Pluralismo
Il pluralismo sociale è quando la gente non
la pensa tutta nella stessa maniera. Se ci riflettete bene potrete facilmente
concludere che, sulla base della vostra stessa esperienza, non esistono società
che non siano pluralistiche. Questo perché sono fatte di individui pensanti.
Il
pensiero è un insieme di sensazioni prodotte dalla nostra mente, che è una manifestazione
della nostra fisiologia, del sistema neurologico integrato da tutti gli altri
sistemi corporei. Quindi non pensiamo solo con il cervello, però senza di esso
non c’è evidenza di pensiero. Il corpo e la mente sono quindi strettamente
connessi: è questo che ci costituisce come individui.
L’evoluzione
biologica ci ha reso viventi sociali: l’essere umano è infatti un vivente
che costituisce e governa società. Questo
principio fu enunciato agli albori della civiltà occidentale dal filosofo greco
Aristotele, vissuto nel 4° secolo dell’era antica. La società è una forma di
collaborazione coordinata e non è solo degli umani, che tuttavia, grazie allo
sviluppo della loro mente, che non ha eguali in altri viventi nel nostro mondo,
sono capaci di costruirne di molto complesse ed estese, superando i loro limiti
cognitivi che li confinerebbero in gruppi di una trentina di individui.
Maggiore è la collaborazione sociale, più potente diventa una società.
Tuttavia ottenere maggiori livelli di collaborazione sociale richiede di
comprimere le possibilità di autodeterminazione dei gruppi minori e degli
individui. Viene quindi in questione la libertà personale e di quei gruppi.
Nella
nostra confessione si ha in genere molta difficoltà ad affrontare il tema della
libertà: ciò è dovuto alla marcata involuzione assolutistica della nostra Chiesa,
che storicamente risale alla metà dell’Ottocento. Si pensa alla Chiesa, intesa
come organismo politico, applicandole la metafora del corpo fisiologico, nel
quale ogni parte è integrata nell’organismo, secondo la funzione che svolge, e
rimane sempre al posto che la natura le ha assegnato. Questa immagine, pensata
originariamente per rendere l’idea della realtà soprannaturale del nostro
legame sociale con l’Altissimo, non è adatta a definire, e tanto meno ad
organizzare, la dimensione politica della società, vale a dire l’aspetto delle
sue procedure di governo. Infatti la Chiesa, come ogni altra società, è, e non
può non essere, pluralistica, perché formata di individui pensanti. Renderla
assolutistica, come si è tentato a lungo, significa umiliare ciò che di più
prezioso e caratteristico vi è nell’essere umano: il pensiero.
Fin
dall’antichità si è cercato di potenziare la collaborazione sottomettendosi a
gerarchi. Tuttavia questo alle origini non c’era: è uno sviluppo che comincia a
manifestarsi verso la fine Primo secolo della nostra era e che ha cominciato ad
assumere una forma più vicina a quella attuale della nostra Chiesa solo dal
Quarto secolo. La deriva assolutistica fu poi promossa dal movimento monacale
nel secondo Millennio e, a fasi alterne, finì per consolidarsi tra il
Settecento e Ottocento, quando si pensò alla nostra Chiesa come ad uno stato,
con al vertice un vicario infallibile dell’Onnipotente.
In realtà
la nostra Chiesa, come tutte le altre Chiese cristiane, è sempre rimasta una
società pluralistica. Tuttavia, l’insofferenza politica verso il pluralismo vi
ha provocato molta sofferenza.
Dagli
anni Sessanta del secolo scorso si cominciò a mettere in questione l’assolutismo
ecclesiastico e l’attuale movimento sinodale dei cattolici è una manifestazione
di questo processo, dopo l’inverno ecclesiale che si è vissuto tra gli anni
Novanta del secolo scorso e il primo decennio dell’attuale secolo. Purtroppo la
primavera non è mai tornata. La nostra Chiesa era stata troppo depauperata. Lo
vediamo: è fatta in prevalenza di anziani, molto legati al passato, da loro rivissuto
nel ricordo mitizzandolo. E i più giovani, quando non considerano la Chiesa un
po’ come una ASL dello spirito, in genere hanno perso dimestichezza con la socialità
pluralistica e formano gruppi chiusi. In genere mi pare che si pensi che,
aderendo alla Chiesa, occorra rinunciare alla propria libertà di pensiero, vale
a dire di aver parte attiva in ciò che si fa. Che, insomma, significhi
sottomettersi a un qualche gerarca, ecclesiastico o non.
L’idea
di libertà viene di solito diffamata nella predicazione come la pretesa di fare
tutto ciò che si vuole. Ma nessuna persona fa tutto ciò che vuole,
perché, poiché siamo viventi sociali, vogliamo solo ciò che nel gruppo in
cui siamo integrati si vuole. E’ un po’ come nella moda, per l’abbigliamento.
Nessuno si veste come vuole. Ci vestiamo come la moda, vale a dire la società
che interloquisce sull’abbigliamento, vuole che si sia vestiti. E tuttavia è
vero che, con le nostre preferenze, in un arco di opzioni definito dalla moda,
in qualche modo influiamo su ciò che la società pensa nella moda. Questa è la
nostra libertà.
Succede anche nella nostra partecipazione alla Chiesa. Il nostro modo di
essere religiosi incide sulla religiosità generale. Solo che l’assolutismo
ecclesiastico non vorrebbe riconoscere questa libertà, che quindi viene
praticata ma che non si può enunciare, pena l’emarginazione o addirittura l’esclusione.
Storicamente la repressione ecclesiastica è stata particolarmente feroce
ed estesa. Tuttora la nostra Chiesa è afflitta da organismi e procedure di
polizia ideologica sentite ormai come obsolete ma che, a causa dell’assolutismo
istituzionale organizzato nel passato secolo e mezzo, non si riesca a cambiare.
Il pluralismo
più indigesto all’assolutismo ecclesiastico è quello colto. Quello di lega più
basso, ad esempio quello fondato su prodigi, miracoli e visioni, è maggiormente
tollerato perché si è dimostrato più facilmente integrabile, in particolare
nei miti e santuari miracolanti.
La
nostra Azione Cattolica mi pare l’organismo ecclesiale che più di ogni altro in
Italia ha mostrato di saper vivere positivamente il pluralismo, come esperienza
di libertà, nel senso che ho precisato. In questo il suo maggior valore.
E,
tuttavia, bisogna riconoscere che nel nostro quartiere, dopo gli anni della
maggiore espansione, dagli anni Sessanta alla metà degli anni ’80, e dopo la successiva
fase in cui fu piuttosto osteggiata, non è riuscita ancora a far breccia nella
gente. Come in altri ambienti ecclesiali, si è persa una tradizione, con la
continuità generazionale. L’Azione Cattolica parrocchiale ha una sua
vulnerabilità: è ancora troppo legata al dispotismo del parroco, che è una
forma di prossimità dell’assolutismo. Cambia il parroco e tutto cambia. Decide
tutto il parroco. Le persone laiche da noi mi pare che contino ancora poco o
nulla. Quindi, durante gli anni in cui ci fu un parroco che non credeva nell’Azione
Cattolica come via di formazione delle persone laiche, ne risentimmo. E
comunque si è resistito, ma, appunto, si è persa la continuità generazionale,
ed è difficile ricostituirla.
Riflettere
sul pluralismo sociale mi pare che sia un buon punto di partenza per cercare di
riorganizzarci, attraendo persone nuove. Pensate, veramente, che la libertà, la
vera libertà, non quella di rinunciare alla libertà proposta talvolta nella
predicazione e nella preghiera, vale a dire la libertà di poter avere realmente
parte attiva in ciò che si fa e si decide in Chiesa, sia incompatibile con le
virtù religiose?
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli