lungo, divenendo anche un dignitario della corte dell’imperatore che all’epoca dominava quella società.

   In sostanza: dalla società in cui viviamo immersi e dalla sua politica,  vale a dire da com’è costruita e governata, ci viene riconosciuta la nostra dignità sociale, che quindi ne dipende. Ecco perché non è la stessa cosa esservi solo sottomessi ad una politica, ma anche parteciparvi.

  Ma, mi si può obiettare, dal punto di vista religioso riteniamo che  la nostra dignità di esseri umani preesista alla società e non dipenda veramente da essa, secondo quanto fu scritto a fine Settecento dai rivoluzionari nordamericani che proclamarono la loro Dichiarazione di indipendenza dalla monarchia inglese:

«Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità. Che per assicurare questi diritti sono istituiti tra gli uomini i Governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando una qualsiasi Forma di Governo diventa distruttiva di questi fini, è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo Governo, ponendo il suo fondamento su questi principi e organizzando i suoi poteri in una forma tale che sembri ad esso la più adeguata per garantire la sua sicurezza e la sua felicità.»

  Eppure, se quella nostra dignità non ci viene riconosciuta  socialmente ci sentiamo infelici. Per questo fu fatta quella rivoluzione: « è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo Governo» Ecco perché nella nostra Costituzione repubblicana, all’art.2,  si fa obbligo a tutti, questa è legge fondamentale della nostra società politica, appunto, di riconoscere  quella dignità.

 

Art. 2 della Costituzione.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

 

 Di solito questa norma viene presentata come diretta ai pubblici poteri, in primo luogo allo Stato, ma, in realtà, è diretta a tutti  coloro che esercitano una forma di potere, pubblico o privato, e anche religioso. Perché è in questione la Repubblica, quindi la convivenza sociale e politica di tutti noi, che si vuole anche democratica, è scritto nell’art.1 della Costituzione.

 

Dall’art.1 della Costituzione.

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

 

 Nessun potere, nemmeno quello che esercitiamo in famiglia e nelle altre realtà sociali di prossimità, e neanche quello di una Chiesa, neppure quello di una Chiesa come la nostra che abbia avuta riconosciuta una sovranità nelle cose sue, può ledere la dignità della persona umana, che è caratterizzata da quel complesso di diritti fondamentali che nella nostra Costituzione vengono definiti inviolabili. Questa dignità è colpita tutte le volte che in società una persona viene costretta solo a subire  il potere altrui, senza poter in alcun modo interagire, quindi  quando si è totalmente  in mani altrui.

  Quest’idea, alla quale spesso non prestiamo abbastanza attenzione, è piuttosto ostica nei nostri ambienti religiosi, e in particolare nella nostra teologia e nella nostra pratica religiosa. Abbiamo, in particolare, diverse preghiere usate nelle pratiche di pietà dei laici che evocano una totale sottomissione non solo al Creatore, ma anche alla Chiesa intesa come realtà sociale, e quindi anche come sistema di potere costituito nella società religiosa in cui siamo stati accettati. Sono specchio di una condizione laicale che, con i principi che iniziarono ad essere accettati nelle leggi ecclesiastiche al tempo del Concilio Vaticano 2°, ormai oltre cinquant’anni fa, si voleva cambiare, perché non solo umiliante, ma anche controproducente per ciò che dal laico si pretende in religione quanto ad azione   sociale in un contesto democratico.

  Di fatto, ad esempio, vediamo, che nella vita parrocchiale i laici contano ancora poco. Sono apprezzati se fanno quello che gli si dice, ma non li si ritiene, in genere, capaci di collaborare anche con la propria volontà,  in processi democratici in cui possano realmente influire sulle decisioni collettive. Ecco perché, in fondo, si ritiene inutile insegnare  la democrazia negli ambienti religiosi, come una volta si riteneva inutile istruire le donne.

  Questa mancanza di istruzione democratica, fa sì che poi la convivenza sociale ne risenta, nelle relazioni interpersonali, nelle quali non ci si manifesta capaci di risolvere i contrasti, venendo subito alle mani, metaforicamente e non,  ma anche in altri aspetti della vita religiosa, nella quale ci si sente poco considerati, posti nella condizione, diciamo, di gregge, e alla quale quindi ci si disaffeziona, non solo perché umiliante, ma anche perché inutile per interagire collettivamente in società. Se possibile, infatti, si cerca di evitare le situazioni umilianti, e una di quelle più umilianti è l’essere costretti a fare cose inutili. In religione, invece, spesso l’umiliarsi è presentato come una virtù, ma una cosa è farlo verso il Creatore, altra è farla verso qualsiasi autorità umana, anche sacralizzata.

  Da dove cominciare a provare se ci si può organizzare in modo diverso? Direi di farlo passo dopo passo, senza fretta od ambizioni eccessive, a cominciare dai piccoli gruppi e dalle piccole cose, per prendere confidenza con un metodo, quello democratico, con questa forma di convivenza sociale, verso le quali  ancora il clero, e il potere religioso è formalmente quasi tutto nelle sue mani, è piuttosto diffidente. Poi si può provare ad estendere questa esperienza fin dove possibile, fin dove si arriva allo scheletro autocratico del diritto canonico, e lì il processo sarà molto più lungo e complicato ma in definitiva riguarda meno la nostra vita quotidiana, fino ad esempio a tentare ciò che si è fatto altrove, vale a dire un Sinodo  parrocchiale nel quale non ci si limiti a stare a rimorchio del clero, ma si sia creativi.

 

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71.9. Istituzioni e comunità

71.9.1. Un’istituzione sociale è un’organizzazione che si vuole rendere stabile dandole regole che possano essere cambiate solo con precise procedure e ottenendole il riconoscimento da parte delle altre  istituzioni, in un sistema di relazioni ordinato secondo altre regole, per il quale alcune istituzioni sono tra  loro pari ordinate, alcune subordinate ed altre sovraordinate ad altre.

  L’istituzione è stata una conquista culturale molto antica dell’umanità: essa, ci dicono gli antropologi, risale addirittura a tempi preistorici, quindi a quando ancora non ci si tramandava il ricordo del succedersi degli eventi sociali. Essa è strettamente collegata all’esercizio di poteri sociali, dalle cui relazioni emergono le regole di convivenza  pubblica, che è quella non limitata agli ambienti familiari e amicali.

  Attraverso le istituzioni i poteri sociali diventano stabili e si perpetuano, addirittura di generazione in generazione.

 Il potere politico, vale a dire quello che riguarda il governo delle società, e la proprietà, quel complesso di poteri che le persone esercitano sulle cose, ma che storicamente è stato imposto anche sugli esseri umani, sono i principali moventi per la creazione di istituzioni sociali.

  Nelle narrazioni evangeliche ci si accorge presto che, nella vita delle prime comunità di seguaci del Maestro, l’istituzione non è presente, e questo anche se, per ragioni essenzialmente ideologiche, di legittimazione dell’esercizio di poteri religiosi si cerca in quella prima esperienza di vita di fede un accredito per istituzioni che furono di molto successive.

  Una delle ragioni della mancata istituzionalizzazione religiosa nei primi tempi può essere vista nella mancanza di esigenze propriamente politiche e di problemi relativi alla proprietà. Verso la politica dell’epoca, si praticava un blando anarchismo e si cercava più che altro di marcare i confini tra la sfera pubblica, che è il campo della politica, e quello interpersonale, che fu lo spazio privilegiato per la prima diffusione della buona novella.

  Hannah Arendt, in uno dei saggi raccolti nel libro Che cosa è la politica, pubblicato postumo nel 1993 e attualmente disponibile in commercio (anche in e-book) edito da Einaudi [si tratta di un testo di difficile lettura che richiede come minimo il livello di conoscenze che si raggiunge nell’ultimo anno delle scuole superiori], cita una frase dello scrittore  cristiano Tertulliano, vissuto nel 2° secolo, il quale esercitò una grande influenza nella formazione della prima teologia cristiana: «Niente è più estraneo a noi cristiani della cosa pubblica»  [dal trattato Apologetium, 38].  Arendt sostiene che le prime tendenze antipolitiche del cristianesimo si devono al fatto che all’origine fu centrato  su ciò che è essenziale per la convivenza umana nelle relazioni interpersonali.

71.9.2. Sappiamo però che, già alla fine del 1° secolo della nostra era, le nostre comunità di fede presero a istituzionalizzarsi, a organizzarsi in istituzioni sociali, come emerge ad esempio nel pensiero di Clemente Roma, al quale è intitolata la nostra parrocchia, vescovo di Roma vissuto nel 1° secolo, da quello di Eusebio di Cesarea, vescovo di Cesarea in Palestina vissuto nel Quarto secolo, molto ascoltato dall’imperatore Costantino,  e da quello di Gelasio, vescovo di Roma vissuto nel Quinto secolo, e, soprattutto, da Agostino vescovo di Ippona, nell’attuale Algeria, uno dei maggiori teologi della cristianità  di tutti i tempi, vissuto tra il Quarto e il Quinto secolo.

  Quella istituzionalizzazione delle Chiese cristiane fu una delle più importanti delle loro molte metamorfosi rispetto alle comunità delle origini. Una volta istituzionalizzate, in particolare intorno ad episcopati monarchici, esse presso ad entrate in relazione con le istituzioni politiche del loro tempo, divenendo anch’esse tali.

  L’istituzionalizzazione specificamente politica delle nostre Chiese fu un fatto decisivo nella conquista dei popoli al cristianesimo, nella sua nuova versione istituzionalizzata, quando la pressione per la conversione venne sorretta anche dalla coercizione politica, e quindi anche dalla violenza politica. In questo contesto di istituzionalizzazione della religione, acquistò sempre più rilevanza il clero, costruito come classe sacerdotale, secondo una teologia che prendeva liberamente spunto dai modelli sacerdotali israelitici presenti nelle Scritture. Ma la acquistarono anche gli ordini religiosi monastici, e successivamente altri tipi di ordini religiosi, nei cui ambiti si rivivevano, ma in spazi ben delimitati dalle loro istituzioni, interni  ad esse,  le esperienze di libertà evangelica delle origini, quindi anche di separazione dalla politica. Clero e religiosi, istituzionalizzandosi, presero ad esercitare  poteri propriamente politici sul resto della società, ma anche ad accumulare proprietà. La Chiesa cattolica è accreditata oggi per essere uno dei maggiori proprietari di immobili in Italia e vi possiede, addirittura, una istituzione organizzata come uno stato, la Città del Vaticano a Roma.

  Sia la politica che le proprietà vennero considerate strumenti essenziali per sostenere l’evangelizzazione dei popoli. Questa è la situazione nella quale ai tempi nostri ancora ci troviamo, anche se, negli anni ’60 del Novecento, prese corpo quel movimento di riforma religiosa volto a recuperare l’esperienza di comunità amicale delle origine, secondo una nuova teologia del “Popolo di Dio”, che assimila anche elementi dei principi democratici contemporanei. La riforma venne deliberata, infine, durante il Concilio Vaticano 2°, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965, ma in gran parte attende ancora di essere attuata, in particolare per quanto la posizione dei laici cattolici, tuttora piuttosto marginale e umiliante. 

  Tra quella teologia comunitaria e la teologia e la dottrina delle istituzioni religiose si  è conseguentemente creata una certa tensione, che si manifesta anche in una realtà sociale di base come la parrocchia. Infatti, una volta che si  riusciti a radunare una comunità viva, le regole delle istituzioni, tramandate addirittura da secoli, sono sentite come troppo coercitive e, soprattutto, poco rispettose della dignità delle persone che si sono incontrate comunitariamente, in quanto pretendono sottomissione a poteri autocratici e fondamentalmente insindacabili. D’altra parte, istituzioni religiose che tengano conto solo delle loro regole di organizzazione, con il principale obiettivo di perpetuarsi mantenendo certi poteri politici e sociale e la disponibilità delle loro proprietà, senza avere in sé comunità vive, e cioè attive e creative, perdono rapidamente attrattiva sociale, e, dove non possano più valersi della coercizione politica e della pressione ambientale al conformismo perbenistico per mantenere la loro presa sociale, perdono senso, rimanendo solo vuote burocrazie.

 

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71.310. Radicare la democrazia nelle istituzioni a partire da tirocini  democratici nelle realtà di base.

  Quando si cerca di spiegare di democrazia si parte in genere dalle regole, perché la si vede essenzialmente come uno dei metodi per fare ordine  nella società e, per questo, come molto legata alle sue istituzioni. La democrazia, quindi,  come adesione ad un sistema di regole vissute come norme di buona creanza  sociale, ma alla cui creazione non si   è collaborato. Un po’ come le convenzioni della lingua parlata e scritta e quelle sul modo di vestire. E le istituzioni come presidio di quelle regole, in una sorta di polizia  sociale.

  Certo, anche la democrazia esprime istituzioni e quindi ha le sue regole, ma esse non ne sono la caratteristica principale e la sua ragion d’essere. Anche altri regimi politici non democratici hanno istituzioni e regole e, con esse,  si propongono di mantenere un ordine sociale, quindi, fondamentalmente,  di stabilizzare  un ceto assetto di potere sociale, secondo il quale c’è chi domina e chi è dominato e chi domina vive meglio. In democrazia, invece, ci si propone di assecondare i moti sociali che pongono in conflitto i gruppi che compongono le società, consentendo il cambiamento sociale, e quindi anche di regole e istituzioni, senza che le dinamiche di conflitto distruggano le società o generino infelicità sociale nei processi di dissoluzione o di repressione. Il suo metodo politico è quello della limitazione di ogni potere mediante la pressione della partecipazione popolare attiva mediante dialogo sociale e persuasione personale. Il principio fondante della democrazia è che nessuno potere sociale sia illimitato: questo fa spazio per la partecipazione. Proprio perché ci si propone di assecondare il movimento sociale che deriva dal mutare fisiologico delle società, la democrazia è tenuta programmaticamente in una condizione di instabilità controllata. Proprio quella che i regimi non democratici temono.

  La nostra dottrina sociale  è ancora piuttosto affascinata dall’idea che, a livello mondiale, ci debba essere, e vada quindi istituita, un’autorità superiore che  metta ordine nel mondo e lo mantenga, mettendo in tal modo fine ai confitti sociali. E’ il modo in cui si ripropone il modello medievale dell’impero religioso. In questa concezione il governo della società è essenzialmente affare di istituzioni,  che si vorrebbero coordinate tra loro in modo che ce ne sia una  al vertice alla quale sia riconosciuto il massimo potere e che quindi spenga i conflitti. Fino al magistero di papa Francesco, i Papi nella loro dottrina sociale in genere si rivolsero, infatti, ai governanti,  vale a dire alle persone che esercitavano autorità politica nelle istituzioni di governo, dando loro dei precetti d’azione, che, al di là della loro formulazione come regole solamente morali, avevano la natura di direttive politiche, come quella, che ricorre spesso dagli anni ’40 del secolo scorso, di porre fine alle guerre. Questo accade perché la teologia della dottrina sociale in materia di democrazia è veramente poco sviluppata, anche nel magistero di papa Francesco, e questo sebbene, in esso, abbia un posto molto rilevante l’idea di popolo. In realtà la democrazia è essenzialmente cosa che riguarda coloro che, nella concezione politica che distingue governanti  e governati,  sono indicati come i  governati. È infatti un metodo che li vuole elevare  alla partecipazione al governo della società senza mai farne dei governanti, vale a dire dei monopolisti del potere politico mediante il controllo delle istituzioni. Quindi vuole abolire la distinzione tra governanti  e  governati. La partecipazione democratica al governo, in quanto pluralistica e programmaticamente nonviolenta,  può avvenire solo nel dialogo,  nel quale  ai partecipanti sia riconosciuta la medesimo dignità  politica e sociale: questa  è la politica  secondo la concezione democratica. E’ molto chiaro che la nostra Chiesa è ancora strutturata, invece, secondo il modello governanti / governati e quindi quando superficialmente, alle proposte dei cristiani persuasi della democrazia, si sbotta “Ma la Chiesa non è una democrazia”, si dice una cosa vera. Ma se poi si vuole anche intendere che la Chiesa non potrà essere mai una democrazia, perché le è connaturata l’autocrazia secondo la quale  è stata organizzata fin dall’alto Medioevo, e la religione svanirebbe con una diversa organizzazione, si dice una cosa senza fondamento, perché, non solo, dal punto di vista concettuale,  la Chiesa potrebbe senz’altro assimilare i processi democratici senza alcun danno per l’essenziale della fede, anzi con molti vantaggi per essa, ma dall’esperienza storica di altre Chiese cristiane emerge che la democrazia può effettivamente essere realizzata anche in religione. La profonda diffidenza delle istituzioni religiose cattoliche, quindi dei nostri governanti  religiosi, vale a dire della gerarchia  religiosa cattolica, verso i processi democratici, comporta che la formazione religiosa non comprende ancora, se non per il ceto intellettuale, una formazione ai processi democratici e, anche dove si fa, con la prescrizione di agire democraticamente solo fuori  della Chiesa, pena il disconoscimento e l’emarginazione. Questo è stato finora il destino di chi ha cercato di agire e pensare diversamente.  La nostra Chiesa è fondamentalmente ancora organizzata come un’autocrazia sacrale che umilia i governati. E questa umiliazione, vista come manifestazione di obbedienza filiale, di docilità, viene addirittura presentata come una virtù. Questo effettivamente ostacola i processi democratici che richiedono, invece,  una elevazione  in dignità e la consapevolezza  della propria dignità sociale.

  Ecco che cosa la filosofa Hanna Arendt scrisse su questi temi [da uno dei saggi raccolti nel libro Che cosa è la politica, edito da Einaudi anche in e-book]:

 

«[…] Dietro i pregiudizi  nei confronti della politica si celano la paura che l’umanità possa autoeliminarsi  mediante la politica e gli strumenti di violenza di cui dispone , e, in stretta connessione con tale paura, la speranza che l’umanità si ravveda e, anziché se stessa, tolga di mezzo la politica, ricorrendo a un governo universale che dissolva  lo stato in una macchina amministrativa, risolva i conflitti politici per via burocratica e sostituisca gli eserciti con schiere di poliziotti. Certo tale speranza è del tutto utopica se per politica si intende, come normalmente avviene una relazione tra governanti e governati. In questa ottica, invece di una abolizione del politico otterremmo una forma dispotica di governo di dimensioni mostruose, in cui lo iato tra governanti e governati assumerebbe proporzioni così  gigantesche da impedire qualunque ribellione,  e tanto più qualunque forma di controllo dei governanti da parte dei governati. Tale carattere dispotico non cambierebbe neppure qualora in quel regime mondiale non si potesse più individuare una persona, un despota; infatti il dominio burocratico, il dominio mediante l’anonimità degli uffici, non è meno dispotico perché “nessuno” lo esercita; al contrario: è ancora più terribile, perché nessuno può parare o presentare reclamo a quel Nessuno. Se però per politico si intende una sfera del mondo dove gli uomini  si presentano primariamente come soggetti attivi, e dove conferiscono alle umane faccende una stabilità che altrimenti non le riguarderebbe, la speranza appare tutt’altro che utopica. L’eliminazione degil uomini in quanto soggetti attivi è riuscita spesso nella storia, sebbene non a livello mondiale: sia sotto forma di quella tirannide  che oggi ci sembra antiquata, dove la volontà di un uomo pretendeva totale libertà di azione, sia sotto forma del moderno totalitarismo, dove si vorrebbe liberare la presunta superiorità  dei processi e delle “energie storiche” impersonali e sottomettervi gli uomini.»

 

  Data l’importanza politica che la nostra Chiesa ha sempre avuto nelle questioni italiane, tutto ciò ha inciso molto negativamente nell’acculturazione democratica della nostra gente, in particolare a partire dal durissimo contrasto del Papato, nell’Ottocento, contro l’irredentismo italiano durante il nostro Risorgimento. Tra pochi giorni ricorre il centocinquantesimo anniversario della soppressione, mediante conquista militare cruenta, con decine di morti da ambo le parti,  dello Stato Pontificio da parte del Regno d’Italia, il 20 Settembre 1870.  Una istituzione ormai obsoleta, quel regno del Papato nel Centro Italia, rifiutava ostinatamente di evolvere, e, anche in quel caso, come sempre quando si affrontano temi simili, fu questione di potere politico e di proprietà, non di religione (tra i precetti evangelici, quello di costituire un regno  territoriale religioso  in Italia - o altrove - non c’è). Ma la tragedia più grande non fu quella, quanto invece la susseguente decisione del Papa all’epoca regnante, Giovanni Battista Mastai Ferretti - Pio 9°, nel 2000 proclamato beato, di ordinare ai cattolici, sotto pena di scomunica, di non partecipare alla democrazia nazionale nel Regno d’Italia, e questo per sostenere le rivendicazioni territoriali del Papato su Roma. E, in effetti, il governo nazionale del Regno d’Italia, quello che aveva deciso la conquista del regno pontificio, era espresso da una democrazia liberale, anche se escludeva ancora le donne, gli incolti, i meno abbienti. La democrazia e il liberalismo,  che della democrazia aveva posto i fondamenti culturali, erano temuti dal Papato come fonte di insubordinazione,  di usurpazione di poteri sacralizzati  e di predazione dei patrimoni delle istituzioni religiose. Contro di essi si cercò di far insorgere il popolo  italiano nel presupposto che fosse rimasto nonostante tutto  nella condizione di gregge  sottomesso all’autocrazia sacrale del Papato. Questo sostanzialmente l’ordine di idee sotteso anche alla prima dottrina sociale, in dura polemica politica con il liberalismo e il socialismo (il movimento che intendeva promuovere l’elevazione sociale del proletariato - proprio così definito nell’enciclica Le novità,  del 1891, del papa Leone 13°- Vincenzo Gioacchino Pecci). In realtà i processi democratici che da fine Ottocento coinvolsero anche il laicato cattolico portarono poi, in un lungo e travagliato processo nel quale l’Azione Cattolica fu protagonista, a ridefinirne il senso, appunto in direzione dei principi democratici. Questo consentì poi ai cattolici democratici italiani di avere un ruolo assolutamente di primo piano nella costruzione della nuova Repubblica democratica, dopo la vittoria sul fascismo mussoliniano,  e poi nel governo nazionale fino al 1994. Ciò però fu possibile solo quando, dal 1939, il Papato richiese  il superamento del fascismo mediante processi democratici, con una serie di radiomessaggi che costituirono la nuova base ideologica in particolare per i gruppi intellettuali in Azione Cattolica. Quindi, in fondo,  l’emancipazione politica  dall’autocrazia religiosa è ancora da conquistare. Finché non ci sarà dal Papato un via libera per costruire, all’interno del pensiero sociale cattolica, una sezione sulla democrazia che trovi base anche in una teologia sulla democrazia (la dottrina sociale è considerata una branca della teologia), è poco probabile che accada qualcosa di nuovo e che quindi si inneschino processi di reale riforma.

  Questo non toglie che si possa cominciare dalla base, nelle realtà di prossimità come le parrocchie,  da un tirocinio pratico  di democrazia, negli spazi (pochi), lasciati liberi, per acquisirne dimestichezza e imparare come fare, e anche per convincersi che funziona. Questo tirocinio potrebbe poi essere progressivamente esteso, tenendo conto che, come in genere si scrive, la democrazia è in crisi un po’ in tutti i settori della società, anche in quelli che la praticavano, e, in questa condizione, assumono un rilievo preponderante le istituzioni, però sempre meno collegate a una vita democratica diffusa e quindi sentite sempre più distanti e indifferenti, e quindi avviate verso una sorta di tirannia istituzionale,  in quella che recentemente si è denominata, con una certa ironia, democratura, vale a dire un sistema sostanzialmente di dittatura  ma formalmente ancora democratico.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro - Valli

  

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

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◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊di Mario Ardigò per l’A.C. in San Clemente papa - Roma◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊