Quando, come accaduto nei giorni scorsi, noto un picco delle visualizzazioni, cerco di raffreddare il blog, dirandando i post.
Questo blog ha come destinatarie privilegiate le persone di fede del quartiere Monte Sacro - Valli, nel nord Est di Roma, non tutto il resto del mondo, sebbene possa essere visualizzato ovunque.
Ripubblico di seguito le mie note Democrazia 2.0, del 2020, che potrebbero tornare utili anche di questi tempi. Si torna infatti a parlare di importanti riforme costituzionali.
Dedichiamo, allora, un po' di tempo al giorno per cercare di riportare alla mente i concetti base della democrazia, come la si intende oggi in Europa occidentale.
Che c'entra con la pratica religiosa?
Questo è appunto uno dei temi che ho trattato nelle mie note.
I cattolici italiani sono stati fondamentali per costruire la nostra democrazia repubblicana, dopo essersi dati precedentementre, nella gran parte, al fascismo mussoliniano, del resto guidati dal Papa di quei tempi.
Di fronte alle riserve che sono venute dinanzi agli annunci di certe impostazioni che si vorrebbero dare alle riforme, c'è chi le ha criticate come atteggiamenti Aventiniani.
Nell'antica Roma i plebei si ritirarono sull'Aventino, uno dei colli di Roma, nel 5° e nel 3° secolo dell'era antica. Nel 5° secolo, poi, un volta si trasferirono nel nostro Monte sacro. Fu un modo per esercitare una pressione sul Senato, dove sedeva il patriziato.
Nel giugno 1924 deputati dell'opposizione si astennero dai lavori parlamentari per protesta dopo il rapimento del socialista Giacomo Matteotti, poi ritrovato assassinato. Chiamarono il moto Aventino facendo riferimento all'antica secessione della plebe. Fu espressione di antifascismo.
Sotto questo profilo parlare di atteggiamenti aventiniani riferendosi alle critiche alle prime esposizioni dei progetti di riforma appare come una provocazione che purtroppo evoca i tristi fatti del fascismo storico.
Tuttavia, per nostra buona sorte, siamo in un contesto completamente diverso. Da un lato la riforma non è sorretta dalla violenza intimidatoria e dall'altro i parlamentari dell'oppsizione appaiono ben decisi a partecipare attivamente alle procedure di riforma, sia pure in posizione critica. La democrazia si è fortemente radicata in Italia, anche tra coloro che seguono il magistero politico di Giorgio Almirante, certamente un estimatore di Benito Mussolini ma anche l'iniziatore di una nuova esperienza politica, diversa e distante dal fascismo di un tempo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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DEMOCRAZIA 2.0
ed.2020
1
Agire da gente di fede nella
società democratica di oggi
(29 settembre 2012)
2
Libertà e democrazia come
esperienze collettive di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza. Esse contrastano con la nostra
esperienza religiosa? (30
settembre 2012)
3
Fede religiosa, uguaglianza e
democrazia: relazioni in veloce
evoluzione (1 ottobre 2012)
4
La libertà come opportunità
religiosa in democrazia (1
ottobre 2012)
5
L’uguaglianza come pari dignità
sociale è alla base delle democrazie di
popolo contemporanee
(3 ottobre 2012)
6
Un appello per ripartire
insieme
(4 ottobre 2012)
7
Le ragioni di un lavoro insieme
(5 ottobre 2012)
8.
Azione Cattolica: un’esperienza
di Chiesa
(7 ottobre 2012)
9.
Noi cattolici: cittadini o
stranieri nella società in cui viviamo?
(8 ottobre 2012)
10
Europa, pace, diritti umani. E
noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.
(13 ottobre 2012)
11
Insieme per agire da gente di
fede
(14 ottobre 2012)
12
Costruire nella società per
narrare il fondamento della nostra speranza
(12 ottobre 2012)
13
Noi: popolo di Dio
(15 ottobre 2012)
14
Essere popolo unito da una fede
religiosa
(16 ottobre 2012)
15
Unire le genti per una vita
buona
(17 ottobre 2012)
16
Un popolo nuovo
(19 ottobre 2012)
17
Micro-Macro e la ricerca della
felicità
(20 ottobre 2012)
18
Uguale dignità nella Chiesa tra
tutti i fedeli
(21 ottobre 2012)
19
Città di Dio, città dell’uomo,
città del diavolo
(22 ottobre 2012)
20
Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!
(24 ottobre 2012)
21
E pluribus unum: quale fondamento per l’unità?
(25 ottobre 2012)
22
Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella
società
(27 ottobre 2012)
23
Fare memoria di un’alleanza
(30 ottobre 2012)
24
Azione Cattolica: insieme per
promuovere la pace universale
(1 novembre 2012)
25
Un nuovo modello globale di
organizzazione e convivenza dell’umanità. Il modello della famiglia umana.
(2 novembre 2012)
26
Realtà invisibili
(3 novembre 2012)
27
A occhi aperti
(5 novembre 2012)
28
La città dell’uomo
(7 novembre 2012)
29
Una lunga storia
(8 novembre 2012)
30
Sentirsi responsabili di tutto
(10 novembre 2012)
31
Costruire la città dell’uomo come dovere religioso
(12 novembre 2012)
32
Rinnovarsi sempre, ma
custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato
(14 novembre 2012)
33
La fede fa scandalo?
(16 novembre 2012)
34
Fede e promozione umana
(19-11-12)
35
Conflitto come esperienza religiosa
(19 novembre 2012)
36
Una riunione “politica”
(23 novembre 2012)
37
Noi e la storia. Chi siamo veramente?
(28
novembre 2012)
38
La parrhesia*
evangelica
(29
novembre 2012)
39
Eterno presente o apertura verso un
futuro diverso
(30 novembre 2012)
40
Sollecitudine nel lavoro
relativo alla terra presente e rilevanza religiosa della democrazia
(1 dicembre 2012)
41
La pace universale come finalità
religiosa
(3 dicembre 2012)
42
Che fanno i laici cattolici nel
mondo?
(3 dicembre 2012)
43
Laicità dello stato: nuovo
fronte religioso?
(9 dicembre 2012)
44
Civiltà cristiana e Azione
Cattolica
(15 novembre 2012)
45
L’incontro della Chiesa col
mondo
(23 dicembre 2012)
46
Cattolicesimo forza di
progresso?
(29 novembre 2012)
47
Fede religiosa, forza di
progresso
(4 gennaio 2013)
48
Noi, la Chiesa e la società
nella crisi
(7 gennaio 2013)
49
Un processo continuo di
liberazione
(8 gennaio 2013)
50
Pace come promozione umana
(13-1-13)
51
Unita’/comunione nella Chiesa e
promozione umana
(13 gennaio 2013)
52
Scrutare i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)
53
Fede cristiana:
speranza credibile e onesta o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
54
La Chiesa vuole rinnovare il
mondo
(19 gennaio 2013)
55
Democrazia, difficile virtù
(22-3-16)
56
Dottrina sociale, liturgia e Concilio
Vaticano 2°
(23-3-16)
57
Convincersi della democrazia
(24-3-16)
58
Democrazia dei cristiani,
democrazia di tutti
(30-3-16)
59
Nella grande politica
(6-6-16)
60
Il partito del Papa
(8-6-16)
61
Fede e politica: una relazione
essenziale
(10-6-16)
62
La vita di fede come esperienza
civile
(1-7-16)
63
Condominio o repubblica
(2-7-16)
64.
Democrazia - 1
(maggio 2017)
65.
Democrazia - 2
(maggio 2017)
66.
Democrazia - 3
(maggio 2017)
67.
Democrazia 4
(maggio 2017)
68.
Democrazia 5
(maggio 2017)
69.
Democrazia 6
(maggio 2017)
70. (settembre 2020)
Democrazia 7
71. Capire la democrazia
71.1. La
democrazia: non solo regole, ma una forma di convivenza sociale per risoluzione
pacifica dei conflitti.
71.2. Cambiare
democraticamente la società.
71.3. Democrazia e istituzioni.
71.4. Democrazia, desacralizzazione e
secolarizzazione.
71.5. Democrazia: una forma di convivenza che consente il
cambiamento sociale.
71.6. Democrazia
come convivenza che libera da sottomissioni umilianti
71.7. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal
basso
71.8. Democrazia: una questione di
dignità
71.9. Istituzioni e comunità
71.10. Radicare la democrazia nelle istituzioni a partire da tirocini democratici nelle realtà di base.
72. Capire la democrazia
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1
Agire da gente di fede nella
società democratica di oggi
(29 settembre 2012)
In una società ordinata
democraticamente le moltitudini dei cittadini hanno la possibilità di influire
di più sul corso delle cose. E ci sono valori da definire, perché, quando si
comanda in molti, bisogna trovare un accordo per rispettarsi a vicenda e poi su
quello che deve essere fatto e su come farlo, e infine per stabilire come si
forma la volontà di tutti, che necessariamente deve, alla fine, essere
unitaria. In una monarchia assoluta, come ce ne sono state in passato e
come ce ne sono ancora (poche, non so se
si arriverebbe a cinque volendo fare l’inventario), è diverso. Decide uno solo, o meglio, spesso, decide la
famiglia reale o la corte che ruota intorno ad essa e gli altri devono attuare,
con una discrezionalità più o meno ampia. Come una volta si provvedeva a
istruire e formare i giovani rampolli delle famiglie regnanti, così ora questo
lavoro si fa su più larga scala, perché vanno formate all’esercizio della
sovranità le masse dei cittadini. Il sistema dell’istruzione pubblica serve
anche a questo.
L’avvento, dalla fine del
Settecento, delle democrazie, non è stato indolore per la Chiesa cattolica,
mentre non vi sono stati problemi per altre Chiese cristiane, come quelle che
sorressero fin dagli inizi le idealità del nuovo stato federale uscito dalla
rivoluzione nordamericana contro il Regno Unito (“In God we trust – Confidiamo in Dio” fu ed è uno dei suoi motti). Quale ne è stata
la ragione? Il problema è che la Chiesa cattolica era (ed è ancora) ordinata
come una monarchia assoluta. E una di quelle monarchie assolute contemporanee
di cui dicevo l’abbiamo proprio qui a Roma ed è la Città del Vaticano, che la
Santa Sede ha ordinato come un vero e proprio stato, con una propria
costituzione, propri uffici e servizi amministrativi e giudiziari, una propria
polizia e un piccolo (ma molto motivato) esercito.
Con l’avvento, in Europa, delle
democrazie, i cattolici, laici e clero, si posero il problema di come e su che
basi influire in esse. I Papi, nell’Ottocento e fino a metà del Novecento,
considerarono con preoccupazione la politica democratica. Una pronuncia in
questo senso la troviamo ancora agli inizi del Novecento, rispondendo a che
pretendeva di conciliare democrazia e valori esplicitamente cristiani. Diciamo
così i Papi che non si fidavano tanto dei nuovi “sovrani”, delle masse elevate
alla cittadinanza, anche se anche gli antichi monarchi assoluti avevano dato problemi.
In Italia le cose furono complicate dalle caratteristiche specifiche del nostro
processo di unificazione nazionale che, per il fatto che il Papa era sovrano
temporale nel Centro Italia, e soprattutto possedeva Roma, si svolse anche
“contro” la Santa Sede, il cui stato, ad un certo punto, fu invaso militarmente, con morti e feriti
(Nella Chiesa di San Luigi dei Francesi una lapide li commemora). La prima
presa di posizione pubblica di un Papa che in cui fu dichiarato che la
democrazia il regime politico preferibile risale al 1944 (radiomessaggio
natalizio del Papa Pio XII): la trovate sul WEB al seguente indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
La riflessione della Chiesa sui
problemi creati dall’avvento delle democrazie e sulle opportunità determinate
dall’elevazione di moltitudini alla sovranità, con piena cittadinanza, si è
espressa in quel vasto corpo di insegnamenti che va sotto il nome di “dottrina
sociale della Chiesa” e che si suole far partire dall’enciclica Rerum Novarum, del 1891, del Papa Leone
13°. La trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father//leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html
Gli insegnamenti i questa
materia vengono promulgati con autorità dai pontefici e dai vescovi, ma hanno
sempre avuto l’ampia collaborazione dei laici nella loro ideazione e, più di
recente, anche nella loro formulazione. Infatti, quando si deve trattare del
mondo fuori dei templi, quello che nel gergo ecclesiale viene definito “il
temporale”, gli specialisti sono, in fondo, i laici. Questo è stato
riconosciuto formalmente in alcuni importanti documenti normativi del Concilio
Vaticano 2°, ma era già una realtà anche prima.
Oggi la dottrina sociale della
Chiesa cattolica comprende un corpo veramente molto esteso, tanto che se ne è
fatto un compendio, una sorta di testo unico, che sintetizza dichiarazioni
solenni che si sono avute in un arco temporale ormai più che centenario. Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html
Come risulta da quello che ho
scritto prima, il ruolo dei laici, per quanto riguarda l’azione nel sociale
negli ordinamenti democratici, è primario e comprende anche la fase ideativa.
Non si tratta solo di eseguire decisioni prese da altri. Il Papa e i vescovi ci
chiedono espressamente di collaborare con loro a capire i tempi in cui viviamo.
Mi fece molto impressione, quando il mio gruppo F.U.C.I. (gli universitari
cattolici) venne ricevuto dal cardinal Vicario Poletti), sentire che il mio
vescovo dichiarava che noi giovani eravamo i suoi occhi e le sue orecchie
nell’Università. Me ne sentii lusingato ma mi resi anche conto della mia
insufficienza. I tempi nuovi richiedono un impegno maggiore di noi laici: non
possiamo limitarci a farci trascinare da un clero eroico.
E il lavoro nella società
richiede soprattutto un impegno continuo. Le cose non possono essere pensate
una volta per tutte. La dottrina “sociale” della Chiesa, a differenza di quella
“teologica”, è infatti soggetta
necessariamente a continui aggiornamenti, perché i nuovi problemi, in particolare
nel mondo contemporaneo, si producono continuamente. Ma su certe cose è
necessario riflettere insieme. Nessuno, come scrisse Hannah Arendt, da solo,
senza compagni, arriva ad avere una visione sufficientemente completa delle
cose. Questa è appunto una delle ragioni
per associarsi nell’Azione Cattolica: dare continuità all’impegno di fede nella
società civile democratica e vedere le cose da più punti di vista.
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2
Libertà e democrazia come
esperienze collettive di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza.
Esse contrastano con la nostra esperienza religiosa?
(30 settembre 2012)
Da Strada verso la libertà di Paolo Giuntella, Paoline Editoriale
Libri, 2004, a pag.36 (ancora disponibile in commercio ad € 12,00) :
“…presentare
una verità che vi farà liberi come una religione repressiva è quanto di
meno evangelico si possa immaginare. I tarli dell’integralismo e della
mentalità normativa possono ridurre il Vangelo in polvere. No. Tutto al
contrario di quello che dicono i detrattori, il cristianesimo è una grande
esperienza di liberazione interiore. Le Beatitudini sono scritte in positivo,
indicano un modello, una strada: ‘Beati…’. Un’esclamazione di gioia, una
speranza. Il comandamento cardine del Nuovo Testamento, l’amore, indica la forza d’amare, non la forza di non fare. A me piace usare l’espressione
di Martin Luther King, la forza d’amare (che è poi una delle possibilità di tradurre
il vocabolo indiano non violenza;
l’altra è la forza della verità),
proprio perché c’è una proiezione dell’amore in fare, in azione, in forza,
appunto, e non in sdolcinatezza, in sentimentalismo. Dunque amore come energia
creativa, come forza della creatività, come costruire, tessere, unire: una
coppia di innamorati, un gruppo di persone (una comunità), un popolo, il genere
umano”.
Quando, in occasione di
incontri religiosi, si affronta il tema della libertà, molte volte si comincia
con l'elencarne i danni, si prosegue con il fissarne limiti precisi e si
conclude che la vera libertà sta nel decidere liberamente di obbedire. Non è
così? Questa impostazione crea qualche problema nel trattare dell’esperienza
religiosa nelle società ordinate come democrazie di popolo e, in particolare,
per stabilire se democrazia e religione possano andare d’accordo. Un argomento
in contrario viene tratto dal fatto che, pur se oggi riconosce che la
democrazia è il regime politico preferibile per la società civile, la nostra
Chiesa al suo interno non è ordinata
democraticamente e non vuole esserlo.
La libertà di tutti, dei popoli
interi, è uno degli aneliti fondamentali delle democrazie moderne e, in
particolare, delle democrazie di popolo contemporanee, che si propongono di
elevare alla piena cittadinanza le masse, senza distinzione tra le persone che
le compongono.
E’ scritto nell’art.3, 2°
comma, della nostra Costituzione, legge
fondamentale della Repubblica italiana:
“E’ compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”.
In questa norma è chiaramente
espresso l’impegno democratico, che in Italia è un obbligo di legge per tutti,
di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni
personali e sociali, che è come dire alla sovranità comune. Un bel rovesciamento di prospettiva rispetto, ad
esempio, alla condizione degli ultimi nelle monarchie feudali, nelle quali il
potere emanava dall’alto, e poi veniva, come dire, delegato in parte a persone
inserite in diverse posizioni decrescenti di una scala gerarchica in cui, più
in basso di tutti, c’erano moltitudini fatte di chi non contava nulla ed era
semplicemente dominato da quelli che stavano sopra!
In una preghiera di origine
evangelica che recitiamo ogni giorno nella liturgia delle Ore, ai Vespri, il Magnificat, c’è qualcosa che richiama
quell’idea. In greco fa kazèilen dinàsta
apò trònon/ kài ùpsosen tapinùs, che viene tradotto nella Bibbia CEI 2010
con ha rovesciato i potenti dai troni/ha
innalzato gli umili. La diversità di questa concezione rispetto a quella
democratica sta nel fatto che in quella biblica il risultato è soprannaturale mentre nell’altra è
prodotto da un’azione collettiva e consapevole, da una rivoluzione, dal basso. Rivoluzione ha significato spesso violenza
tra le persone e per questo motivo la Chiesa cattolica, tanto più in quanto
storicamente, fin dalla rivoluzione francese della fine del Settecento, ha
fatto le spese di simili moti, ha posto un’obiezione morale contro di essa. E
tuttavia in un ordinamento democratico contemporaneo certi cambiamenti, certe
riforme anche radicali, possono essere attuati senza violenza, anzi questa è
una delle caratteristica salienti dei regimi politici di questo tipo. Ciò
avviene perché, nella concezione contemporanea, la democrazia integra in sé
anche un sistema molto esteso di valori, che viene definito come quello dei diritti umani: non è fatta solo della
regola per la quale decide la
maggioranza. Molte cose sono infatti sottratte all’arbitrio delle
maggioranze. Ad esempio il principio supremo dell’uguaglianza tra le persone
umane. Ed è proprio per questo che ai tempi nostri l’azione democratica
costituisce un’opportunità importante anche per chi abbia una concezione
religiosa della vita e, in base ad essa, ritenga che le società umane di oggi
possano essere migliorate. Uno dei più importanti auspici che troviamo nella
dottrina sociale della Chiesa espressa dal Concilio Vaticano 2° in poi è quello
che i laici cattolici, cooperando con altre formazioni nella società civile,
riescano a introdurre nei principi fondamentali degli ordinamenti democratici valori tratti dalle idee religiose, mediati, quindi, come dire, tradotti in modo che possano essere
compresi e accolti anche al di fuori della Chiesa, con l’impiego del discorso
razionale e della cultura nel dialogo con le altre componenti della società.
Per riunire intorno ad essa le forze sociali, i popoli e, al limite, l’intero
genere umano, come scrisse Giuntella. Questo
lavoro è centrale in Azione Cattolica. Esso non è altro che
l’espressione della missione della Chiesa nel mondo, tra le genti.
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3
Fede religiosa, uguaglianza e
democrazia: relazioni in veloce
evoluzione
(1 ottobre 2012)
dal Catechismo della Chiesa
cattolica (1992) n.1934 e 1935 (nella Parte terza: La vita in Cristo; Sezione
seconda: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito; Capitolo secondo: La
comunità umana; articolo 3: La
giustizia sociale; paragrafo 2°: Uguaglianza e differenze tra gli uomini:
1934. Tutti gli uomini, creati ad immagine
dell’unico Dio e dotati di una medesima anima razionale, hanno la stessa natura
e la stessa origine. Redenti dal sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a
partecipare della medesima beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una
eguale dignità.
1935. L’uguaglianza tra gli uomini poggia
essenzialmente sulla loro dignità personale e si diritti che ne derivano:
“Ogni
genere di discriminazione nei diritti fondamentali della persona […] in ragione di sesso, della stirpe, del
colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere
superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio” [dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano
2°, 29],
Dunque il principio
dell’uguaglianza universale degli esseri umani, fondamento delle democrazie
popolari contemporanee, è oggi legge anche della Chiesa cattolica, in quanto
sancito dalla Costituzione pastorale Gaudium
et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e dal Catechismo della chiesa cattolica, il quale è molto di più di un
semplice sussidio per l’iniziazione religiosa, ma è anche un documento
normativo, promulgato dal papa Giovanni Paolo 2° con la Costituzione Apostolica
Fidei depositum, dell’11 ottobre 1992 (alcune modifiche furono
apportate in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, il 15
agosto 1997).
La formulazione di quell’ideale
di uguaglianza sociale che troviamo nella Gaudium
et spes è simile a quella che si
legge nell’art.3, comma 1° della nostra Costituzione (deliberata dall’Assemblea
costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948), la cui
elaborazione iniziò durante i lavori della prima sottocommissione della
Commissione per la Costituzione dell’Assemblea costituente (luglio 1946 –
gennaio 1948) in cui i cattolici erano ben rappresentati, in particolare dai
democristiani Umberto Tupini, che la presiedeva, Giorgio La Pira (al quale si
deve la formulazione dell’art.2 della Costituzione), Giuseppe Dossetti, Aldo
Moro e Camillo Corsanego. E sostanzialmente essa richiama l’analoga
formulazione che troviamo nell’art.2, 1° comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
(approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-12-1948):
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e
tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione
alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di
opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di
ricchezza, di nascita o di altra condizione.
Ora, vi propongo un lavoro comune,
perché, in tutta sincerità non ho la sapienza necessaria per fare asserzioni
sicure sul tema: cercate nella storia ormai bimillenaria della nostra Chiesa
dichiarazioni normative (atti dei papi, dei concili, dei vescovi) analoghe a quella che trascrivo nuovamente,
della Gaudium et spes, in materia di
uguaglianza: “Ogni genere di
discriminazione nei diritti fondamentali della persona […] in ragione di sesso, della stirpe, del
colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato
ed eliminato, come contrario al disegno di Dio”.
Vi sarò grato se mi farete
conoscere il risultato della vostra ricerca.
Intanto ricordo che il 12 marzo
del 2000, durante il Grande Giubileo
dell’anno 2000, il papa Giovanni Paolo 2° presiedette una solenne liturgia
penitenziale denominata Preghiera
universale – Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che comprese
la seguente parte:
[…]
VI. CONFESSIONE DEI PECCATI CHE HANNO FERITO
LA DIGNITÀ DELLA DONNA E L'UNITÀ DEL GENERE UMANO
Un Rappresentante
della Curia Romana:
Preghiamo per
tutti quelli che sono stati offesi
nella loro dignità umana e i cui diritti sono stati conculcati;
preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate,
e riconosciamo le forme di acquiescenza
di cui anche cristiani si sono resi colpevoli.
Preghiera
in silenzio.
II Santo
Padre:
Signore Dio,
nostro Padre,
tu hai creato l'essere umano, l'uomo e la donna,
a tua immagine e somiglianza
e hai voluto la diversità dei popoli
nell'unità della famiglia umana;
a volte, tuttavia, l'uguaglianza dei tuoi
figli non è stata riconosciuta,
ed i cristiani si sono resi colpevoli di atteggiamenti
di emarginazione e di esclusione,
acconsentendo a discriminazioni
a motivo della razza e dell'etnia diversa.
Perdonaci e accordaci la grazia di guarire le ferite
ancora presenti nella tua comunità a causa del peccato,
in modo che tutti ci sentiamo tuoi figli.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison; Kyrie, eleison.
Viene
accesa una lampada davanti al Crocifisso.
…
Orazione
conclusiva
Il Santo
Padre:
O Padre
misericordioso,
tuo Figlio Gesù Cristo, giudice dei vivi e dei morti,
nell'umiltà della prima venuta
ha riscattato l'umanità dal peccato
e nel suo glorioso ritorno chiederà conto di ogni colpa:
ai nostri padri, ai nostri fratelli e a noi tuoi servi,
che mossi dallo Spirito Santo
ritorniamo a te pentiti con tutto il cuore,
concedi la tua misericordia e la remissione dei peccati.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
Il Santo
Padre in segno di penitenza e di venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso.
BENEDIZIONE
E INVIO
12 marzo
2000
Il Santo
Padre:
Il Signore sia
con voi.
E con il tuo spirito.
Vi benedica il
Padre che ci ha generati alla vita eterna.
Amen.
Vi benedica il
Cristo che ci ha fatti suoi fratelli.
Amen.
Vi benedica lo
Spirito Santo che dimora nel tempio dei nostri cuori.
Amen.
Vi benedica
Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.
Fratelli e
sorelle,
questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore
e ha voluto purificare la memoria
del cammino dei cristiani nei secoli
susciti in tutta la Chiesa e in ciascuno di noi
un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo:
mai più contraddizioni alla carità
nel servizio della verità,
mai più gesti contro la comunione
della Chiesa,
mai più offese verso qualsiasi
popolo,
mai più ricorsi alla logica della
violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni,
oppressioni,
disprezzo dei poveri e degli ultimi.
E il Signore con la sua grazia
porti a compimento il nostro proposito
e ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Amen.
La
proclamazione dell’uguaglianza universale degli esseri umani è oggi quindi
parte della dottrina sociale della Chiesa, un principio promulgato con la
massima autorità: quella di un Concilio ecumenico e di un papa. Il papa
Giovanni Paolo 2°, con le parole
pronunciate nel 2000 al termine della preghiera universale di confessione delle
colpe e richiesta di perdono ha anche assegnato a tutti noi fedeli, e in particolare
a noi laici che operiamo nel
“temporale”, cioè al di fuori della sfera liturgica di competenza canonica
dell’autorità ecclesiastica e del clero,
un compito molto chiaro, da svolgere con determinazione e senza
cedimenti o arretramenti (“mai più…”), anche in materia di
realizzazione dell’uguaglianza sociale universale.
C’è ancora
molto da fare, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, ideativo.
Ma molto indubbiamente è stato fatto.
Considerate
ad esempio quante volte nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992 –
1997) ricorre il tema dell’uguaglianza. E’ una ricerca che possiamo fare
agevolmente mediante l’indice tematico. Dunque il termine ricorre cinque volte
ai numeri:
n.369:
riguarda l’uguaglianza tra uomo e donna;
n.872: non riguarda l’uguaglianza nella società civile, ma il
contributo all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi alla missione della
Chiesa;
n.1935
(sopra citato)
n.2273:
se ne parla con riguardo ai diritti del nascituro;
n.2377: se ne parla con riferimento alle pratiche di inseminazione e
fecondazione artificiali omologhe.
In sostanza il tema dell’uguaglianza è considerato
nel senso a cui vi si riferiva il citato brano della Gaudium et spes
solo nel n.1935, poche righe.
Molto di più
vi è nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel
giugno 2004, che raccoglie precedenti dichiarazioni del magistero dei pontefici
e dei concili. Si tratta di uno strumento molto utile per avere una visione
d’insieme e coordinata dei temi in esso trattati, tra i quali, appunto, quello
dell’uguaglianza e soprattutto per collegare certe importanti affermazioni alle
fonti da dove derivano.
1965 – 1992
– 1997 – 2000 – 2004: mi pare che si possa rilevare una veloce (tenendo conto
dei tempi occorrenti solitamente nelle cose di religione) evoluzione della
concezione delle relazioni della nostra fede con i temi dell’uguaglianza
sociale e, conseguentemente, della democrazia che anche su di essa di fonda.
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4
La libertà come opportunità
religiosa in democrazia
(1 ottobre 2012)
Il nuovo colosso
Non come lo sfacciato gigante di bronzo della gloria greca,
piantato a soggiogare la terra da un confine all’altro,
qui sulle rive della terra d’Occidente si ergerà
una donna potente con una torcia, la cui fiamma
racchiude il fulmine, e il suo nome è
Madre degli Esuli. Dal faro che ha in mano
lampeggia il benvenuto a genti di tutto il mondo;
gli occhi suoi dolci dominano il ponte sospeso
che unisce due quartieri della città.
“Tenetevi pure, terre antiche,
il vostro fasto leggendario!” ella grida
con labbra silenziose. “Datemi
chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che si
accalcano nell’anelito di libertà,
i miseri rifiuti della vostre popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli
sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò
loro la porta d’oro!”.
Emma Lazarus, 1883 (traduzione mia)
Avvicinandosi dal mare e dal
cielo alla città statunitense di New York, risalta la gigantesca statua eretta
a fino Ottocento alla foce del fiume Hudson per celebrare l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, conosciuta come
la Statua della Libertà: raffigura
una donna coronata che innalza una torcia con il braccio destro e nell’altro
tiene un libro sul quale è incisa la data dell’indipendenza americana dal Regno
Unito, il 4 luglio 1776; ai suoi piedi vi sono catene infrante; è la
raffigurazione della Libertà che illumina il mondo. Sul suo piedistallo sono
incisi gli ultimi versi della poesia Il
nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus, che sopra ho
evidenziato in neretto (l’antico colosso greco menzionato nel primo verso della
lirica era quello, raffigurante il dio
Sole – Helios, eretto nel porto della
città di Rodi nel terzo secolo dell’era antica). Comunemente quel monumento è
ritenuto un simbolo degli Stati Uniti d’America, ed è vero, ma rappresenta
anche qualcosa di molto più profondo: infatti ricorda che la guerra di
indipendenza delle colonie nordamericane combattuta nel Settecento contro i
britannici fu una vera e propria rivoluzione, motivata non solo dalla volontà
dei coloni di comandare a casa propria, ma anche da quella di creare un mondo
nuovo, con altri principi rispetto a quelli che dominavano la monarchia europea
che pretendeva di continuare a dominarli; quel proposito che nella poesia è
espresso con il voler aprire la “porta
d’oro” a quelli che oltremare erano considerati rifiuti umani. La Libertà
simboleggiata in quella statua è quindi quella che è associata alla giustizia
sociale ed è molto di più del solo conquistare il potere di decidere che cosa
fare di sé e delle proprie cose, liberandosi in questo dal giogo altrui; non è
solo la liberazione da una lontana monarchia,
è liberazione dal giogo della
diseguaglianza e della discriminazione sociale e anelito ad un nuovo ordine
sociale, ad una nuova condizione di cittadinanza, per dare a tutti
l’opportunità della ricerca della felicità, poiché
gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti
(così è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana). La Statua
della Libertà e la dichiarazione di
indipendenza che essa celebra manifestano una caratteristica delle democrazie
moderne che spesso non è bene intesa: esse sono fondate sul desiderio della
libertà dall’ingiustizia sociale e sull’affermazione di diritti umani sottratti
all’arbitrio umano, sia esso quello di un monarca come anche quello di una
maggioranza. Essa ha quindi sostanzialmente carattere religioso perché non
dipende dall’osservazione e accettazione di come vanno le cose di solito, e
infatti di solito vanno diversamente, ma da principi proclamati, attuati e
difesi come assoluti: nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense ciò è
detto chiaramente, vi sono infatti menzionati esplicitamente Dio e altri ideali
religiosi.
Quando si dice che il
cristianesimo è all’origine di importanti valori della nostra civiltà questo è vero anche per quanto riguarda le
democrazie contemporanee, anche se non bisogna dimenticare che esse si sono
spesso imposte contro gli insegnamenti e i divieti delle autorità
ecclesiastiche e che ciò risalta particolarmente nel caso della Chiesa
cattolica. Una delle epoche più problematiche sotto questo profilo fu quella
del ventennio fascista italiano. Ma oggi siamo in un’era diversa, qui in Italia
e ce ne dobbiamo rallegrare. Possiamo parlare di democrazia e religione senza
dover superare divieti della autorità
civili e di quelle religiose. Ci può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. E’
stata una faticosa conquista, dalla quale non dobbiamo mai accettare di
recedere. Abbiamo quindi, ai tempi nostri, la possibilità, ma anche il compito
e il dovere, di approfondire il tema dell’influsso che come fedeli cattolici
possiamo esercitare per la crescita della società civile e in particolare per
la piena affermazione di quei diritti inalienabili, di quei valori, che sono all’origine delle
idealità democratiche. L’obiettivo, condivisibile anche con coloro che non
hanno le nostre convinzioni di fede, è quello di realizzare, mediante vite
buone, una società in cui sia veramente bello vivere, in libertà e giustizia.
Ciò è parte cruciale dell’impegno in Azione Cattolica.
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5
L’uguaglianza come pari dignità
sociale è alla base delle democrazie di
popolo contemporanee
(3 ottobre 2012)
Nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004) si legge una
interessante citazione alla nota n.793, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base
della pacifica convivenza sociale:
« “Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione
francese. In fondo sono idee cristiane »
ha affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia
a Le Bourget (1º giugno 1980).
Quelle parole di un papa
colpiscono tenendo conto del carattere marcatamente anticlericale della
Rivoluzione francese del Settecento (1789-1799). E certamente esse non vollero
intendere una giustificazione delle violenze politiche di massa che quei moti
espressero o delle misure restrittive e delle espropriazioni adottate contro la
Chiesa cattolica di allora o degli altri
provvedimenti contro il clero cattolico, ma riconoscere che alcune delle
principali idealità di convivenza sociale manifestate da quei rivoluzionari di
allora corrispondevano anche a principi religiosi cristiani. Naturalmente ai
nostri tempi ci siamo abituati ad una libertà
di espressione del pensiero che nel
Settecento ci sarebbe costata cara. All’epoca non si potevano dedurre liberamente dai principi religiosi certe
conseguenze quanto a riforme sociali.
Quindi dobbiamo capire che certe cose vengono dette talvolta con il senno del poi. E, certo, giudicando con
quel senno del poi, ci possiamo dispiacere che la Chiesa cattolica abbia
espresso non di rado nei secoli passati posizioni arretrate rispetto ad altre
della sua contemporaneità, e lo riconosciamo perché poi ha appunto dichiarato pubblicamente di pentirsene. La
situazione ai nostri giorni è piuttosto cambiata. Mi riferisco ad esempio alla bioetica in cui il pensiero cattolico,
stimolato dal magistero, è all’origine di un importante e fecondo filone
speculativo che ha portato ad approfondire il tema di quando cominci l’umano
che deve essere riconosciuto nella dignità sua propria, o all’etica
dell’economia e dello sviluppo, come quella espressa nell’enciclica pontificia Caritas in veritate (2009), in cui si è presa consapevolezza
dell’esigenza che dall’interdipendenza umana planetaria discenda la necessità
di un nuovo spirito di fraternità globale.
Soffermandoci sul principio di
uguaglianza, è senz’altro vero che esso è alle fondamenta della democrazie
popolari contemporanee, per intenderci quelle basate sul suffragio universale (alle elezioni politiche votano tutti gli
adulti, maschi e femmine, senza distinzione di istruzione, reddito, condizione
sociale o di stirpe) e sui quei principi assoluti, proclamati solennemente
dalla Nazioni Unite nel 1948 nella Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, che si indicano come diritti umani. Il principio di uguaglianza è uno di essi e viene
così enunciato in quella solenne Dichiarazione,
all’art.2:
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e
tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione
alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra
condizione.
2. Nessuna
distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico
o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia
che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione
fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di
sovranità.
Una delle principali eccezioni
al principio di uguaglianza universale è stata storicamente quella della
condizione di schiavitù, superata solo nel corso dell’Ottocento dagli stati
europei ed americani. Dai film western
sappiamo, ad esempio, che una delle motivazioni che furono alla base del
sanguinoso conflitto detto guerra di
secessione (1861-1865) nordamericana
fu la questione dello schiavismo in danno dei deportati dall’Africa. Lo
schiavismo fu istituzione molto antica ed era molto praticato anche ai tempi
delle primitive comunità cristiane, che non vi videro vero motivo di scandalo.
Così, in particolare, per la gran parte della storia della Chiesa cattolica le
autorità ecclesiastiche non vi videro veramente un problema da punto di vista
religioso se praticato da popoli cristiani (al contrario, ad esempio, di quello
praticato dai predoni saraceni che
comportava l’abbandono della pratica religiosa cristiana). Per quanto ho letto,
se ne cominciarono a occupare dal Cinquecento, di fronte alle morie di massa
dei nativi americani costretti in schiavitù dai colonizzatori europei.
Monarchie cattoliche come quella spagnola e portoghese consentirono la
deportazione di massa di schiavi dall’Africa e la riduzione in schiavitù di
masse di nativi americani. I cristiani europei non furono in genere
particolarmente sensibili al tema fino al Settecento, salvo che nel caso di
alcuni spiriti illuminati (anche del clero) e di alcuni filosofi. Lo schiavismo
attuato da cristiani influenzò profondamente il profilo demografico americano,
come si può constatare facilmente in particolare negli Stati Uniti d’America,
nei Caraibi e in Brasile.
L’uguaglianza tra gli esseri
umani non è del resto un dato evidente (un dato è evidente quando esso ci si impone senza che ci si debba ragionare
molto su). La scienza contemporanea ci dice che gli umani condividono tutto il
profilo genetico, tranne però una piccolissima parte che denota importanti
caratteristiche etniche, familiari e individuali. E certe comuni
caratteristiche fisiche e mentali degli umani erano già chiare ai popoli
dell’antichità, come anche però le differenze tra le persone e i popoli. E’
insomma da sempre esperienza comune che ognuno di noi nasce e si sviluppa
diverso dall’altro, benché simile
agli altri. Si tratta di differenze di stirpe, ma anche di altre particolarità individuali nella costituzione
fisica e di caratteristiche psichiche, come quelle relative alla struttura e
all’orientamento sessuali, alle quali si aggiungono differenze derivate dalla
storia individuale e sociale della persona. In definitiva si può dire che l’uguaglianza non è in natura, questo
sicuramente è evidente, mentre certamente gli umani si assomigliano
gli uni gli altri, anche questo è evidente,
e inoltre che gli umani sono viventi sociali che hanno bisogno gli uni degli altri e quindi si sono reciprocamente
complementari e cercano di organizzare le loro società in modo da sfruttare al
meglio questa loro qualità. Nel mondo di oggi, molto complesso e molto più
abitato da esseri umani che nelle epoche passate, riteniamo generalmente che a
questo fine si debba promuovere l’uguaglianza universale tra gli esseri umani per realizzare società in cui le
opportunità di cooperazione pacifica siano potenziate al massimo. Ci figuriamo
infatti che un conflitto su scala mondiale, data la profonda interdipendenza della
società umane e la potenza degli strumenti di distruzione a disposizione,
porterebbe a una catastrofe che metterebbe addirittura in pericolo la
sopravvivenza dell’intera specie umana sulla Terra.
Faccio un esempio tratto dalla
vita quotidiana di oggi: il mio IPAD è stato ideato negli Stati Uniti
d’America, prodotto nella Repubblica popolare di Cina (lo stato che domina
nella Cina continentale) e venduto in Italia: che succederebbe se scoppiasse un
conflitto tra americani e cinesi motivato dall’annosa rivendicazione di
sovranità dei cinesi sull’isola-stato di Taiwan? Naturalmente possiamo fare un
esercizio simile di previsione anche con riferimento ad altri prodotti di cui
non potremmo fare facilmente a meno, mentre tutto sommato all’IPAD si potrebbe
rinunciare.
In che cosa quindi siamo uguali e, innanzi tutto, da dove deriviamo questa pretesa di uguaglianza?
In realtà quella all’uguaglianza
tra gli esseri umani è un’aspirazione e un obiettivo, non (ancora) una realtà, né in natura né nelle
società umane, e si fonda sull’idea che essi abbiano pari dignità, vale a dire
che a tutti loro vadano riconosciuti nella
stessa misura alcuni diritti umani
fondamentali. Questa idea, per quanto ho capito, è di origine
specificamente cristiana.
Si legge nel Compendio della dottrina sociale della
Chiesa, al n.144:
144 « Dio non fa preferenze di persone » (At 10,34; cfr.
Rm 2,11; Gal 2,6; Ef 6,9), poiché tutti gli uomini hanno
la stessa dignità di creature a Sua
immagine e somiglianza.
L'Incarnazione del
Figlio di Dio manifesta l'uguaglianza di tutte le persone quanto a dignità: «
Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né
donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28; cfr. Rm
10,12; 1 Cor 12,13; Col 3,11).
Poiché sul volto di
ogni uomo risplende qualcosa della gloria di Dio, la dignità di ogni uomo
davanti a Dio sta a fondamento della dignità dell'uomo davanti agli altri
uomini.
Questo è, inoltre, il fondamento ultimo della radicale uguaglianza e fraternità
fra gli uomini, indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine,
cultura, classe.
Quindi: in primo luogo viene in rilievo
l’essere stati tutti creati da Dio, che ci si è manifestato come Padre, e
in secondo luogo la fraternità comune in
Cristo. E, quanto alla condizione di creature, c’è un altro elemento
importante: la convinzione di essere stati creati da Dio a sua immagine, a sua somiglianza (Genesi 1,26).
Riconoscere la pari dignità degli
umani è quindi, nella concezione cristiana, materia di un dovere religioso,
anche se nella storia cristiana sono state riconosciute lecite molte
distinzioni ulteriori, ad esempio quella fra uomo e donna, che sono state poste
alla base di vere e proprie discriminazioni.
Quello che viene espresso nella terminologia biblica, può anche essere detto
così: tutti gli esseri umani devono essere considerati uguali nei
diritti fondamentali. In un caso come nell’altro, sia che la si esprima in
termini religiosi che con altri termini, a questa realtà si crede in modo
religioso, vale a dire a prescindere da quello che si ricava dall’osservazione
delle cose come vanno di solito e, in particolare, della natura, in cui, come ho detto,
l’uguaglianza non esiste e la regola fondamentale è pesce grosso mangia pesce piccolo e sopravvive il più adatto alla
condizioni ambientali e biologiche. Insomma per uno spirito religioso
cristiano l’affermazione della pari dignità creaturale degli esseri umani e
tutto ciò che se ne fa conseguire non è un problema, mentre chi vuol far
discendere quel principio dalla semplice natura,
vale a dire dal nostro essere viventi prodotto della natura, deve affrontare un’insufficienza nel fondamento di quella
pretesa.
Gli illuminati artefici della rivoluzione
nordamericana (1776) della fine del Settecento non trovarono infatti alcun
ostacolo nel proclamare:
We hold these truths to be self-evident, that all men are created
equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable
Rights, that among these are Life, Liberty and the
pursuit of Happiness.
(trad.mia: Crediamo fermamente nell’evidenza di queste verità: che
tutti gli esseri umani sono creati uguali, provvisti dal loro Creatore di alcuni Diritti
inalienabili, e tra essi il diritto alla Vita, alla Libertà
e alla ricerca della Felicità.)
La lotta contro le discriminazioni tra gli
esseri umani nei loro diritti umani è
alla base di molte delle costituzioni delle entità politiche contemporanee, in
particolare di quelle europee e americane e di quelle che a queste ultime si
sono ispirate. L’Unione Europea è tra quelle entità. Bisogna riconoscere che
questa è una materia in cui ci sono state alcune prese di posizione divergenti
tra le autorità civili e quelle religiose. A volte l’affermazione dei diritti
umani è stata considerata antireligiosa. In campo civile si è presa ad esempio
coscienza di forme di discriminazione che la dottrina religiosa non riconosce
come tali. Segnalo solo un problema che è, come si dice, di stringente
attualità. Una di quelle questioni è venuta in rilievo nell’ultima riunione del
nostro gruppo e riguarda la disciplina giuridica delle unioni delle persone
omosessuali. Su di essa ai laici cattolici è lasciata poca autonomia, perché
rientra in quelle riguardanti i valori
non negoziabili, sui quali l’autorità ecclesiastica, con vincolo di
obbedienza canonica, chiede che si segua la sua linea. Ma comunque bisogna
ragionarci su, perché come fedeli laici dobbiamo pur sempre rendere ragione al mondo della nostra
fede e a questo fine non è sufficiente l’argomento “ci è stato ordinato di pensare e di fare così”. Si tratta del resto
di problemi che rilevano ancor più in
materia di fede per la base in fondo religiosa del diritto umanitario.
Nel campo dei diritti umani, le tematiche religiose, e in particolare quelle
cristiane, stanno avendo, un po’ inaspettatamente, una particolare rilevanza
nello sviluppo dell’organizzazione delle società civili più avanzate, in
particolare in Europa. E’ un settore in cui sono chiamati a operare innanzitutto i fedeli laici,
impegnati a spendersi in quello che nel gergo ecclesiale è definita l’animazione del temporale. E’ questo, dall’inizio, uno degli ambiti
spazio in cui l’Azione Cattolica ha deciso di lavorare prioritariamente.
Infondere nelle società civili i valori,
che sono alla base del diritto umanitario, è infatti necessariamente un compito
collettivo, da affrontare insieme,
dopo essersi preparati insieme. Così
anche è da affrontare insieme il
dialogo con altre componenti della società per individuare nelle condizioni
contemporanee altri fattori, oltre a quelli storicamente già noti, che
ostacolino la piena espansione universale della dignità degli esseri umani.
Per molti versi tuttavia in molte realtà
locali il discorso di Azione Cattolica è da riavviare o anche solo da ravvivare, perché nei decenni passati ci si è spesso concentrati su altre tematiche
e altri modi di impegno religioso e si è quindi un po’ perso il senso del
nostro impegno nella Chiesa e nella società civile. Veniamo da lontano, ma qualche
volta appariamo alla gente come un’esperienza nuova, non esattamente in linea
con le altre esperienze di collettività presenti nella vita delle parrocchie.
Ad esempio può apparire che, dove altri mettono l’accento su una disciplina
individuale, noi puntiamo molto sulla libertà delle persone nelle nostre
dinamiche associative, in particolare su quella di pensiero e di espressione.
Eppure la nostra rimane una esperienza di carattere religioso, in cui si vuole
quindi rimanere legati alla fede comune, anche se effettivamente si punta a
scoprire/riscoprire/sperimentare la nostra fede anche come strada verso la libertà, secondo l’espressione di Paolo Giuntella
che ho citato nel post del 1 ottobre
scorso.
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6
Un appello per ripartire
insieme
(4 ottobre 2012)
Negli ultimi giorni ho
pubblicato alcuni contenuti in cui ho parlato degli obiettivi peculiari
dell’Azione Cattolica nella società civile democratica di oggi. Può sembrare
una cosa un po’ troppo grande per una realtà parrocchiale come la nostra. E per
le nostre forze in concreto. Per certi versi noi dell’A.C. in San Clemente Papa
siamo un piccolo resto, se ci
paragoniamo a come era anni fa il nostro gruppo. Non abbiamo più una nostra
stanza in parrocchia, di volta in volta ce ne assegnano una. Il nostro
assistente ecclesiastico si trova a volte a parlare a poche persone e può
domandarsi se, in fondo, ne valga ancora la pena. Avere una grande storia non
potrà salvarci a lungo dall’estinzione se
il gruppo non si rivitalizzerà con l’ingresso di nuovi soci, in
particolare di soci più giovani. E’ paradossale che questo accada in un mondo
che ha tanto bisogno di ciò che la Chiesa si propone di dare e in un Chiesa che
vuole essere tanto presente nel mondo, in particolare confrontandosi con le
democrazie europee e l’Unione Europea sul terreno dei valori. Questo è appunto da sempre il campo specifico dell’Azione
Cattolica, l’azione nella società civile
per promuovere in essa i valori
religiosi.
E’ possibile che non si abbia
ben chiaro, pensando ad un impegno in Azione Cattolica, che cosa si fa nei nostri gruppi e soprattutto quali risultati si
riescano effettivamente ad ottenere. Bene, innanzi tutto occorre distaccarsi da
una mentalità per così dire aziendalistica,
per la quale si somma nei risultati positivi solo tutto quello che si fa sotto
il marchio associativo. Noi riuniamo gente che già opera nella società
nei vari ambiti in cui si può farlo: la famiglia, il lavoro, lo sport, la
cultura e via dicendo. Non dobbiamo inventarci cose nuove da fare lì come Azione
Cattolica. Però formandoci e riflettendo in Azione Cattolica, in un gruppo che
è federato in un’organizzazione che ne condivide le idealità, gli obiettivi e
il metodo, possiamo manifestare meglio nel posto che occupiamo nella società il
nostro essere cristiani e i nostri valori, dialogando con altri sui temi e
i problemi emergenti. Per questo occorre
una preparazione, sia spirituale che culturale, e una determinazione che
scaturisce da una adesione consapevole e convinta ai valori di fede. Non è un lavoro che
troviamo già fatto, come se, per ogni situazione, la nostra Chiesa, il
magistero in particolare, potesse fornirci una sorta di manuale operativo o di
catechismo, e poi a noi spettasse solo di attuare cose decise da altri. Forse,
al di fuori del mondo ecclesiale, si pensa che tra noi cattolici vada così, che
insomma si faccia quello che in dettaglio viene stabilito più in alto nella
scala gerarchica, dal Papa in giù. E’ il pregiudizio che, da cattolico, dovette
superare John Kennedy assumendo la presidenza degli Stati Uniti d’America. In
realtà ognuno di noi porta effettivamente la personale e diretta responsabilità
della porzione di mondo che è sotto la sua sfera di influenza e le soluzioni
vanno ideate e sperimentate di volta in volta, dialogando nella Chiesa e nella
società. Se oggi si dispera di poter cambiare le cose che non vanno a partire
dal basso è perché è un po’ svanito il senso democratico, che comunque pervade
sempre la nostra società, per il quale si è capaci di individuare e capire la dinamica
dei grandi numeri, delle masse, dietro certi cambiamenti storici. Di
convincersi che in democrazia si cambiano effettivamente le cose a partire
dagli sforzi delle persone nella loro particolare, apparentemente umile e insignificante,
storia. Una parte del lavoro che si deve
fare in Azione Cattolica consiste proprio in questo: nel comprendere meglio
quello che l’azione collettiva democratica ha fatto, sta facendo e può ancora
fare per il bene di tutti, per cambiare il mondo. Democrazia è agire in una
collettività rispettando la personalità e i valori degli altri, con la fiducia
di poter cambiare in meglio la società: l’Azione Cattolica concepisce sé stessa
anche come una palestra di democrazia (Atto
normativo Diocesano di Roma). La fiducia nelle potenzialità dell’agire in
democrazia si acquista lavorando insieme ad altri, in un gruppo aperto alla
società, partecipando ad un’azione collettiva spinta da alte idealità, quali
sono quelle religiose.
La parrocchia è la casa di
tutti e tutti possono trovarvi la loro casa, il tipo di impegno adatto a loro.
L’Azione Cattolica è una stanza di quella casa di tutti, anch’essa quindi è di tutti e per tutti. E tuttavia il
lavoro in un gruppo di Azione Cattolica può non venire incontro alle esigenze
di tutti, perché in primo luogo esso non è volto tanto ad operare per coloro
che ne fanno parte, a risanarli e sorreggerli nella loro psicologia e nella
loro fede, ma per gli altri che non ne
fanno parte, la società intorno, e poi perché non è centrato tanto su ciò che
si fa nel gruppo ma su ciò che si
deve fare fuori di esso, non però
come specifica collettività religiosa, come ditta
ecclesiale, ma come parti della società civile. E l’azione che si cerca di
svolgere nella società è innanzi tutto diretta alla promozione di valori, la specifica forma di apostolato che compete ai laici, non
tanto a suscitare nuove adesioni al gruppo, all’espansione della nostra
particolare realtà associativa. La particolarità della nostra esperienza
associativa sta proprio nell’apertura
alla società civile, non in un modo particolare di vivere la nostra fede inteso
come spiritualità e disciplina individuale o di gruppo, dal momento che esso
non differisce da quello comune della parrocchia. Mi pare di aver capito quindi
che per associarsi in Azione Cattolica occorra: 1)aver già maturato una fede
salda; 2)avere già una formazione catechistica di base; 3) avere un interesse
alla vita della Chiesa, in particolare alla la missione che in essa e fuori di
essa specificamente compete ai laici;
4)avere interesse ad approfondire i temi proposti ai laici dal magistero, per
quella specifica missione dei laici; 5) avere interesse per le dinamiche
sociali contemporanee ed essere inseriti nella vita della società civile, negli
ambiti propri dei laici (famiglia, lavoro, cultura, sport ecc.), in posizioni
in cui si può concretamente influire su di essa. Per tutto ciò che non è di
interesse specifico di un gruppo di Azione Cattolica la parrocchia offre altre
forme di impegno sociale (ad esempio: catechesi per le varie età della vita,
azione caritativa, socialità per il tempo libero, sostegno alla fede e via
dicendo): l’associazione in Azione Cattolica non è esclusiva e non è totalitaria.
Voglio concludere osservando questo: per
quanto riguarda le fasce d’età 30/50 anni il nostro gruppo deve ripartire in
pratica dall’inizio, si tratta di ripensarlo da capo. Ad esempio, partecipare
ad una riunione con inizio alle ore 17:00 può essere difficile per persone di
quell’età (io ho 55 anni e trovo difficoltà; la mia prole a quell’ora è quasi
sempre impegnata all’università). Ma si possono escogitare alternative.
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7
Le ragioni di un lavoro insieme
(5 ottobre 2012)
Nei giorni scorsi ho scritto
sull’esperienza associativa in gruppo di Azione Cattolica. E certo ci si
possono immaginare dei risultati. Ma non vorrei dare per scontato che si abbia
chiaro perché, in definitiva, ci si debba unire per ottenerli. Qual è il
movente interiore per fare questo? Non posso vivere la mia fede
nell’interiorità nella relazione che ho saputo costruire con il soprannaturale,
secondo la mia personale concezione? Anche così poi posso manifestare con la
mia vita la fede nell’ambiente in cui vivo e opero.
Da universitario ho partecipato
alle settimane di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli universitari
cattolici – svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre monastero di
monaci di una congregazione appartenente alla famiglia benedettina. Lì c’erano
alcuni monaci che conducevano vita eremitica da decenni, vivevano da soli nelle
loro casette in cima a un monte e si ritrovavano insieme di quando in quando di
giorno e nella notte solo per la vita liturgica. Erano persone di fede,
indubbiamente, e vivevano la loro religiosità in quel modo. Bisogna dire però
che si sentivano e volevano essere in unione spirituale con la Chiesa e
l’intera umanità. Il loro isolamento era quindi solo esteriore.
La fede cristiana in realtà ci
spinge gli uni verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente negli
scritti del Nuovo Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho
utilizzato nelle vacanze per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8) ho trovato questa citazione da un’opera di San
Basilio, una preghiera:
…noi
tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice, unisci fra noi nella
comunione dell’unico Spirito Santo”.
Essa richiama le parole di S.
Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):
Vi è
un solo pane e quindi formiamo un solo corpo, anche se siamo molti, perché
tutti insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess. Elle Di Ci / Alleanza Biblica interconfes. 1976).
In parrocchia, prima della
Comunione, recitiamo una preghiera formulata su quelle parole:
Poiché c’è un solo pane per noi tutti, uno
solo è il corpo formato da noi che partecipiamo
al pane unico.
Insomma, mi pare di aver capito
che questa spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e non sia
qualcosa di accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che per
temperamento non sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito
arricchito dalle esperienze di fede vissute con gli altri.
In un libro dello psicoterapeuta
Bruno Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa osservazione che ho
sentito convalidare la mia esperienza di vita:
La
vita interiore, e con essa la personalità, non si sviluppa allo scopo di
ottenere una sempre maggiore ricchezza di sensazioni e di esperienze interne,
ma sostanzialmente per un’altra ragione: per entrare in rapporto con il mondo
esterno nella speranza di poter agire su di esso. Se la personalità non arriva
a questo, non vi è alcuna ragione di sviluppare le strutture interne.
Esattamente come il linguaggio si sviluppa solo se desideriamo comunicare con
qualcuno o comprendere quello che egli ci dice, così la personalità si
struttura solo se desideriamo fare qualcosa a un’altra persona o con essa o per essa.
[da Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti editore spa, 1976, pag.64].
Gli studi scientifici di
Bettelheim, in particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente ritenuti
superati da più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza umana,
prima di recluso in un campo di
concentramento nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini
autistici, rimane importante e, per
molti aspetti della vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro di noi e ciò che si muove e che facciamo fuori di noi c’è un continuo e vitale
rimando.
Ma, come ho osservato prima, non
è detto che questo movimento verso gli altri si debba esprimere necessariamente
nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una fraternità. Esso può
manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in qualche modo debba
essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità eremitiche di cui ho
detto.
Molte volte una fede religiosa è
produttiva e non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana stimola poi
alla generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere qualcosa in
sé che può essere non scambiato ma dato gratuitamente ad altri.
A volte si concepisce, un po’
superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni spirituali, uno “ci
entra” (nella Chiesa intesa come popolo)
o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio)
e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di scambio: vado a Messa e
deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che gira al tempo
dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.
Ecco, riunendoci insieme
potremmo ad esempio riflettere se quell’impressione sia corretta e completa.
Non credete che ci sia ancora qualcosa da imparare?
Anticipo la mia opinione.
Nell’esperienza religiosa siamo tutti noi, gente di fede, dispensatori,
perché è come se quello che ci arriva
poi rifluisca intorno e verso gli altri, al modo di un irraggiamento.
Quindi nella Chiesa non si va solo per
ricevere, ma anche per dare, per portare qualcosa, che è importante per gli
altri e li conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe dire meglio. Chi
vuole può approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia può farlo. Ci sono
i sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo anche una biblioteca
piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18). Ne può discutere
anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto dal prezioso
apporto dell’assistente ecclesiastico.
Nell’Azione Cattolica, che è
un’associazione che si propone di
diffondere e promuovere valori
cristiani nella società civile, è importante l’esperienza di vita degli
aderenti. E’ questo il materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si
aderisce infatti per ricevere dall’alto le soluzioni ai vari problemi e
direttive su che cosa fare fuori, o peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che
è male, come se ci fossero “istruzioni” precise per ogni situazione, ma per
riflettere insieme, alla luce della comune esperienza civile e religiosa, su ciò che accade e per illuminare vie
praticabili, che poi ognuno proverà a percorrere lì dove concretamente opera,
tornando a riferire ciò che gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia
che ho trascritto in uno dei passati post,
padre David Turoldo scrisse:
Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
Effettivamente il futuro è nostra particolare
e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di esploratori.
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8
Azione Cattolica: un’esperienza
di Chiesa
(7 ottobre 2012)
Non sono di quelli che, educati
nella fede cattolica, poi l’hanno abbandonata o addirittura rinnegata e vi si
sono riavvicinati da adulti o, comunque, crescendo. Con questo non voglio dire
di essere stato una persona esemplare secondo le esigenze etiche della mia
religione. Del resto nessuno si è mai aspettato nulla di simile da me, anche se
sempre mi è stato additato l’obiettivo della santità. Fin da molto piccolo mi è
stato detto che il male nella vita c’è e che ne sarei stato responsabile
anch’io, per cui mi è stato insegnato a individuarlo, a pentirmene e a cercare sempre,
pervicacemente, di cambiare. E’ ciò che
ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella Chiesa come essi me la
presentavano, convinta, sulla parola del suo primo maestro, che il male nel
mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui io ero stato artefice.
Così la mia vita di fede in religione è stata improntata a una certa serenità.
E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la mia esperienza religiosa
di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di mezz’età. Se riprendo in
mano il libretto del catechismo della mia Prima Comunione, che feci in quarta
elementare qui nella nostra parrocchia di San Clemente Papa, e lo leggo oggi da
cinquantenne posso concludere
serenamente con un amen, condivido
ancora tutto quello che c’è scritto. Mi
è sempre venuto naturale essere una persona di fede, non vi ho trovato
alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare particolari sforzi. In questo
penso che la mia vita si differenzi un po’ da altre di cui ho saputo. Ci sono
persone che sono molto più meritevoli di me sotto questo profilo, per aver
dovuto faticare e soffrire molto per giungere dove io sono sempre
tranquillamente rimasto. Quello che ho detto vale anche per la mia esperienza
di Chiesa. L’ho considerata sempre la mia casa, la mia famiglia, dovunque sono
stato. Anche nei periodi della mia vita in cui l’ho frequentata di meno, essa
rimaneva dentro di me, perché non ho mai avuto il dubbio di non farne più
parte. Sono stato scout, fucino, aderente ai Laureati Cattolici – MEIC e all’Azione
Cattolica (della quale FUCI e MEIC un tempo facevano parte), ho partecipato a
diversi gruppi di ispirazione religiosa, parrocchiali e non, e mi è
sempre parso di muovermi da una stanza all’altra delle medesima casa. Ricordo
che una volta, da scout (facevo le medie), condussi la mia squadriglia a
Sulmona, secondo la missione che avevo ricevuto durante un campo estivo sui
monti d’Abruzzo, e chiesi ospitalità al parroco di una chiesa vicina al centro:
lui ci fece dormire, con i nostri sacchi a pelo, nel museo della parrocchia,
che conteneva tante cose preziose; mi diede la chiave e mi disse che sarebbe
ripassato il giorno dopo. Io mi meravigliai di quella fiducia, concessa a
ragazzini che non aveva mai visto prima, e, riflettendoci su nel corso di quella
notte, conclusi che lo aveva fatto perché noi lì eravamo di casa, eravamo
infatti Chiesa, e le nostre divise da scout glielo avevano confermato, è come
se lo avessimo scritto in fronte, come si legge nell’Apocalisse dei giusti.
Il lavoro che si fa nella
società come Azione Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi
confrontarsi sulle nostre esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della
fede comune su di essa.
Ricordo ancora quando, da
bambino, il parroco mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa” (edificio)
e “Chiesa” (gente). Con il Battesimo ero entrato a far parte della Chiesa ed era per questo che
venivo in chiesa. Ne rimasi molto
colpito e per un certo tempo lo andai ripetendo in giro, ai miei coetanei. Poi,
crescendo, ho scoperto che il discorso sulla Chiesa è molto, molto più
complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via della Conciliazione, notai
un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie” (le concezioni sulla Chiesa),
lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e scoprii che in giro, sia nella
nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane, c’erano tante idee di Chiesa.
A parte questo, ci sono le varie esperienze individuali e collettive che uno fa
della Chiesa durante la propria vita, che influiscono sul modo di condursi fuori della Chiesa.
Se, ad esempio, una persona
pensa di trovarsi in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi eroici
difensori, un po’ come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo presidio
di secessionisti nordamericani tentò invano di resistere all’attacco
dell’esercito messicano mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà
portata a diffidare di tutto ciò che gli viene dall’esterno e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando
solo quello che gli viene di dentro,
dal proprio gruppo, dal proprio ambiente abituale, costruendo in tal modo una sorta di città di Dio opposta alla città
del diavolo, quella di fuori. Ci
si muove un po’ in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla città di Dio) di S. Agostino di
Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta in un tempo in cui l’ordinamento
dell’Impero romano era travolto dalle invasioni di popolazioni del nord Europa.
Sulla dottrina della fede in
merito alla Chiesa ci sono diversi testi fondamentali del magistero mediante i
quali ci si può informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), che potete leggere sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Avverto che, trattandosi di un
documento normativo, esso è scritto nel linguaggio e con il metodo della
teologia, che potrebbe essere un po’ ostico ai non iniziati.
Della Chiesa si tratta anche, in
termini più accessibili, nel Catechismo della Chiesa cattolica (Parte prima,
Sezione seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a 975). Lo trovate sul
WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM
Se ne tratta in modo più
semplice nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte prima,
Sezione seconda, capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate sul WEB
all’indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html
Leggendo le prime due opere,
potrete constatare che nella nostra
Chiesa, quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la
storia bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da
cui si ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai
da zero e si cerca di tenere tutto insieme.
Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di
meno, ma ci sono.
Storicamente l’Azione Cattolica ha ritenuto di potersi confrontare positivamente
con la società in cui la Chiesa italiana vive: il suo moto fondamentale è stato
quindi, ed è ancora, quello dell’apertura, non dell’opposizione, e questo
naturalmente non significa accettare tutto ciò che gira nel mondo di fuori, ma pensare che certe idee
sulla società che hanno un fondamento religioso possono (ancora) essere diffuse
utilizzando il metodo e i principi della democrazia, sui quali l’ordinamento
della nostra società si basa, e che ciò che si agita nel mondo abbia anche un
significato religioso. Viene in Azione Cattolica chi non pensa di essere nella
condizione di Fort Alamo. L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo
periodo di pace, dopo la serie storica interminabile dei conflitti armati tra i
suoi popoli, e mira ancora alla pace si
fonda su idee cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di
ricordarcelo. Spinti dal magistero, in
Azione Cattolica cerchiamo di agire
di conseguenza.
Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza
Continuo le mie riflessioni
sulla base del libretto di Giuseppe
Dossetti Eucaristia e città, Editrica
A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo ragionevolmente
confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che
possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il progredire dei
tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile
che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene
consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra
speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare
al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità
pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro
atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe
essere più che altro quello di una pervicace
e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va
piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del
teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare
tutto il suo presente ed avere
gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive
nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli
insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che
pure sa essere sempre minacciati e
caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla
fine della storia.
Proporre alla gente intorno a
noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene
all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di
puntare a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità
e convinzioni. In quest’ottica il profano,
ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una
valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di
rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.
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9
Noi cattolici: cittadini o
stranieri nella società in cui viviamo?
(8 ottobre 2012)
L’Azione Cattolica non avrebbe
senso in una società in cui non fosse consentita, in qualche forma, la partecipazione
della gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più buio della sua
storia, quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò un’altra cosa.
Nel 1931 le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che costituivano il
braccio operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la presa di distanza
dei cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione della legislazione
discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa può essere
considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono diverse eccezioni
(ad esempio la FUCI e Movimento Laureati
di Azione Cattolica), una delle
organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime fascista, il quale
con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un accomodamento con i vertici
ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani furono effettivamente,
nella grande maggioranza, fascisti.
Riprendo a questo punto alcune
delle riflessioni esposte nel libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e città,
A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento pubblico di Dossetti
del 1987).
Nella Bibbia c’è un certa
diffidenza per le città e per gli ordinamenti politici, specialmente quelli che
riunivano molti popoli diversi. La concezione ebraica di città era molto distante
da quella greca, che impronta gli ordinamenti politici democratici
contemporanei. Nella prima la città era essenzialmente un insediamento chiuso, protetto da alte mura, in
funzione difensiva. Per i greci era principalmente il luogo in cui si svolgeva
la cittadinanza comune, la partecipazione al governo, quindi la politica (dal termine greco pòlis, che significa città). Per certi versi la città, nella
concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di violenza e di
presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero vita
travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si mostrò
infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto (ne
abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione lo
spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai
centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata
nella prospettiva evangelica. Il regno a cui tendono i discepoli cristiani non è di
questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano
addirittura come stranieri. Sono
infatti portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti
sociali e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a
loro è dovuto (a Cesare quel che è di
Cesare), ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre
obbedire. Loro compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il
perdono dei peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità
cristiane, un ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta
qualche affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne
concepito come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse
17,6 e 18,2).
Scrive Dossetti, nell’opera
citata (pag.45-46):
Per il
regno di Dio e per la città di Dio va
ancora fatta una precisazione a scanso di equivoci.
Il regno di Dio è
Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si prepara o si
affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente
predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a
noi senza di noi. Il pensare che noi possiamo attirarcelo e appropriarcelo è “stoltezza umana,
presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.
All’uomo compete solo
la fedeltà alla Parola, l’annunzio di essa, la pazienza longanime che non spegne lo Spirito credendo di
accelerarne le operazioni, la ferma fede che il grano del Regno “cresce da solo” (in greco: automàte) (Vangelo
secondo Marco 4,26- 29). Anche
perché il Regno verrà, per un decreto
del Padre in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato alla sua
potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, in “ictu oculi” (Prima lettera ai Corinzi 15,52).
Un famoso passo della Lettera a Diogneto, scritto cristiano
che si fa risalire al 2° o 3° secolo della nostra era, è questo:
[I cristiani] Abitano ciascuno la propria patria, ma come
residenti stranieri; a tutto partecipano
attivamente come cittadini e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e
ogni patria è terra straniera.
[… ]
Passano la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo.
Obbediscono alle leggi stabilite, eppure con la loro vita
superano le leggi.
Insomma, concluderei che in
religione non siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle
nostre costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non
sarà dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo
che riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere
seguito da un regresso.
Ma direi anche di più. Nella
Bibbia c’è sicuramente il fondamento del concetto di dignità dell’uomo dal quale oggi ricaviamo la convinzione giuridica
e politica in certi diritti umani inalienabili, che sono la base delle
democrazie contemporanee, ma la
democrazia non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun
problema nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha
avuto alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi,
nel passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso
naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata
elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che
volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si
dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in
queste che sono delle specie di note operative
per la nostra situazione concreta di oggi
quel discorso non serve.
Io sto prendendo coscienza di
questo: la situazione in cui ci troviamo nell’Europa democratica di oggi non ha
precedenti storici, è qualcosa di totalmente inedito. E bisogna dire che questa
realtà veramente nuova è stata costruita con l’apporto fondamentale del
pensiero di cristiani sulla democrazia e della loro azione politica, di governo
delle società.
Noi, ad esempio, diamo per
scontato che questo lunghissimo periodo di pace, che in Europa si protrae ormai
dal 1945, rientri nella normalità. Ma non è così. Tanto che, quando frequentai
le elementari, nella scuola di piazza Capri, il nostro maestro era solito dirci
che dopo qualche anno saremmo diventati uomini, saremmo andati in guerra, e più
o meno la metà di noi vi sarebbe morta. Le cose, diceva, erano sempre andate
così, una guerra più o meno ogni quindici o vent’anni (e allora si era negli
anni ’63-’67). Poi non andò così. L’ultima grande frontiera, edificata tra Est
e Ovest Europa dopo la Seconda guerra mondiale, è caduta nel 1991, senza la
catastrofe che per tanto tempo si era temuta.
Aver realizzato, in democrazia,
una potenza di pace sugli antichi, immensi, campi di battaglia ha un
significato per la nostra vita in religione?
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10
Europa, pace, diritti umani. E
noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.
(13 ottobre 2012)
Non mi pare che finora abbia
fatto molta impressione il premio Nobel per la pace dato all’Unione Europea, vale a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La nuova Europa è infatti
innanzi tutto una realtà di popolo, e
di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è fondata, più che su un
sistema di relazioni intergovernative per lasciare libero passo all’economia
(questa fu sostanzialmente la caratteristica della Comunità Economica Europea),
sulla proclamazione di un sistema di
diritti umani fondamentali (è una delle caratteristiche fondamentali della
nuova organizzazione creata dal Trattato
di Lisbona del 2007, entrato in vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono
stati ideati dai vertici dell’organizzazione europea, ma, prima di essere
formulati in un testo normativo, in quella Carta
dei diritti fondamentale la quale con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è divenuta legge
europea, hanno corrisposto a un’esigenza forte posta dai popoli ora federati
nell’Unione Europea. Su di essa si è fondata la duratura pace continentale e il
processo straordinario di inclusione di nazioni che per millenni si erano
combattute che ha convinto la celebre istituzione svedese a riconoscerne il
merito non a questa o a quella
personalità, ma a tutti noi. “Bravi!”, ci hanno detto, “avete fatto una cosa grande”. E noi? Noi siamo rimasti perplessi, come è
scritto che rimarranno i giusti, quando, alla fine dei tempi e presentatisi per
il giudizio su ciò che sono stati e su ciò che hanno fatto, verrà loro indicata
la porta del Regno beato. Che abbiamo
fatto per meritarci questo apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…
Ad esempio noi cattolici siamo
divenuti più tolleranti verso le altre confessioni cristiane e verso le altre
religioni che sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta di un impegno
attuato solo dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica molto diffusa
tra le nostre genti, forse anche al di là di una chiara consapevolezza delle
questioni implicate. In certi casi, come nei rapporti con l’ebraismo, a
rapporti di aspra conflittualità è subentrata una franca amicizia. E’ uno
sviluppo veramente importante, tenendo conto che la tremenda storia europea è
stata duramente travagliata da guerre e altre stragi a fondamento religioso, in
particolare nello scorso millennio. Abbiamo costruito in tal modo una civiltà
fortemente inclusiva, in cui questo e quello possono trovare la loro patria
indipendentemente dal loro rapporto con il soprannaturale, e infatti il moto
fondamentale che riguarda l’Unione Europea è un afflusso di popoli dall’esterno
verso l’interno, un moto centripeto, tanto che addirittura gli eredi di un
nemico storico come l’Impero Ottomano turco bussano alle nostre porte
nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede islamica; è qualcosa che
richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel brano in cui si
profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno verso una
Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino e umano,
vale a dire di certi principi supremi e realtà
di vita. Questa cosa non c’è mai
stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza. Dispiace che non
sia una cosa cattolica? Oh, ma è
anche una cosa cattolica.
Due giorni fa, con una
fiaccolata, qui a Roma abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano 2°. In quella
occasione, avanzando in processione verso piazza San Pietro ci siamo
manifestati come Chiesa che vuole essere luce
delle genti, secondo l’insegnamento di uno dei documenti conciliari
fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen
Gentium (trad. dal latino: luce delle
genti). Ebbene, convinciamoci che negli anni passati lo siamo veramente
stati, tutti noi. Il papa Giovanni
Paolo 2° volle invitarci a rifletterci su durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000. Considerate come siamo cambiati in
meglio, noi Chiesa, da quando su certe cose andavamo molto per le spicce, come
si suole dire. Ho cinquantacinque anni e non sono un nativo conciliare, vale a dire che ho avuto modo di vivere la
Chiesa di prima, anche se da molto piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio.
E comunque ci si può informare sui libri di storia. Ai nativi conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente
nella nuova era, coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima
sembrano un po’ strani. Non è così?
Ma ci sarà modo di approfondire di più in questo che è stato proclamato,
innanzi tutto come obiettivo del nostro impegno, Anno della fede.
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11
Insieme per agire da gente di
fede
(14 ottobre 2012)
Qualche anno fa partecipai a una
riunione del mio gruppo del MEIC –
Movimento ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella universitaria
dell’Università La Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò dei vari modi
di pensare una dimensione comunitaria della vita di fede e di interventi nella
storia dell’umanità motivati religiosamente e osservò che spesso si erano
scelte delle vie che poi avevano costretto a dire molti “si, però…”, vale a dire a cercare di giustificare in qualche modo
quelle che, con il senno del poi,
venivano individuate come insufficienze in base all’etica religiosa proclamata.
Ad esempio, la cristianità medievale, in cui indubbiamente affondano alcune di
quelle che possiamo considerare come radici
delle società europee di oggi e che talvolta viene considerata un modello
ancora attuale per la sua forte integrazione culturale del cristianesimo,
produsse anche l’Inquisizione e le Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi abbiamo preso le distanze
dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò detto, siamo portati
ad aggiungere si però … l’idea di una società
civile fortemente ispirata alla religione in fondo ci piace e cose simili.
Non ci si poteva pensare un po’ meglio, prima,
per non dover poi essere costretti a
pentirsi? E’ un problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire
nella società in cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di
determinare collettivamente scelte ispirate a certi valori che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe
meglio non agire affatto e limitarsi solo ad attendere con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal
disegno provvidenziale, mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda
edificandoci nelle nostre comunità religiose con salmi, inni e canti
spirituali, secondo le espressioni di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1
Lettera ai Tessalonicesi 5,11)? Tenuto conto di quante sono le cose di cui
abbiamo sentito il bisogno di chiedere collettivamente perdono, da quando ci
siamo consentiti un simile esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.
Riprendo a questo punto a
seguire, in queste riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
collana Le Tessere e il Mosaico,
2011, euro 8,00, pagine 131, con prefazione di Giorgio Campanini.
Il mondo nuovo che
religiosamente attendiamo non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi
la responsabilità. I nostri progetti non possono e non devono estendersi fino
ad esso. Né possiamo immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una
società da noi edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti
(pag.45-46):
Il Regno, giunge a noi, senza di noi.
[…]
,,,il Regno verrà, per un decreto del Pare
in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato alla sua potestà” (Atti
degli apostoli 1, 6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in
ictu oculi [trad.:in un batter
d’occhio – greco: en ripè oftalmù] ” (1
Lettera ai Corinzi 15,52).
Quest’ordine di idee è un bel
sollievo. Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati colpevoli
di non aver saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe approssimazioni,
il Regno, la società perfetta che non ha bisogno di lampade o di sole, “perché il Signore Dio li illuminerà”,
secondo l’emozionante profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3, e anche di
non aver asciugato ogni lacrima dagli
occhi dei sofferenti, e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il
lutto, il pianto e il dolore. Fatemi
sapere se condividete questo discorso.
Ciò posto, se guardiamo all’Unione Europea di oggi, per la quale
inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio
Vaticano 2°, nella quale abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo
stati Luce delle genti, ce ne
compiacciamo, pur pentendoci del male che in esse non siamo riusciti ad evitare
e sentendoci pur sempre impegnati a migliorarci, perché non solo ad esse
apparteniamo, ma anche esse ci appartengono, nel senso che sono un nostro modo
di essere e quindi riflettono coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e
noi, lo sappiamo, non possiamo dirci perfetti,
anche se in qualche modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo e addirittura ci sforziamo, di corrispondere
al disegno che religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in
definitiva, quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non
sono tati accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi
che lo volevamo fare e l’abbiamo fatto.
Sono effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo
e vediamo in esse cose buone ma anche
cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e
zizzania, di Città secondo Dio e di Città
secondo l’avversario di Dio che non è in
fondo in nostro potere sciogliere del tutto.
Ha un significato, per la nostra
fede, l’aver agito e costruito? Dossetti ritiene di poter concludere di sì. Per
amore infatti abbiamo agito. Scrive
(pag.103-104):
Tutto nella via del cristiano agito dallo
Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente sulla
contrapposizione fra “contemplazione” e
“azione” […] “contemplazione” per il senso originario [che aveva nell’antica filosofica greca, in particolare in Plotino (3°
sec.) – nota mia] ,,, non [è] propriamente un concetto cristiano e [continua]
a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della
spiritualità cristiana.
In senso propriamente cristiano tutto è
azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il concetto
abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.
Azione è l’Eucaristia: prima di tutto azione
di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la celebra, del
cristiano che vi partecipa.
Ogni preghiera, se fatta come deve essere
fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.
La lettura, e ancor più la “ruminatio” della
Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.
La malattia che riduce immobile in un letto,
accettata nella fede, è azione […].
La concentrazione dell’anima nel suo oggetto più proprio […] è azione”.
Per Dossetti, si agisce come
risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è una carità verticale, appunto dall’alto, che è “generante e condizionante rispetto ad ogni
altro amore, sia pure il più santo e benefico” (pag.117).
“L’amore rivolto ai fratelli ne sarà un segno
necessario e precipuo: ma derivato…”.
Dossetti segnala l’esistenza di
un paradosso della carità eucaristica,
dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento
religioso:
“L’altissima risposta d’amore trinitario sarà
tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà e
saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà
silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel
grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può
pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che se
ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria
dell’Onnipotente” [Libro della Sapienza 7,25].
Insomma: si agisce, si agisce insieme e si agisce per amore, ma amore di una specie particolare, che è risposta
ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così, non si fa conto del
risultato, che poi si è convinti che verrà in
un battito di ciglia a tempo debito e non per opera nostra: lo scopo
dell’azione è infatti solo quello di diffondere nella società un “effluvio puro della gloria dell’Onnipotente”
(Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997). Questo equivale, detto in
termini profani, a infondere nella società intorno a noi dei valori. Tutto ciò definisce bene il
compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si prepara,
si ragiona, si fa pratica e, infine, ci
si organizza e si va in prima linea,
dove per quei valori si lotta, e
addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario,
nel senso che in esso sono avversati quei valori.
Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di
altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace,
con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione
Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli
specificamente mariani, segno
dell’anelito a valori anche
specificamente nostri, di quelle radici
cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il
richiamo alla corona di dodici stelle della donna
vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene,
l’Unione Europea di oggi ci appare
veramente un segno grandioso, anche
in senso specificamente religioso.
Ho parlato di amore e questo termine, con il quale
traduciamo tutti i termini del greco
neotestamentario con i quali specificamente si descrivono le relazioni tra i
fedeli e tra essi e il mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri
umani e il fondamento soprannaturale,
suona equivoco, e anche un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel
greco del Nuovo Testamento (per quello che ho letto – ma la mia in merito è
solo erudizione di liceale, neanche tanto studioso; non sono uno specialista)
si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di quando si sta insieme per
fare un bel pranzo; il secondo si riferisce all’amicizia, a un rapporto di
reciproca simpatia e di preferenza, il terzo richiama l’idea di quando si
partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario
del greco del Nuovo Testamento non viene riportato il termine èros, che pure rientra nei significati
della nostra parola italiana amore, e
definisce la passione sessuale, quella che trascina emotivamente dalle viscere
e acceca. Penso quindi che questa
metafora non sia stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente
nell’Antico, mentre anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di
molto più complesso, perché è insieme èros
(come base emotiva della predilezione per una persona fisica), agàpe, filìa e coinonìa, oltre a
patto ed alleanza.
Poiché la qualità e la direzione
del nostro agire dipende molto dalle ragioni e del modo del
nostro stare insieme, è interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe
sapere a quali conclusioni siete giunti,
cari lettori; come vi regolate nelle vostre vite.
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12
Costruire nella società per
narrare il fondamento della nostra speranza
(12 ottobre 2012)
Continuo le mie riflessioni
sulla base del libretto di Giuseppe
Dossetti Eucaristia e città, Editrica
A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo ragionevolmente
confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che
possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il progredire dei
tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile
che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene
consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra
speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare
al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità
pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro
atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe
essere più che altro quello di una pervicace
e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va
piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del
teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare
tutto il suo presente ed avere
gioia non solo nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive
nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli
insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei successi, che
pure sa essere sempre minacciati e caduchi,
si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della
storia.
Proporre alla gente intorno a
noi e a noi stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene
all’Azione Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di
puntare a svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità
e convinzioni. In quest’ottica il profano,
ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una
valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di
rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.
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13
Noi: popolo di Dio
(15 ottobre 2012)
Nella riunione di martedì 16
ottobre 2012 ci è stata presentata la costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°.
Si tratta di un atto normativo, di una legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha
bisogno di leggi? Come ogni società di esseri umani, sì. Ma quella costituzione
conciliare è molto più di una legge. E’ l’indicazione di una strada da
prendere. Con autorità siamo stati chiamati a percorrerla, tutti noi che siamo
stati persuasi dalla fede cristiana e quindi confidiamo in Gesù, il
Cristo, affidandoci a lui qui nella vita terrena e oltre, sperando in quella
eterna. Noi siamo convinti di costituire un popolo, il nuovo (rispetto all’antico popolo israelitico) popolo di Dio, non fuso in
unità sulla base di discendenza etnica (secondo
la carne), ma mediante la nostra fede (nello
Spirito).
Riconosciamo nostro capo Cristo,
che riteniamo regni glorioso in cielo, quindi al di sopra di tutto: il suo è un nome al di sopra di ogni altro nome.
Il nuovo popolo:
Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio [noi ci
chiamiamo anche così],nel cuore dei quali
dimora lo Spirito Santo come in un Tempio [Lumen Gentium, cap.2°, n.9],
Nella fede siamo stati come rigenerati dall’alto: La nostra legge
suprema è ora di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium, cap.3°,n.9]. Siamo così
popolo costituito per una comunione di
vita, di carità e di verità [Lumen
Gentium, cap.2°, n.9].
Riteniamo che ci sia stato affidato
un compito, in particolare di essere stati inviati
a tutte le genti del mondo, come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen
Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a
tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].
Bene, ma che cosa c’è di nuovo in questo rispetto alla fede della
Tradizione, dei secoli precedenti? Ci ragioneremo su, in questo Anno della fede. Chi ha fatto esperienza ravvicinata della Chiesa prima
del Concilio Vaticano 2° sa bene che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma,
nella nostra Chiesa, quando si cambia si cerca comunque di tenere tutto insieme, in particolare di collegarsi sempre alle
esperienze delle origini, dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i
documenti ufficiali. Così, leggendoli
superficialmente, si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando
si parla del Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si
presenta come una sorta di svolta rivoluzionaria,
che non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo
vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?
Vi voglio però indicare un segno. Pensateci su. In parrocchia,
davanti all’altare qualche volta ho visto esposta una grande menorah, il candelabro a sette braccia
che è uno dei simboli dell’ebraismo.
Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto
caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici
e forse scomunicati, vale a dire
tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa
del tutto lecita e, anzi, ci edifica.
Insomma, da sempre abbiamo saputo
di essere stati inviati alle genti,
ma dopo il Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con
esse, come collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli
del passato.
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14
Essere popolo unito da una fede
religiosa
(16 ottobre 2012)
Uno dei temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) ha
riscoperto nella dottrina della tradizione potenzialità meno sviluppate nella
storia bimillenaria della Chiesa è quello dell’essere tutti i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da una missione. E, in questo parlare di popolo, hanno influito non poco
concezioni moderne della politica,
intesa come organizzazione della convivenza civile, così come quando in passato
si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad altre concezioni in
merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in quanto tale è anche opera nostra e risente delle
nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da ultimo è sempre
stato ben presente nell’idea che, riflettendosi sistematicamente sopra, si
aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da secoli, quando iniziò il
Concilio Vaticano 2°, nella ideologia
ecclesiale, vale a dire in quella visione
semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita la gente in una
collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si confidava molto negli
effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme realtà umana e soprannaturale
e corpo sociale sottomesso ai Pastori (il Papa
– padre universale e vicario di
Cristo, capo invisibile: viene dal greco pàpas
che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos, che significa sorvegliante), si pensava che essa potesse
sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo e nei vari luoghi in cui
viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio che c’era in un certo
momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre una società perfetta. Ma vi è di più. Una conseguenza che si traeva da
quest’ordine di idee era che la Chiesa, attraverso i propri Pastori, potesse, non solo insegnare con
autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a tutte le altre
organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva. Fin da quando, nel quarto
secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire, dalla clandestinità e
cominciò ad influire con le proprie idee sulle società politiche in cui era
immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con i capi civili, i
quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla Chiesa come essa
doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di compiti e di materie
da trattare tra le organizzazioni politiche civile e l’organizzazione della
Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello
stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La troviamo attuata per la
prima volta nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione nordamericana,
nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti d’America (“nessuna professione di fede religiosa sarà
mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una carica pubblica
degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione federale), benché
i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione
di indipendenza forti idealità religiose cristiane.
Nella storia dell’umanità dalla
fine del Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un mutamento delle
organizzazioni politiche da modelli monarchici, in cui il potere supremo era
attribuito a una persona fisica o ad essa e a suoi stretti parenti, a modelli
più partecipati da altri strati della società civile. Questo moto è all’origine
delle democrazie di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza – intesa come pari dignità sociale – dei cittadini. In
qualche modo esso si è espresso anche nella concezione di Chiesa che è stata
proclamata con autorità durante il Concilio Vaticano 2°, anche se esso non ha
avuto esiti propriamente rivoluzionari, né nelle intenzioni, né nella volontà
espressa, né soprattutto nella pratica ecclesiale postconciliare. Bisogna però osservare che ciò è dipeso anche
dal fatto che la Chiesa ha rinunciato ad una sovranità politica su società
civili, come quello che storicamente era stato attuato nello Stato pontificio,
nell’Italia centrale, con capitale Roma. Sotto questo profilo ebbero effetti
propriamente rivoluzionari la Repubblica romana napoleonica (1798), quella di Mazzini (1949) e la conquista e
soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che l’ordinamento
politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle
occasioni sovvertito, nel primo caso il
Papa regnante fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e
nel terzo dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.
Possiamo misurare la rapida
evoluzione di certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce
autorevoli, datate 1882 la prima e 1965 la seconda:
“[…]Presso
i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e costanti nella
religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà della Chiesa,
di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da tutte le
pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in forza dei
quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini religiosi;
confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le unioni
contratte fuori del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica
dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa
guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa
oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è
stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale,
cadde necessariamente nel potere di altri.
E Roma, la più augusta città del mondo
cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e si vede
profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio dell’eresia.
Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad accogliere i
rappresentanti e i capi della setta più ostile alla religione cattolica, i
quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È abbastanza palese
il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio che
portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al Papato,
sfidandolo nella sua stessa sede. Non è certamente da dubitare che la Chiesa
esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia certo e
manifesto che essi con siffatte arti intendono
colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e distruggere, se
fosse possibile, la religione.[…]
[Dall’enciclica Etsi nos, del papa Leone 13°, del 1882.]
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html
“76. La comunità politica e la Chiesa
È di grande importanza, soprattutto in una società
pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità
politica e la Chiesa e che si faccia una
chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo,
compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza
cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con
i loro pastori.
La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua
competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è
legata ad alcun sistema politico, è
insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona
umana.
La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e
autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Ma tutte
e due, anche se a titolo diverso, sono a
servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse
svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più
efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo
modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L'uomo infatti non è
limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva
integralmente la sua vocazione eterna.
Quanto alla Chiesa,
fondata nell'amore del Redentore, essa contribuisce ad estendere il raggio
d'azione della giustizia e dell'amore all'interno di ciascuna nazione e tra le
nazioni. Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori
dell'attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai
cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità
dei cittadini.
Gli apostoli e i loro
successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli
uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell'esercizio del loro apostolato si
appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del
Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano
al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del
Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città
terrestre.
Certo, le cose terrene
e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente
unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui
la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei
privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio
di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può
far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze
esigessero altre disposizioni. “
[Dalla
costituzione pastorale Gaudium et spes,
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Concilio Vaticano 2°- 1965]
In sostanza il fattore unificante della Chiesa
intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio
ecumenico, più nella fede e nella missione
comune, vale a dire di tutti, che
nell’essere soggetti alla sovranità
del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della
Chiesa, è stato posto l’accento sulla
sua finalità di servizio della
vocazione personale e sociale delle
persone umane.
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15
Unire le genti per una vita
buona
(17 ottobre 2012)
La prima e fondamentale
esperienza di una relazione con un’altra persona è quella che si fa da molto
piccoli e qualcuno, di solito la madre, si prende cura di noi. E’ una cosa che
ho letto, ma che corrisponde anche a quello che è successo a me. Da bambini
piccoli non si potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro. Quel
rapporto tra un adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto
profondamente in noi. Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in
particolare approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra
la parola mamma. L’ho sentita
pronunciare da diversi morenti. In qualche modo quel legame tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne
sentiamo l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune
tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta
La Pietà, posta nella basilica di San
Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che
pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di
viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra
cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso.
Ci attraversa e, riflettendosi
in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento
religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno
verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione,
di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre
per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente da ogni condizione
esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122].
Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una
parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione
filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo
delusi. Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé
stesse come (utilizzo un termine di Dossetti) micro modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente
impegnate nel realizzare una comunità di vita amorevole. E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito
di istruire i nuovi arrivati alle costumanze di un ordine o di una
congregazione di vita religiosa, si sentivano in dovere di disilludere subito
in merito i giovani. Del resto nelle disposizioni date da alcuni fondatori di
collettività di frati e monaci ci sono esplicite disposizioni che riguardavano
questo aspetto. Non si entra in una vita
come quella per ottenere soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.
Più le dimensioni di un
agglomerato di persone che per varie ragioni devono vivere vicine crescono, più
i problemi aumentano. Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur
come individui sociali, siamo infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.
Considerate ad esempio la
situazione che si crea quando in piazza S. Pietro il Papa si affaccia,
all’Angelus della domenica, e si rivolge alle migliaia di persone convenute ad
ascoltarlo, dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto di una
relazione profonda. Ciascuno/a ha un
posto per lui nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un cervello
elettronico che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a costruire
eseguirebbe probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni singolo
individuo nella piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca di dati.
Un essere umano non funziona così. Guarda in basso e vede una folla indistinta. Il Papa per la folla è un fattore di unità. Ma il Papa, essere
umano, non è in grado biologicamente
di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore.
Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti
alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande
folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia
accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece
in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di
enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e
l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane Papa, e via dicendo, tanto che io, pur
avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora bene e mi ci commuovo.
Ora, la Chiesa cattolica ha
preso sempre molto sul serio l’impegno a radunare
i figli di Dio dispersi, per estendere
il suo popolo, mantenendolo però uno
e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per farne una comunione di vita, di carità e di verità (Costituzione
dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e
13, del Concilio Vaticano 2° - passi riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si
passa da una comunità delle origini di poche decine di discepoli a una di
diverse centinaia di milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in
crescita) occorre porre molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi
due millenni il principale di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito
dai Papi, nei quali si concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra
tuttora, nonostante qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa,
non essendo mai stata concepita altra
autorità che, all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare
quella del Papa (altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo
profilo i Papi ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia
che, nel primo millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa inoltre,
come persona fisica, a volte con l’aggiunta di una certa idealizzazione, che in
alcuni casi confinò con una sorta di mitizzazione della sua persona (ne era
espressione il fasto che in certe epoche la circondava), poteva agevolmente conquistare i cuori dei
fedeli.
Fin dai primi secoli sono stati
importanti, al fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati anche
fonte di divisione) anche quelle definizioni sintetiche dei principali
argomenti di fede che sono detti simboli,
due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo degli Apostoli che recitiamo
insieme nella liturgia della Messa. Queste solenni e autorevoli definizioni
sono state raccolte in un libro, il H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum
de rebus fidei et morum [Raccolta di
simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni in materia di fede e morale],
molto utilizzato in teologia.
186. Fin dalle origini la
Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e
normative per tutti. Ma molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire
l’essenziale della sua fede in compendi organici e articolati, destinati in
particolare ai candidati del Battesimo.
Il simbolo della fede non fu composto secondo
le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da
tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il
seme della senape racchiude in un granellino molti rami, così questo compendio
della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico
e nel Nuovo Testamento.
187.Tali sintesi della fede
vengono chiamate “professioni di fede”, perché riassumono tutta la fede
professata dai cristiani. Vengono chiamate “Credo” a motivo di quella che
normalmente ne è la prima parola: “Io credo”. Sono anche dette “Simboli della
fede”.
188.La parola greca “Sy’mbolon”
indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva
presentato come segno di riconoscimento.
Le parti venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno
di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a
significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la
raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso
costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.
[dal Catechismo della Chiesa
Cattolica 1992-1997]
I Simboli della fede, alcuni dei quali per la loro
origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la
comprensione legando affermazioni che
riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il
legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un
gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le
persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può
facilmente tenere nel proprio cuore.
Non va infine dimenticata
l’importanza che storicamente ha avuto, come fattore unificante, la liturgia, anch’essa regolata spesso da leggi della Chiesa, quindi con autorità.
Ora, per capire l’importanza che
il Concilio Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica, bisogna comprendere
questo: esso ha in qualche modo inciso su tutti e tre quei tradizionali fattori unificanti e ciò anche se, da un punto di vista
teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti
conciliari, di stabilire una continuità tra l’aggiornamento realizzato e la precedente
Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una cesura non c’è e non si avverte
nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I capi della Chiesa ebbero
l’impressione, nel dopo concilio di un
marcato sbandamento del corpo
ecclesiale e se ne preoccuparono. La biografia dell’attuale Papa ce ne parla.
Nel corso di quella grande
assemblea mondiali dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al Papa, ci
fu però la riscoperta di un ulteriore fattore
unificante che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto
sempre consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della
Chiesa non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche
volte aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.
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16
Un popolo nuovo
(19 ottobre 2012)
E’ possibile che alcuni dei
lettori che entrano in questo blog
non abitino nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va
sotto il nome di Valli, perché le sue
strade portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con
gli altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto
lontano, oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di
Ardigò che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò del mondo,
emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora
uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare
una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed
essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A
pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia
infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici
e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è
poi solo una potenzialità, perché una
sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente
in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un
cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che
da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo
possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari lettori,
che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa di una
piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia di San
Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa
quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11
ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza
associativa e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a proporsi nella società che la circonda e
convocare in tal nuovi amici che
condividano i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati,
per cui argomenti più generali vengono condensati e sistemati sulla base dei
problemi che sono emersi nell’attività del gruppo.
Roma è, a confronto con le
maggiori metropoli del mondo, una piccola città, che, tutto sommato, conserva
ancora una dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di Firenze e
i fiorentini se ne sono risentiti. Ma
non è una cosa negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si vive
meglio che in altre agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere l’idea,
invito a portare l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo del
Brasile, che conta una trentina di milioni di abitanti. Il nostro quartiere,
poi, è, all’interno della città di Roma, una zona periferica del nord est senza
particolari problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla riva destra
dell’Aniene, uno dei principali affluenti del fiume Tevere, non molto distante
dalla confluenza tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne abitata da molti
dipendenti pubblici, dello Stato, in particolare del Ministero del Tesoro e di
quello delle Finanze, ma anche da militari,
e da dipendenti di altri enti pubblici, poi da una popolazione più
varia. I romani de Roma, quelli che discendono da famiglie insediate a Roma
da molte generazioni, non prevalgono: i primi abitanti del quartiere arrivarono
da varie parti d’Italia, dal Nord e dal Sud, ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed
erano piuttosto giovani. Poi la popolazione si è fatta più anziana e solo negli
ultimi anni sono cominciate ad arrivare famiglie con bimbi piccoli. Si è
aggiunta anche un’emigrazione dal continente indiano, dalla Cina e dalla
Romania. Nuovi poveri hanno ripreso ad abitare in rifugi precari nelle
vicinanze del fiume, dove nel primo e secondo dopoguerra e fino agli scorsi
anni ’70 c’erano i baraccati, gli
sfollati per la guerra mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal Meridione.
Il nostro gruppo di Azione
Cattolica è composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie che
per prime si insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica
dalla metà degli scorsi anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere
difficoltà ad attirarne di nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò
che è successo. I fattori negativi si sono succeduti e sommati.
Complessivamente si può dire che la fede religiosa, come fattore sociale
aggregante, ha perduto forza e questo, paradossalmente, proprio in anni in cui
alcune convinzioni tratte dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che
riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano
poste alla base dello straordinario processo di unificazione continentale
europea, una cosa mai accaduta nella
storia dell’umanità, e determinavano
il convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione
politica per inclusione e non per
conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo
spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare
che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo
attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e dell’Italia
si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto
catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella
persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale
pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della
Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del
nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in momenti cruciali. Si è infatti trattato
innanzi tutto di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i
popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da
questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare ancora
insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il
Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori
nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.
Si osserva qualche volta che il
Concilio Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi. Effettivamente,
considerando quell’evento complessivamente, può essere osservato che i capi
ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una certa fiducia nella
gente comune, in particolare in noi laici.
E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati. Scrutarono, come
scrissero, i segni dei tempi e vi videro straordinarie opportunità,
determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in genere succube
dei propri capi politici, si era mostrata in grado di influenzare positivamente
il corso della storia.
I documenti conciliari furono
scritti da teologi cattolici. Il particolare metodo seguito dalla teologia
cattolica comporta che il nuovo in genere non venga proposto come trascinato dal futuro e verso di esso in
rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e spinto
verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla
tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza
soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare
cambiamenti molto significativi.
Ad un certo momento diventò
centrale, nei discorsi conciliari, l’idea di popolo animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato
come nuovo (benché iniziato quasi
duemila anni prima e animato da una missione analoga di salvezza) rispetto
a quello antico costituito
dall’Israele storico, senza che però il
nuovo privasse di senso l’antico,
data l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del
cristianesimo nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano
generalmente problemi, ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e
di molto grossi, e questo sulla base di
una teologia molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della
Chiesa, dalla quale si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo)
conseguenze molto gravi dall’idea di un nuovo
che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale
di nuovo popolo (in senso prevalentemente storico e religioso) al quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il
cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto ad assomigliare abbastanza, per come veniva
caratterizzato, a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale:
nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in
italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo
l’attributo nuovo - manifestatosi
solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva
riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi
prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto
storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda
si faceva riferimento a un tipo di
società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata
storicamente nelle Nazioni Unite e in
altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in
particolare dall’affermazione dell’universalità
di certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i
cristiani, per quegli ideali umanitari
non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si
proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere
coloro che consideravano l’antico. In
questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo del popolo
di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo,
venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.
Ecco
quindi un compito che si può individuare per noi cattolici europei che viviamo
in una relativamente tranquilla periferia della
Roma di oggi: contribuire a consolidare come nuovo popolo (in senso religioso) il popolo nuovo (in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri
i quali, anche se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe
nostre idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come
dire: consolidare nella società di oggi certi valori che hanno base religiosa, come non cessano di
ricordarci i nostri vescovi.
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17
Micro-Macro e la ricerca della
felicità
(20 ottobre 2012)
Riprendo la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 129, euro 8,00, formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione
di Giorgio Campanini e un pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione
alla precedente edizione del 1997 (si tratta del testo di un intervento che
Dossetti, ormai prete e monaco dopo essere stato molti anni prima professore
universitario e politico, fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso
eucaristico della diocesi di Bologna):
Come la Chiesa riunita dell’assemblea
eucaristica è l’epifania [=manifestazione.
Nota mia] anticipata del Regno, così la
Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania della “polis” [=città in senso
politico, come organizzazione sociale. Nota mia] salvata: “politicità” tutta “sui generis” [=in un senso
particolare, suo proprio. Nota mia], che
non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno
di appetibile, ma unicamente per quello che sono “in mysterio” [nel mistero
della loro realtà che rileva per fede religiosa. Nota mia] (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè
incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più
intimo, più invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso.
Nota mia], creando e divulgando ovunque –
nel seno di ogni società grande o
piccola, soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni
sociologi laici ora raccomandano – un’atmosfera
di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di
amore-oblativo [=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli
altri, con spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e
mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine
121 e 122].
Queste parole di Dossetti
ricordano quelle che troviamo nella costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°, al capitolo 2°, n. 19:
[…] il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente
l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge,
costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di
speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui
assunto ad essere strumento di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e
sale della terra (si confronti Mt
5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Essere inviati
collettivamente al mondo per essere strumenti
di redenzione, vale a dire per influire
su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza
religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e
che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento
individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente
perché rifiuta di dominare gli altri
e si propone di incontrarli nel loro
intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di
relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto
un tipo di felicità, una società in
cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga
incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune
(notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore
tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).
Ora, naturalmente quest’ordine
di idee presenta già qualche problema se lo si applica a piccoli gruppi, i
quali pure vogliano impegnarsi effettivamente a realizzare quel tipo di comunità a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà
sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di
milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli illuminati
rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione
d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si limitarono prudentemente a riconoscere il
diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come collettività.
E’ chiaro dunque che questo lavoro nella
società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere stati
ad essa inviati), è particolarmente
difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo individuo e richiede
un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono ispirati dalle nostre
stesse idealità. Esso parte dai
principi religiosi, ma richiede anche
una sapienza umana che origina da
ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la comprensione dei tempi e
del mondo in cui si vive, interagisce
con quanto altri sono, fanno, sanno capire, conoscono del mondo in cui
vivono, e può produrre determinazioni
comuni su ciò che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti
concreti. Ma c’è di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche,
come può essere ad esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere,
deve mantenere comunque vitali quelle
dimensione sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più
limitate, a partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova
sostegno, orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio
avviso, significa non incontrare l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma nel
suo “sé” più intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi
tenere insieme macro e micro. Questo lavoro di cui ho parlato è
il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.
Per oggi concludo osservando,
nella linea di Dossetti, che in tutto questo agire collettivo ben ispirato si è
indubbiamente esposti a una tentazione piuttosto forte, che è quella di
ritenere che l’opera del nostro ingegno, le costruzioni sociali che riusciamo
storicamente a realizzare, corrispondano ad un certo punto a un modello di
perfezione sotto il profilo propriamente religioso, si tratti di famiglia naturale, di comunità religiosa, di
organizzazione di una città, di uno
stato nazionale, di un ordinamento pubblico sovranazionale e, al limite, di un
ordinamento globale di tutti i popoli della Terra, come nelle intenzioni
vorrebbe essere l’organizzazione delle Nazioni
Unite. Questa identificazione tra soprannaturale e naturale, espressa
storicamente dal motto Dio è con noi,
non la possiamo però legittimamente mai affermare, perché ci è stato detto che il Regno beato non è di questo mondo,
con tutto ciò che da questo consegue. Nella visione di Dossetti, per quanto
(giustamente) ci si dedichi a costruire comunità amorevoli e materne, ogni
espressione della socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e
in essa elementi positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre
mescolati a elementi negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti
storicamente ad attuare e quello che definiamo come “il Regno”.
E ciò si avverte con più forza a misura che le collettività organizzate
diventano più grandi, aggregando moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le
dimensioni dell’umanità intera, e a misura in cui esse incidono maggiormente
nelle vite delle persone. Dossetti precisa:
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si
prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo,
che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Rimane pertanto questo
paradosso, che, inviati verso gli altri
per migliorare sulla base dei nostri principi di fede le società in cui insieme
ad essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle società degli estranei,
degli stranieri, dal punto di vista
religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione. C’è sempre
infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati ottenuti e
questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle
specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera
nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo
nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere
di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da
poco nell’ottica della nostra completa integrazione
civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto
alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il
nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e
quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità
costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di
loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre
obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro
omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.
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18
Uguale dignità nella Chiesa tra
tutti i fedeli
(21 ottobre 2012)
Sintetizzo le riflessioni che
ho svolto nei giorni scorsi su uno dei temi ancora caldissimi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), nel senso che in
quella grande assemblea fu intuito e sviluppato concettualmente, ma ancora la
sua realizzazione è, come dire, in corso d’opera, e si tratta di un lavoro in cui l’Azione
Cattolica è particolarmente impegnata.
Prima di cominciare richiamo
alla vostra memoria questo che segue, di cui mi sono occupato in interventi
precedenti: a)dalla fine del Settecento e in particolare dalla metà del secolo
scorso, si è prodotta nel mondo una evoluzione
politica delle istituzioni supreme
per la quale si è passati da forme di governo caratterizzate dall’accentramento
del potere in poche persone, dalle quali poi il potere veniva delegato in un
scala gerarchica discendente, ad altre che consentivano una più larga
partecipazione delle genti; b) questi sviluppi erano basati sull’idea di uguaglianza intesa come pari dignità sociale; c) la pari dignità sociale è fondata
sull’affermazione di diritti fondamentali
che devono essere riconosciuti a moltitudini di esseri umani; d) il
riconoscimento di questi diritti fondamentali è alla base del metodo democratico, quello che rende
possibile la partecipazione di masse al potere supremo e che quindi non
consiste solo nella regola secondo la quale vince la maggioranza; e) dopo il
secondo conflitto mondiale il movimento per il riconoscimento universale dei diritti umani fondamentali di tutti gli
esseri umani ha avuto il suo massimo sviluppo, producendo, ad esempio con a Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo delle Nazioni Unite,
una serie di dichiarazioni in cui quei diritti fondamentali non vennero più
legati a una condizione di cittadinanza
politica particolare (essere cittadini italiani o di un altro stato), ma
alla sola condizione di esseri umani;
f) nel mondo globalizzato (che
significa unificato dal farsi più deboli le frontiere politiche che lo
dividevano) di oggi il sistema dei diritti umani fondamentali sta avendo la sua
massima estensione ed è alla base dell’idea di cittadinanza universale, realizzata la quale non vi sarebbero più
nel mondo apolidi, genti private di
una qualche possibilità di influire sui destini comuni; g) l’idea
dell’esistenza di diritti umani
fondamentali ha fondamento religioso e, in particolare, fondamento
religioso cristiano, perché, in
fondo, non può argomentarsi per altra via l’idea della pari dignità degli esseri umani, che per i cristiani dipende
dall’essere stati tutti gli esseri umani creati
uguali sotto quel profilo della dignità, da un unico Padre.
Questi sviluppi democratici dell’ordine mondiale
trovarono eco nella gerarchia cattolica a partire dal radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12° (la Seconda Guerra Mondiale
era ancora in corso in una sua fase particolarmente cruenta):
Il problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più
importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla
guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione —
dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse
mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri
pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della
guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
Poiché ha rinunciato ad esercitare un potere
politico diretto, salvo che su una specie di simulacro di stato nel quartiere
Vaticano in Roma, e ritiene di avere la missione di custodire inalterati alti
ideali che riguardano il senso dell’universo, il destino degli esseri umani e
la morale, la gerarchia della Chiesa cattolica, intesa come il papa e i vescovi, non ha voluto, sulla scia del
movimento democratico globale, democratizzare anche la Chiesa
cattolica, nel senso di sottoporre certe decisioni supreme, ma anche molte di
minore spessore, al consenso della maggioranza. Paradossalmente quindi la Chiesa, pur
consigliando la democrazia al suo esterno, rimane una potenza non democratica, essendo tutto il potere canonico
(sull’organizzazione ecclesiale) concentrato nel Papa romano e nella sua
piccola corte (la Curia vaticana) e solo parzialmente decentrato ad altri
vescovi. Tuttavia gli sviluppi contemporanei dell’idea di pari dignità degli esseri umani, che del resto ha
fondamento religioso, non sono stati del tutto senza conseguenze nella Chiesa. Ciò si rileva particolarmente nei
documenti del Concilio Vaticano 2°, che per altro, secondo il metodo della
teologia cattolica, la quale si sforza di tenere
sempre insieme vecchio e nuovo,
passato, presente e futuro, l’umanità antica e quella nuova, i morti e i vivi e
i popoli di tutta la Terra, secondo il comandamento
di unità ricevuto, sono formulati in modo da evidenziare particolarmente la continuità piuttosto che la novità.
Un
passo centrale lo si ritrova nel capitolo 4°, n. 32, della Costituzione dogmatica
Lumen Gentium sulla Chiesa, dove è affermata la vera uguaglianza riguardo alla dignità e
all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo.
Questo il brano:
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32.
La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile
varietà. «A quel modo, infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra,
e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un
solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm
12,4-5).
Non c'è
quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune
è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la
grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che
una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e
nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al
sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero,
non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.;
cfr. Col 3,11).
Se
quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale
la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque
alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri
e pastori per gli altri, tuttavia vige
fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a
tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo.
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Che
cosa comporta, per noi laici, questa pari
dignità nella Chiesa?
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19
Città di Dio, città dell’uomo,
città del diavolo
(22 ottobre 2012)
Il peccato che è nell’uomo decaduto si
ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più vaste e complesse: queste
ultime possono assicurare agli uomini vantaggi sensibili in varie direzioni, ma
tendono a porsi come grandi concentrazioni di potere (le megalopoli, gli
imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto consentire uno sfrenamento
più incontenibile delle peggiori passioni umane: l’ambizione prevaricatrice,
l’avidità di illimitati guadagni, il lusso spettacolare, la lussuria sempre più
cupida di ogni perversione, l’adulterazione industrializzata della verità, lo
spargimento ingiusto di sangue ecc. Sicché non si può parlare di un’ambivalenza
delle forme sociali e del potere, come fanno molti sociologi contemporanei, ma
il credente deve riconoscere un loro inquinamento profondo con altissimi
rischi: il rischio più grave di tutti è la guerra, sempre più generalizzata e
distruttiva a livello planetario.
[da Giuseppe Dossetti, Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]
Dossetti pronunciò le parole
sopra riportate dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e
l’esperienza biblica, dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si
era nel 1987, in un mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in
particolare, non si era ancora nell’era della globalizzazione, della interconnessione planetaria delle economie e
delle società umane. L’umanità era
dominata da due grandi sistemi politici sovranazionali, quello centrato sugli
Stati Uniti d’America e quello che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e
seguiva due gruppi di sistemi economici, piuttosto articolati al loro interno,
quelli di tipo capitalista e quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse
di perversione sociale venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli
schieramenti, che concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno
il rovescio dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli
universi sociali contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti
della civiltà umana in cui si trovava,
poteva fare riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno del bene, a un modello positivo. Ai tempi nostri
quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta da potenze umane
omogenee ed è diventata così più significativa la critica globale alle società
umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo Dossetti: il male appare
come universalmente connaturato con l’esperienza delle società umane e da esse
ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una semplice ambivalenza tra male e bene, ma un inquinamento profondo che ora si
manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E
tuttavia, paradossalmente, il rischio di
guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle
parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei
tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un
tempo in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa
è anche opera umana. La pace ha anche una valenza religiosa e quindi si è spinti
a ragionarci su anche sotto questa prospettiva. E ci si può chiedere come
conciliare le esigenze di impegno nel mondo
nuovo in cui ci troviamo a vivere con il pessimismo biblico sulle organizzazioni sociali umane.
Bisogna allora evidenziare un importante problema che noi, gente di
fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre persone al di fuori della cerchia
di chi condivide le nostre convinzioni religiose, le cose del nostro mondo: i
principi ai quali vogliamo riferirci per orientare le nostre condotte
individuali e collettive sono tratti da un’antica sapienza che si è formata in
un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo. Non si tratta di una
differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad esempio, il mondo è più
popolato; le armi oggi sono più
potenti e via dicendo), si tratta di una novità
profonda, strutturale e piuttosto recente. Non dobbiamo però pensare che si
tratti di un processo anche irreversibile.
I tempi nuovi in cui ci troviamo
dipendono da una certa organizzazione sociale molto complessa e quindi anche
particolarmente fragile, nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni
fa uno scrittore italiano scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli, della crisi di un’organizzazione sociale umana
moderna molto articolata e complicata. Un nuovo
medioevo, in senso negativo, una regressione
catastrofica, è quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo
prefigurare le condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche
su scala globale ne possono essere considerate in qualche modo delle
avvisaglie. Oggi più che in qualsiasi
altra precedente epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre
società, una sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e
dall’interazione solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per
preservarla dai pericoli e dal male che
sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge
verso la Città di Dio e quella che
invece tenta verso la Città del diavolo,
compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per
la costruzione della Città dell’uomo,
espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba
impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in
concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e
cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di
mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello
di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non
poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una
specie di carestia biblica che
coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico
soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane a cui ho accennato e dal concepirci sempre
come stranieri in ogni patria
terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella
della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato
che questi sforzi collettivi possono avere successo. Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca:
per ogni problema se ne possono infatti
pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono
dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è strettamente
correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno
un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani.
Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo
realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa,
che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è
più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità
di una dottrina con quelle pretese
formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a
un contesto teologico, di coerenza teologica.
Mi piacerebbe, a questo punto,
concludere anticipandovi la soluzione
delle soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in modo
rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo
apparente e che vi è ancora una via semplice
per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo,
perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre
concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga
collettivamente in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba
aspettare.
Voglio precisare che la novità
della situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su scala
globale, mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città,
quartieri, condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena
affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede, caratterizzato
da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra nella nostra
esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in essa, nella
nostra vita feriale, e può, ad
esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che chiede il
riconoscimento di una cittadinanza
universale sulla base di quella nuova
organizzazione globale delle cose umane di cui dicevo. In questioni come queste anche
noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si
tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle
democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre
scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel
continente europeo.
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20
Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!
(24 ottobre 2012)
Nella riunione di ieri del
nostro gruppo ci siamo interrogati su quale debba essere il nostro atteggiamento
in questo Anno della Fede, indetto
dal papa Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta Fidei (trad. porta della fede) dell’11 ottobre
2011 e aperto lo scorso 11 ottobre,
cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Potete trovare il documento
all’indirizzo WEB:
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html
Leggendo le parole del Papa
possiamo individuare questi presupposti e
obiettivi dell’iniziativa:
·
entrare
nella Chiesa significa impegnarsi in un cammino
che dura tutta la vita. La fede
cristiana è come una porta che,
attraverso il Battesimo, ce lo fa
iniziare;
·
bisogna
riscoprire questo cammino nella fede,
perché la fede ai tempi nostri non è più
un presupposto ovvio;
·
dobbiamo
ritrovare il gusto di nutrirci del cibo che rimane per la vita eterna,
vale a dire della Parola di Dio
trasmessa dalla Chiesa e del Pane di vita,
per continuare a credere in Gesù, il Cristo;
·
attraverso
la propria testimonianza di vita i cristiani sono poi chiamati a far risplendere la Parola di verità che il
Signore Gesù ci ha lasciato;
·
l’Anno della Fede in questa prospettiva è un impegno a una rinnovata e autentica
conversione al Signore, unico Salvatore del mondo;
·
in
questo spirito è anche necessario un più
convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per
riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede;
esso scaturisce da una fede rafforzata;
·
il
percorso comune nell’Anno della Fede
deve portarci a capire in modo più profondo non solo i contenuti della fede ma anche il senso del credere, l’atto con cui
decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin
nel suo intimo;
·
la
professione di fede comporta anche assumersi
la responsabilità sociale di ciò che si crede: non è un fatto privato e implica anche una testimonianza ed un
impegno pubblici; essa quindi è un
atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto
della fede;
·
per la
conoscenza sistematica dei contenuti della fede cristiana tutti possono trovare
nel Catechismo della Chiesa cattolica (1993;
1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;
·
non
dobbiamo temere di argomentare razionalmente la fede, anche in quest’epoca in
cui molti ritengono che certezze razionali possano conseguirsi solo nell’ambito
del pensiero scientifico e tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la
scienza non vi sia conflitto, in quanto entrambe, anche se per vie diverse, tendono alla verità;
·
sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della
nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e
peccato;
·
In
questo tempo siamo invitati a tenere
fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a
compimento; in lui, morto e risorto
per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato
questi duemila anni della nostra storia di salvezza”;
·
nell’Anno della fede dobbiamo vedere anche
un’occasione per intensificare la nostra testimonianza
della carità; la fede senza la carità
non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia
costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una
permette all’altra di attuare il suo cammino;
·
nell’Anno della Fede siamo inviati a
scuoterci da una certa pigrizia nel
conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa comune; in particolare ciò
riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di gioventù: “Giunto ormai al termine della sua vita,
l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’ (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di
quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15).
Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.
·
nella
fede siamo ricolmi di gioia perché, pur vivendo anche l’esperienza della
sofferenza “noi crediamo con ferma
certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura
fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del
maligno (cfr Lc 11,20) e la
Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno
della riconciliazione definitiva con il Padre”.
Ora, uno dei modi di intendere
gli impegni proposti nell’Anno della Fede
è quello di presentarli come un cammino
di ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro, riconoscendo il male che c’è in noi e che da
noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico
Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma
esso presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora
bella e suggestiva fino a che
corrisponda a come la Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare,
questa idea del ritorno nella lettera
apostolica citata non c’è (c’è quella
di conversione, che è un’altra cosa:
è cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra
testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la
citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge
(versione CEI 2008):
Appena arrivati, riunirono la Chiesa e
riferirono tutto quello che Dio aveva fatto capire per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della
fede.
Quel passo si riferisce al
ritorno di Paolo e di altri suoi compagni da una missione in città del mondo
pagano del loro tempo.
Per quanto indubbiamente nella
vita delle persone ci possano essere momenti in cui esse si allontanano dalla Chiesa e poi le si avvicinano nuovamente, in un
movimento effettivamente di ritorno,
e quindi ci sono anche dei gruppi per così dire specializzati nel favorire questa decisione di rientro (anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi
impegnata in questo), nella lettera apostolica citata non è questo ad essere centrale. Piuttosto il Papa appare
preoccupato di una certa pigrizia e distrazione
di noi fedeli nel rispondere alle
esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e
teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo
dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra
fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato, a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali, culturali e
politiche di esso che della sua origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per come io credo di
aver compreso l’invito che ci è stato rivolto, deve così servire a scuoterci da questa pigrizia e a porci nuovamente
in cammino secondo l’orientamento che ci viene dalla comune fede religiosa: appunto un cammino
nella fede. Come battezzati infatti, a prescindere da
quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre
piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne
può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.
Questo dobbiamo sempre ribadire con
la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente
purtroppo è sempre presente di quando
in quando.
Per come la vedo io, noi,
piccolo gregge dell’Azione Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno della Fede, non dobbiamo prendere
la strada per andare da qualche parte indietro,
ma siamo spinti proprio dalla nostra fede
in avanti.
La lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli impegni
per l’Anno della Fede, quello di “ripercorrere la storia della nostra fede, la
quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.
“Mentre la prima evidenzia il
grande apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo
della comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare
in ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la
misericordia del Padre che a tutti va incontro.”
In questo ci indica anche
quell’impegno di purificazione
della memoria, che significa comprendere ciò che nel nostro passato ecclesiale
non andava nella direzione giusta e distaccarsene per il futuro (senza con
questo volere anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone che
di quel passato furono artefici), sulla
quale la nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni Paolo 2°
in occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
La concomitanza tra l’apertura
dell’Anno della Fede e il
cinquantesimo anniversario dell’inizio del
Concilio Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento della nostra Chiesa, pur nella fede della Tradizione,
rende chiaro che non è al passato che ci viene chiesto di guardare, in
particolare a modi organizzativi che si riferiscono ad epoche che non sono più.
Ciò che del passato ci viene
richiesto di riscoprire è la fede della Tradizione, la fede di
sempre, che è fede in colui che riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri, oggi e
domani: egli vive e trae a sé tutto.
Certo, cari amici, ieri
contandoci e considerando le nostre forze reali, dico noi del nostro gruppo in
San Clemente papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il quale siamo
spinti in questo Anno della Fede non
superi di molto le nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci, perché, e questa
è una delle cose che possiamo riscoprire
in questo Anno della Fede, noi non
siamo soli: siamo parte di un lavoro collettivo molto più grande e poi
confidiamo, nella fede, in colui che può dare successo a tutte le nostre opere.
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21
E pluribus unum: quale fondamento per l’unità?
(25 ottobre 2012)
Sullo stemma degli Stati Uniti
d’America compare il motto latino E
pluribus unum, che significa da
molti, uno. Fu proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams,
Jefferson e Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si
riferisce alla volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di
unirsi in una dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata
sulla convinzione della pari dignità umana, per essere stati gli
esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili
e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità. Perché mi riferisco spesso alla nascita degli
Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle
democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità
politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano.
Essa mostra quindi che ideali cristiani e
ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto.
Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era
tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato
un altro motto: Ribellarsi al tiranno è
obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico nell’ideologia
cristiana e fosse stato in particolare
affermato, su basi bibliche, nell’ordine concettuale di S.Tommaso
D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne approvato ufficialmente
con l’enciclica Aeterni patris del
Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come
è intesa oggi (con l’affermazione del diritto politico di resistenza al
tiranno che violi quei diritti umani fondamentali inalienabili) venne accettata
dalla Chiesa cattolica come regime politico preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio
natalizio del papa Pio 12°).
Anche lo stato dal quale i
rivoluzionari nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di diversi
popoli (Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso però il
fattore di unità era la sudditanza a
una dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di precise
accuse storiche esplicitate nella Dichiarazione
di indipendenza del 1776, venne
vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità
politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con
la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto
come tirannico.
La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di
quelle fortemente critiche anche
nella Chiesa cattolica, in particolare da quando, nel quarto secolo della
nostra era, essa divenne rilevante per l’unità politica dei popoli unificati
nell’impero romano e successivamente
anche per quella dei nuovi stati sorti dalla dissoluzione, nell’Europa
Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole riferire anche a questo. In questa materia ha inciso
potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.
Il punto di partenza del nuovo
ordine concettuale è la pari dignità
delle persone che formano il popolo di Dio.
...comune è la dignità dei
membri per la loro rigenerazione in
Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla
perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna
ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa riguardo alla stirpe o
nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché “non c’è né Giudeo né
Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete
uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).
[…]
… vige fra tutti una vera
uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli
nell’edificare il corpo di Cristo.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen
Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Questa pari dignità conduce a rispettare la varietà nella Chiesa che raduna quel popolo
La santa Chiesa è, per divina
istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà.
[…]
Così nella diversità stessa,
tutti danno testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen
Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Il fattore di unità è di ordine spirituale:
… infine Dio mandò lo Spirito
del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è
principio di associazione e di unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella
comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr At, 2,42).
[Dalla costituzione dogmatica Lumen
Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
La realizzazione dell’unità è
impegno comune di tutti i fedeli:
…le singole parti portano i
propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le
singole parti si accrescono con uno scambio mutuo universale verso la pienezza
dell’unità.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen
Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
Ad essa siamo spinti dalla legge dell’amore cristiano:
Questo popolo messianico ha per
capo Cristo […] Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel
core dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo
precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).
[Dalla costituzione dogmatica Lumen
Gentium, sulla Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]
Per capire a che tipo di amore
ci riferisca quando si parla della legge
cristiana dell’amore è opportuno leggere il testo greco del brano del Vangelo
di Giovanni citato nella costituzione dogmatica: “Entolèn cainèn dìdomi umìn, ina agapàte
allèlus, cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.” (trad.:Vi
do un comandamento nuovo che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato
[egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo
brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del
sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.
Riassumendo: secondo le
concezioni conciliari, l’unità non significa necessariamente uniformità e trova fondamento dal basso, in una comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come
quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].
Ora, non è che queste idee siano
veramente nuove, perché erano tra quelle fondamentali fin dalle origini. La
loro portata innovativa sta nel fatto che esse sono stata proclamate nel
Concilio Vaticano 2° dopo che per quasi due millenni i fattori di unità nella
Chiesa cattolica erano stati visti principalmente nella sudditanza sacrale ad un unico Pastore terreno e nella
stretta uniformità ideologica e liturgica (ad esempio nell’uso universale del
latino liturgico).
Dove voglio andare a parare con
tutto questo? Cerco di dirlo nel modo meno “traumatico” possibile.
Il fatto che l’Anno della Fede che è appena
iniziato sia stato così esplicitamente
collegato al Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto iniziare nel
giorno del cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel concilio, rende ben
chiaro che non si vuole da noi il ritorno
alla preponderanza degli antichi fattori di unità. Quell’era della nostra
confessione religiosa è finita.
Dobbiamo resistere alla tentazione di “ritornare” nel senso di
incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale
faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su
principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della
Chiesa, della quale nella lettera
apostolica Porta Fidei di indizione
dell’Anno della Fede siamo chiamati a
prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto
collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso
del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
[…]
Un
Rappresentante della Curia Romana:
Preghiamo
perché ciascuno di noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera
in silenzio.
II Santo
Padre:
Signore, Dio
di tutti gli uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison; Kyrie, eleison.
[Dalla
liturgia della Giornata del perdono,
celebrata il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]
Come risulta chiaramente dalla lettera
apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno
della Fede noi fedeli approfondiamo
un cammino comune nella fede, aiutandoci gli uni gli altri in unione spirituale pur nella legittima varietà di stili di vita individuali e comunitari,
anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in cui viviamo,
per influire in tal modo su di essa con rinnovata
sapienza e consapevolezza infondendo
valori cristiani, cercando di promuovere, secondo il comando ricevuto,
l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare un’unità discriminatoria,
separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente fedeli”, coloro che su alcune
cose legittimamente la pensano diversamente da altri, nel presupposto che
questi ultimi siano monopolisti della retta dottrina, della retta liturgia, dei
retti principi di vita comunitaria. Questo significherebbe in un certo
senso tornare al nostro tremendo passato,
equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.
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22
Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella
società
(27 ottobre 2012)
Leggo in Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie
meditazioni religiose:
[…] nella … nuova economia
l’amore –motivo fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina il santo
timore filiale che, con soggezione totale e trepidante adorazione della maestà
di Dio, deve permanere a ogni livello della vita spirituale.
Perciò, anche restando nel Nuovo Testamento,
vediamo che c’è un timore di Dio che e inculcato assiduamente dagli apostoli
(la stessa Lettera ai Romani 11,10; la Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera
di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato da Gesù stesso come necessario (Mt
10,28),
[…]
Certo l’Eucaristia, se davvero
vissuta nella fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia
sensibile.
Deve esser una gioia non adolescenziale, ma da
adulto, che non presuppone … di saltare il timore, ma che nasce proprio da un
timore virile e consapevole: stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo
eterno di Dio”.
Questo discorso che Dossetti riferiva specificamente
all’Eucaristia può essere esteso all’atteggiamento che complessivamente la
persona religiosa può avere nei confronti del tempo e della società in cui si
trova a vivere. Il timore deriva dalla consapevolezza della grandezza degli
ideali professati e dalla conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della
stessa fonte e, in particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano
basati solo sulle proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso,
sia tratto da una forza irresistibile, non spinto da noi, verso un suo beato compimento. In altre circostanze,
al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva
dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla considerazione
dell’insufficienza delle proprie forze e
conseguentemente la gioia, se anche c’è, finisce per essere piuttosto
precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia nell’oggi e anzi addirittura solo nell’ora corrente. Quella che scaturisce dal timore religioso è invece
gioia per il passato, per il presente e per il futuro, quindi si basa su una valutazione complessivamente positiva
e fiduciosa della storia. Si fonda su una considerazione realistica delle cose
come vanno, e questa è come si dice nel lessico attuale la sua laicità, perché la fede non è solo
immaginazione e sentimento, ma anche su una spiritualità intima e quindi
profonda che cambia molto l’atteggiamento che si ha verso ciò che ci circonda e
che, in tanti modi, ci determina, ci interroga, ci sollecita e, a volte, ci
atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di fronte ad ogni difficoltà
della vita, sia essa di quelle proprie
personali o di quelle di realtà vicine come la famiglia o l’ambiente umano
abituale, come anche su scala maggiore, di quelle che riguardano la propria
città, regione, nazione o, al limite, l’intera umanità, innanzi tutto si
raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare il suo legame con il
fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti indica come di devozione filiale, quindi in una
familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento di stupore e
trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa sorprendentemente animato da amore viscerale, materno, ma anche virile,
paterno, nei confronti di noi umani. Il passo successivo è quello della comprensione del mondo intorno a sé e
poi dell’azione in esso, nel
tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel
proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire
e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica,
Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di
quel fondamento religioso, nell’impegno laicale
nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte,
innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle
istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come
cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione
sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi
dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente
responsabilità globale in ciò in cui di fatto si influisce su di essa
o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio
si definisce come cattolicità attiva,
che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti
della nostra confessione religiosa (ad esempio per procurarle privilegi ed
esenzioni) o di militi o messi di una
potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio
l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.
Questo programma, che ho esposto brevemente, non è facile da attuare e,
innanzi tutto, richiede che si impari a collaborare con gli altri. L’impegno
religioso, come ci è stato ricordato
nella lettera apostolica Porta Fidei (2011)
con cui è stato indetto l’Anno della Fede
iniziato l’11 ottobre scorso, non è un
fatto privato. Ecco che in questo può essere interessante l’impegno in
Azione Cattolica. Esso è appunto un impegno,
quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del tutto scontati e in
cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una
base di partenza negli esercizi di
laicità che si faranno, vale a dire
nello sforzo di comprensione realistica del mondo in cui si vive alla
luce di una spiritualità religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di
Azione Cattolica ricette di vita,
personale o comunitaria, già pronte e
ammaestramenti globali su ciò che si deve fare o si deve pensare in ogni
occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui
sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione
Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di
azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui
viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta i
propri doni in un mutuo scambio che accresce
gli altri, in uno sforzo comune per
promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più
vicine fino a quella globale.
“[…] la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a
ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità
dello Spirito con lui.
[,,,] In virtù di questa cattolicità,
le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in
modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo
universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”
[dalla Costituzione dogmatica Lumen
Gentium, n.13, del Concilio Vaticano 2°]
Ora è chiaro, riprendendo il discorso da cui sono
partito, che l’universalità di questo
impegno comune, la sua cattolicità,
la sua effettiva apertura a tutte le
genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal suo fondamento religioso e quindi da quel timore di cui si diceva, il quale, in particolare,
deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare
una soluzione, un modello, un’esperienza, un cammino, una ideologia, una concezione
filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione
particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto
caratterizzata, appunto, da devozione
filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente
attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo
possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e
soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità. Questo, ben lungi dallo
scoraggiare e umiliare, è anche la base
della creatività religiosa nella società e quindi dell’efficacia
della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi e determinarsi con sapienza di conseguenza,
rinnovandosi incessantemente.
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23
Fare memoria di un’alleanza
(30 ottobre 2012)
“…nell’episodio del roveto
ardente (Es 3,2-6) sul monte Horeb, l’angelo del’Eterno (malakh Adonai) che
appare a Mosè ‘in una fiamma di fuoco’ nel mezzo del roveto che non si consuma
gli dice molto esplicitamente: ‘io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo,
il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe’. La visione dell’angelo è dunque una
teofania. […] L’Invisibile si presenta
di nuovo, sotto la forma di un angelo, per vivificare in Mosé … quella alleanza
‘per le generazioni’ (ledorotam) (Gn 17,9).
[…]
Quella teofania rende visibile all’anima
l’alleanza immemoriale tra Dio e la Sua creazione, alleanza che abitualmente
l’anima non percepisce fintanto che guarda il mondo e le creature che vi si
trovano attraverso una morsa di paura e di collera, di anticipazione avida e
invidiosa, o fintanto che si rassegna alla protezione tragica della rinuncia e
sprezza il desiderio”,
[da: Chaterine Chalier, Angeli e
uomini, Giuntina, 2009, euro 16, pag.19, 20 e 26]
L’altro giorno discutevo di come, per quello
che so, la nostra parrocchia perde la gran parte dei giovani adolescenti e
ventenni iniziati nel catechismo alla vita religiosa e non li recupera più. E,
in effetti, viene il momento in cui, nello sforzo di approfondire i temi della
nostra fede e di ottenere un maggiore impegno, viene detto chiaramente loro,
più o meno esplicitamente, che sono sbagliati, che la loro vita è tutta da
rifare, che devono essere ricostruiti dalle basi, perché hanno toccato il
fondo, in particolare perché vogliono fare l’amore e questo è, per loro che non
sono sposati, peccato mortale. E’
chiaro che a questo punto loro scappano, perché, secondo natura, il loro
mestiere, in quell’epoca della loro vita,
è proprio fare l’amore. Non tollerano di sentirsi in questo come in libertà vigilata e di vivere con rimorso ogni soddisfazione sotto questo
profilo, dovendo immediatamente pentirsene.
Non è più come quando il prete diceva loro di “non toccarsi” e questo poteva essere accettato in un’ottica umana e
religiosa insieme, perché si sentiva che quelle consuetudini, pur nella loro
banalità, sarebbero state superate crescendo e che, anzi, crescere consisteva
proprio nel superarle. Quando poi si cresce, e di solito ad un certo punto si
trova un equilibrio nelle cose dell’amore, il problema si ripresenta sotto un
altro aspetto, perché, quando si riprende in considerazione una prospettiva di
fede, che in molti casi è la fede della propria tradizione familiare, quella
dei “propri padri”, si trova un
ostacolo nella pretesa etica religiosa di non porre ostacoli alla procreazione
e quindi di affrontare l’amore con una fiducia che, ad un animo ragionevole,
può apparire come un gioco d’azzardo, in cui però si punta tutta la propria
vita. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà che sorgono nel caso di crisi
e di fallimento dei matrimoni e di ricostituzione di nuovi rapporti coniugali.
Non sono problemi di oggi, ma di sempre, fin dalle origini, millenni fa, tanto
che si ritrovano nella Bibbia, ma un tempo ci si faceva meno caso, un po’
perché dai laici si tollerava una maggiore ipocrisia, specialmente dai maschi,
e poi perché per la maggior parte delle persone il tirare a campare, in un mondo tutto sommato molto più difficile di
quello dei nostri tempi, sovrastava tutto (con i problemi economici, le guerre,
le malattie inguaribili, la violenza sociale che c’erano). Una certa ideologia
repressiva nei confronti delle donne era poi vista come necessaria al
mantenimento dell’unità delle famiglie e, come contropartita, si era poi più
comprensivi verso di loro, viste come la parte debole e sottomessa di rapporti
personali dominati inevitabilmente dal capriccio degli uomini. Nella nostra
epoca invece, e specialmente dopo il Concilio Vaticano 2°, si pretende dai
laici un’adesione molto più consapevole e coerente in tutti gli aspetti della
vita e questo in un tempo in cui i modelli sessuali e familiari sono in veloce
evoluzione e in cui il successo sessuale viene visto, anche in tarda età, come
manifestazione di affermazione sociale in una società dominata dal consumismo e
dall’esteriorità.
Cari lettori, non sono un
sacerdote. A ognuno la sua parte. Non ho assunto il difficile impegno di
risolvervi quei problemi o anche solo di
aiutarvi in questo dandovi una direzione spirituale. E, lo dico francamente,
non ho in tasca la soluzione per tutti, non saprei proprio come fare. Se poi volete
conoscere la posizione del magistero, vi rimando al Catechismo della Chiesa cattolica. Nella mia esperienza di solito
si riesce ad un certo punto a pacificarsi sotto quei profili ma si tratta di
accomodamenti sempre piuttosto precari che vanno rivisti di quando in quando, e
in questo la pratica sacramentale della penitenza qualche volta può aiutare. E’
più che altro un esercizio di sapienza
umana, non facile, all’esito del quale, se le cose vanno bene e fintanto che
vanno così, ci si compiace anche da un punto di vista religioso. Ognuno in
questo deve essere piuttosto creativo, non deve aspettarsi che gli altri, anche
autorevoli, abbiano modelli di stili di vita adatti alla sua propria condizione
particolare. Lo sviluppo di una spiritualità adulta, matura, con l’aiuto del
sacerdote, è fondamentale in una prospettiva religiosa. Penso in definitiva che
un laico come me, nel relazionarsi con gli altri intorno a lui, dovrebbe
lasciare certi temi alla coscienza delle persone, nel rispetto della loro
dignità umana.
In Azione Cattolica,
specialmente in quest’Anno della Fede
in cui cerchiamo di approfondire le ragioni della nostra appartenenza
religiosa, sentiamo di avere molto bisogno di persone di fede più giovani d’età, che però si tengono ancora
lontane. Non possiamo assicurare loro che in parrocchia non troveranno problemi
sulle questioni delle relazioni sessuali, perché questo è un aspetto della vita
delle persone umane che interroga gli spiriti religiosi e quindi ci si discute
su. Accade anche in altre religioni. Quello che possiamo garantire è che in
Azione Cattolica sarà sempre rispettata la loro dignità umana e che non si
tenterà di imporre loro da parte
nostra, sotto sanzione di esclusione, un certo stile di vita. Come ci è stato
ricordato nel Sinodo dei vescovi che si è concluso domenica scorsa, la Chiesa è la casa di tutti i battezzati,
anche di coloro che, pur sentendosi persone di fede, per tanti motivi non
riescono a vivere in tutto secondo le prescrizioni della morale religiosa
corrente. Su certe cose si ragiona, per cercare insieme soluzioni che poi
ognuno proverà ad applicare nella propria vita, se crede. E possiamo anche dire
che l’impegno in Azione Cattolica non è principalmente diretto a dare
orientamenti sessuali. Esso ha invece maggiormente a che fare con l’idea di
cercare di radunare le persone umane in un popolo nuovo, unito intorno a certi
grandi ideali, che per noi assumono anche una prospettiva religiosa. In questo
viviamo un’epoca propizia, perché nell’Europa di oggi viene data molta importanza
a questo sforzo, tanto che si è prodotto un imponente moto centripeto di genti
verso il nostro continente. Di recente noi europei abbiamo avuto il Nobel per i
tanti decenni di pace che si è riusciti ad ottenere da noi e la pace è un tema
che ha una forte valenza religiosa. L’aspetto peculiare dell’esperienza
religiosa è che essa non cerca di federare
le genti sulla base di compromessi di interessi o di uno scambio di
equivalenti, come accade nei contratti commerciali, ma a partire da
un’interiorità che per noi, comprendendo per molti aspetti realtà
soprannaturali, assume il connotato di una spiritualità. Accade, ad un certo
punto, in molte vite che, nel mondo di tutti i giorni, si colga, nella propria
interiorità ma non solo emotivamente perché c’entra anche la ragione, un senso
dello stare insieme dell’umanità che va
oltre quello che ordinariamente guida le nostre azioni e che spesso ci
lascia insoddisfatti. E’, in un certo senso, l’esperienza di Mosè sull’Horeb
evocata nel libro della Chalier. Una interpretazione di quell’episodio è che le
fiamme del roveto fossero immagine di fiamme interiori. Mosè era fuggito
dall’Egitto dopo aver ucciso un sorvegliante che vessava gli ebrei, asserviti
dalla violenza del popolo in cui si erano rifugiati. Nella paura per la propria
sopravvivenza, che lo aveva determinato alla fuga, aveva represso il desiderio
di tornare per attuare la liberazione
di coloro che erano schiavi. E’ a partire dalla sua interiorità che si attua un
suo cambiamento di vita. Egli si sente in esilio nella terra di Madian, il
luogo del suo rifugio, così come l’Egitto del faraone era terra di esilio per
il suo popolo, e ora anche per lui. Egli
vorrebbe agire in favore della sua gente, ma è bloccato dalla paura. La forza
di determinarsi secondo il suo profondo desiderio, vincendo quel timore per la
propria vita, gli viene dalla memoria dell’antica alleanza, che non era un
patto tra potenze terrene, ma con l’Eterno, del quale egli, ad un certo punto,
riesce nuovamente a sentire la voce che chiama all’azione, quindi ad alzarsi e andare.
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24
Azione Cattolica: insieme per
promuovere la pace universale
(1 novembre 2012)
Siccome il regno di Cristo
non è di questo mondo (cfr Gv 18,36), la
Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene
temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le
ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di
buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva.
[…]
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale;
a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli
cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza
eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza
[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
Nei mesi di mese di settembre e
ottobre scorso, scrivendo diverse riflessioni sulla costituzione dogmatica
sulla Chiesa Lumen Gentium, mi sono
limitato a riferirmi ai soli numeri 9 e
13 di quel documento, inseriti nel capitolo 2°. Questo può dare un’idea della
vastità delle questioni affrontate in quella grande assemblea, che segnò un
punto di passaggio importante nella storia ecclesiale, dando inizio a un gran
fermento e a sviluppi ancora in corso. Prenderne sufficiente consapevolezza non
è lavoro breve né facile, dato il linguaggio teologico con cui sono scritti i testi
dei documenti che furono allora approvati e diffusi nel mondo. E tuttavia bisogna tener conto del monito di
quel Concilio, rivolto a noi fedeli cattolici (Lumen Gentium, n.14), della necessità di corrispondere con il
pensiero, con le parole e con le opere all’azione soprannaturale per la quale,
non per nostri meriti, siamo stati pienamente incorporati nella nostra Chiesa,
e questo sotto pena di essere giudicati
più severamente degli altri nel caso di diserzione.
Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici.
[…]
Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa
che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una
speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere,
non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati.
In quell’elenco di doveri del
fedele, prima viene il pensiero, vale a dire l’ascoltare e il comprendere,
ma anche l’ideare e progettare per il presente e il futuro,
propri e delle collettività delle quali si è partecipi. Poi viene l’interloquire
con gli altri e l’operare: nella visione conciliare
questa parte deve farsi collaborando con tutte le persone bene intenzionate,
anche al di fuori del nostro contesto religioso (“sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine
tutti gli uomini senza eccezione”, brano della Lumen Gentium citato all’inizio).
Questo impegno ideale e sociale rientra in quelli in cui l’Azione Cattolica si
sente da sempre particolarmente coinvolta.
Per quanto l’Azione Cattolica
com’è oggi sia stata istituita e regolata dall’autorità ecclesiale, quindi dai
papi e dai vescovi, sia pure con l’importante partecipazione degli associati
nelle forme statutarie, essa storicamente nacque, visse e tuttora vive per
iniziativa e impulso della società dei fedeli laici, mossi in particolare
dall’esigenza di pensare e di attuare, sulla base delle idealità religiose,
modi nuovi per influire come
collettività sulle società dei tempi in cui le persone di fede si trovano
inserite e specialmente su quelle con organizzazione democratica. Essa può
considerarsi espressione di quel grande movimento di popolo che dalla fine del
Settecento si è espresso in varie forme per una più larga partecipazione delle
genti alla determinazione dei destini dell’umanità, quindi per il passaggio
delle persone dalla semplice condizione di sudditi all’altrui potere alla
condizione di cittadinanza democratica. Per altro il coinvolgimento popolare
venne visto all’inizio in funzione
essenzialmente difensiva di un ordine
sociale nel quale la Chiesa era storicamente bene inserita, con privilegi, esenzioni e uno
spazio riconosciuto di autorità e di libertà, quindi, per semplificare, contro
i fermenti liberali e socialisti che si andavano largamente diffondendo a
partire dall’Ottocento. Questa
impostazione si andò rafforzando dopo la rivoluzione sovietica attuata nei
domini dell’Impero russo. Diciamo che a lungo l’esperienza democratica venne considerata
con un certo sospetto dall’autorità
gerarchica della Chiesa. Questa posizione mutò dopo l’esperienza storica dei
fascismi europei e la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Fu allora che i
capi della nostra Chiesa cominciarono a chiedersi se la democrazia sarebbe
potuta essere un valido ostacolo a quei disastri. Come ho spesso ricordato,
questo punto di svolta si manifestò nel radio messaggio natalizio del papa Pio
12° del 1944:
Il problema della democrazia
[…] Queste moltitudini,
irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi
invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai
incoercibile — che, se non fosse mancata
la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il
mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che
affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre
creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
La pace universale ha
sicuramente una valenza religiosa, come è ricordato nel passo della Lumen gentium che ho citato all’inizio. Nel mondo di oggi,
ed è la prima volta che accade, si pensa concretamente di poterla attuare con
una diversa organizzazione globale dell’umanità, sfruttando le opportunità che
derivano da quattro fattori: assetto democratico delle istituzioni, miglioramento generalizzato delle condizioni
di vita determinato anche da una più equa distribuzione delle risorse
consentita in ordinamenti democratici, miglioramento
diffuso dell’istruzione ricercato anche per l’esigenza di consentire la più
larga partecipazione alla vita sociale democratica, effettività di un sistema universale di diritti umani, sul quale i
sistemi politici democratici di fondano. Anche la Chiesa dei nostri tempi crede
in queste potenzialità:
57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione
non può che rendere più efficace l'opera della carità nel sociale e costituisce
la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella
condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell'umanità.
Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari affermavano: « Credenti e non credenti sono
generalmente d'accordo nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve
essere riferito all'uomo, come a suo centro e a suo vertice ». Per i credenti,
il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un progetto di Dio.
Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti
gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o non credenti,
affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto divino:
vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore.
[Dall’enciclica Caritas in veritate – Amore nella verità (2009), del papa
Benedetto 16°]
Non
bisogna fraintendere pensando che la straordinaria opportunità storica che ci
si è aperta sia una manifestazione dell’avvento del Regno beato che
religiosamente stiamo attendendo. Sappiamo che quel Regno non è di questo
mondo. Questo significa che esso non può in alcun modo confondersi con alcuna
delle nostre realizzazioni, anche con le più grandi. A volta si è tentati di
farlo. E’ accaduto, ad esempio, nel ’91, con la fine dell’Unione Sovietica,
organizzazione politica imperiale che in tutta la sua storia ha costituito un
ostacolo micidiale per le Chiese cristiane. Ma si è visto che quello che ne è
uscito è il consueto insieme di grano e
zizzania, di bene e di male, che troviamo da sempre in ogni società umana e
in ogni persona. Ricordo ciò che sostenne Dossetti un suo celebre intervento
pubblico del 1987, pubblicato nel libretto Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011 (pagine 45 e 46):
Il
regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e
neppure si prepara o si affretta per sinergia
umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene
comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre per
forze creaturali.
Il Regno giunge a noi, senza di noi [… ] per
un decreto del Padre, in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato
alla sua potestà (At 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, “in ictu oculi” [trad. mia “in un
batter d’occhio”] (1Cor 15,52).
Sentiamo però nostro dovere
religioso di scrutare i segni dei tempi e
di interpretarli alla luce del Vangelo (espressione che si trova
nell’enciclica pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes – La gioia e la speranza – n.4)
per scoprire in concreto quale sia il
nostro dovere oggi, per noi che siamo stati mandati nel mondo per radunare
le sue genti come in un’unica famiglia
umana (encicl.Caritas in veritate, n.53)
in una comunione di vita, di carità e di
verità (cost. Lumen gentium, n.9).
Come non cessano di rammentarci
il papa e i nostri vescovi, il sistema dei diritti umani fondamentali sul quale
si basano le democrazie contemporanee ha fondamento religioso e, in
particolare, fondamento religioso cristiano. Su che base, altrimenti, può
essere riconosciuto che esseri umani tanto diversi per etnie, culture,
religioni, lingue, condizioni sociali, ricchezze e altre importanti differenziazioni, quali
sono gli abitanti della Terra, hanno uguale
dignità e quindi sono titolari di
quei diritti umani fondamentali? Fondamento religioso significa soprannaturale,
vale a dire a prescindere da quello che si osserva in natura. La derivazione
cristiana del fondamento sta nel fatto che l’ordine soprannaturale al quale fa
riferimento è caratterizzato da amore
oblativo e viscerale, al modo dei genitori –padre/madre- per i loro figli, e
tuttavia universale, per tutti, oltre ogni differenziazione e
ogni divisione. Ebbene, quel fondamento religioso di principi di civiltà
che si sta cercando di attuare globalmente ci indica con chiarezza una via
importante di impegno cristiano (non l’unica). Perché, come ci è stato
ricordato due domeniche fa da un sacerdote missionario, i cristiani, cattolici
e di altre Chiese, sono una minoranza sulla Terra, circa il 15% dell’intera
popolazione umana. E’ veramente impressionante quindi che, nonostante ciò e
nonostante le stragi, vessazioni, oppressioni perpetrate nei secoli passati da nazioni sedicenti cristiane, certi valori
della nostra fede improntino ancora così profondamente la nostra civiltà a
livello globale. In questo si può senz’altro vedere la manifestazione del
disegno provvidenziale, senza però nascondersi che la realizzazione storica di quei valori è seriamente minacciata. Essa
è infatti opera umana e, come tale, suscettibile di degrado e di estinzione. La
storia dell’umanità non è infatti necessariamente una storia di progresso, come
dimostra il medioevo europeo, e,
senza un valido impegno di sufficienti forze umane che amano quei valori
e sono disposte a rischiare anche la propria vita nella lotta per essi, può prendere un altro corso. L’ideologia dei
diritti umani fondamentali regge infatti
le democrazie contemporanee e queste ultime rendono credibile la prospettiva di
una pace universale, per il tramite di una giustizia sociale che mantenga in
concreto, estenda o ristabilisca l’uguale
dignità degli esseri umani. L’Azione cattolica è schierata per la pace e la
giustizia universale e intende lavorare con particolare impegno in questo
campo. La nostra Chiesa, con il Concilio Vaticano 2°, ha rimosso ogni ostacolo
che, per incrostazioni storiche, poteva ostacolare al suo interno la riscoperta
e l’attuazione di tutte le potenzialità dell’antica dottrina della paternità
divina universale. Ad esempio la grave storica inimicizia verso le persone di
altre religioni, innanzi tutto gli ebrei e i cristiani di altre confessioni, e i
non credenti. Ecco come si esprime la costituzione pastorale Gaudium et spes:
Il
rispetto e l'amore deve estendersi pure a coloro che pensano od operano
diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché
con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere, tanto
più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo.
Certamente tale amore e amabilità non devono
in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l'amore
stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la
verità che salva. Ma occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed
errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da
false o insufficienti nozioni religiose.
Solo
Dio è giudice e scrutatore dei cuori; perciò ci vieta di giudicare la
colpevolezza interiore di chiunque. La dottrina del Cristo esige che noi perdoniamo
anche le ingiurie e il precetto
dell'amore si estende a tutti i nemici; questo è il comandamento della nuova
legge: «Udiste che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma
io vi dico: amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano e
pregate per i vostri persecutori e calunniatori » (Mt5,43).
[Gaudium et Spes, n.28]
La Chiesa, poi, pur respingendo
in maniera assoluta l'ateismo, tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli
uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di
questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: ciò, sicuramente, non
può avvenire senza un leale e prudente dialogo. Essa pertanto deplora la
discriminazione tra credenti e non credenti che alcune autorità civili ingiustamente
introducono, a danno dei diritti fondamentali della persona umana. [Gaudium
et spes n.21]
Passando a trattare della
nostra microscopica, sotto un certo profilo, realtà di gruppo di Azione
Cattolica in San Clemente papa, può sembrare che l’impegno del quale ho
trattato sia manifestamente sproporzionato alle nostra forze. E’ un’impressione
sbagliata: infatti l’apocalittica battaglia che decide le sorti dell’umanità
del nostro tempo passa anche per quella piccola parte del mondo in cui abbiamo
voce, nelle nostre famiglie, nel nostro quartiere, nei nostri luoghi di
lavoro. Partecipare al nostro lavoro
comune in Azione Cattolica è uno dei modi in cui ci si può preparare per fare
la nostra parte nella direzione che in religione ci è indicata. Come ho detto
si tratta infatti di esprimere una sapienza
umana, una creativa e sapida integrazione di conoscenze profane e di
spiritualità per ideare e realizzare opere che, in quanto riguardanti il mondo
fuori dello spazio liturgico, spettano principalmente a noi fedeli laici. Ma da soli in questo si va poco lontano. Le
prospettive umane individuali sono infatti sempre limitate. Queste cose fanno
affrontate insieme, per arricchirsi
dei punti di vista, della cultura, della fede, delle strategie altrui e anche per
farsi coraggio a vicenda nelle difficoltà e negli insuccessi. E’ così che i
cristiani hanno fatto sin dalle origini.
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25
Un nuovo modello globale di
organizzazione e convivenza dell’umanità. Il modello della famiglia umana.
(2 novembre 2012)
Per molti versi l’umanità
contemporanea si viene organizzando
sulla base di principi religiosi cristiani. Religiosi perché non basati sull’osservazione di come va la natura,
quindi nel senso di soprannaturali. Cristiani perché improntati all’idea di pari dignità di ogni persona umana e ad
una solidarietà compassionevole verso chi
sta peggio. Questo può sembrare paradossale nel momento in cui le Chiese
cristiane registrano una crisi grave delle adesioni nelle società umane più
avanzate, quelle da cui scaturiscano i modelli organizzativi su grande scala.
in realtà non è la visione religiosa delle cose che ha perduto credito
popolare, ma il fondamento mitologico
dell’autorità religiosa, per cui c’è chi si presenta come autorizzato ad
imporre agli altri stili di vita parlando per conto del mondo soprannaturale.
Questo equivale a dire che ai tempi nostri ha meno forza nelle grandi religioni
storiche dell’umanità l’uniformità intesa
come sudditanza ad una autorità sacrale. Di questo fenomeno, da non confondere con la secolarizzazione, vale a dire con
l’indifferenza verso il soprannaturale, si è presa coscienza ai tempi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e si è
cercato di rimediarvi recuperando, e in un certo senso strutturando
innovativamente per renderla praticabile nella contemporaneità, la concezione
religiosa dell’umanità come popolo di Dio,
basata su un’uniformità fondata su
principi condivisi. In questo contesto l’autorità perde una certa
connotazione di arbitrarietà che era
venuta storicamente ad assumere e si propone come servizio alla verità, per promuovere quel nuovo tipo di uniformità.
Si tratta di un’esperienza che tutti noi fedeli di oggi, se ci pensiamo bene,
abbiamo vissuto nella nostra esperienza di Chiesa, anche in quella
parrocchiale.
Un modello alternativo di organizzazione globale
dell’umanità è quello basato sul riconoscimento delle differenze tra le stirpi
e le società umane e la competizione tra di esse perché emergano le migliori e,
in particolare, una umanità migliore, nel senso di fisicamente, spiritualmente
e intellettualmente più performante e società più potenti e ricche. In questa
prospettiva non tutte le persone umane hanno pari dignità. Questo modello ha
improntato di sé la colonizzazione europea dell’Africa e delle Americhe. Esso
quindi storicamente ha convissuto con il cristianesimo, che pure è fondato su
principi opposti. Il punto di conciliazione tra le due opposte visioni della
vita è stato il concepire la colonizzazione
come evangelizzazione. Il contrasto
tra di esse è emerso con forza quando, all’inizio della colonizzazione delle
Americhe, nel Cinquecento, ci si è resi conto che la colonizzazione stava portando allo sterminio degli amerindi, dei nativi
americani. Analoghi scrupoli sono emersi molto più tardi riguardo allo
schiavismo contro le popolazioni nere dell’Africa.
Il modello basato sulla diversa
dignità delle vite umane e sulla competizione tra stirpi e società umane si
ritrova nella concezione politica nazionalsocialista tedesca tra le due guerre
mondiali. Su di essa venne costruita anche una mistica religiosa, per
giustificare la pretesa di prevalenza del tipo umano ariano-germanico.
Concezioni basate su idee in
qualche modo analoghe si rinvengono in alcune dottrine economiche correnti
anche oggi, ma senza connotati religiosi espliciti. Ci si rifà ad estensioni
del modello di evoluzione delle stirpi umane basato sulla sopravvivenza del più
adatto proposto da Charles Darwin (1808-1882): queste ideologie sono chiamate neodarwiniane.
Dopo la catastrofe della Seconda
guerra mondiale (1939-1945) prevalse l’ideologia della pari dignità umana e della solidarietà
mondiale per la pace e lo sviluppo. Essa si rinviene nei documenti del Concilio Vaticano 2°. Ci troviamo quindi
a vivere una straordinaria opportunità per il cristianesimo, in un mondo in cui
i
principi religiosi cristiani sono divenuti legge globale dell’umanità.
Naturalmente ciò è avvenuto senza che la nostra religione in sé, quindi con
quella che al di fuori delle Chiese cristiane può essere considerata la sua mitologia e con la sua organizzazione gerarchica sacrale, sia
stata nuovamente imposta in qualche modo alle società umane del nostro tempo. Questo
può essere spiegato in vari modi. Innanzi tutto l’esperienza storica europea
aveva dimostrato che il confessionalismo religioso era stato fonte di
sanguinose divisioni. Poi, in un mondo
in cui prendeva piede l’idea di una unità e di una pace fondata su una
solidarietà sorretta da principi diffusi
tra la gente, le autorità religiose non avevano sufficiente consenso popolare.
E, infine, l’idea di una imposizione alle
coscienze contrastava con la comune
dignità umana sulla quale si voleva costruire un futuro finalmente
pacificato, pacifico e pacificante. Può sembrare pericoloso l’aver affidato
grande idealità a fondamento religioso alle masse, ma, almeno da noi in Europa,
questa si è rivelata una buona scelta, visti i sessantasette anni di pace che
abbiamo costruito insieme, una cosa mai
vista nella storia dell’umanità e per la quale ci hanno dato il premio
Nobel.
Poiché stiamo vivendo qualcosa
di veramente nuovo, c’è il problema di pensare e attuare forme di
organizzazioni dell’umanità che rendano stabile il nuovo modello. E’ il lavoro
che è in corso da molte parti e, in particolare,
da noi in Europa, verso la quale si è prodotto un gigantesco movimento
centripeto che addirittura ha coinvolto un nostro storico nemico come la
Turchia, erede dell’Impero Ottomano.
La più recente dottrina sociale
della Chiesa, diciamo dal 1944 in avanti, si è spesa molto nello sforzo di
suggerire nuovi modelli di convivenza umana in linea con i nuovi principi
diretti al mantenimento della pace mondiale e allo sviluppo globale di tutti i
popoli. Uno dei più recenti e importanti
contributi è l’enciclica Caritas in
veritate (2009) del papa Benedetto 16°. In essa è proposto il modello dell’umanità intera come famiglia. Si veda ad esempio,al n.7 di quel documento:
Quando la carità lo anima, l'impegno
per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto
secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in
quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara
l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità,
contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana. In una società in via
di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non
assumere le dimensioni dell'intera famiglia
umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in
qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio.
Questo modello che possiamo dire della famiglia umana, piuttosto
evocativo, presenta alcuni aspetti critici.
Esso si presenta fin dalle
origini della dottrina sociale della
Chiesa, sebbene con minore forza dei tempi più recenti:
Dal passato possiamo prudentemente prevedere
l'avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia
si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella
Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel
fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia.
[Enciclica Rerum novarum (1981) del papa Leone 13°]
Nella Costituzione Gaudium et spes, del
Concilio Vaticano 2°:
Per questo il Concilio Vaticano II,
avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere
la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano
il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. A tutti vuol esporre come esso
intende la presenza e l'azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo
che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro
le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca
i segni degli sforzi dell'uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il
mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall'amore del
Creatore: esso è caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo,
con la croce e la risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l'ha
liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere
al suo compimento.
Un
primo problema sta in questo: il modello
dell’umanità come famiglia richiama l’esperienza della famiglia come forma
di società naturale basata sulla propensione sessuale delle persone, su
finalità di procreazione e di cura della
prole e su una gerarchia parentale
che regola la solidarietà familiare. Ora,
le società umane più vaste come le nazioni o le unioni sovranazionali si basano
su altri principi. In particolare in esse si fanno più labili le relazioni
profonde tra gli individui, per cui esse richiedono una organizzazione politica che è costruita,
non presupposta. Inoltre la solidarietà sulla quale si fonda il
loro ordinamento pacifico non scaturisce,
se non ideologicamente, da un legame di
stirpe. Infine la difficoltà più seria di tutte: la famiglia naturale non è una società democratica e si ritiene, nel nuovo ordine di idee oggi prevalente,
che la democrazia sia indispensabile per il mantenimento della pace universale.
Il problema si propone con estrema forza quando si passa a ragionare dell’intera umanità, fatta di circa otto
miliardi di individui.
E c’è dell’altro.
La nuova organizzazione che si
vuole costruire a livello mondiale deve essere stabile, quindi destinata a
durare per diverse generazioni. La famiglia come piccola società naturale
basata sulla propensione sessuale è destinata fondamentalmente ad esaurirsi in
non più di due generazioni. Delle precedenti si ha labile memoria, salvo che,
per ragioni di casta o di dinastia, ci si incaponisca a mantenerla. Di solito
solo due generazioni sono tra di loro contemporanee, raro che lo siano i
trisnonni.
Le famiglie, inoltre, non
sempre sono società pacifiche e fondate sulla uguale dignità dei propri membri.
Non si dice forse “fratelli, coltelli”? Nella mia esperienza di pratico del
diritto, certe controversie ereditarie tra parenti sono acerrime e
incomponibili.
Infine: i modelli familiari sono
in rapida evoluzione. Di fatto nelle società umane contemporanee più progredite
si viene affermando un modello di famiglia
parentale di durata limitata, in molti casi con un solo genitore, e, con l’affermarsi sociale delle famiglie basate
su propensione omosessuale e il diffondersi della poligamia, si viene creando
nel mondo in cui viviamo una pluralità di
tipi di famiglia. Quindi la forza
evocativa dell’analogia tra la famiglia parentale e la convivenza dell’intera
umanità viene scemando. Non do
qui una valutazione etica del fenomeno, ed è chiaro che secondo la nostra
morale religiosa esso è visto come negativo: sto solo descrivendolo.
In una prospettiva religiosa, il
modello dell’umanità come famiglia presenta un pregio per la nostra gerarchia
ecclesiale. Esso consiste in questo: essa intende esprimere una autorità paterna (“papa”, ad esempio, deriva da
un termine greco che significa “padre”); in un’ottica di analogia familistica
essa può quindi presentarsi come fondata
su basi naturali, a prescindere da un
consenso della base. Esso però ha anche un altro pregio, per tutti noi, che lo
rende tutto sommato effettivamente appropriato, pur bisognevole di
precisazioni: richiama l’idea di solidarietà incondizionata e oblativa, fino al
rischio della propria vita, nella buona e nella cattiva sorte, qualcosa di più
della semplice amicizia.
Ho parlato di modelli universali, ma si tratta di cose
che vanno costruite sperimentalmente anche a partire da scale molto più
piccole, addirittura microscopiche, come ad esempio può essere considerato, a
confronto con l’intera umanità, il nostro gruppo parrocchiale di Azione
Cattolica. Come viviamo la nostra appartenenza? Parlando con diversi
soci ho avvertito in loro la nostalgia
di tempi in cui le relazioni associative erano più forti. E, d’altra parte, relazioni più forti
significano anche condizionamenti più
forti e, crescendo, si diventa sempre un po’ intolleranti verso cose
simili. Vale la pena di ragionarci su?
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26
Realtà invisibili
(3 novembre 2012)
Fondamentale carattere della
scienza moderna è la capacità di varcare i confini del visibile.
Nessuno ha mai visto un fotone [particella di energia luminosa]. Nessuno vedrà mai un sequenza cistronica
[parte dell’RNA messaggero, una molecola che svolge funzioni nella costruzione
delle cellule organiche]. Tali entità
sono reali, ma ricostruite da una laboriosa indaffarata convivenza tra prove
sperimentali e attività ipotetiche della mente. Essi sono invisibili disvelati
agli occhi dell’intelletto […]. Nella sociologia ci troviamo in una situazione
terribilmente arretrata. Siamo ancora timorosi nel compiere il salto verso l’invisibile, già compiuto
da duemila anni nella matematica e da oltre cento anni nella fisica”.
[passo tratto da un articolo di
Giorgio Prodi, Lineamenti di una
sociologia degli invisibili, citato nel libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e Città, Editrice A.V.E.,
2011, a pag.66]
Può accadere che noi persone di
fede si sia presi in giro o, comunque, sottogamba perché ci occupiamo anche di
realtà invisibili. Ci sono uomini di cultura che considerano la Bibbia e molte
altre storie che circolano in religione come delle fiabe. Altri, pur con meno
scienza, fanno loro eco e ci accusano di credulità. Ma, nella mia esperienza,
l’atteggiamento dei più non è di questo tipo. Di solito infatti la gente crede
nel soprannaturale, in genere perché trova più facile spiegare in quel modo ciò
che le accade. Ma trova difficoltà nel credere in un dio amorevole, benevolo.
Pare più rispondente alla realtà di tutti i giorni l’esistenza di geni, demoni
o folletti, e simili, che possono essere favorevoli o avversi, secondo il loro
capriccio. Questa può essere considerata una religiosità di tipo naturalistico,
che risale ai primordi della vita sociale umana, quando si riteneva che ogni
manifestazione del mondo intorno agli esseri umani fosse mossa da un dio. Essa
poi si sviluppò nel politeismo dell’antica religione latina e greca, che
precedette il successo del cristianesimo in Europa, nel Vicino Oriente e nel
Nord Africa e fu da esso combattuta ed estirpata, almeno nelle sue
manifestazioni pubbliche e nelle istituzioni. Nell’antica Preneste, l’attuale
Palestrina, nei dintorni di Roma, venne
edificato un grande santuario alla dea Fortuna
primigenia, molto venerata dagli antichi romani. In certi accaniti
giocatori alle lotterie e simili, che vediamo anche nel nostro quartiere,
potremmo in un certo senso riconoscere dei seguaci di quell’antico culto. Come
spiegare altrimenti tanta passione in
giochi in cui le probabilità matematiche di vincita sono tanto basse?
Certamente senza un legame con
l’invisibile la nostra non sarebbe una religione. Secondo la nostra fede, tutto
ciò che esiste è stato creato da una
divinità che ama noi esseri umani con amore di padre/madre e questo nonostante
le nostre imperfezioni e, in particolare, la nostra cattiveria. Questa
convinzione trova molte smentite nella realtà naturale. E’ quindi una fede soprannaturale, che ci porta a rettificare abbastanza ciò che si osserva
nella natura intorno a noi e in noi.
Lì dove la vita appare ad un certo punto finire, noi, ad esempio, siamo
convinti di una vita eterna.
L’esistenza degli esseri viventi appare dominata dalla violenza. Gli animali si
mangiano gli uni gli altri e anche noi ci nutriamo di altri viventi. Le terre
emerse si spostano generando terremoti. Oceani appaiono e scompaiono. Le stesse
stelle collidono o esplodono. Noi però siamo convinti, per fede, che tutto ciò
avrà, alla fine dei tempi, un compimento beato. Il mondo in cui viviamo
sparirà, certo, ma sarà sostituito da un mondo diverso, preparato per noi e
promesso. Esso non sarà però opera nostra, ma dell’amorevole potenza creatrice
dalla quale deriviamo. Dossetti nel discorso da cui è scaturito quel libretto
che ho sopra citato, invita a non metterla troppo semplice parlando di questo
con gli altri, come se tutto fosse ovvio, chiaro, scontato. La fede, che in
genere da bambini si acquisisce con una certa facilità, confidando nei propri
genitori e nelle persone da loro accreditate, crescendo è messa alla prova. La
religione serve appunto a custodirla e a rafforzarla.
Come ho osservato in altre
occasioni, l’aspetto che va costantemente e sapientemente curato, come quando,
da bambini, si difende pazientemente un castello di sabbia costruito sulla riva
del mare, che l’acqua tende costantemente a sciogliere avanzando verso la
terraferma, non è tanto la convinzione che Dio
c’è. Spesso i “non credenti” partono da questo, parlando con le persone di
fede, e trovano poca soddisfazione. Certo, noi portiamo argomenti razionali a
sostegno dell’esistenza del nostro Dio, ma egli rimane pur sempre invisibile. Chi può negarlo? E’ la
stessa Bibbia che a dircelo chiaramente.
Scrive Dossetti, nel libretto
sopra citato, a proposito
dell’Eucaristia:
Il mistero cultuale rende oggettivamente
presente l’evento del sacrificio di Cristo, ma contemporaneamente lo vela:
debbo trapassare il velo e questo mi è possibile solo nella fede, che mi fa
andare oltre le apparenze sensibili e oltre il tempo […]
Nella mia esperienza di fede, ad
un certo punto, viene una voce che noi siamo capaci di udire; viene dalla
storia umana tramite la Chiesa, che l’ha fedelmente custodita nei secoli, e
reca buone notizie. Ci parla infatti di un creatore amorevole e suscita in noi,
nel nostro animo, nella nostra interiorità, una risposta, perché appunto quella
voce è ciò che si attendeva da sempre di ascoltare. E’ stato notato che noi,
nell’evo presente, non vediamo, ma possiamo udire. Detto in termini
esplicitamente religiosi, questo denota l’importanza che attribuiamo a ciò che
sinteticamente definiamo la Parola,
vale a dire a quello che religiosamente ascoltiamo e che ci narra delle realtà
invisibili che sorreggono le nostre vite. Nell’esperienza religiosa è questo che è centrale, come spesso ci
ricorda anche il nostro assistente ecclesiastico nelle nostre riunioni:
ascoltare e comprendere la Parola.
Questa relazione che abbiamo con
il soprannaturale ci cambia e ci arricchisce nello spirito, ma non ci aggiusta
le cose nel mondo in cui viviamo, che
continua ad andare come deve andare in base alle sue dinamiche naturali. La
nostra fede infatti non ha nulla a che fare con la magia. Non portiamo un dio
dalla nostra parte negli affari che abbiamo in corso in società e riguardo ai
problemi che abbiamo con la natura, innanzi tutto con i nostri corpi, che
infatti ad un certo punto ci danno qualche dispiacere, e sempre di più
invecchiando. Attendiamo invece un beato compimento che è completamente nelle
mani di colui nel quale religiosamente confidiamo e al di là di ogni nostra
immaginazione. Non tentiamo di portare un dio sulle nostre vie, ma cerchiamo la
nostra strada verso colui che ci chiama, ci trae a sé e ci attende alla fine
della storia dell’universo.
In conclusione: quando ci
mettiamo a immaginare nuove organizzazioni sociali, anche al fine di
corrispondere a quella benevolenza
soprannaturale che ci sovrasta e ci colma, non dobbiamo dimenticare che il
punto di partenza, sia come individui che nei nostri gruppi, è nella
realizzazione di una spiritualità, lavoro questo non facile perché non si tratta
solo di tirar fuori cose da noi stessi, in particolare dalla nostra
immaginazione e dalla nostra emotività,
ma di inserirci in una tradizione molto antica dalla quale la
Parola è scaturita per noi. Per questo è
stata istituita la Chiesa della quale siamo parte viva, essa stessa realtà
visibile e invisibile, punto di contatto e di mediazione tra il visibile e
l’invisibile.
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27
A occhi aperti
(5 novembre 2012)
“Condizione di qualunque
progetto da parte di gruppi cristiani
[…]
Occorre … che siano adempiute molto più di
quanto non sia stato finora tre condizioni precise:
-che questo progetto sia non
solo nominalmente, dire per una “pia fraus” [trad.: per una bugia a buon fine], ideato
e perseguito anche praticamente, in modo totalmente distinto dalla comunità di
fede;
-che esso abbia una sua
genialità creativa (cioè non sia solo una rimasticatura di dottrina e progetti
altrove nati) e abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un momento
reale della storia, interpretato non solo con scienza (cioè con
l’intelligenza), ma anche con sapienza (cioè con l’intuizione);
-e che infine esso nasca da un
senso di giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina verso i
compartecipi sociali, specialmente verso le categorie evangeliche privilegiate
(i poveri, gli umili, i piccoli).”
[da: Giuseppe Dossetti, Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011, euro 8,00, pag.57]
Nel momento in cui a noi laici
viene richiesto di influire sulla società del nostro tempo per promuovere certi
valori che hanno un fondamento
religioso, dobbiamo chiederci come farlo. Infatti i cristiani storicamente
hanno a lungo improntato della loro fede le civiltà in cui si trovavano a
vivere, in Europa almeno fin dal quarto secolo della nostra era, ma non tutti i
modi in cui lo hanno fatto sono oggi praticabili, sia da un punto di vista
oggettivo, delle forze in campo, sia da un punto di vista etico. Oggi, ad
esempio, non ci affideremmo in questo a un imperatore cristiano o anche solo a una dinastia monarchica cattolica. E non accetteremmo di imporre
alla gente la fede cristiana sotto pena di
sanzioni criminali. Né lanceremmo una crociata contro popolazioni di
scismatici. Si tratta di forme di intervento dei cristiani nelle società del
loro tempo che sono state storicamente attuate. Ai tempi nostri in genere la si
pensa diversamente. Ma non è solo questione del senso comune, dell’opinione
corrente, ma è proprio la nostra Chiesa che si è data leggi diverse, che le
vietano quelle vie. Sono regole che troviamo nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), i
quali, come ho ricordato varie volte in precedenza, non sono solo testi
edificanti e istruttivi, ma leggi. Per alcuni di essi lo rivela il nome stesso
che è stato dato loro: costituzioni,
decreti. Ma anche quelli che sono stati denominati dichiarazioni hanno la stessa natura. E si tratta di leggi che,
promanando dal Papa in unione con un Concilio ecumenico, hanno una particolare
forza. Queste leggi, nonostante che nella loro stesura si sia avuta particolare
cura nell’evidenziare la continuità con il pensiero precedente dei capi della
nostra Chiesa, con le idee dei più autorevoli scrittori religiosi dei primi
secoli, con le liturgie praticate fin da tempi molto antichi e, naturalmente, con le Scritture sacre, divergono molto,
quanto alle indicazioni operative, concrete, con quelle che ebbero vigore in
altre epoche della nostra confessione religiosa. La fede è rimasta
sostanzialmente la medesima, ma il modo di vivere dei cristiani nella storia è
molto cambiato. Per altro, a mio parere, il Concilio
Vaticano 2° non ha inventato
nulla di ciò che di nuovo si è prodotto. Nelle intenzioni del papa Giovanni
23°, il quale lo indisse, esso aveva come scopo principale un aggiornamento delle leggi della Chiesa a
una realtà che già i fedeli stavano
vivendo e praticando. Il risultato fu però qualcosa di più: quelle leggi furono
concepite in modo da imprimere un movimento
in avanti nel corpo ecclesiale, rendendo possibili ulteriori sviluppi delle
dinamiche in atto, che infatti si produssero. Il magistero e l’azione di
governo del papa Giovanni Paolo 2° ne sono stati straordinarie manifestazioni.
Ma ancora più rilevante, anche se forse meno evidenziata nelle grandi fonti
informative del nostro tempo, è stata la spinta che si è creata nella masse dei
fedeli. C’è stata, nella nostra Chiesa, un profondo mutamento della religiosità
popolare, del quale di solito si sottolineano gli aspetti negativi, ma che ne
ha avuti anche di positivi.
Vorrei evitare, in queste mie
brevi note quotidiane, di ripetere cose che potete leggere, scritte meglio, con
più scienza, in altri testi, ai quali rimando. Ragiono partendo dalla mia
personale esperienza, tenendo presenti le esigenze di lavoro del nostro gruppo
di A.C. . Quello che penso di poter dire è questo. A partire dalla metà del
secolo scorso il ruolo delle masse cattoliche, in particolare dei laici, è
diventato più importante nella nostra
Chiesa. Si richiede alla nostra gente un impegno nella società che prima non
era preteso e veniva addirittura visto con sospetto. Lo si vuole informato e
consapevole. Ma non è solo questo: lo si vuole creativo. Infatti l’assunto che i capi ecclesiali avessero il
segreto della migliore organizzazione delle società civili si è rivelato fallace.
E quando il beato Toniolo (1845-1918) scriveva che la salvezza sarebbe venuta
da una società di santi, non da diplomatici, dotti o eroi, non si riferiva innanzi tutto alla gerarchia
ecclesiale. Questi nuovi compiti che, come laici, siamo chiamati ad assumere
comportano che si decida anche come lavorare insieme, con piena responsabilità.
Non si tratta più infatti di attuare
nel concreto decisioni di massima prese ai vertici.
In qualche modo, quella che
stiamo vivendo è un’era veramente nuova.
Si è presa, ad esempio, maggiore
consapevolezza della rilevanza religiosa delle realtà profane, di ciò che accade fuori degli spazi liturgici. In passato
si era giunti a una sorta di compromessi tra le autorità religiose e quelle
civili, che condividevano le popolazioni a loro soggette. Certe questioni, come
ad esempio le guerre, rimanevano fuori del campo del religioso. Popolazioni cristiane potevano essere arruolate le une
contro le altre, i sacerdoti e i vescovi di ciascuna di esse invocavano il
favore divino e prestavano l’assistenza spirituale ai combattenti e alle loro
famiglie, e non si pensava che qualcuno potesse lecitamente, anche da un punto
di vista religioso, sollevare una obiezione di coscienza in tutto questo. Una
volta che, invece, si decida di intervenire, animati da spirito religioso,
bisogna decidere come farlo tenendo conto che su certe scelte ci si può
dividere, ma che, come Chiesa, bisogna rispettare il comandamento dell’unità
del credenti, ma direi di più, dell’intero genere umano.
Anticipando quello che mi pare
di avere capito, bisogna considerare che sulle questioni sulle quali la gente
di fede ritiene ora di aver voce in capitolo anche sulla base di moventi
religiosi si deve discutere anche in chiesa. Sarebbe strano che non lo si
facesse, che cioè ognuno su argomenti di tale rilevanza fosse lasciato solo nel
capire e nel decidere. Anche perché
nessuno, da solo, può veramente pretendere di poter ideare o scegliere la
soluzione migliore. L’intelligenza dei fatti collettivi richiede una sapienza collettiva. Ma poi l’attuazione
delle scelte deve essere demandata alla responsabilità di ciascuno, non della
Chiesa, che ha rinunciato a questo tipo di potere dal momento che è espressione
embrionale di una realtà che non è di
questo mondo, e ognuno poi agirà insieme ad altri che compongono i vari
corpi sociali implicati nelle decisioni, in modo laico, inteso come non esplicitamente religioso, in modo da
poter coalizzare il massimo consenso possibile. Pensare di attuare esigenze di
fede con lo strumento di corpi sociali civili riproporrebbe infatti la modalità
desueta e impraticabile dell’impero
cristiano. Mentre rivestire di abiti
religiosi certe soluzioni storiche, certe forme organizzative, certi modi di
trasformare la società e la natura intorno ad essa, contrasterebbe con la
libertà di coscienza.
L’Azione Cattolica, nel suo
percorso formativo, ci consiglia esercizi
di laicità, vale a dire di provare in concreto, nei nostri gruppi, a
prendere in esame le nostre relazioni di fedeli cristiani con i corpi sociali
nei quali siamo inseriti e di capire come si possa fare per esprimere
nell’azione civile le nostre idee a fondamento religioso. Questa è una parte
importante del lavoro in Azione Cattolica e che differenzia molto i nostri
gruppi da quelli molto più centrati, ad esempio, su esperienze di spiritualità
religiosa o di preghiera. In questo Anno
della Fede possiamo però sentirci chiamati a qualcosa di più. Ne parla la
lettera apostolica di indizione. Sappiamo abbastanza della storia della nostra
Chiesa, dei problemi che ha dovuto affrontare, delle soluzioni che di volta in
volta sono state attuate? Questa è una parte importante dell’attività alla
quale siamo stati sollecitati. Non si tratta, quindi, solo di conoscere meglio
il catechismo, fosse anche un’opera
piuttosto estesa come il Catechismo della
Chiesa cattolica, il quale pure è sicuramente un utile punto di
riferimento. Bisogna aprire gli occhi
sul mondo intorno a noi. Se non lo conosciamo bene, non possiamo influire su di
esso. E a volte a chi ci circonda può sembrare che la nostra esperienza
religiosa abbia la realtà di un sogno,
tanto è distaccata dalle dinamiche umane concrete. Eppure in certe storie
bibliche è proprio da certi sogni che
scaturiscono importanti decisioni nell’animo della persona di fede. Come in
ogni cosa, quando si tratta di religione, si tratta di tenere tutto insieme, prospettive religiose e prospettive profane,
il cielo e la terra, pur nella consapevolezza della loro diversità. E’ quello
che Giuseppe Lazzati (1909-1986) definiva unità
dei distinti.
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28
La città dell’uomo
(7 novembre 2012)
“… il concilio ha fatto quello
che, nella storia della chiesa, fino ad allora non era stato fatto: ha espresso
chiaramente quale sia la vocazione del fedele laico, precisando non tanto il
fine (la santità a cui tendere, di cui è pina, in dottrina e in fatto, la
storia della chiesa), quanto la via attraverso la quale tendervi e giungervi.
Il fine è espresso nelle parole “Per loro
vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio” [ Lumen
gentium, n. 31]. La via da percorrere
è indicata, con altrettanta chiarezza: “trattando le cose temporali e
ordinandole secondo Dio”[Lumen
Gentium n.31]
[da: Giuseppe Lazzati, La città
dell’uomo – Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo,
Editrice A.V.E., 1984, pag.50]
“Col nome di laici si intendono
qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato
religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè che, dopo essere stati
incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo,
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di
tutto il popolo cristiano.
[…]
Per la loro vocazione è proprio dei laici
cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli i doveri e affari del
mondo e nelle ordinarie condizioni di vita familiare e sociale, di cui la loro
esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi
all’interno e a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio del proprio ufficio e sotto la
guida dello spirito evangelico, e in questo modo, a manifestare Cristo agli
altri, principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, speranza e
carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali
sono strettamente legati, in modo che siano sempre fatte secondo Cristo, e
crescano e siano di lode al Creatore e Redentore.”
[Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), cap.4° n. 31, lett.a) e b)]
Le parole della costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
del Concilio Vaticano 2°, che ho
sopra citato sono uno dei punti fondamentali dei vari ragionamenti e delle
decisioni di quella grande assemblea di vescovi che si riunì tra il 1962 e il
1965. Una novità assoluta nella legislazione nostra Chiesa, come rilevò
Giuseppe Lazzati (1909-1986) nel libro che ho menzionato (purtroppo non più in
commercio). Non certo del tutto una novità nell’esperienza storica dei
cristiani. Bisogna dire però che, a mio parere, solo con i moti europei e
nordamericani di fine Settecento la
questione di un ruolo più attivo in religione della gente comune, di coloro che
quindi non erano capi religiosi riconosciuti, si pose in modo nuovo, rendendo possibili gli sviluppi
che, nella Chiesa cattolica, hanno portato alla situazione dei tempi nostri,
che manifesta ancora potenzialità non sfruttate. I problemi che in merito sono
sorti e che ancora sorgono sono analoghi a quelli che si sono prodotti
nell’evoluzione politica democratica delle società contemporanee. Questo
manifesta con una certa evidenza che si tratta di movimenti della stessa
natura, pur in ambiti diversi. Nel passaggio dalla posizione di sudditi, solo
soggetti a un potere altrui, a quella di cittadini, partecipi delle decisioni
più importanti che riguardano le collettività, c’è chi si sente disorientato,
impreparato, deluso dai risultati ottenuti, sfiduciato nelle prospettive, e
allora guarda con una certa nostalgia al passato, per altro piuttosto
idealizzato, quindi abbastanza distante dalla realtà storica. Infatti nella via
verso la cittadinanza compiuta si incontrano le masse, grandi collettività,
composte di persone che si vuole con la medesima dignità, di gente che reclama
di poter dire la propria e di essere ascoltata. Non sempre è un bello
spettacolo. Decidere insieme, ascoltando le ragioni di tutti e poi però
accettando di seguire il volere di una maggioranza, soprattutto subordinando il
bene proprio personale a quello dell’intera collettività, è difficile, a volte
sfiancante. E’ problematico in particolare avere una visione sufficientemente
affidabile delle cose, perché questo significa perdere tempo e fare uno sforzo per informarsi, cercando di
raggiungere un punto di vista realistico, anche ascoltando chi ne sa di più.
Chi ne sa di più deve da parte sua avere la pazienza di comunicare con gli
altri, anche se ignoranti di certe cose, e di dialogare con loro, anche quando
pongono obiezioni palesemente infondate. La tentazione che c’è sempre è quella
di tagliare corto e, da un lato, di
seguire la gente che pare più decisa nell’imporre la propria volontà e,
dall’altro, di forzare la mano
imponendosi sugli altri sovrastandoli e tacitandoli in qualche modo.
Come c’entra tutto questo
nell’esperienza di un piccolo gruppo parrocchiale di laici come il nostro?
C’entra perché il lavoro per elevarsi, collettivamente, a quella nuova dignità
laicale che è espressa nelle parole della Lumen
gentium è ciò che maggiormente caratterizza l’Azione Cattolica dei tempi
nostri. Come si spiega questo? Si tratta di cosa che deriva da una realtà
sociale di impegno di fede che ha
preceduto i deliberati conciliari e di cui l’Azione
Cattolica e le organizzazioni che storicamente la precedettero furono
protagoniste. Le decisioni del concilio vennero infatti viste come un aggiornamento. Ma aggiornamento di
che e verso che cosa? Ad essere aggiornata
è stata la legislazione della nostra
Chiesa; essa fu aggiornata per riconoscere
la bontà di un’esperienza laicale che già esisteva, dall’Ottocento. Questo
significa ammettere che i padri conciliari non furono veramente degli innovatori, ma, appunto degli aggiornatori, e che l’innovazione si era già prodotta e attendeva solo di essere riconosciuta.
Tornerò sulle questioni della
nuova concezione dell’impegno laicale formulata nel corso del concilio, ma, per
rendere meglio l’idea del cambiamento e della sua origine, voglio riferirmi
alla questione, molto grave, dell’antigiudaismo cristiano, una realtà molto
antica e pervasiva.
Chi oggi, tra i fedeli
cattolici, sottoscriverebbe queste parole:
“Niente è più miserabile … di
questo popolo che non ha mancato occasione per rinunciare alla propria
salvezza, sono bestie selvagge … come gli animali, anzi più feroci di loro … il
profeta espresse la insania della loro libidine con una parola che si riferisce
agli animali”
scritte a proposito degli ebrei?
Sono citate nel libro di Gianna
Gardenal, L’Antigiudaismo nella
letteratura cristiana antica e medievale, Morcelliana, 2001, a pagine 56 e
57, e attribuite a S. Giovanni Crisostomo (344-407), il quale le scrisse in due
delle sue otto omelie contro i giudei.
L’antigiudaismo cristiano, ancora piuttosto marcato nel corso del
Novecento, fu ripudiato dalle genti cristiane dopo la tragica esperienza della
persecuzione e dello sterminio degli
ebrei perpetrati dai regimi nazisti e fascisti europei, prima di esserlo dalla
legislazione della nostra Chiesa. Anche in questo caso i deliberati del
concilio furono un aggiornamento, un
tenersi al passo con i tempi in ciò che
essi avevano prodotto di buono.
Per quanto riguarda il nuovo
impegno laicale dei cattolici nella società, in particolare dalle società rette
da regimi democratici, in cui la gente aveva più voce e possibilità di influire
sulle scelte supreme, esso iniziò a manifestarsi nel corso dell’Ottocento,
molto vivacemente, e non venne sempre assecondato dai capi religiosi. Si tratta
di una storia che presentò anche aspetti dolorosi, in particolare in Italia,
dove la frattura con l’organizzazione civile del nuovo stato unitario, retto su
basi democratiche, fu estremamente netta, a causa della cosiddetta questione romana, che riguardava le
rivendicazioni territoriali dei papi sul territorio del Regno d’Italia, in
particolare sulla città di Roma. In generale i papi furono, almeno fino al
1944, piuttosto sospettosi sull’impegno sociale autonomo dei laici cattolici e,
di solito, ammisero un’attività sociale del laicato solo come attuazione
puntuale di deliberati pontifici, principalmente in funzione difensiva del
papato e delle organizzazioni del clero e dei religiosi.
Il fatto che i capi della
nostra Chiesa siano venuti a sancire dopo
certi cambiamenti che si erano già prodotti nel loro popolo non deve però
stupire. Essi infatti hanno formazione prevalentemente teologica e ogni teologia, anche quando appare innovativa
rispetto ad una precedente, non innova veramente, perché ragiona sempre sulla fede della Chiesa,
quindi su qualcosa che già c’è. La
fede è sicuramente creativa, di
questo abbiamo sicura esperienza, non così la teologia. Innovare non è il suo
mestiere. Essa però può dare veste
teologica a un’innovazione, chiarendo, ad esempio, che certi principi, come
la comune dignità degli esseri umani,
sono presenti nella fede delle origini, quindi nel cosiddetto deposito di fede, pur se come
potenzialità storicamente poco o per nulla sfruttate e, innanzi tutto, capite.
Per oggi mi fermo qui. Vorrei
invitarvi a tenere a mente e a riflettere su queste parole della Lumen Gentium: “Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.”. Vi tornerò sopra,
riassumendo quello che in merito mi è stato insegnato in tanti anni di
formazione alla fede. Vi prego di ragionarci su anche voi e, in particolare, di
correggere o integrare quello che su quell’argomento scriverò. In particolare
terrò conto dell’insegnamento di Giuseppe Lazzati, dichiarato Servo di Dio, il primo grado nel processo di proclamazione di uno dei santi ufficiali
della Chiesa, e del beato Giuseppe Toniolo, la cui esperienza ho potuto
conoscere fin da ragazzo attraverso ciò che ne scrisse in un libro un mio zio
professore. Invoco religiosamente la loro intercessione in questa mia opera di
divulgatore parrocchiale che faccio da ignorante
colto, da persona quindi che si è un po’ familiarizzata con certi concetti,
ma senza essere veramente esperta sulla maggior parte di essi, in particolare
nella materia teologica. La mia formazione specialistica è giuridica.
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29
Una lunga storia
(8 novembre 2012)
Nei miei precedenti interventi
su cose della nostra fede comune c’erano molti richiami a fatti storici. Si
tratta di un modo di procedere che non è molto diffuso, in particolare nella
fase dell’iniziazione religiosa. E’ una cosa che si può constatare, ad esempio,
nel Catechismo della Chiesa cattolica,
un’opera destinata al grande pubblico su scala mondiale, e che pure ha avuto
una evoluzione storica dalla prima edizione, nel 1993, alla seconda, nel 1997,
in particolare sul tema della pena di morte. In quel testo non emerge con
chiarezza, anche se se ne parla, che la
Chiesa, nella sua componente “terrestre”, “nel secolo” come si suole dire, ha
avuto una storia, quindi diverse manifestazioni le quali hanno riguardato
anche concezioni molto importanti. Del resto si tratta di uno scritto su base
teologica e la teologia, in particolare quella cattolica, tende a lavorare per
stabilire una continuità con le origini, in primo luogo
perché quella continuità accredita la verità
della religione, per il legame molto stretto che nel cristianesimo si vuole
mantenere con il primo maestro, e poi perché essa è in linea con l’idea che la
Chiesa abbia anche una componente soprannaturale in virtù della quale è sempre la stessa in ognuna delle sue
varie espressioni compresenti sulla Terra e succedutesi nella storia. Questo
qualche volta porta a mettere in secondo piano l’evoluzione storica che c’è
stata anche nelle nostre collettività religiose e, comunque, a presentarla
fondamentalmente solo come una serie di progressi
verso una maggiore e migliore comprensione del messaggio di fede nei quali il
passato è comunque tutto contenuto nei tempi successivi, ponendo così in
risalto il dispiegarsi di un disegno soprannaturale coerente che regge le cose
umane. Questa visione è utile per dare il senso complessivo
dell’interpretazione della storia umana come noi la proponiamo in religione.
Può creare qualche problema se però, nel compito che è proprio dei fedeli
laici, vale a dire quello di trattare le
cose temporali e di ordinarle secondo Dio, secondo l’espressione utilizzata
nella costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
quindi, in termini correnti, di
realizzare un’organizzazione delle società umane più in linea con i nostri
ideali religiosi, noi trascuriamo certi dettagli della storia e certi
meccanismi delle cose umane e, in particolare, che il nostro presente per certi
versi ha significato il ripudio di
una parte del passato ed è fatto anche di questo. Bisogna infatti rendersi
conto che noi non costruiamo sul nulla, ma ci inseriamo in dinamiche
preesistenti e utilizziamo il materiale e le persone che ci sono. Giuseppe
Lazzati definì questo lavoro costruire la
città dell’uomo.
Egli scrisse nel libro La città dell’uomo – Costruire da cristiani
la città dell’uomo a misura d’uomo, Editrice A.V.E, 1984, pag.19:
Tenendo presente l’immagine del
“costruire” che guida la nostra riflessione, è immediato il riferimento
all’architetto o all’ingegnere; al progettista, insomma, che, per prima cosa,
vuol rendersi conto del terreno sul quale costruire l’edificio che gli è
commissionato […] E’ questa l’immagine
di quell’indispensabile coscienza di un passato
di cui non [si] può fare a meno […]
Il ricordato architetto elaborerà poi il
progetto dell’edificio commissionato tenendo conto dei materiali che ha a
disposizione e pensando le strutture rispondenti alle esigenza che, in quel
momento e per un certo periodo di tempo, possono soddisfare meglio coloro che
nell’edificio porranno la loro abitazione, i loro uffici, la loro industria.
Bisogna ragionare molto su
questo sapiente costruire nel mondo che ci compete come laici e
che è quell’attività che nella Lumen
Gentium viene definita, con linguaggio teologico, ordinare le cose temporali secondo Dio. Qualche volta noi tendiamo
a concepirci più che costruttori come
dei restauratori di un edificio che
c’era già e che nel tempo ha subito danni. Interroghiamoci: questa idea è
affidabile, realistica?
Io vi propongo questa
riflessione: ci sono nel mondo in cui oggi viviamo tante cose che non c’erano
nel passato. Questo non ha influenza sul nostro lavoro di costruttori di mondi? Tutto ciò che di nuovo si è prodotto è male?
Queste differenze con il passato
non riguardano solo gli oggetti, i materiali e gli strumenti, ma anche le
persone, le idee e le organizzazioni sociali. Ad esempio, considerate come è
mutato, dai tempi delle prime comunità cristiane, il ruolo delle donne nelle
società occidentali. Quella che nella Palestina di due millenni fa era in un
certo qual senso la regola, vale a dire la discriminazione sociale nei loro
confronti, oggi è considerata come un
illecito, perché vietata dalla nostra Costituzione e da altre leggi
nazionali, dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea (entrata in vigore il 1-12-09) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1955).
Poiché la nostra azione nel
mondo in cui viviamo ha anche un significato religioso e la nostra fede
religiosa ha una sua importanza nel lavoro che svolgiamo nella società civile,
in particolare come cittadini di una democrazia, anche la storia rientra nel
campo dei nostri interessi specificamente religiosi. Questo significa che, pur
attendendo la manifestazione piena di ciò che nella fede religiosa crediamo, il
nostro atteggiamento nella storia non può essere solo quello dell’attesa.
Parafrasando un simpatica espressione in romanesco che una volta pronunciò in
una udienza pubblica il papa Giovanni Paolo 2°, dobbiamo darci da fare. Questo darsi
da fare richiede appunto di prendere coscienza di ciò che si muove intorno
a noi e delle dinamiche storiche delle società in cui viviamo, perché non sia
sconsiderato, improvvisato, superficiale e quindi vano o addirittura
controproducente. Il Concilio Vaticano 2°
ha usato per rendere questa idea un’espressione che molti sicuramente
conoscono: scrutare i segni dei tempi:
È l'uomo dunque, l'uomo considerato
nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza,
pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo Concilio, proclamando
la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe
divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine
d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la
Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere
testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad
essere servito.
[…]
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i
segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo
adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli
uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni
reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le
sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
[dalla costituzione pastorale Gaudium
et spes]
Ieri ho richiamato la vostra
attenzione sull’espressione trattare le cose temporali per ordinarle
secondo Dio (nella
costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°), che, secondo
l’interpretazione di Giuseppe Lazzati, significa costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo; oggi
faccio la stessa cosa con scrutare i segni dei tempi (nella costituzione Gaudium et spes), che significa vivere, da cristiani, ad occhi aperti nel
mondo, consapevoli della sua storia e di ciò che in esso si agita. Penso
che, addirittura, trattandosi di cose che riguardano la nostra religione,
potremmo provare a costruirci sopra una preghiera da mandare a memoria. E
dovremmo riflettere su come fare, nel nostro lavoro associativo, nelle
occasioni che abbiamo di riunirci, per dare uno spazio a questi aspetti.
Ad esempio, nella riunione del
martedì abbiamo uno spazio di meditazione biblica, utilizzando le letture della
Messa della domenica seguente, un altro spazio di riflessione e discussione su
temi ecclesiali: potremmo forse dedicare almeno qualche minuto a quell’esercizio di laicità che consiste nel
prendere coscienza del corso della storia che stiamo vivendo a partire dalla
nostra concreta esperienza, dalle nostre vite. In questo costituisce senz’altro
una ricchezza avere un gruppo nutrito di anziani tra noi, che possono riferirci
del passato non sulla base di quello che hanno letto, ma di quello che hanno
vissuto. E’ una cosa che abbiamo iniziato a fare prima dell’estate. Ricordate
quando Maria Cretella ci ha narrato della sua esperienza di giovane di Azione
Cattolica in tempo di guerra, con gli aerei che, nei tempi di plenilunio,
venivano a bombardare, partendo dalla base britannica di Malta, la ferrovia che
passava vicino al suo paese? Non abbiamo allora apprezzato meglio, a partire da
quella storia così coinvolgente, il lungo periodo di pace che, dalla fine di
quella guerra, abbiamo vissuto in Europa?
Poiché si tratta di un’opera
religiosa, anche se si tratta di recuperare
ricordi di una storia molto concreta che si è vissuta nel mondo profano, vale a
dire di quello che c’è fuori delle nostre chiese, la possiamo affrontare senza
certi assilli che guastano le cose quando le si affronta, ad esempio, negli
studi, con l’ansia degli esami, o in politica, con la premura di sovrastare gli
avversari. Si procederà anche in questo con il ritmo lento e attento di una
preghiera, cercando di far reagire i
fatti di cui facciamo memoria con la nostra fede. Certe volte, quando si prega
intensamente, pare che il tempo si dilati e che quindi basti a dire tutto ciò
che si agita in noi. Allo stesso modo, con il ritmo della preghiera, dobbiamo
ricapitolare la nostra storia e il mondo in cui viviamo, curando molto i
dettagli, senza fretta, nello sforzo di non dimenticare nulla e nessuno,
nell’anelito religioso di venire incontro a tutti. Possiamo agire così nel
presupposto di fede che il beato compimento della storia, in cui confidiamo,
non sarà opera nostra, ma verrà dall’alto. A noi compete solo assecondare
questo movimento, non perché esso dipenda da noi, ma semplicemente per
continuare a farne parte, per assentirvi (questo effettivamente dipende da
noi), in quello che potremmo riassumere con la parola amen.
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30
Sentirsi responsabili di tutto
(10 novembre 2012)
“Il questa solitudine, che
ciascuno ‘regala’ a se stesso, si perde i senso del ‘con-essere’ … e la
comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre
più piccole …. sino alla riduzione al singolo individuo.
[…]
C’è da chiedersi, a questo
punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero
occidentale, come sostiene Lévinas [Emmanuel Lévinas, 1905-1995, filosofo francese]. A suo parere, possono essere evitate non con il semplice richiamo
all’altruismo e alla solidarietà; ma ribaltando tutta la impostazione
occidentale, cioè ritornando alla impostazione ebraica originale, nella quale
si dissolve proprio questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli
d’Israele sul Sinai, nel momento fondante di tutta la loro storia, quando Mosè
propose loro la Legge, hanno detto:
‘Faremo e udremo (Es 24,7)’.
Cioè essi scelsero un’adesione al bene,
precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea ‘pratica’
anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la
Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via della vera conoscenza. Questa
accettazione è la nascita del ‘senso’, l’evento fondante l’instaurarsi di una ‘responsabilità
irrecusabile’”.
[Dal discorso Una sentinella
nella notte, pronunciato da Giuseppe
Dossetti nel 1994 nell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati. Ora
in Armando Oberti (a cura), Lazzati, un
cristiano nella città dell’uomo, Editrice A.V.E., 1996, pag.27]
Una delle caratteristiche
dell’esperienza religiosa cristiana è che essa non nasce da una contrattazione
con un dio, per assicurarsene i favori nelle cose della vita. Non ha quindi
molta importanza sapere che cosa si guadagnerà in concreto avendo fede e che
cosa di preciso si dovrà fare per avere un certo risultato. E, in definitiva,
rimangono in secondo piano anche le stesse questioni dell’esistenza di una controparte soprannaturale, quindi
l’argomento “un dio c’è”, e dei
prodigi che il soprannaturale produce nella storia. Questo è paradossale agli
occhi dei non credenti, i quali invece attribuiscono molta rilevanza a tutte
quelle cose e, pensando di scuotere le convinzioni religiose, fanno notare che
il soprannaturale è invisibile, che non si manifesta nel mondo dal momento che
le cose vanno sempre come devono naturalisticamente andare e che tutte le
nostre storie religiose hanno la consistenza di fiabe, per altro neppure
costruite in modo tanto coerente. Non sono questioni che lasciano indifferente
la persona di fede, certamente la fanno soffrire; è scritto ad esempio nei
salmi, che sono parte della Bibbia: i
nostri nemici ridono di noi (Sal 80,7), le
lacrime sono il mio pane giorno e notte / mentre mi dicono sempre: “Dov’è il
tuo Dio?” (Sal 42,4). Ma, in definitiva, l’animo religioso sente di non
poter rinunciare a una certa visione della vita, per una questione che riguarda
la giustizia e che apre il cuore: corro
sulla via dei tuoi comandi / perché hai allargato il mio cuore (Sal 119,
32). Non accetta la violenza che vede intorno a sé e non sopporta di fuggirne
la responsabilità rispondendo a quella voce interiore che ode in sé con un “Sono forse io il guardiano di mio
fratello?” (Gen 4,9). Come argomentato da Dossetti, sulla linea di Lévinas,
la nostra adesione religiosa al bene precede qualsiasi contrattazione,
qualsiasi ragionamento di convenienza, è assoluta, non dipende in alcun modo
dal corso naturale delle cose (infatti diciamo che ha origine soprannaturale) e
per questo non è smentita dalle sconfitte, nasce da un sentimento molto forte
di giustizia che origina nello stare con gli altri e che è piuttosto duro
reprimere. Quest’ultimo ha a che fare con la felicità umana. Lo avvertiamo in
noi, ma capiamo che non ha fondamento in noi: infatti siamo cresciuti imparando
a conoscerlo, è oggetto di un insegnamento, che il più delle volte abbiamo
ricevuto fin da molto piccoli. E’ un comando interiore, ma non è costrizione:
esso infatti dà gioia e ha storicamente avuto intense espressioni sociali,
tanto da improntare di sé l’Europa fin dal tempi molto antichi. E’ a questo che
ci si riferisce quando si parla di radici
cristiane dell’Europa.
Ci sono altre forme di
religiosità? Certamente sì. Quindi pensare al fenomeno religioso come un qualcosa
di unitario, perché “si crede in un dio”
è errato. Ciascuna religione ha un suo specifico, in particolare quelle che
hanno avuto una lunga storia. Ma non è solo questo. Anche all’interno delle
singole confessioni, di ciascuna collettività religiosa esistono molte varianti
ammesse. Accade anche nella Chiesa cattolica, la cui principale caratteristica,
nonostante un’opinione corrente, non è l’uniformità.
Nell’Italia di oggi, oltre alla
storica presenza di Chiese cristiane riformate si è aggiunta, per l’immigrazione,
quella di confessioni dell’ortodossia dell’Europa orientale. Con gli altri
cristiani i cattolici condividono, in misura maggiore o minore, quasi tutto di
ciò che nella nostra concezione religiosa è essenziale.
C’è poi l’ebraismo italiano, una
presenza che è coeva con la diffusione del cristianesimo nella penisola. Dopo
oltre millecinquecento anni di discriminazioni e vere e proprie persecuzioni
subite dagli ebrei da parte dei cristiani, il cui inizio si fa risalire al
quarto secolo della nostra era in concomitanza
con l’affermarsi del
cristianesimo nelle istituzioni dell’impero romano, a partire dal Concilio Vaticano 2° si sono dischiusi ai cattolici i tesori del
pensiero ebraico, che sempre più spesso vengono menzionati dai nostri teologi e
che sono stati divulgati in ambienti più vasti da autori come il Levinas, sopra
citato da Dossetti.
Sempre per via
dell’immigrazione, dall’Asia e dall’Africa, stanno affermandosi anche da noi
fedi islamiche, le quali sono piuttosto distanti dal cristianesimo, pur
condividendone alcune storie religiose.
Ma il panorama della religiosità in Italia non si esaurisce qui:
conviviamo, ad esempio, con genti che praticano l’induismo, il buddismo e il
sikhismo.
Infine, nella nostra Italia sono
abbastanza diffuse credenze di tipo magico, in cui si pensa di poter ottenere
vantaggi soprannaturali nelle cose della vita mediante certe pratiche, in
particolare certi riti. Fedi di questo tipo hanno preceduto e accompagnato il
cristianesimo e quest’ultimo in genere le ha contrastate, anche piuttosto
duramente.
Ai tempi nostri appare anche
possibile in concreto un’esistenza umana priva di esplicite convinzioni
religiose, dell’adesione a una confessione istituzionalmente costituita. Su Il Venerdì di Repubblica di questa settimana, Andrea Tarquini,
nell’articolo I senza Dio, riferisce
del fatto che, come scritto dal giornalista polacco Mariusz Szczygiel nel libro
Fatti il tuo paradiso (Nottetempo
editore), solo il 14 % degli abitanti
della Repubblica Ceca si definisce credente
nei sondaggi, questo nonostante che
in quella nazione la vita sociale sia
improntata a forti valori etici. Ma, in definitiva, quel dato non
sorprende perché è tutto sommato in linea con i dati sulla pratica religiosa
nell’Europa del nord, che per altro registra anche valori ancora più bassi.
L’Italia di oggi, con il suo circa 30% di praticanti,
di persone che vanno a Messa la domenica, costituisce in questo una eccezione
(ma la percentuale di coloro che si definiscono genericamente credenti e che mantengono un riferimento
al cristianesimo come religione è molto più alta, superando la maggioranza
assoluta della popolazione).
Dopo il Concilio Vaticano 2° e a seguito dei principi in esso affermati,
possiamo vivere da cattolici con più serenità l’attuale pluralismo in materia
religiosa e instaurare e mantenere rapporti amichevoli con fedeli di altre
religioni e con persone non religiose. Non è stato sempre cosi, siamone
consapevoli.
In particolare, l’iniziativa
dell’Anno della Fede, che stiamo
vivendo nella nostra Chiesa, non è stata pensata per contrastare quel
pluralismo o per conseguire una maggiore uniformità nella nostra confessione
religiosa. Non c’è questo nella lettera apostolica di indizione Porta Fidei dell’11 ottobre 2011.
In questo Anno della Fede siamo stati invece invitati a riflettere,
acquisendone maggiore e più precisa consapevolezza, su ciò che specificamente
caratterizza la nostra esperienza religiosa. Abbiamo infatti la convinzione che
il cristianesimo abbia ancora qualcosa da dire e da fare nel mondo di oggi, che
quindi sia possibile e necessaria una nuova evangelizzazione, a partire
innanzi tutto da una rinnovato impegno pubblico nel quale la professione
religiosa sia concepita e vissuta come un
atto personale ed insieme comunitario.
Poiché è venuto ad avere meno
credito nella società, per il pluralismo di cui dicevo, l’affidamento sacrale
nelle autorità religiose cattoliche, che pure mantengono un ruolo importante
come punto di riferimento etico, e nella dottrina da esse insegnata, sta
divenendo più importante l’azione svolta dai fedeli laici nella società per
promuovere valori in linea con la nostra fede religiosa. Essa è stata finora
piuttosto efficace, consentendo una certa pervasività delle idee religiose
nella società, nonostante la diminuzione delle vocazioni sacerdotali e di
quelle religiose. E lo è stato perché non si è limitata alla mera propaganda religiosa e al proselitismo, ma ha agito in concreto per quell’azione di costruzione della città dell’uomo, di cui parlava Giuseppe Lazzati
nei brani che ho citato nei giorni scorsi. Ognuno ha sicuramente in mente
esempi di quello che dico. Questo si è
fatto in tempi che, per vari motivi, non sono stati molto favorevoli allo
sviluppo dell’azione propriamente laicale, tanto che il laicato italiano è
stato definito il brutto anatroccolo
(in Fulvio De Giorgi, Il brutto
anatroccolo, Paoline Editoriale Libri, Saggistica paoline, 2008, euro 16).
L’Azione Cattolica è da sempre
particolarmente impegnata nel miglioramento della presenza dei laici cattolici
nella società del loro tempo, non tanto con il metodo della contrapposizione,
del fare blocco sociale o del costituire
piccole isole di salvati, ma con quello del farsi evangelicamente lievito o
sale per metaforicamente fare crescere
e rendere sapidi in umanità. Una delle ragioni che possono spingere a un
impegno in un gruppo di Azione Cattolica è quella di voler vivere in questo
modo l’impegno di responsabilità religiosa di cui ci si sente partecipi.
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31
Costruire la città dell’uomo come dovere religioso
(12 novembre 2012)
[…]
APPELLO
FINALE
Cattolici
81. Noi scongiuriamo per primi tutti i
Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove, i laici devono
assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell'ordine temporale. Se
l'ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in modo
autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro,
attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o
direttive, penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di
vita. Sono necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde:
essi devono impegnarsi risolutamente a infondere loro il soffio dello spirito
evangelico. Ai Nostri figli cattolici appartenenti ai paesi più favoriti Noi
domandiamo l'apporto della loro competenza e della loro attiva partecipazione
alle organizzazioni ufficiali o private, civili o religiose, che si dedicano a
vincere le difficoltà delle nazioni in via di sviluppo. Essi avranno senza
alcun dubbio a cuore di essere in prima linea tra coloro che lavorano a
tradurre nei fatti una morale internazionale di giustizia e di equità.
[dall’enciclica Populorum
progressio (termini latini. Traduzione: Lo
sviluppo dei popoli), del papa Paolo 6°, del 1967]
“Considero l’enciclica Populorum progressio, del papa Paolo 6°,
pubblicata il 26 marzo 1967, di gran lunga il documento del magistero
ecclesiale in materia di dottrina sociale più coinvolgente ed emozionante. Ad
essa si è esplicitamente collegato il papa Benedetto 16° nell’enciclica Caritas in veritate” [traduzione:
l’amore nella verità], del 2009, un altro testo importantissimo.
Potete leggere la Populorum progressio sul WEB a questo indirizzo:
Quando
fu pubblicata ne sentii parlare in famiglia, ma ero troppo piccolo (avevo dieci
anni) per capirne l’eccezionale rilevanza. Da adolescente, negli anni ’70, ne
vissi gli ideali e gli sviluppi, ma non mi curai di conoscerla in dettaglio.
Solo da universitario, in FUCI, ne fui come folgorato. Da allora l’Appello finale che ho sopra trascritto sta fisso nel mio cuore.
Rimpiansi di non aver cercato di capire meglio l’anziano papa dei miei anni più
giovani, che era da poco morto. Era stato molto criticato, anche tra i suoi.
Anch’io avevo avvicinato la sua figura con un po’ di sufficienza, come spesso
usano fare i ragazzi con i molto anziani, con le persone che appartengono a un
altro tempo. Può sembrare strano oggi, dopo che con il papa Giovanni Paolo 2°
ci siamo abituati a folle di giovani che acclamano il papa. Negli anni ’70 era
molto diverso. Fu un’epoca che parve molto promettente, ma che fu anche
tragica, attraversata da conflitti durissimi e da sconsiderate esagerazioni
polemiche. Il papa Montini, fine intellettuale e profondo conoscitore delle
cose del mondo, soffriva. Vedeva la Chiesa che sembrava sbandarsi, nei
contrasti accesi tra rivoluzionari e conservatori. Intuiva meglio di altri le
gravissime conseguenze che potevano derivare dall’affermarsi di ideologie che
svalutavano la famiglia come fonte di relazioni amorevoli. Nello stesso tempo
resisteva a chi proponeva di cancellare o di neutralizzare l’aggiornamento ordinato dal Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Il dolore interiore che
traspariva dalla sua figura fu scambiato per incertezza dai conservatori. I
rivoluzionari videro in lui un ostacolo al progresso. Eppure egli fu il papa
della Populorum progressio. Si
pensava che fosse un uomo del passato, di un altro tempo: egli fu
effettivamente uomo di un altro tempo, ma del tempo futuro, di questo nostro
tempo che stiamo vivendo. Il gigantesco riequilibrio a livello globale tra
popoli un tempo poveri e i popoli più ricchi, che caratterizza la nostra epoca,
è infatti la manifestazione ancora travagliata e minacciata di un nuovo ordine
mondiale che potrebbe realizzare su scala globale l’era di pace sperimentata da
noi europei dalla fine della Seconda guerra mondiale. Come per ogni cosa umana
questo movimento è suscettibile di regressi e di mutamenti di direzione. La Populorum
progressio ci insegna che è nostro dovere
religioso intervenire nella sua storia per evitare che le cose si mettano
male.
Costruiamo sulle parole di Paolo 2° una
preghiera, una specie di salmo:
Noi laici rispondiamo all’appello:
assumeremo come nostro compito specifico il rinnovamento dell'ordine temporale;
di nostra libera iniziativa e senza attendere passivamente
consegne o direttive, al fine di penetrare di spirito
cristiano la mentalità delle nostre comunità di vita.
Promuoveremo cambiamenti e le
indispensabili delle riforme profonde;
ci impegneremo risolutamente ad infondere in essi il soffio dello spirito
evangelico.
Porremo la nostra competenza nella
nostra attiva partecipazione, in prima
linea, alle organizzazioni ufficiali o private, civili o religiose che si
dedicano a tradurre nei fatti una morale internazionale di giustizia e di equità.
Oggi in genere c’è scarsa
consapevolezza della storia ecclesiale che precede quella del papa regnante. E’
come se la morte di un papa chiudesse un’era.
Quando morì il papa Paolo
6°, il mio zio professore di Bologna, Achille Ardigò, mi portò su Ponte Sisto,
qui a Roma, che allora era sovrastato da strutture metalliche, delle passerelle
pedonali costruite nell’Ottocento, e, guardando il “Cupolone” mi disse proprio così “E’ la fine di un’era; ogni morte di papa chiude un’era nella storia
della Chiesa”. Con una chiave incise sul parapetto metallico della
passerella la frase “E’ la fine di un’era”,
perché, ogni volta che sarei passato di lì, mi ricordassi di questo concetto.
Ma, circa vent’anni dopo, le passerelle metalliche vennero levate e con esse
anche quella frase, che tuttavia mi porto dentro molto chiaramente.
La Populorum progressio non è
una legge della Chiesa, ma un documento del magistero ecclesiale e contiene
insegnamenti particolarmente autorevoli provenendo da un papa. Quel magistero
non è stato mai revocato; è quindi ancora attuale e vive nella Chiesa di oggi
in vari modi. Quell’enciclica liberò forze potenti nella nostra Chiesa a
livello mondiale. In un certo senso costituì una sorta di ordine di esecuzione
dei deliberati conciliari. Essa conteneva un appello ai popoli della Terra che
non aveva precedenti, in quanto diretto a suscitare a partire da essi stessi un
movimento mondiale per la realizzazione nelle società civili di una pace
fondata sulla giustizia. In particolare esso coinvolgeva i laici cattolici, con
una grandissima apertura di credito nei loro confronti, chiamati ad agire nella
storia senza attendere consegne o direttive dal clero.
In Italia una delle
conseguenze più importanti di quell’appello fu il fondamentale convegno
ecclesiale nazionale tenuto a Roma nel 1976 sul tema Evangelizzazione e promozione umana, preceduto da una lunga fase di
preparazione in cui tutto il laicato italiano fu coinvolto. Dalla fine degli
anni ’60 i concetti di promozione umana e
di liberazione cominciarono ad essere
affiancati a quello di evangelizzazione,
nello spirito della Populorum progressio.
Questo segnò una discontinuità nella storia dell’impegno nella storia dei
fedeli laici italiani. In precedenza infatti essi erano stati prevalentemente
chiamati a un attivismo pubblico in difesa dell’organizzazione del clero, in
particolare in difesa delle prerogative dei papi, dei vescovi, dei sacerdoti,
degli istituti religiosi e per la tutela del patrimonio della Chiesa, ancora
imponente pur dopo le spoliazioni conseguenti all’unità nazionale dell’Italia,
in cui il papato era stato tra le monarchie italiane sconfitte.
Riassumendo molto, si può
dire che, a partire dalla Populorum
progressio, l’azione per la realizzazione della giustizia sociale venne
considerata una forma di evangelizzazione e, anzi, la più efficace tra esse. Si
noti, per avere un’idea della cosa, che l’introduzione di quell’enciclica aveva
come titolo: “La questione sociale è oggi
mondiale”.
Cercando di dare una
valutazione complessiva agli sviluppi della storia ecclesiale negli anni ’70 si
deve riconoscere che questa nuova prospettiva non entusiasmò la gran parte dei
fedeli cattolici italiani, anche indubbiamente produsse movimenti di tipo nuovo
centrati sull’idea di azione sociale per la promozione umana, in particolare
per l’elevazione degli ultimi, e della
conversione religiosa come esperienza di liberazione. Non si riuscì veramente a
cogliere il nesso tra religione e azione sociale diretta a rimuovere e
sostituire strutture sociali ingiuste. Non si trattò (solo) di resistenze nella
gerarchia ecclesiale locale, ma di una incomprensione molto più radicata e
diffusa. Si possono individuare diverse cause di questo.
La prima, a mio avviso,
per quello che ricordo, fu l’impreparazione del laicato italiano, del quale
negli anni ’70 iniziai anch’io ad essere parte attiva. Ricordo che da ragazzo,
pur militando negli scout cattolici, in cui quelle nuove idee circolavano
molto, conoscevo poco della Bibbia, della storia della Chiesa e dei concetti
teologici fondamentali. Per me Chiesa significava liturgie e Sacramenti, i
sacerdoti della parrocchia e il papa.
Una seconda causa è che i
cattolici italiani erano stati storicamente abituati, a volte sotto minaccia di
esclusione ecclesiale, a dipendere molto dalle direttive dei papi.
Infine c’era il fatto che
la democrazia italiana, che costituiva anche, indirettamente, un presidio per
l’organizzazione del clero, era fondata sull’unità politica dei cattolici nella
Democrazia Cristiana. Per realizzarla si era dovuto centrare l’impegno politico
sull’interclassismo, del resto sulla base degli insegnamenti della dottrina
sociale della Chiesa risalente all’Ottocento; tuttavia sulla via della
realizzazione della giustizia sociale emergevano conflitti sociali che
contrastavano con quell’obiettivo. Essi inoltre erano stati storicamente il
terreno dell’impegno politico delle forze socialiste, le quali, benché
nell’Ottocento avessero sviluppato punti di contatto con l’azione sociale dei
cattolici, già in quel secolo ma soprattutto a partire dalla rivoluzione
sovietica in Russia erano state considerate dalla gerarchia cattolica come
avversarie della Chiesa. Nell’Italia degli anni Sessanta, essere cattolici
significava nella maggior parte dei casi votare democristiano per dovere
religioso. La conseguenza era che, se ad un certo punto, per motivi anche
religiosi, si era insoddisfatti della politica democristiana, si era tentati dall’abbandonare
la Chiesa. Bisogna dire che a questa conseguenza si era tentato di rimediare,
intuendo con lucidità i possibili sviluppi storici del Concilio Vaticano 2°, durante la presidenza nazionale dell’Azione
Cattolica di Vittorio Bachelet (1964-1973). In quegli anni, in cui l’Azione
Cattolica era ancora molto forte e diffusa sul territorio, radunando la gran
parte del laicato italiano, si cercò di sciogliere il legame di collateralismo tra l’organizzazione religiosa del laicato
italiano e l’organizzazione politica della Democrazia Cristiana, centrando
l’impegno religioso sulla formazione delle coscienze e rendendo in tal modo
legittimi impegni politici su diversi fronti senza che ne fosse pregiudicata
l’appartenenza ecclesiale. I tempi erano tuttavia prematuri. Solo dopo la fine
dell’Unione Sovietica, a partire quindi dal 1991, si produsse una situazione
simile. In quegli anni si era però già realizzata nella nostra Chiesa la svolta
impressa dal papa Giovanni Paolo 2°. Diciamo che con lui l’impegno laicale
tornò ad essere molto centrato sulla figura del papa. Il papa Giovanni Paolo 2°
ripropose sostanzialmente il modello di impegno storico laicale che era stato
sperimentato nella sua Polonia, nel duro confronto con il regime comunista che
all’epoca dominava quella nazione. In esso era vista con un certo sospetto
l’autonoma azione laicale finalizzata alla realizzazione della giustizia
sociale, in particolare in Occidente, in Europa e nell’America latina. In
quanto essa tendeva ad entrare in polemica con i regimi democratici dai quali
l’Est Europeo attendeva un aiuto per la propria liberazione dal giogo
sovietico, veniva vista come oggettivamente controproducente, quando non
realmente influenzata dagli storici avversari della Chiesa.
Noi oggi viviamo in un’era
diversa. Conosciamo bene i profondi legami di stima, amicizia e collaborazione
tra il papa Giovanni Paolo 2° e l’attuale papa Benedetto 16°. E tuttavia mi
pare che, nonostante superficiali considerazioni correnti, l’attuale papato
abbia una sua particolare caratterizzazione, che, in particolare, ha portato a
riaprire via che sembravano abbandonate. Ad esempio, nell’enciclica Caritas in veritate (2009) si legge:
esprimo la mia convinzione che la
Populorum progressio merita di essere considerata come « la Rerum novarum
dell'epoca contemporanea », che illumina il cammino dell'umanità in via di
unificazione.
Potete leggere l’enciclica Caritas in veritate sul WEB
all’indirizzo:
E’ ridiventato quindi di
stretta attualità l’appello che il papa Paolo 6° rivolse al mondo, e innanzi
tutto ai laici cattolici. Esso riguarda anche noi, del piccolo gruppo di Azione
Cattolica in San Clemente papa. Anche noi infatti abbiamo la possibilità di
fare qualcosa, nei settori di vita sociale in cui siamo inseriti, ad esempio
nella famiglia e nel lavoro, e quindi dobbiamo acquisire consapevolezza della
relativa responsabilità religiosa. La Caritas
in veritate ci mette però in
guardia: il nostro impegno per la giustizia sociale non deve essere
velleitario, deve collegarsi sapientemente con i principi di fede. Innanzi
tutto, quindi, bisogna conoscerli meglio. Ecco quindi il senso dell’iniziativa
in corso dell’Anno della Fede.
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32
Rinnovarsi sempre, ma
custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato
(14 novembre 2012)
Marco Ivaldo, in un breve saggio
dal titolo Lazzati, il Movimento laureati
e il MEIC inserito nell’omonimo fascicolo n.15 di Dossier Lazzati, Editrice A.V.E., 1998, € 6,00 (attualmente
disponibile in commercio), scrive, riferendosi a un discorso tenuto da Giuseppe
Lazzati il 7 dicembre 1968 nell’Auditorio di palazzo Pio in Roma e pubblicato
sul mensile Coscienza del Movimento laureati di A.C. lo steso
anno:
Traspaiono da questo testo il travaglio di quegli anni, ardui ma
fecondi, le trasformazioni del costume, la crisi del quadro politico degli anni
Sessanta, la complessa ricezione del Concilio nelle comunità ecclesiali, la
ricerca di nuove forme dell’apostolato dei laici, l’itinerario di ridefinizione
dell’Azione Cattolica Italiana con il nuovo statuto. Lazzati non sfugge a
questa problematica. Un’ampia parte del suo discorso è volta a riprendere
esauriente e concreta memoria dei “valori del passato”. Ma poi egli osserva:
“Non possiamo nasconderci le difficoltà innanzi alle quali l’Azione Cattolica si è
trovata e si trova in questa
situazione; talora è sembrato che fosse sopraffatta da altri tipi di
azione, forse più appariscenti o passibili di più definite misure; la
tentazione dell’efficienza immediata l’attira; un certo senso di vera e propria
crisi ha pervaso strati più o meno ampi dei suoi aderenti e l’ha condotta a
quel ripensamento di se stessa, dei propri metodi di formazione e di azione,
dal quale dovrebbe uscire sofferto ma vivo, semplice e dinamico il suo nuovo
statuto [che fu approvato nel 1969 – nota mia]. L’ispirazione idonea, l’atteggiamento giusto per affrontare la
situazione che allora si delineava Lazzati invita a trovarli in una celebre
espressione di un sermone di Ambrogio, il “De paradiso” [latino. Trad. “Sul
paradiso – nota mia], dove il padre e
dottore della Chiesa sostiene che il compito del cristiano è “nova sempre
quaerere et parta custodire” [latino. Traduzione libera mia: “Rinnovarsi
sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è ricevuto dal passato]. Bisogna “aprirsi al nuovo senza timori e
rimpianti” e insieme occorre mantenere “fedeltà ai valori che hanno costituito
la trama” della storia dell’Azione Cattolica e hanno “data la misura della sua
validità”. Non è lecita la “pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è
stato”, ma la “smania del nuovo” non deve “prendere il sopravvento sull’amore
del vero e la ricerca di ciò che vale”.
Cari amici del gruppo
parrocchiale di Azione Cattolica in San Clemente papa e cari altri amici che
avete occasione di leggere queste parole, oggi vi voglio parlare di questioni
associative, che però sono legate ad argomenti più vasti.
Quando, verso la fine degli anni
’70, entrai nel gruppo FUCI di Roma che si riuniva a piazza S.Apollinare,
eravamo una ventina di universitari, ma ci sentivamo pronti a conquistare in
mondo. Quando il cardinal vicario Poletti ci disse che eravamo i suoi occhi e
le sue orecchie nel mondo universitario, non fummo colpiti dalla sproporzione
di forze, dall’essere noi una percentuale minima degli oltre centomila studenti
romani. Nel nostro gruppo siamo di più dei miei fucini di allora, ma ci sentiamo un po’ in crisi. Non è così?
Passando una volta per i corridoi della parrocchia, ci ho sentiti definire gruppo anziani. E’ chiaro che può
parlare così solo chi non ci conosce bene. Però è vero che esteriormente
possiamo talvolta sembrare effettivamente un gruppo anziani. Persone più
giovani ci sono, ma sono in minoranza. A volte non vengono alle riunioni del
martedì perché impegnate sul lavoro o negli studi. Io stesso non di rado faccio
fatica ad essere in parrocchia alle cinque del pomeriggio, dopo il lavoro in
ufficio, e a volte non ci sono riuscito. Questa carenza di persone più giovani
incide abbastanza anche sul lavoro che ci proponiamo di fare in Azione
Cattolica, anche qui a Monte Sacro – Valli. Mancano infatti molti stimoli al
rinnovamento, che come sosteneva Lazzati sulla linea di S. Ambrogio, è uno dei
compiti propri di noi laici. Ma non è forse vero che anche l’altro compito,
quello di custodire, ci appassiona di
meno? Si va un po’ a memoria, ma la memoria degli anziani comincia a fare
difetto e non si ha tanta voglia di rinfrescarla. Perché è quando si è chiamati a comunicare qualche cosa alle
persone più giovani che si ripensa più validamente al passato: questo è un
fatto naturale e noi siamo esseri naturali. Ma gli esseri umani sono capaci
anche di uno sguardo soprannaturale. E’ ad esso che ho chiamato le mie figlie
universitarie quando ho proposto loro di aderire al nostro gruppo di A.C. . Non
dobbiamo fidarci delle apparenze: dobbiamo essere capaci di intuire l’anima
negli altri. Questo è un esercizio fondamentale dell’esperienza religiosa:
andare oltre ciò che appare. E le vostre anime, cari amici del gruppo, sono belle
e parlano dei ragazzi e delle ragazze che eravate e che interiormente ancora
siete. Che soddisfazione sentire i più anziani parlare delle loro esperienze di
A.C. in un mondo di molti anni fa, tanto
diverso, e per molti versi più difficile, del nostro di oggi! Un’A.C. indomita quella loro di un tempo, il
cui ardore e il cui attivismo
traspare ancora in certe prese di posizione nei discorsi che si fanno nelle
nostre riunioni. Cose che certamente non ci si aspetta in un gruppo anziani. Ma
direi di più: cose che oggi non ci si aspetta neppure dai giovani. Come mi
riferiscono le mie figlie, oggi gli universitari sono spesso dei conservatori
per sfiducia nel cambiamento, non si aspettano nulla di buono dal futuro. Del
resto non è quello che nei giornali e in
televisione si dice sempre loro? Paradossalmente, allora, è proprio dalla
memoria del passato che possono venire stimoli per il rinnovamento, quello
personale e quello della società in cui viviamo.
Pensare religiosamente la storia
ha questo di confortante: non è legato a tempi precisi, a scadenze inesorabili.
Possiamo, religiosamente, curare certi dettagli, così come certe preghiere
vengono recitate molto lentamente, con il ritmo della vita che scorre in noi,
con il ritmo del respiro come insegnavano alcuni maestri di spiritualità
monacale. E non si è nemmeno legati molto all’attualità, ai titoli di testa dei
giornali e dei telegiornali. Possiamo dedicare molto tempo a fatti minimi, così
come i monaci a volte dedicano molto del
tempo non impegnato nelle liturgie alla cura paziente e minuziosa di una
pianta o ad altre faccende minime o che
richiedono grande applicazione per un risultato che verrà magari oltre la loro
vita personale. Facciamolo, però! E’ esperienza comune dei più anziani che i
giorni corrano via più velocemente e che quindi giunga sempre, presto, la
sera. Si finisce allora per
sdormicchiare molto, lo ha scritto Carlo Maria Martini in uno dei suoi ultimi
libri di spiritualità, Qualcosa così personale, Mondadori, 2009, € 17,50. In
questo Anno della Fede ci viene un
appello forte a scuoterci, a rinnovarci, ripensando, e innanzi tutto motivando
meglio, i nostri ideali religiosi. Poi ci viene chiesto un impegno pubblico che può cominciare, ad esempio,
da questo (del resto siamo persone religiose): pregare perché persone più
giovani partecipino di quegli ideali e ci aiutino, nel nostro gruppo, stando
insieme a noi, a rinnovarci custodendo ciò che del passato merita di essere
conservato. E poi pregare perché, attingendo ai tesori del passato, anche agli
aspetti preziosi delle nostre vite, si abbia qualcosa da comunicare ai più
giovani. Non si costruisce dal nulla: i più anziani, in quanto religiosi
custodi del passato migliore e fedeli memori di quello peggiore, hanno anche,
in un certo senso, il segreto per costruire un futuro all’altezza dei nostri
grandi ideali.
Non è lecita la pigrizia, fatta anche solo di amore per ciò che è
stato, riteneva Lazzati ed è sorprendente che questa sua convinzione sia
rimasta fortissima anche tra i membri più anziani del nostro gruppo. E questo è
ancora più sorprendente tenendo conto dell’orientamento generalmente un po’ più
nostalgico del passato degli anziani del quartiere.
Trattare le cose temporali per ordinarle secondo Dio: questo il
compito di cui religiosamente dobbiamo prendere consapevolezza. Si tratta di un
impegno veramente smisurato, come tutto ciò che riguarda Dio. E’ chiaro che
sarebbe anche sproporzionato alle nostre forze se non confidassimo anche in un
sostegno soprannaturale, innanzi tutto per la rigenerazione del nostro gruppo.
La dobbiamo desiderare con molta determinazione e pregare molto perché essa si
compia.
L’efficacia storica della nostra
azione dipende dai contatti che riusciamo a stabilire con la società del nostro
tempo e quindi dalla nostra capacità di influire su di essa. Serve gente. Ora,
nel nostro lavoro natura e sopranatura sono strettamente commiste, dunque non
si fa affidamento solo sull’elemento naturale, quindi sulle nostre sole forze umane, ma esse comunque contano e
devono esserci, è legge di natura questa, il mondo è stato creato così: i
nostri grandi ideali, che servono ancora al mondo di oggi, sono incarnati in
noi e hanno bisogno di nuova umanità per continuare a pervadere la società,
perché noi, ad un certo momento, finiremo.
La caratteristica del nostro
atteggiamento verso i più giovani deve avere, a mio parere, questa
caratteristica, conformemente al metodo praticato in Azione Cattolica: non
cerchiamo nuove forze per indottrinarle
o per cambiare le loro vite. Noi non
abbiamo infatti la ricetta della felicità per i più giovani. Essi la devono
inventare da se stessi. Noi abbiamo una ispirazione ideale e siamo custodi di
una tradizione di fede che ci spinge avanti,
in un incessante rinnovamento.
Insieme ai più giovani vorremmo quindi ideare e attuare il nuovo che necessita
al mondo di oggi, secondo quell’ispirazione.
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33
La fede fa scandalo?
(16 novembre 2012)
In molti casi l’ostacolo alla
fede è costituito da una situazione di scandalo, o voluta falsamente, ad
esempio falsità diffuse contro la Chiesa e i cristiani; o per fatti reali. Non crediamo di aiutare i
lontani nascondendo o negando la verità. Se si tratta di errori storici ristabilire la verità; ma se c’è un
autentico scandalo bisogna avere il coraggio di riconoscerlo e di far capire
che la fede non consiste nel negare lo scandalo; ma far comprendere che lo
scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio che supera l’ostacolo
rappresentato dalle deficienze e dagli scandali degli uomini, siano essi laici
o uomini di Chiesa o anche Papi
da Per la catechesi ai lontani, articolo di Giuseppe Lazzati,
pubblicato nel 1967 su mensile del Movimento
laureati e ora nel fascicolo n.15 di Dossier
Lazzati, “Lazzati, il Movimento Laureati
e il Meic, Editrice A.V.E, 1998, €
6,00]
Verso la fine degli scorsi anni
’60, quando Lazzati scrisse le frasi che ho citato, costituiva un ostacolo alla
vita di fede pensare che nella Chiesa c’erano stati tanti cattivi esempi, anche
da parte di capi religiosi, e che i cristiani si erano resi responsabili
collettivamente di fatti efferati, come guerre, persecuzioni, schiavismo,
predazione delle terre e dei beni di altri popoli e delle loro stesse vite e
altro. Ai tempi nostri mi pare che nel nostro popolo la religione sia meno
apprezzata più che altro perché sembra che sia inutile nelle faccende della propria vita. Le cose sembrano sempre
andare come devono, come ci si aspetta che vadano secondo natura, e non cambia
nulla se uno è religioso o non lo è. I
forti vincono e i deboli perdono, così è sempre stato, si pensa. Forse però, si
argomenta, non è la religione, in generale, a non andare, ma è la religione
cristiana e, in particolare, la sua versione cattolica, così ragionevole, così poco aperta al
prodigio nella vita di tutti i giorni (quanto ci mette, si osserva, a
riconoscere un miracolo o un’apparizione soprannaturale!). In definitiva, si
pensa, la dottrina cattolica sembra
volerci convincere di doverci rassegnare
a ciò che accade: quindi per ora si deve cedere al male prevalente e lasciarsi
schiacciare, poi, in un’altra
dimensione però, avremo il premio. C’è chi allora si affida ad altre versioni
religiose o varianti della fede cristiana, che danno più soddisfazioni sotto
quei profili. Ma c’è anche chi decide di fare a meno del tutto della religione
e si costruisce allora un’etica individuale e collettiva che si basa sul tipo
di società in cui si sente meglio inserito, ottenendone poi un riconoscimento
appagante, come persona buona, onesta.
L’atteggiamento di chi si
lascia alle spalle la religione, che spesso è quella appresa in famiglia e
nelle comunità di riferimento, come può essere un paese, con le sue feste e le
sue costumanze, anche alimentari, può dispiacere, ma noi, nel lavoro che
abbiamo in mente per recuperare coloro che sono diventati i lontani, siamo piuttosto vincolati dai
nostri principi di fede, da quella che crediamo essere la verità sul mondo intorno a
noi e sul soprannaturale. Non possiamo quindi approfittare di quella sorta di
disposizione della gente a credere nell’azione soprannaturale, nel miracolo, che confina abbastanza con la credulità e inventarci
delle storie consolanti ma ingannevoli. Non possiamo dare alla gente quello che
in fondo essa ci chiede: la religione che mette a posto le cose della vita, che
risana tutte le malattie, che allontana la morte, che salva il rapporto con il
coniuge e i figli, che fa trovare o mantiene il lavoro, che ci fa tornare sani
e salvi a casa la sera dopo aver circolato per la città, e cose simili. Né possiamo promettere che essendo buoni,
partecipando diligentemente alle liturgie e pregando molto le cose cambieranno,
che tutti i problemi si risolveranno. Non è questo che ci è stato insegnato in
religione. Ricordate?: ora e nell’ora
della nostra morte… Quando mai ci hanno detto che alle persone religiose
sarebbe andato tutto bene in questa vita?
E io francamente non mi sento nemmeno di proporre, ai sofferenti, l’idea
che il male che capita loro è in realtà il loro bene, anche se essi, proprio
perché non abbastanza religiosi, non riescono a capirlo. Il male rimane male:
poi si può riuscire a dargli un senso
religioso e allora, come è accaduto in certe vite di santi, si può
addirittura ad avere una confidenza con esso che libera dalla paura o giungere
a desiderarlo perché si pensa che attraverso di esso si partecipi alla
redenzione dell’umanità intera, a una grande opera di salvazione. Ed è questo
lo stesso atteggiamento di chi in guerra compie un’azione eroica, altruistica,
a costo della propria vita. Ma si tratta, è chiaro, di una cosa molto diversa
da chi semplicemente tenta di voltare la
frittata e dice sbrigativamente che il
male sofferto (da un altro) è bene per il sofferente, e chi non lo capisce
non ha fede (aggiungendo così sofferenza a sofferenza, alla sofferenza della
vita quella del rimprovero religioso), ottenendo da parte di chi soffre un
sentimento interiore di rivolta che è umanamente del tutto comprensibile.
Come fare allora? Direi che
potremmo farne argomento di dibattito tra noi. Che cosa rispondere all’argomento Dio è inutile? E’ qualcosa
di più forte della considerazione Dio non c’è, che noi risolviamo
obiettando che in realtà Dio non si vede,
ma opera: e quest’ultima è una considerazione pacifica nel pensiero
biblico, mi pare di aver capito.
Lo scandalo è un motivo di più per credere in quel Dio, scrisse
Lazzati nel 1967. Per me è proprio così.
Mi pare così assurda e inaccettabile un’esistenza senza Dio, dominata dalla
cieca violenza delle cose e degli esseri viventi, senza amore-agape, quello che raccoglie pacificamente intorno alla tavola
comune per un bel pasto che nutre e dà gioia, che contro l’idea di una vita
così sento di dovermi rivoltare e proprio da questa rivolta nasce la mia
religiosità. Ma penso che negli altri vi siano tanti altri motivi per i quali
la fede religiosa è diventata l’aspetto fondamentale della loro vita. In questo
Anno della Fede siamo chiamati ad
approfondire questi argomenti, a riscoprire le ragioni del nostro atto di fede.
Chissà che questo possa anche servire ad aiutare coloro che sentiamo lontani in certe loro difficoltà
religiose, quelle che riguardano l’inutilità
di Dio, le quali, in fondo, possono anche scaturire da un certo pessimismo
sulla storia umana e quindi non
riguardare tanto il soprannaturale ma il mondo quaggiù. Poiché la storia umana
è lo specifico campo d’azione di noi laici cattolici, direi che è proprio un
lavoro per noi.
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34
Fede e promozione umana
(19-11-12)
Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini costituisce uno degli
aspetti più importanti del mondo di oggi, al cui sviluppo molto contribuisce il
progresso tecnico contemporaneo.
Tuttavia il fraterno dialogo tra gli uomini
non trova il suo compimento in tale progresso, ma più profondamente nella
comunità delle persone, e questa esige un reciproco rispetto della loro piena
dignità spirituale. La Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di
questa comunione tra persone; nello stesso tempo ci guida ad un approfondimento
delle leggi che regolano la vita sociale, scritte dal Creatore nella natura
spirituale e morale dell'uomo.
[dalla Costituzione pastorale Gaudium
et spes (latino.Trad.:La gioia e la
speranza) sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
n. 23]
Come ho già scritto, per il
metodo seguito nel redigerli, non è facile cogliere con immediatezza le novità nel documenti del Concilio
Vaticano 2°, denominati costituzioni,
decreti e dichiarazioni
secondo un criterio che tenne conto
della forza normativa che si volle attribuire loro, dal punto di vista
giuridico e quindi nelle loro reciproche relazioni e nelle relazioni con altri
atti normativi della Chiesa, e delle finalità pratiche che con essi si volevano
realizzare. Essi infatti furono scritti in linguaggio teologico e la teologia,
in particolare quella cattolica, tende a mettere in risalto la continuità, piuttosto che a esaltare le
novità. E, quando novità ci sono, esse in genere sono presentate come sviluppo o riscoperta di
qualcosa che già c’era prima. Questo modo di procedere è necessario per valutare se il nuovo che si
propone è conforme al deposito di fede
che abbiamo ricevuto dalle origini. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta
di capire, nelle varie manifestazioni storiche della nostra fede, come tenere tutto insieme, il presente, il
futuro e il passato, i vivi e i morti, tutti i popoli della terra, secondo il
comandamento religioso ricevuto: ristabilire
l’unità del genere umano. La teologia è riflessione sulla fede comune, nei
suoi fondamenti e nelle sue manifestazioni storiche, compresi anche agli atti
normativi di coloro che nella Chiesa esercitano l’autorità. Ecco perché nei
documenti più importanti del magistero, scritti in linguaggio teologico, quelli
che vogliono essere di orientamento ai fedeli, troviamo tanti riferimenti alla
Bibbia e al pensiero religioso del
passato. Nei documenti più recenti, dall’Ottocento in poi, troviamo riferimenti
più precisi alla storia del loro tempo, in particolare in quelli che si fanno rientrare
nella materia della dottrina sociale.
Un esempio di ciò che ho detto, di quel particolare metodo nell’argomentare, si
può trovare leggendo un documento fondamentale per la fede del nostro tempo
come l’enciclica Caritas in veritate,
del papa Benedetto 16°.
Vi posso confermare che nei
documenti del Concilio Vaticano 2° il nuovo
c’è. Ne ho già trattato in altri miei precedenti interventi, mettendo in
risalto, siatene consapevoli, solo di pillole
di novità, quindi una piccola parte
del nuovo che c’è.
La novità delle novità può considerarsi innanzi tutto quello che è stato definito il metodo conciliare. Nell’annunciare l’indizione del Concilio
ecumenico, il papa Giovanni 23° disse che avrebbe consultato tutti i vescovi
del mondo, perché il lavoro che ci si proponeva di fare richiedeva di conoscere
i punti di vista e di sfruttare le conoscenze e le capacità di molti. Ora,
bisogna capire che questa intenzione del
papa veniva incontro a un moto molto esteso che già c’era nella Chiesa
cattolica, in tutto il mondo. Il papa Giovanni 23° stesso ne era stato
partecipe e volle darvi voce. Insomma, il Concilio
Vaticano 2° può essere considerato
il culmine di un movimento, che comprendeva, come sempre accade nelle cose
religiose, vita e pensiero. C’erano
state negli anni passati nuove esperienze di vita di fede alle quali erano
corrisposte anche nuove analisi teologiche. In Europa, in particolare, erano state decisivi le riflessioni e i sentimenti indotti negli anni tra le due
guerre mondiali, che avevano visto, oltre al dominio dei totalitarismi fascisti
e nazisti su larga parte del continente,
anche l’affermarsi della rivoluzione sovietica in una nazione di antica
formazione cristiana come la Russia. Essi avevano trovato una sfogo, dal 1945,
con la vittoria sui regimi fascisti e nazisti europei, nell’epopea della
costruzione di una nuova Europa, che si era articolata, con metodi divergenti e
addirittura confliggenti ma con il dichiarato obiettivo comune della giustizia
sociale come fondamento della pace, sia nella parte occidentale, rimasta sotto
l’influsso della nuova potenza globale statunitense, sia nella parte orientale,
finita sotto il dominio sovietico. Questo intenso lavorio collettivo non era
stato solo tecnica: aveva avuto anche
una marcata componente ideale. Ne
possiamo trovare un esempio nella nostra Costituzione, approvata nel dicembre
1947, dopo un anno e mezzo di confronti assembleari di rilevante livello
culturale ed etico, ed entrata in vigore nel 1948. Semplificando molto,
possiamo dire che quel dibattito ideale coinvolse sempre in maggior misura
anche la Chiesa cattolica, fino ad arrivare ai massimi vertici. Sarei grato a
chi, più a conoscenza di questi fatti, volesse approfondire il tema delle
radici lontane del movimento conciliare
e segnalare testi per approfondirlo. Dal mio (limitato) punto di vista credo di
poter consigliare per avere un’idea di ciò che intendo il libro Esperienze pastorali, di Lorenzo Milani,
pubblicato nel 1957, ancora in commercio, edito da Libreria editrice fiorentina, € 18,00.
E’ vero che l’annuncio del papa
Giovanni 23° di voler indire un concilio
ecumenico sorprese i suoi contemporanei, in particolare i cattolici. Non
però perché non si sentisse nel mondo l’esigenza di una cosa simile, ma perché
non ci si aspettava che proprio dal papa romano venisse questa iniziativa.
Infatti, fino ad allora, i papi erano apparsi più preoccupati di porre limiti
ai moti popolari, più che di dar loro strada e occasioni per manifestarsi.
Nuovo era poi il metodo di consultare
i vescovi del mondo, come se a Roma non si avesse già una soluzione pronta per
tutti i problemi di cui si sarebbe discusso. Ora, questa consultazione rea
intesa evidentemente a far emergere
quel movimento che, come ho osservato, già
c’era e invocava cambiamenti. Tuttavia nella prima
fase preparatoria del concilio si ebbe la sorpresa di scoprire che i vescovi
non ne erano in genere consapevoli. Scrisse lo storico Giuseppe Alberigo nella sua preziosa Breve storia del concilio Vaticano II, Società editrice Il Mulino, 2005,
€ 10,50, ancora in commercio:
Caduta l’ipotesi di consultare i vescovi con
un questionario, il papa fece invitare ciascuno a indicare i problemi e gli
argomenti che il concilio avrebbe dovuto
affrontare. Nei mesi successivi sono arrivati al Vaticano circa duemila
pareri (“vota”) da tutto il mondo. La maggioranza di questi scritti
testimoniava la sorpresa e il disorientamento: Roma non ordinava, ma chiedeva
suggerimenti! Moltissimi hanno auspicato che il concilio si occupasse di
argomenti di modesta portata; ben pochi avevano orizzonti ampi ed erano
assuefatti a prospettive coraggiose.
Tornando alla citazione dalla
costituzione pastorale Gaudium et spes
con cui ho aperto questo intervento, vorrei invitarvi a porre attenzione a
queste espressioni: Il moltiplicarsi delle relazioni tra gli uomini; esige un
reciproco rispetto della loro piena dignità spirituale; approfondimento
delle leggi che regolano la vita sociale;
la Rivelazione cristiana dà grande aiuto alla promozione di questa comunione tra persone. Ora, tenuto conto di quello che ho
osservato nei miei precedenti interventi sulle caratteristiche ideali delle
democrazie contemporanee, quelle parole della Gaudium et spes, espresse in terminologia teologica, inquadrano il
problema fondamentale dei nostri attuali regimi democratici: una diversa organizzazione della società
basata su nuove relazioni umane scaturite dall’idea di una comune dignità di
tutti gli esseri umani. Mai, prima
d’ora, che io sappia, i popoli, intesi
come comunioni di persone con pari dignità e
non solo come insiemi di sudditi di storici despoti o dinastie, erano venuti ad assumere questo rilievo in un
documento ecclesiale cattolico di quell’importanza. E’ quindi veramente un linguaggio nuovo. Il movimento che si
vuole produrre nei fedeli è analogo a quello dal quale sono scaturite le democrazie contemporanee: la promozione umana, vale a dire l’elevazione
delle masse (infatti non si fa distinzione tra le persone umane), mediante
il riconoscimento di una loro comune dignità,
dalla quale deriva l’esigenza di adeguate leggi,
vale a dire il riconoscimento di diritti
umani fondamentali, per un miglioramento della società (nel documento denominata comunione di persone). Questo lavoro, si dichiara, ha fondamento e
quindi rilievo religioso, essendo compreso nei principi fondamentali della fede
(la Rivelazione).
Quali conseguenze?
Direi innanzi tutto che,
come molte altre affermazioni o auspici dei documenti del Concilio Vaticano 2°, quel principio stabilito nella breve frase
che ho citato all’inizio merita un approfondimento.
Anche in questo il Concilio Vaticano 2° non è
stato un punto di arrivo ma, in metafora, un apparato propulsore che ha messo un movimento un corpo sociale, la
Chiesa, che sembrava destinata al progressivo declino nel confronto con i tempi
nuovi, per il fatto di rimanere sempre immobile e quindi, nell’avanzare della
storia, sempre più arretrata.
Prendiamo ad esempio questo
pensiero, che si trova a pag.14-15 di Pass-wor(l)d –percorso formativo per gruppi di adulti, Editrice A.V.E., 2012, €
8,00, il sussidio che l’Azione
Cattolica ci propone per la vita associativa:
La virtù del discernimento è quella qualità che consente di distinguere
in ogni circostanza cosa convenga fare e, ancor prima, che si può e si deve
prendere una decisione senza restare sempre e solo spettatori della propria
vita. Perché questo discernimenti può essere anche comunitario? Perché l’intera
comunità di battezzati e chiamata alla corresponsabilità: ognuno porta la
propria esperienza, i propri talenti, la propria umanità costruita nei luoghi
di partecipazione e di vita, in famiglia, al lavoro a scuola, con uno sguardo
ampio e l’orizzonte dell’intera comunità. Non è una moda, non ha una logica di democrazia, che non ha posto nella Chiesa, ma
la necessità di mettere all’opera tutti i carismi del corpo della Chiesa.
Siamo veramente certi che, nel momento
in cui si richiedono ai laici azioni collettive di promozioni umane, fondate su un discernimento
comunitario, inteso come distinguere
in ogni circostanza cosa convenga fare, e questo viene considerato loro compito religioso, la democrazia,
nel senso in cui oggi la si intende, non
abbia posto nella Chiesa? Non dico,
ad esempio, per l’elezione di rappresentanti ad un concilio in cui si debba
decidere qualche corollario del dogma trinitario, ma, poniamo, per decidere che
posizione prendere, come comunità di fedeli, quindi collettivamente, nei
confronti di una guerra incipiente, le cui origini risalgano, come sempre
avviene, ad una complicata situazione politica e che, per poter essere sedata,
richiede non solo solenni dichiarazioni ieratiche, ma l’esercizio di una
sapienza e di un’abilità specificamente laicale,
basata su una conoscenza delle dinamiche storiche e una sapienza nel trattarle
che esorbita dal campo specificamente teologico e liturgico.
L’Azione Cattolica si
definisce palestra di democrazia,
quindi è retta con metodo democratico, ma naturalmente, pur essendo parte della
Chiesa, non parla a nome della Chiesa. Secondo l’ordinamento delle leggi della
Chiesa possono farlo solo il papa e i vescovi, individualmente o
collettivamente, nel sinodo o nel concilio. Essi tuttavia, sempre più spesso, e
anche nella redazione di importanti documenti del magistero, chiedono la
collaborazione di laici sapienti e tengono conto di ciò che si agita nel corpo
ecclesiale, quindi della storia del loro tempo e delle reazioni che essa
suscita tra i fedeli. C’è quindi un dialogo tra i capi e le loro comunità. Ma
queste ultime, come corpi collettivi, possono esprimere una decisione unitaria veramente
affidabile solo con metodo democratico. E’ lo stesso metodo che è stato
utilizzato per formare e approvare i documenti del Concilio Vaticano 2°. Per ognuno di essi è riportato il numero di
voti favorevoli e contrari che ha riportato ed è stato approvato il testo
votato dalla maggioranza degli aventi diritto ad esprimersi. Questo anche se
poi i documenti del Concilio Vaticano 2° sono
entrati in vigore in quanto promulgati (approvati,
decretati, stabiliti) dal Papa.
Pongo una questione sulla
quale discutere, non do soluzioni.
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35
Il conflitto come esperienza religiosa
(19 novembre 2012)
Anni fa uscì un film dal titolo Saving private Ryan – Salvate il soldato
Ryan. In esso si racconta di una pattuglia di soldati statunitensi che,
scelta tra i militari sbarcati in Normandia nell’invasione degli eserciti Alleati del giugno 1944, ha avuto la missione
di rintracciare e riportare in patria un soldato semplice americano che aveva
diritto all’esonero, per essere l’ultimo ancora in vita di quattro fratelli
partiti militari per la guerra in Europa. All’inizio c’è una sequenza che mette
in scena lo sbarco su una spiaggia della
Normandia dei componenti di quella pattuglia. Di fronte alla violenza estrema e
alla morte tutt’intorno vengono presentati vari atteggiamenti religiosi dei
soldati americani. C’è che invoca la Madonna, chi recita il Padre nostro e c’è
un tiratore scelto che, nel prendere la mira pronuncia le parole dell’inizio
del salmo 144:
Benedetto il Signore, mia
roccia,
che addestra le mie mani alla
guerra,
le mie dita alla battaglia,
e poi, pam!, spara e colpisce il nemico.
Nel vedere questa scena, le
parole del salmo in bocca a una combattente che sta per uccidere mi hanno
colpito, eppure indubbiamente erano appropriate alla situazione.
La nostra Chiesa nel corso
della storia è rimasta molto spesso
coinvolta direttamente o indirettamente in eventi bellici. Ricordo, tra i molti
episodi storici, la sanguinosissima guerra combattuta da una federazione di
stati cristiani, coalizzati sotto le insegne pontificie (era Papa Paolo 5°),
contro l’impero Ottomano, nel Cinquecento
e culminata con la battaglia
navale davanti a Lepanto (1571 – Lepanto si trova nella Grecia
occidentale). In genere non vi ha trovato difficoltà, almeno
fino agli anni della Prima Guerra Mondiale (1914-1918).
Si ricorda in merito la Lettera del Santo Padre Benedetto 15° ai
capi dei popoli belligeranti (1917)
Chi
ha seguito l'opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude, ha
potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta
imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall'esortare e popoli e
Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso
pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento.
[…]
In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave
minaccia, Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento od
interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla
coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli
che invocano l'opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa
dell'umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo
un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non
contenerci sulle generali, come le circostanze ci suggerirono in passato,
vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche ed invitare i
Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che
sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai
medesimi Governanti di precisarli e completarli.
E primieramente, il punto fondamentale deve essere che
sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi
un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli
armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e
sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in
sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione
pacificatrice, secondo e norme da concertare e la sanzione da convenire contro
lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro
o di accettarne la decisione.
Stabilito così l'impero del diritto, si tolga ogni ostacolo
alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari:
il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti
nuove fonti di prosperità e di progresso.
[…]
Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro
scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione,
giustificata del resto dai beneficai immensi del disarmo; tanto più che non si
comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di
ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari,
queste si ponderino con giustizia ed equità.
Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba
posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il
ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione
economica, così importante per l'avvenire e pel benessere materiale di tutti
gli stati belligeranti. Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica
ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza
di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa
lotta tremenda, la quale, ogni giorno
più, apparisce inutile strage.
Un episodio significativo del
cambiamento di mentalità si ebbe quando il papa Paolo 6° incaricò
l’internunzio apostolico mons.Francesco
Lardone di restituire al governo della Turchia, in persona del ministro degli
esteri, lo stendardo dell’ammiraglio Muezzinzad Alì Pascià catturato agli
ottomani durante quella battaglia che era conservato in Vaticano, consegna che
fu eseguita il 5-3-1965 ad Ankara – Turchia. Ecco come il Papa, il 19-1- 1967,
descrisse le intenzioni di quel gesto in una lettera al nuovo ambasciatore
della Turchia presso la Santa Sede:
Sotto il
pontificato del Nostro predecessore Giovanni XXIII, avevamo appreso con viva
soddisfazione che si stabilivano le relazioni diplomatiche tra la Sede
Apostolica e il Suo Paese, e questo aveva incontrato la Nostra piena approvazione.
Tali relazioni sembra a Noi che fino ad oggi si siano sviluppate in
un’atmosfera di reciproca comprensione e di amicizia; e non possiamo che
congratularcene, mentre ne è una nuova conferma la recente elevazione del
Delegato, poi Internunzio in Turchia, al rango di Pro-Nunzio Apostolico.
Poiché Noi stessi desideravamo manifestare in qualche modo
i Nostri sentimenti, con un gesto che potesse essere gradito alle Autorità
della Turchia contemporanea, è stata per Noi una gioia restituire un antico stendardo,
preso al tempo della battaglia di Lepanto, che, da allora, si conservava nelle
collezioni del Vaticano.
Questo Le dice, Signor Ambasciatore, quali siano le
disposizioni che Ci animano nei riguardi della Sua grande e bella Nazione.
Crediamo di poterle garantire che i membri della Chiesa Cattolica, che abitano
sul Suo territorio, professano la fedeltà più sincera alle Autorità del Paese.
Se la Chiesa si preoccupa che i Poteri civili riconoscano sempre ai suoi figli
i loro diritti e ne assicurino la piena libertà di azione, Essa non intende
certamente sminuirne gli obblighi di cittadini e di sudditi. Anzi, la fede
ch’essi professano impone loro il dovere di non essere secondi a nessuno in
tutto ciò che riguarda l’attaccamento alla Patria, e il giusto rispetto, dovuto
alle legittime Autorità.
Nelle epoche che hanno preceduto la Prima
guerra mondiale, i conflitti bellici venivano considerati facenti parte della
natura dell’umanità, in quanto degradata dal peccato e bisognosa di redenzione,
cose inevitabili come la morte stessa e destinate ad essere superate alla fine
dei tempi. Ancora nell’Ottocento il papato impegnò propri eserciti in guerre
italiane (Prima guerra d’Indipendenza – 1848/1849; difesa di Roma nel 1848 e
nel 1870). Successivamente si orientò per una posizione di neutralità, almeno
fino al 1944 (Radiomessaggio natalizio di Pio 12°). Nel corso della
contrapposizione tra blocco delle potenze influenzate dagli Stati Uniti
d’America e il blocco influenzato dai sovietici parteggiò per il primo. Nel
1968 il cardinal Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, si dimise dopo le
polemiche causate da una sua presa di posizione contro il bombardamenti
statunitensi in Vietnam (fonte: Lorenzo Bedeschi, Il cardinale destituito, Gribaudi, 1968 – titolo non più in
commercio). Dopo la fine dell’Unione Sovietica e della contrapposizione per
blocchi, il papato è diventato una potenza di pace, anche se non del tutto
pacifica, in quanto, con Giovanni Paolo 2°, è giunto ad invocare interventi
militari umanitari, come durante la
crisi tra la Serbia e il Kossovo secessionista (1996-1998).
Le dinamiche conflittuali sono ancora un grave
problema irrisolto nella nostra confessione religiosa. Conflitti ci sono sempre
stati, fin dalle origini, nella Chiesa e intorno alla Chiesa. In genere,
storicamente, i cristiani e anche la Chiesa, intesa come papi e vescovi, vi hanno partecipato, senza confidare di
poterli prevenire. E’ molto recente l’idea di poter riuscire a farlo. Essa risale
alla fine della Seconda Guerra mondiale. Per riuscirci si confida negli
ordinamenti democratici, in cui i popoli hanno più voce. Il paradosso è questo: il magistero confida nella
democrazia come fonte di relazioni pacifiche, evidentemente ritenendo che i
popoli, liberi da despoti, si orientino per la pace, ma nella sua
organizzazione diffida profondamente della democrazia, perché in fondo ritiene
che i supremi principi non siano in buone mani se lasciate a quelle dei popoli.
L’insegnamento attuale del magistero, che in questo non è cambiato da quello
più antico, è che la logica della democrazia non ha posto nella Chiesa.
All’interno della nostra Chiesa le dinamiche conflittuali, talvolta assai
aspre, in genere vengono negate; la via principale per risolverle è il cercare
il favore dell’autorità sovraordinata.
Nel momento in cui si confida nella democrazia
per promuovere la pace nel mondo bisogna però prendere coscienza che il metodo
democratico non nasconde, ma porta alla luce i conflitti e le loro ragioni. Nel
dialogo ragionevole tra fautori di opposte fazioni si cerca innanzi tutto di
far emergere ciò che unisce e, facendo forza su di questo e, in particolare,
sul rispetto della dignità degli avversari, si cerca poi di giungere a
decisioni condivise. Quando ciò non è possibile, la regola è che decida per
tutti la maggioranza. I soccombenti si impegnano ad accettare tale decisione
perché non sono mai in questione i principi fondamentali della convivenza
civile, quelli che sono sottratti agli arbitri delle maggioranze. Si tratta di
ciò che rientra nei diritti umani fondamentali. Questo metodo richiede che nel
conflitto si abbia comunque un’etica, delle regole morali. Questo accade anche
nell’esperienza religiosa del conflitto, anche se ai tempi nostri se ne ha meno
coscienza. Oggi ad esempio può essere difficile accostare l’esperienza umana di
un personaggio storico come santa Giovanna d’Arco, una santa combattente.
Eppure in religione potremmo essere facilitati per il fatto che nella Bibbia,
in particolare nell’Antico Testamento, ci sono moltissime storie di guerre,
vissute in un orizzonte etico.
Dall’esperienza storica, anche recente, come
quella dei gruppi resistenziali cattolici combattenti tra il ’43 e il ’45, può
trarsi l’insegnamento che il vero pacifico non è quello che elude o nega i conflitti
che ci sono, o si limita a subirli passivamene, ma che invece vi partecipa con
spirito religioso. Questa azione può essere vista, sull’esempio dell’esperienza
democratica, come finalizzata alla promozione umana, al miglioramento degli
assetti sociali. In questo essa può avere una valenza religiosa. L’ispirazione
etica può portare al rifiuto di certe tecniche convenzionali di conflitto e, ad
esempio, all’impiego delle tecniche non violente che per la prima volta sono
state esposte da Ghandi.
Comunque, se nel perseguimento della pace le
masse devono avere un ruolo, e oggi la dottrina sociale della Chiesa ritiene
che debbano averlo, l’obiettivo a cui si mira richiede l’impiego del metodo
democratico. Ritenendo diversamente le masse possono trasformarsi rapidamente
anche in quelle bestie spaventose di cui scrissero gli antichi, quindi in folle
violente e sanguinarie che frequentemente hanno dato nella storia il peggio di
sé.
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36
Una riunione “politica”
(23-11-12)
Per ragioni di lavoro non ho
potuto partecipare alla riunione del gruppo dello scorso 20 novembre. Mi è
stato riferito che è stata molto interessante. Ci si è confrontati sul temi
politici, in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento, in particolare sull’ideologia comunista e sul
suo carattere ateo, sul confronto tra i programmi di Obama e Romney alle
passate elezioni presidenziali statunitensi e tra i programmi proposti dalla
destra e dalla sinistra politica, qui in Italia, alle prossime elezioni per il
rinnovo del Parlamento.
La politica entra in chiesa?
Certo che deve entrarci, perché, specialmente dopo le decisioni assunte nel
Concilio Vaticano 2°, all’impegno nella società civile, e quindi pure a quello
politico, viene riconosciuta una valenza anche religiosa. Religione e politica,
fede e ideologia civile, non sono mondi che non si toccano mai, per cui una
persona possa passare con disinvoltura dall’uno all’altro e viceversa
semplicemente cambiandosi d’abito ed assumendo in ciascun ambiente un contegno
diverso, come quando, usciti dall’ufficio, si va allo stadio e si fa il tifoso.
I nostri capi religiosi ci hanno inoltre avvertito: non dobbiamo confidare di
poter avere da loro la soluzione di tutti i problemi della nostra civiltà:
Se l'ufficio della gerarchia è quello
di insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in
questo campo, spetta a loro [ai laici], attraverso la
loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o direttive, penetrare
di spirito cristiano la mentalità della loro comunità di vita.
[dall’enciclica Populorum
progressio – 1967 – del papa Paolo 6°].
Ragionare sulla società è un
compito necessariamente collettivo. Nessuno, da solo, senza compagni, può
pretendere di avere una visione completa dei problemi, specialmente in società
complesse e molto popolate, composte globalmente di sette miliardi di individui
le cui vite sono sempre più strettamente connesse (così argomentava la filosofa
Hanna Arendt). Quando ci si confronta sulla politica con spirito di dialogo,
quello che consente di prendere in esame le ragioni di tutti, occorre poi farlo
con metodo democratico, quindi innanzi tutto rispettando la pari dignità di
ciascuno. Questo non toglie che chi ne sa di più, per cultura ed esperienza,
potrà dare un contributo maggiore al dibattito, ma solo se renderà quello che
dice accessibile anche a chi ne sa di meno, non pretendendo quindi di essere
obbedito in virtù di un’autorità riconosciuta a priori alla stregua di un titolo
nobiliare. Certe volte anche i sapienti si ingannano e le virtù dei semplici
illuminano dotti sofismi.
In ambito religioso e in
particolar modo tra i cattolici c’è il problema di che ruolo riconoscere in
questo ai preti. Sarebbe strano escluderli da questi temi, proprio loro che
hanno tanti tesori di sapienza e di etica da comunicare. Essi hanno quindi
facoltà di parola, ma con pari dignità con gli altri laici che partecipano al
dibattito. Questo deve essere molto chiaro. Come laici dobbiamo resistere alla
tentazione di seguirli per spirito di obbedienza religiosa, anche se,
erroneamente, ci venisse d richiesto di farlo. Ragionando diversamente si
costruirebbe un partito dei preti, in
cui chi ubbidisce eluderebbe in fondo le
proprie responsabilità storiche di cittadino. Sappiamo poi che la nostra Chiesa
rifiuta di essere organizzata democraticamente: un partito della Chiesa introdurrebbe una forza non democratica nel
governo della nazione. Il mantenimento di una organizzazione democratica della
società è invece una delle principali responsabilità dei cittadini, la base
della pacifica coesistenza civile.
Sappiamo del resto che
l’organizzazione del clero storicamente non sempre ha espresso decisioni
illuminate in materia politica, essendo stata spesso bloccata dal timore di
rompere con i potenti di turno e di subire persecuzioni contro il suo personale
o espropriazioni o danneggiamenti di suoi beni (che in Italia costituiscono un
patrimonio imponente). In generale si è attestata, specialmente dall’Ottocento
in poi su posizioni attendiste, a volte opportuniste, se non francamente
reazionarie, timorose del nuovo. Nel Novecento hanno fatto eccezione i papi da
Giovanni 23° in poi. In Italia dobbiamo sempre avere ben presente l’esempio
storico della Conciliazione con
il Regno d’Italia, stipulata dai
capi della nostra Chiesa nel 1929 con il dittatore Mussolini. Molti laici
illuminati del tempo l’avevano vivamente sconsigliata e poi se se sono
vergognati. Con il senno del poi la possiamo considerare una pagina veramente
controversa nella storia della nostra Chiesa. Quei Patti hanno pesato, e molto, sui destini della cattolicità
italiana, e non in senso positivo. Vennero superati solo nel 1984. Prima di
allora, in forza del Concordato lateranense, le cui disposizioni vennero quasi
interamente sostituite con l’accordo del 1984, vescovi, preti e religiosi non
avrebbero potuto intromettersi in alcun modo in politica. Quel Concordato venne
a contrastare con la Costituzione italiana entrata in vigore nel 1948 che non consentiva
una discriminazione dei cittadini su base religiosa. Tuttavia, per espressa
disposizione costituzionale, i rapporti tra la Repubblica italiana e la Chiesa
continuarono, fino al 1984, ad essere regolati dai patti del 1929, pur se certe
norme limitative caddero progressivamente in desuetudine. Con il protocollo
addizionale all’accordo del 1984 di revisione del Concordato lateranense la
Santa Sede e la Repubblica italiana si diedero reciprocamente atto di non
considerare più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica
come sola religione dello Stato italiano. [art.1 del protocollo
addizionale]. Si pose in tal modo
rimedio a una decisione che non era più accettabile neppure nel 1929 e che
nondimeno era stata condivisa in sede di stipula degli accordi del 1929, i
quali, fra l’altro, istituirono a Roma la Città del Vaticano, strutturata come
un vero stato, con un piccolo esercito, giudici propri e, oggi, anche un solo
suo prigioniero, come sappiamo dalle cronache.
Ai tempi nostri la Chiesa
cattolica italiana, intesa in senso stretto come organizzazione strutturata per
l’esercizio di attività religiose, ha suoi specifici interessi politici che
riguardano le a) erogazioni che riceve dalla Repubblica Italiana, le quali
ammontano ogni anno ad oltre un miliardo di euro, alle quali si aggiungono
altre elargizioni che sotto varia forma le pervengono per altre vie da
organizzazioni statali o da altri enti pubblici (in particolare per la
conservazione dell’imponente patrimonio architettonico ed artistico di sua
proprietà), b) il regime fiscale delle sue attività, c)le erogazioni che le
pervengono per attività sanitarie svolte da strutture religiose in convenzione
con il Servizio Sanitario Regionale e c) gli aiuti che intenderebbe ottenere
per le attività nel settore dell’istruzione privata svolta da enti religiosi.
In questo campo, come è agevole intendere in base ai principi generali, non vi
è per il fedele che in quanto cittadino italiano abbia la possibilità di
influire sulla politica l’obbligo religioso
di aderire a tutte le pretese dell’organizzazione del clero. Si tratta di
valutare priorità che richiedono di considerare realisticamente tutte le
attività svolte dallo Stato e dagli enti pubblici che funzionano su base di
partecipazione democratica in relazione alle risorse disponibili e alle
esigenze comuni, innanzi tutto di chi sta peggio. Noi fedeli cattolici non
siamo, in questo, una sorta di sindacato
cattolico o addirittura una lobby (vale
a dire un gruppo di pressione politica) in difesa di quegli interessi
particolari. Questo rileva in particolare in un’epoca, come quella che stiamo
vivendo, caratterizzata da una progressiva diminuzione delle risorse destinate
ai servizi pubblici.
La Chiesa cattolica italiana,
intesa come i suoi capi, i vescovi italiani, ha anche una piattaforma di
richieste specificamente politiche in alcuni settori dell’organizzazione della
società civile. Esse, in particolare riguardano: a) la disciplina legale
dell’aborto volontario, che si vorrebbe abolire; b) la disciplina legale del
divorzio, che si vorrebbe abolire o rendere meno facile da ottenere; c) la
disciplina legale della procreazione assistita, quindi della fecondazione al di
fuori dell’utero nei casi in cui la coppia di aspiranti genitori abbia
difficoltà a generare, con il correlato problema della sorte da dare agli
embrioni generati in soprannumero, disciplina che si vorrebbe molto
restrittiva; c) la disciplina legale delle famiglie composte da persone
omosessuali, che si vuole impedire; c)la
disciplina legale dell’interruzione di terapie non più utili e della
respirazione artificiale e dell’alimentazione e idratazione artificiale nel
caso di persone in coma irreversibile o che, sebbene non in quella condizione,
si trovino in gravi condizioni di menomazione fisica e chiedano la sospensione
di quegli ausili per porre fine a sofferenze non più necessarie a fini
terapeutici, per morire con dignità, secondo natura, disciplina che si vorrebbe
molto restrittiva. Su questi temi la posizione dei capi cattolici è fortemente
minoritaria nella popolazione italiana. Le materie del divorzio e dell’aborto
sono state già, nel 1974 per il divorzio e nel 1981 per l’aborto, sottoposte a
referendum abrogativi e le leggi che le contemplavano sono state mantenute in
vigore dalla volontà popolare. Da allora molti indici sociali denotano che il
consenso popolare a quegli istituti si è fatto ancora più forte. E’ esperienza
comune di coppie di fedeli cattolici che divorziano (anche se nel caso di matrimonio
religioso si parla di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, perché le leggi religiose considerano ancora
indissolubile il vincolo religioso tra i coniugi), tanto che anche il recente
Sinodo mondiale dei vescovi (ottobre 2012) ne ha trattato, auspicando
un’apertura verso le persone che dal punto di vista religioso vivono in una
condizione irregolare a seguito di divorzi. Nella mia esperienza è piuttosto
comune anche il ricorso all’aborto volontario in strutture pubbliche da parte
di donne cattoliche. Lo possono confermare i sacerdoti che, abilitati a
rimuovere la scomunica che consegue di diritto alle pratiche abortive, operano
nei grandi santuari religiosi italiani. Sulle leggi riguardanti il divorzio e
l’aborto la Democrazia Cristiana, il grande partito dei cattolici italiani
cessato come esperienza unitaria agli inizi degli anni ’90, anche se si ritiene
che giuridicamente sopravviva ancora per questioni procedurali relative alla
sua trasformazione nel 1994 in Partito Popolare, si trovò in minoranza in
Parlamento già in epoche in cui il consenso alle tesi dei vescovi era maggiore.
Comunque, su tutte quella piattaforma politica dei nostri capi religiosi, i
cattolici, pur in minoranza, nella nuova realtà bipolare prodottasi dal 1994,
con una forte de-ideologizzazione di tutte le formazioni politiche, sono
riusciti spesso ad influire nel senso desiderato dai vescovi, con alleanze
informali al di là degli schieramenti politici di appartenenza. I risultati
qualche volta non possono essere considerati pienamente soddisfacenti. La legge
sulla procreazione assistita è incorsa in censure di incostituzionalità ed è
dubbia la sua conformità alla Convenzione di Strasburgo sui diritti umani e
allo stesso diritto dell’Unione Europea. Il ritardo nella regolazione
legislativa del fenomeno dei nuovi tipi di famiglia, che si sono affiancati a
quella naturale fondata sul
matrimonio tra uomo e donna, ha impedito di dare stabilità e certezza a
rapporti non illeciti che già ci sono nella società e non ha risposto a una
domanda di normazione che espressamente viene dalle persone coinvolte. Anche la
nuova disciplina sul cosiddetto accanimento
terapeutico, che sta per essere varata, ha sollevato molte critiche, anche
in ambito cattolico.
Bisogna considerare, in merito
alla piattaforma politica, di cui ho
detto, che tutte le attuali principali formazioni politiche sono altamente
laicizzate, nel senso di scarsamente connotate dal punto di vista religioso,
tranne piccole formazioni che ancora si richiamano all’esperienza democristiana
e alla dottrina sociale della Chiesa. La vera differenza tra destra e sinistra
è che a destra si ammette la libertà di opinione tra i parlamentari, mentre
a sinistra si tende a imporre ai
parlamentari scelte che non vanno nel senso desiderato dai nostri capi
religiosi. Questa è stata la causa di
alcune defezioni di parlamentari cattolici dalla sinistra. Quelle
materie, tuttavia, non sono al centro del dibattito politico di oggi.
Nessun partito politico di un qualche rilievo si propone di realizzare
integralmente questo programma politico
dei nostri vescovi, perché in Italia, su quelle idee, non c’è consenso maggioritario e, anzi, su alcuni temi il consenso si
va riducendo sempre più. Talvolta vi si fa riferimento in politica, ma
spesso ciò appare strumentale ad ottenere un appoggio politico
dall’organizzazione religiosa, senza una vera condivisione dei moventi ideali.
In passato ci sono stati effettvivamente indizi di tentativi di uno scambio
politico su singole e limitate questioni,
su questa o quella proposta di legge, nel senso di promettere un certo orientamento parlamentare su questa o quella
proposta di legge a fronte di un consenso politico della Chiesa verso certe
formazioni. Per quanto mi riguarda, penso che non vada comunque mai perso di
vista il contesto generale; occorre sempre considerare, tenendo conto della
situazione reale della nazione, che cosa si vada a produrre con alleanze
contingenti di quel tipo, posto che, come ho detto, la piattaforma politica dei
vescovi riguarda aspetti marginali della politica di oggi. Bisogna chiedersi
che cosa si produrrà per quanto riguarda gli altri aspetti politici, che, ad
esempio, riguardano anche gli impegni bellici della nazione, l’equità fiscale e
i servizi pubblici che consentano ai meno ricchi una vita dignitosa. Sarebbe
accettabile, ad esempio, barattare un’azione di interdizione parlamentare su
singole proposte di legge con un impoverimento delle classi svantaggiate, alle
quali tradizionalmente la destra politica è meno sensibile (consideriamo in
merito le questioni e prese di posizioni emerse nel confronto politico negli
Stati Uniti tra Romney e Obama)?
Per quanto riguarda la tematica
del comunismo ateo, osservo innanzi
tutto che parlare genericamente di comunismo
non rende bene l’idea di ciò a cui ci si
vuole riferire. Storicamente infatti vi sono stati molti comunismi e non tutti sono stati atei, in particolare quelli che regolano la vita di alcune società
primitive. L’idea di mettere in comune i beni in attesa della manifestazione del
soprannaturale in cui si confidava era presente anche in alcune della comunità
cristiane delle origini; se ne parla negli Atti
degli apostoli. Tuttavia, nonostante che qualcuno definisca comunistico quel modo di organizzazione
di gruppo, non si può parlare a quel proposito di comunismo, perché era assente in quella esperienza l’idea di
instaurare un nuovo ordine di tutta la società.
I comunismi di impronta
marxista, dei quali di solito si vuole parlare quando si parla di comunismo ateo, furono in genere
effettivamente antireligiosi in quanto anticlericali. Essi consideravano
infatti la religione, quindi la fede nel soprannaturale organizzata in una
collettività strutturata, come un imbroglio organizzato dai preti ai danni dei
ceti più poveri, per mantenerli
sottomessi a gruppi di privilegiati con i quali il clero era in
combutta, sopendo su basi fideistiche
ogni conato di rivolta. Noi, con spirito religioso, sappiamo naturalmente che
la fede non è un inganno, ma certamente nella storia vi sono state epoche in
cui il clero ha appoggiato i dominatori delle società contro masse sottomesse
ad ordinamenti ingiusti. L’affermazione della democrazia, in particolare, è
avvenuta anche contro la Chiesa
cattolica, ricordiamolo bene, la quale
solo nel 1944 ha accettato il regime democratico come quello preferibile.
Fu fortemente antireligiosa
l’ideologia sovietica, tanto da propagandare l’ateismo tra le popolazioni
dominate. Ma non tutti i comunismi furono allo stesso modo antireligiosi e
anticlericali.
In particolare il comunismo
italiano si è caratterizzato per un significativo apporto dei cattolici (si
veda ad esempio la figura di Franco Rodano), specialmente dopo la Seconda
guerra mondiale. Nel 1946 con una modifica dell’art.2 dello statuto del Partito
comunista italiano venne consentita l’adesione al partito anche a coloro che
non professavano l’ideologia marxista leninista, ma condividevano il programma
del partito. Ciononostante anche la sola iscrizione al quel partito o il
sostenerlo vennero ufficialmente dichiarati
peccato mortale, passibile anche di scomunica come forma di apostasia, con un
provvedimento del 1949 del Sant’Uffizio (una
congregazione della Curia Vaticana che oggi ha diversa denominazione). Nel 1976
il segretario del Partito Comunista Italiano dichiarò di accettare l’adesione
dell’Italia all’Alleanza Atlantica (che all’epoca si contrapponeva al sovietico
Patto di Varsavia) e nel 1977, durante la celebrazione a Mosca del sessantesimo
anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, esplicitò al cospetto dei massimi
leader comunisti del mondo la
peculiarità del comunismo italiano e la presa di distanza dall’esperienza
sovietica. Nel 1979, durante il 15° Congresso, venne modificato l’art.5 dello
statuto del Partito comunista italiano che faceva obbligo agli iscritti di
conoscere e praticare l’ideologia marxista leninista. Da questo momento può
considerarsi venuta definitivamente meno la pregiudiziale antireligiosa di quel
partito, anche se permaneva indubbiamente una sospettosità anticlericale
determinata essenzialmente dagli schieramenti politici dei vertici della Chiesa
cattolica, in sede nazionale e internazionale, e, in parte, anche dall’idea che
in genere i preti tendessero a stare con
i padroni e promuovessero una
pacificazione sociale intesa come sottomissione ad un ordine sociale ingiusto.
Nel corso della presidenza Gorbaciov dell’Unione Sovietica, dopo la crisi dei
regimi europei vassalli dei sovietici (a partire dal 1989) e con la fine
dell’Unione sovietica (1991), il Partito comunista italiano ha subito profonde
metamorfosi, espresse anche nel cambiamento della denominazione e del simbolo,
nell’accettazione della democrazia interna, nel ripudio del monolitismo, tanto
che andò incontro a diverse scissioni, e, infine, alla fusione con formazioni di
diversa ispirazione e tradizione. Oggi nessuno dei gruppi che sono derivati dal
quel processo di metamorfosi, frazionamento e fusione, benché alcuni di essi
mantengano la denominazione comunista, si rifà alle ideologie antireligiose e
anticlericali di matrice sovietica. Tutti, in particolare, hanno pienamente accettato l’ideologia
democratica contemporanea. Possiamo quindi concludere che oggi il comunismo ateo non è tra le proposte
politiche in lizza per le prossime elezioni. Mette conto di farne ancora menzione
in un dibattito sull’attualità politica?
Questa evoluzione del comunismo
italiano comincia a non essere più nota nemmeno agli italiani. Possiamo
pretendere che ne abbiano consapevolezza, ad esempio, gli immigrati che
giungono da noi da ogni parte del mondo? C’è in questo un compito da svolgere,
per chiarire bene le cose, in vista di un maggiore reale loro coinvolgimento
nelle questioni italiane, che possa preludere anche all’acquisizione della
cittadinanza. Ad esempio, per un ucraino parlare di partito comunista può suonare veramente minaccioso, perché il suo
modello di riferimento è il PCUS (Partito
comunista dell’Unione sovietica di un tempo).
Posto quindi che a)non sarebbe
degno della nostra comune cittadinanza politica determinarsi, nel voto prossimo,
sulla base di direttive od ordini precisi ricevuti dal clero e non veramente
condivisi, b) che la piattaforma politica
dei nostri capi religiosi è tutto
sommato marginale e non ha nessuna
possibilità di essere attuata nelle attuali dinamiche democratiche, potendosi
al massimo esercitare un’influenza per attenuare certi estremismi e che c) il comunismo ateo non c’entra nulla con la politica di oggi,
quali sono i temi centrali della prossima campagna elettorale?
A mio parere sono due: rendere
più coerente la struttura istituzionale della Repubblica, correggendo certi
eccessi di autonomia locale che sono derivati dalle politiche del cosiddetto federalismo e in particolare,
ristrutturando il sistema e i poteri degli enti pubblici minori che governano
porzioni locali del territorio nazionale e consentendo al governo nazionale di
intervenire con maggiori poteri nel sistema delle autonomie locali; contrastare
la criminalità organizzata che sembra essere riuscita ad infiltrare la
politica, venendo a costituire una minaccia per l’ordinamento democratico della
nazione; individuare interventi per rivitalizzare l’economia nazionale e, al
tempo stesso, per mantenere un accettabile livello di servizi, in particolare
nel sistema sanitario e in quello scolastico, pur continuando a seguire la
linea di contenimento della spesa pubblica e di riduzione del debito pubblico
convenuta in sede di Unione europea. La crisi della finanza pubblica, correlata
a quella dell’economia nazionale, lascia meno spazi di azione. Per questo i
programmi delle varie formazioni in lizza non divergono molto e la competizione
tra di loro si fa su giornali, televisione e internet essenzialmente sulla base
della personalità dei candidati. Tuttavia differenze ci sono, quanto ai
risultati sperati. Bisogna solo avere la pazienza di ragionare sui dati.
Perché, ad esempio, tutti si propongono di ridurre “le tasse”, ed è chiaro che
di questo beneficerebbero i più ricchi che hanno aliquote più alte e redditi
maggiori, ma se poi le tasse fossero ridotte veramente di molto mancherebbero
le risorse per assicurare i servizi pubblici universali, vale a dire che si
vuole destinati a tutti, anche ai meno ricchi, sulla base di certi livelli di
prestazioni. Mi riferisco in particolare ai trasporti pubblici, alla
manutenzione delle strade, agli ospedali e alle scuole.
Concludo dicendo che uno dei
fondamentali esercizi di laicità che
la nostra associazione ci propone di fare è proprio quello di acquisire, nel
dialogo con gli altri, maggiore consapevolezza dei problemi della società in
cui viviamo, al di là delle solite parole
d’ordine e frasi fatte che non
accrescono di nulla la nostra conoscenza delle cose, tendendo a farci assumere
decisioni d’impeto invece che sulla base di mature e ragionevoli
considerazioni, in cui tener conto non solo del nostro particolare interesse, o
di quello della nostra Chiesa, ma anche di quello ti tutti gli altri.
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37
Noi e la storia. Chi siamo
veramente?
(28 novembre 2012)
Su quale bilancia si pesa la
vita di un uomo? Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui risultano il
guadagno e la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso ultimo? Di
fronte alla natura non si può parlare di bilancia, perché tutto va come deve
andare secondo la sua legge intrinseca. Ma nell’uomo l’agire e l’essere sono
affidati alla libertà, e libertà significa che si può fare qualcosa di giusto,
ma anche di sbagliato, che si può preservare qualcosa ma anche che qualcosa si
può corrompere. Qual è dunque la bilancia, e quale l’ordine?
[In: Romano Guardini, La Rosa Bianca, Morcelliana, 1994, pagine
84, € 8. Commemorazione di Sophie e Hans
Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e prof. Dr Huber* – discorso pronunciato
a Tubinga il 4-11-1945]
*membri del gruppo di resistenti tedeschi La Rosa Bianca, giustiziati dal regime nazista nel 1943.
Di solito quando si pensa
all’espressione scrutare i segni dei
tempi, che venne usata nella costituzione pastorale Gaudium et spes (n.4) del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), si pensa ai tempi correnti, a quelli che stiamo
vivendo nell’oggi. Il grande insegnamento del papa Giovanni Paolo 2° (regnante
dal 1978 al 2005) fu di considerareil dovere di fare memoria veritiera anche
del passato, per discernere anche in esso ciò che merita di essere preso ad
esempio e quello che invece deve essere lasciato alla storia come
manifestazione non più attuale o addirittura negativa: si tratta del lavoro che
egli chiamò di purificazione della
memoria.
In un certo senso siamo abituati
a farci narrare la nostra storia di collettività religiosa dai nostri capi, ma
questo non rientra nel compito che riteniamo essere esclusivamente loro. Tutti
siamo chiamati a ragionare sulla nostra storia, in particolare noi laici che
abbiamo il compito specifico di ordinare
secondo Dio le realtà temporali, vale a dire di costruire, in ciò che è
umanamente possibile, un ambiente e una società dove gli esseri umani possano
essere felici, secondo le nostre prospettive religiose.
Non si tratta naturalmente di
mettersi al posto di Dio e di anticipare presuntuosamente il giudizio finale
sull’umanità e sui singoli suoi membri, evento sul quale in questo tempo
liturgico di Avvento poniamo particolare attenzione. Poiché però noi non siamo
stati creati dal nulla e in un nulla, ma siamo nati una determinata storia
nella quale ci siamo progressivamente inseriti con un ruolo sempre più attivo e
dalla quale siamo stati anche determinati e condizionati, innanzi tutto in ciò
che si definisce la cultura del nostro popolo, il complesso di concezioni,
abitudini, schieramenti, modi di esprimersi e via dicendo, è nostro dovere, anche religioso, darne una
valutazione, che ci riguarda da vicino, in quanto ha ad oggetto una esperienza
di cui siamo parte.
Nella coscienza religiosa si è
sempre saputo che intere società possono andare contro i valori religiosi: è questo anche
l’insegnamento biblico. Molto più recente è la consapevolezza di doversi
attivare religiosamente per combattere quelle che vengono definite strutture sociali di peccato. Questa
espressione si trova in particolare nel magistero degli anni ’80 del papa
Giovanni Paolo 2°. Certe organizzazioni della società, intese come istituzioni
o movimenti, favoriscono o inducono al peccato, cioè a violare doveri
religiosi. E’ un fenomeno che i cristiani hanno sperimentato fin dalle origini,
fin da quando le istituzioni dell’impero romano pretendevano da loro l’ossequio
religioso agli dei antichi. Ai tempi nostri abbiamo preso coscienza che lo schiavismo fu una struttura di peccato,
ma si è trattato di una evoluzione culturale piuttosto lunga e travagliata. E’
stata considerata una struttura di peccato quella dei movimenti che inducevano
alla lotta di classe, ma
parallelamente, e su base biblica, si è anche presa maggiore consapevolezza che
pure l’ingiustizia su base classista,
dunque quella di coloro contro i quali si dirigeva la lotta di classe, è una
struttura di peccato. Nel 2000, durante il Grande Giubileo che si celebrò
quest’anno, si assistette a una spettacolare evoluzione di questa concezione:
la Chiesa, guidata dal Papa, si impegnò a riflettere su ciò che nel proprio
impegno storico aveva costituito struttura di peccato, proponendosi di
distaccarsene.
Di solito, quando riflettiamo
sulla nostra esperienza religiosa, tendiamo a schierarci tra i buoni e poi partiamo con varie critiche,
più o meno veementi, che riguardano quelli che non la pensano o non fanno o non
sono come noi e facciamo loro la morale. Non sto a fare esempi, perché
sicuramente ciascuno li ha in mente.
Pensiamo di essere gente pacifica, ma in realtà l’Italia ha un corpo di
spedizione militare in Asia. Facciamo parte della parte più ricca dell’umanità
e siamo piuttosto preoccupati del processo globale di ridistribuzione di una
parte delle ricchezze del mondo che si sta producendo a favore di popoli che
solo recentemente sono usciti dal sottosviluppo. E se dovessimo fronteggiare
strutture sociali di peccato che furono quello che schiacciarono i resistenti
tedeschi del gruppo della Rosa Bianca,
come ci comporteremmo. Innanzi tutto: saremmo capaci di esprimere una
veritiera, coraggiosa ed efficace critica sociale?
Qualche volta, quando si parla
dell’impegno dei laici cattolici nel mondo, li si pensa un po’ come dei piazzisti del sacro, dei venditori porta
a porta di religiosità, sulla base delle indicazioni espresse dai capi della ditta, del loro catalogo. Si ha qualche difficoltà nel vederli invece impegnati un
una riflessione creativa che riguardi anche i principi e i valori, sulla base del lavoro di purificazione della memoria e di approfondimenti personali che facciano
reagire fede e vita. Questo accade all’interno della nostra Chiesa, ma anche
fuori di essa. Spesso la persona di fede viene vista come un soggetto
eterodiretto e incapace di autonomia di giudizio. Un credulone affascinato dal
sacro.
Riprendere in mano i documenti
del Concilio Vaticano 2° può far apparire la sproporzione tra gli impegni che,
già negli anni Sessanta, si ritenne di affidare al laicato e ciò che poi si è
fatto in questo campo. E tuttavia dobbiamo tener conto che un lavoro religioso
non è condizionato dalle forze concretamente disponibili in campo o dal tempo che si ha a disposizione
per agire. Esso vive nella prospettiva degli ultimi tempi ed è sempre svolto
nella prospettiva dell’Avvento. Per quanto effettivamente la nostra buona
disposizione d’animo e i nostri sforzi concreti contino, e siano manifestazione
della nostra adesione interiore alla fede comune, il compimento di tutto non
dipenderà da noi e c’è tutto il tempo che occorre per fare quello che si deve.
Anche il piccolo gruppo dei
resistenti della Rosa Bianca, che agiva anche in una prospettiva religiosa, non
fu paralizzato dal considerare la scarsità del numero dei propri aderenti
rispetto al mostro sociale contro il quale si dirigeva la loro critica sociale.
A maggio ragione non dobbiamo esserlo noi, del gruppo parrocchiale di A.C. in
San Clemente papa, che viviamo, tutto sommato, in tempi tanto meno complicati e
pericolosi. Forse dovremmo però riscoprire l’entusiasmo dei nostri anni di
gioventù, questo sì. E pregare che il nostro lavoro sia continuato anche da
gente più giovane, nel nostro stesso filone ideale. Anche il sacrificio della Rosa Bianca fu fecondo in questo senso.
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38
La parrhesia* evangelica
(29 novembre 2012)
*parrhesia: vocabolo del
greco antico. Significa franchezza, libertà nel parlare. Parlare pubblicamente,
apertamente, coraggiosamente
…in condizioni di innegabili
(ma non imprevedibili) necessità, piuttosto che tacere tutti, occorre che
qualcuno si assuma l’iniziativa –non per velleità di protagonismo, ma con cuore
umile e mosso solo da “parrhesia” evangelica- di professare pubblicamente la
legge evangelica dell’amore e del rispetto dovuto ad ogni uomo
“Parlerò delle tue
testimonianze davanti ai re
e non ne avrò vergogna” (Sa 119,46)
E poiché ciò avvenga occorre che –nelle forme
e con lo spirito dovuti, sempre di più nell’educazione interna e nella
formazione della Chiesa di Cristo di faccia spazio non solo ai singoli
episcopati, orientandoli a una coscienza eclesiale propria ma non nazionalista,
veramente “cattolica” ma che anche si dia respiro alle grandi componenti in cui
si articolano le Chiese locali, specialmente le loro associazioni qualificate
di laici: perché divenga sempre più vero quello che si dice, e cioè che ai laici
particolarmente spetta intervenire direttamente nella costruzione politica e
nella organizzazione della vita sociale, agendo di propria iniziativa e
cooperando con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la
propria responsabilità.
…occorre compiere una revisione rigorosa di
tutto il proprio patrimonio culturale e specialmente religioso, purificandolo
radicalmente da ogni infiltrazione emotiva e da ogni elemento spurio che non
attenga al nucleo essenziale della fede e che possa favorire anche solo in
maniera indiretta ritorni materialistici o idealistici capaci di alimentare
miti classisti, nazionalisti, razzisti ecc.
[Da Non restare in silenzio mio
Dio, di Giuseppe Dossetti, introduzione scritta per il volume di L.
Gherardi, Le Querce di Monte sole;
ora in Giuseppe Dossetti – La parola e il
silenzio – Discorsi e scritti 1986-1995, Paoline Editoriale Libri, 2005,
€22,00]
Su certi temi religiosi è
inutile cercare istruzioni nei vari
catechismi in commercio. Si tratta infatti di materie sulle quali ancora si
discute e si sperimenta e non si è ancora trovata una posizione stabile, se non
definitiva. In particolare questo accade per quanto riguarda l’impegno religioso nei laici nella storia per influire
sulla costruzione degli ambienti umani e delle società.
Occorre riassumere brevemente
alcuni punti che ho trattato precedentemente:
-alle origini, diciamo
nei primi quattro secoli della nostra era, le Chiese cristiane erano ben distinte dalle istituzioni civili, alle
quali prestavano obbedienza in
ciò che non contrastava con doveri religiosi ma sentendosi come stranieri (“ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera”, citazione dalla Lettera a Diogneto, scritto anonimo che
si fa risalire alla fine del secondo
secolo della nostra era);
-dal quarto secolo il
cristianesimo diviene l’ideologia unificante dei sistemi politici delle nazioni dominate dalle
istituzioni imperiali romane e poi, nell’Europa
occidentale dei sistemi politici succeduti al crollo delle istituzioni imperiali romane; in questa nuova
situazione si instaura una dialettica, fatta di
accordi e scontri tra le autorità religiose e quelle civili, in cui i popoli vengono in rilievo essenzialmente quali
sudditi di una specie di condominio in
cui è molto importante stabilire chi
comanda nelle varie questioni, a seconda che abbiano rilievo
esclusivamente o prevalentemente religioso o rilievo
civile; oggi può sembrare strano, ma, in queste dinamiche e concezioni, la pace tra i popoli non è un veramente un valore nella prassi politica, compresa quella delle autorità
religiose; non lo è neanche l’autodeterminazione
dei popoli (le concezioni democratiche contemporanee sono molto lontane);
-Dal Cinquecento comincia
ad affermarsi l’idea che i sistemi sociali possano essere mutati per corrispondere ad esigenze razionali. Si
tratta dei movimenti ideali precursori delle
concezioni democratiche contemporanee. In
queste epoche i popoli cristiani sono dominati da monarchie ereditarie, che si sentono minacciate dalle nuove idee. Il
Papato solidarizza con le dinastie
monarchiche diventa una forza di
reazione. Questo atteggiamento si
inasprisce di fronte ai sommovimenti politici della fine del Settecento e poi nell’Ottocento. I movimenti democratici
vengono essenzialmente concepiti dai
Papi come fonte di disordine sociale e di disubbidienza anche alle autorità religiose. In Italia la situazione
è particolarmente grave perché l’unità
nazionale si costruisce anche contro il Papato, che domina Roma. Le ultime condanne papali della democrazia, sia
pure orientata in senso cristiano,
risalgono agli inizi del Novecento;
-la situazione muta molto
con l’esperienza delle due Guerre Mondiali del Novecento
(1914/1918; 1939/1945) e, in particolare, in nel confronto con i regimi totalitari fascisti e nazisti
(la Chiesa cattolica invece in quel periodo non
fece esperienza diretta del
totalitarismo sovietico, in quanto quest’ultimo dominava nazioni cristiane ortodosse); in quell’epoca comincia a
diventare centrale il tema del
perseguimento della pace universale e
perpetua non più solo mediante
accordi con i capi delle nazioni (che con i capi fascisti, nazisti non avevano funzionato e che non si era
neppure potuto iniziare a intavolare con
i capi sovietici), ma attraverso un’azione collettiva di masse illuminate;
-da quell’esperienza,
dalla quale la posizione morale del Papato esce gravemente pregiudicata pur se la nuova Europa era andata
strutturandosi anche in base si
riallaccia a principi cristiani
soprattutto per merito di movimenti
laicali che, allontanandosi dall’atteggiamento
prudenziale del Papato, avevano
partecipato alla resistenza europea
contro i fascismi e i nazismi,
scaturì un diverso atteggiamento verso la democrazia, vista ad un certo punto come una forza che poteva
impedire il riaffacciarsi dei totalitarismi.
Richiamo il celebre Radiomessaggio Natalizio del 1944 del papa Pio 12°:
“Il problema della
democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più
importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla
guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima,
forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la
possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il
mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che
affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre
creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?”
-Bisognerà
però arrivare agli anni Sessanta, al Concilio Vaticano 2° (1962- 1965)
e all’enciclica Populorum
Progressio (1967) del papa Paolo 6°,
perché il Papato chieda ai popoli
cristiani una autonoma e originale iniziativa dei
laici cattolici per la realizzazione di
un ordine giusto e pacifico.
Siamo
arrivati ai tempi nostri, caratterizzati da discussioni e sperimentazioni sul
tema dei rapporti tra impegno religioso, promozione
umana, in particolare elevazione degli umili, e contrasto di strutture sociali di peccato, in esso compresa la liberazione degli oppressi. Il fine è di
pacificare la società costruendo ordini sociali fondati sulla giustizia (per il legame che biblicamente
si vuole vedere tra giustizia e pace).
Tuttavia si è vista che un’azione di pacificazione
di questo tipo può non essere del tutto o per nulla pacifica, richiedendo di combattere le forze che promuovono e
mantengono l’ingiustizia. In Italia questa è stata appunto l’esperienza storica
delle forze cattoliche che aderirono alla resistenza armata al fascismo e
all’occupante nazista, tra il ’43 e il ’45: si definivano ribelli per amore.
Il
più notevole tentativo di costruire un movimento di quel tipo, che si situasse
tra l’organizzazione ecclesiale in senso proprio e le organizzazioni della
società civile, non caratterizzate religiosamente, è stato quello delle varie teologie della liberazione, che
originarono negli anni Sessanta
e vennero duramente contrastate e represse, in particolare sotto il Papato di
Giovanni Paolo 2°, per motivi prettamente teologici e per motivi politici, in
quanto le si sospettava di cedimento alle ideologie marxiste e di assecondare i
disegni sovietici nell’America latina.
Negli anni ’80 e ’90 abbiamo
assistito ad un forte attivismo politico internazionale, nel senso di cui
dicevo, da parte del papa Giovanni Paolo 2°. Esso lasciò poco spazio ad
autonome iniziative laicali. Si affermò in questo il modello di impegno laicale
della Polonia, molto legato al collegamento con i vescovi. In Italia, dopo la
fine dell’esperienza unitaria democristiana, poco spazio è stato lasciato ai
laici e sui temi specificamente politici con rilevanza religiosa ha inteso
esercitare un’azione di coordinamento la Conferenza Episcopale Italiana. Negli
ultimi due anni ha ripreso ad essere molto attiva anche la Segreteria di stato
Vaticana, qualche volta con iniziative che divergevano dalle concezioni della
Conferenza Episcopale Italiana. Insomma, il laicato italiano è continuato ad
essere quel brutto anatroccolo di cui
ha parlato Fulvio De Giorgio nel suo bel libro omonimo del 2008.
Un momento di particolare
tensione si ebbe al tempo del referendum abrogativo in merito ad alcune norme
della legge sulla procreazione assistita (2005), in cui la gerarchia cattolica
aveva, indirettamente naturalmente, consigliato l’astensione, per non far
raggiungere il numero minimo di votanti perché la consultazione fosse efficace
e invece diversi cattolici decisero di andare a votare, pur votando contro
l’abrogazione della legge (che era conforme alle concezioni dei vescovi).
Volarono parole grosse tra laici schierati su posizioni opposte. Chi era
conosciuto come cattolico e andava a votare veniva visto come in aperto dissenso
con la gerarchia. In quell’occasione si manifestò chiaro il problema aperto
dall’attivismo autonomo che si era iniziato a pretendere dai laici cattolici:
esso doveva necessariamente svolgersi con metodi democratici e quindi
rispettando la dignità morale e la libertà di coscienza di ciascuno. Questa
convinzione fa fatica ad affermarsi nella nostra Chiesa, dominata da una
gerarchia che rifiuta il metodo democratico nei compiti che sono suoi propri,
ma è costretta a tollerarlo nell’azione nella società, se vuole veramente
coinvolgere le masse nello sviluppo di una società ispirata a valori religiosi.
Le cose si sono complicate
ulteriormente per l’alta laicizzazione delle attuali formazioni politiche, per
cui l’adesione a un determinato orientamento religioso, ad esempio alla
dottrina sociale della Chiesa, non è più presentato come caratterizzante e da
tutti si fa professione di tolleranza e multiculturalismo. Ma sono più
complicati anche i problemi e i dilemmi davanti ai quali ci si trova. Vi è la
necessità di ragionare bene sulle cose e sugli effetti delle proprie decisioni,
in uno spirito che, in democrazia, non può tener conto solo degli interessi
della propria parte, fosse anche la
propria Chiesa, ma del bene di tutti i consociati. E allora certi sbrigativi
appelli a votare questo o quello, che sicuramente verranno anche in occasione
delle prossime elezioni politiche, come sono venuti nel passato, vengono
accolti spesso con fastidio, perché gli anni del dopo Concilio non sono stati
senza effetto e quindi non si tollera più umiliarsi nell’atteggiamento di
sudditi di un potere indiscutibile, fosse anche a base sacrale, ma ci si sente
impegnati a un atteggiamento responsabile che impone di capire e di convincersi
bene sui vari temi. L’autorità, nelle cose della politica e, in genere, della
costruzione delle società umane, la Città
dell’uomo di Lazzati, non va data per scontata, ma deve essere conquistata
giorno per giorno con buoni argomenti ed esempi edificanti.
L’Azione Cattolica si sente
particolarmente impegnata nell’azione di formazione delle coscienze necessaria
per svolgere responsabilmente la missione che ai laici compete nel mondo di
oggi.
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39
Eterno presente o apertura
verso un futuro diverso?
(30 novembre 2012)
Da parte di Abramo dunque …
emerge una disponibilità all’accoglienza dei tre uomini, dei tre stranieri che,
inesplicabilmente, si trovano improvvisamente davanti a lui. La tradizione
mistica di Israele qualificherà questa disponibilità come bontà o carità
(“chesed”) ... li riceve: non come dei simili o degli uguali, ma come esseri
misteriosi … e di grande importanza. […] Il presente di Abramo …
improvvisamente è messo allerta da un mistero. Li riceve come se dei visitatori
fossero, per principio, sempre messaggeri dell’Eterno, esseri che bisogna
servire senza chiedersi se lo meritano. Messaggeri che per di più dovrebbero
essere serviti prima di Colui che li ha inviati. Il che sembra –in ogni caso
qui- il modo migliore per servirLo. [… ] Il presente … si trova liberato dalle
limitazioni insopportabili e mortali perché si mostra capace di essere toccato
dal mistero dell’altro, dalla sua presenza discreta e inafferrabile.
In questo racconto della Torà è questo mistero
che fa dell’altro un inviato dell’Eterno
–un angelo- e non è il fatto di aspettarsi dall’altro che risponda finalmente
al mio desiderio e sia lo strumento della mia soddisfazione che porta a vedervi
un angelo. [… ]
Ricevere un angelo –il soffio e le parole
dell’Eterno incarnati, fugacemente, qui e ora, in un uomo, in uno straniero – è
dunque prendere delle iniziative –
preparare da bere e da mangiare –senza cercare prima di familiarizzarsi con
l’identità dell’altro e ancor meno chiedersi come trarne profitto per sé ,,, è
considerare l’altro … irriducibile a ogni conoscenza che si pretenda di avere
di lui.
[…] Il racconto studiato qui mostra come,
grazie all’accoglienza di questo mistero, la chiusura nel presente si schiude e
come ciò che sembrava impossibile è annunciato come possibile, la novità,
l’avvenire, la nascita di un figlio […] Infatti solo l’alleanza della Parola e
della carne fa vedere a una persona ciò che, fino a quel momento, restava
invisibile, impercettibile o senza presenza di carne.
[In: Catherine Chalier, Angeli e
uomini, Giuntina, 2009, pag.53-55; commento al racconto biblico di Gen
18,1, l’apparizione ad Abramo di tre uomini alle querce di Mamré]
Uno dei pregi maggiori che
alcuni pensatori del passato hanno visto in alcuni tipi di religiosità è
l’apertura al futuro, all’inaspettato.
Nel cristianesimo è l’aspetto della speranza
che ha colpito particolarmente anche fuori del nostro mondo.
In religione si confida di
essere liberati dalla morte e di essere salvati dalla pena eterna. Quando
accadrà questo? Nessuno lo sa, ci viene insegnato; è scritto. Nei travagli
dell’oggi siamo convinti però che qualcosa è cambiato, proprio nel mondo in cui
viviamo, con la nascita di Gesù, migliaia di anni fa. E che alla fine dei tempi
si avrà il compimento beato di tutto ciò che nella fede religiosa crediamo, con
il ritorno glorioso di Cristo. Nel frattempo siamo però invitati a non rimanere
inattivi. Bisogna rimanere vigili e pronti, come le sentinelle nella notte
(così sosteneva Dossetti). In particolare bisogna scrutare i segni dei tempi, come fanno gli agricoltori nel loro
mestiere, per capire quando è tempo di seminare e quando di raccogliere. Ma c’è
di più: abbiamo la possibilità di influire sul corso dei tempi, su come vanno
le cose nel mondo, e, in particolare noi laici, siamo stati invitati a farlo
dai padri del Concilio Vaticano 2° e i nostri capi religiosi non cessano di
ricordarcelo. Questa nostra attività sembra che non abbrevierà di un secondo il
tempo che manca alla fine di tutto, ma manifesta il nostro assenso a ciò che
religiosamente crediamo, è il nostro concreto amen.
A parole sembra tutto facile,
nella pratica molto meno. Chi decide che cosa si fa per cambiare il mondo? Il
Papa e i vescovi, i quali hanno formazione prevalentemente teologica e ci
chiedono aiuto in tutto il resto? Decidiamo a maggioranza? E se poi le
maggioranze, come è accaduto, si pervertono e, invece di tendere a ciò che
conta, pensano prevalentemente al proprio tornaconto? E se non andiamo
d’accordo su ciò che deve fare, come mantenere l’unità della nostra
collettività religiosa?
Come ho scritto, si tratta di temi sui quali soluzioni soddisfacenti
non sono state ancora trovate, a mio parere naturalmente.
Nella nostra parrocchia, ad esempio, convivono stili di religiosità
molto diversi, che in qualche campo sono addirittura contrastanti. Alla fine
allora si tende a stare con chi la pensa come noi e si fanno molte chiacchiere,
spesso malevole, sugli altri. Una ricerca sul WEB ci convincerà facilmente che
circolano in rete le accuse più tremende contro gli avversari, e sono sotto
accusa addirittura Papi e Concili ecumenici.
Non è che al di fuori della
Chiesa le cose vadano meglio. Si parla in merito di estesa frammentazione sociale e di corporativismo. Ognuno pensa per se e, di scontro in scontro, si
arriva solo a provvisori compromessi.
Un esempio storico di ciò a cui
voglio riferirmi lo abbiamo nella Palestina contemporanea. Proprio lì, in luoghi sacri a tre religioni,
sembra rivivere l’esperienza desolante della biblica Babele. E anche noi
cattolici pretendiamo di dire la nostra al massimo livello, concludiamo
accordi, intavoliamo trattative. Ma con che risultati, poi? La mia spiritualità
è poco legata a quei posti, che mi sembrano anche piuttosto inospitali come
ambiente naturale, visti con gli occhi di un italiano. L’unico luogo a cui sono
legato emotivamente è il “mare” di Galilea, che è tanto simile al lago dove
vado in vacanza d’estate, quello di Bolsena. Ma capisco che il mio è un punto di vista particolare, limitato, e
che ci sono buoni motivi religiosi per occuparsi di quelle terre. Farlo
pacificamente sembra però piuttosto difficile e la storia ce lo ha confermato e
lo conferma ancora.
Eppure l’attesa del futuro, la vera speranza, può avere in fondo
solo natura religiosa.
Un primo atteggiamento che
vorrei provare a sperimentare è confrontarsi con gli altri senza
preventivamente calcolare i vantaggi
che ci verrebbero da un’alleanza con loro o, viceversa, gli svantaggi. E’
l’insegnamento che la Chalier ricava, sulla base della riflessione dei saggi
ebrei, dal racconto biblico dell’incontro misterioso di Abramo alle Querce di
Mamre. Quindi di cogliere negli altri ciò che supera l’utilità materiale che le
loro vite possono darci.
La religione ci dà la capacità
di uno sguardo soprannaturale che consente di cogliere ciò che prima restava
invisibile, impercettibile, e che quindi veniva trascurato. E’ così che ho
spiegato alle mie figlie la protezione che i cattolici vogliono fornire a
organismi umani che non hanno ancora o non hanno più la capacità di entrare in
relazione con noi nei consueti modi degli esseri umani. E questo a prescindere
da altre questioni più complicate come quelle che riguardano l’anima e via
dicendo. Ma anche nei riguardi dei morti, di quelli che dal punto di vista
scientifico non vivono più, che mi capita di incontrare spesso in certi miei
turni di lavoro, l’animo rimane incredulo di fronte alla realtà fisica della
fine, del disfacimento dei corpi, della cosificazione dell’essere umano,
disgregabile in pezzi minuti nelle pratiche autoptiche, e, potente, emerge
l’esigenza di aderire alla promessa di salvezza che in religione abbiamo
accettato e professato.
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40
Sollecitudine nel lavoro
relativo alla terra presente e rilevanza religiosa della democrazia
(1 dicembre 2012)
…l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto
stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove
cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa
prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba
accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di
Cristo, tuttavia, tale progresso, nella
misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, è di grande
importanza per il regno di Dio.
Ed infatti quei valori, quali la dignità dell’uomo, la comunione fraterna e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della
natura e della nostra operosità dopo che li avremo diffusi sulla terra
nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di
nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il
Cristo rimetterà al Padre “il regno eterno e universale: che è regno di verità
e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di
pace” [ dal Prefazio alla
festa del Cristo Re]. Qui sulla terra il regno è già presente, in
mistero; ma non la venuta del Signore, giungerà a perfezione.
[ dalla costituzione pastorale Gaudium
et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n.39 Terra nuova e cielo nuovo, del Concilio
Vaticano 2° -1962/1965]
Il tempo che ogni martedì
dedichiamo alla riflessione sui temi dell’Anno
della Fede è troppo poco per un vero aggiornamento, se già certe cose non
le abbiamo conosciute e assimilate molto prima, nel corso della nostra vita.
Può al più dare spunti per ulteriori approfondimenti. Siamone consapevoli: se
vogliamo esercitare utilmente il diritto di parola che ci viene riconosciuto su
certi temi, dobbiamo fare uno sforzo per apprendere, innanzi tutto leggendo i
documenti che oggi generano i dibattiti più attuali. Potremmo quasi dire che ci
competono compiti a casa. Ma non si
tratta solo di questo. Poiché questa è azione religiosa ne dobbiamo fare materia di preghiera, perché ogni cosa sia vista, pensata e agìta, come è
scritto nel brano della Gaudium et spes che
ho sopra trascritto, nello Spirito del
Signore e secondo il suo precetto.
Molti anni fa, quando facevo ancora le medie, mio zio Achille, che era
un importante sociologo italiano, piuttosto seguito anche nel mondo cattolico,
mi parlò della discesa della Gerusalemme
celeste (Ap 21), nuovo cielo e nuova
terra. All’epoca ero molto appassionato di fantascienza, leggevo ogni due
settimane i fascicoli della collana Urania,
e mi figurai la cosa come una grandissima astronave che atterrava da noi. Mi
sorprese che uno scienziato come mio zio, una persona che nel suo lavoro era molto legata al dato statistico,
all’immagine realistica delle società del suo tempo attraverso sondaggi
condotti con metodi precisi e razionali, si appassionasse a cose come quella.
Per me, allora, la religione significava la Messa la domenica e le altre feste
tradizionali, le preghiere al mattino e alla sera (quando me ne ricordavo), non
eccedere in certe abitudini personali che i preti deploravano, fare quello che
i miei genitori mi dicevano, confessarmi ogni tanto. Non immaginavo che ci
fosse molto di più. La società andava come andava e io stavo ancora imparando a
vivere in essa, non mi passava per la mente di cambiarla. Pensavo anche che,
tutto sommato, mi era capitato di nascere tra gente buona. Poteva andarmi peggio. Sapevo che c’erano
anche i cattivi e quelli che soffrivano, ma li situavo in regioni lontane.
Della morte avevo un’immagine vaga, in genere collegata ai film eroici di
guerra, in cui si facevano belle morti,
nel senso di apprezzate dagli altri. “…adesso
e nell’ora della nostra morte” erano soltanto parole per me, frasi mandate
a memoria.
Certe idee ho cominciato a
capirle e ad apprezzarle veramente solo crescendo.
Dunque c’è, in religione, un lavoro
da fare. Non c’è solo la parte,
come dire, liturgica. E non si tratta
solo di sforzarsi di non cedere agli istinti. C’è una fatica che dobbiamo
sobbarcarci ed essa riguarda il mondo in cui viviamo, il tempo presente. Essa consiste nell’ordinare meglio la società in cui siamo inseriti. Perché è fatica?
Perché, in genere, le società resistono
ai cambiamenti, tanto più in quanto sono fondate sull’ingiustizia, quindi su
privilegi di alcuni rispetto ad altri. Non è questa anche la vostra esperienza?
Questo lavoro nella società, ci
dice il Concilio Vaticano 2° sulla base della tradizionale teologia, non è
senza importanza per il regno di Dio. Ma, come? Non doveva venire dal cielo, la santa
città, la nuova Gerusalemme, già
tutta pronta per noi, come una sposa
pronta per andare incontro allo sposo? La nostra idea religiosa è che ciò
che avremo costruito sulla terra secondo i precetti di fede lo ritroveremo ai
tempo del compimento beato, illuminato e
trasfigurato. Capiremo quindi che esso era già una manifestazione del regno
beato, eterno e universale. Cose come la
dignità delle persone umane, la comunione fraterna, la libertà. Siamo ben
consapevoli, naturalmente, dei limiti insiti in tutte le nostre costruzioni, per
cui, qui e ora, non ci azzarderemmo mai a dire il regno è qui. Confidiamo,
ma senza poterne avere la sicurezza, che certe cose che facciamo possano averci
a che fare: è questo il mistero di
cui si parla nel brano che ho sopra citato. Ma perché mistero? Perché, anche se contemplando l’opera nostra non possiamo,
in fondo, concludere, come nel Sesto giorno, che è cosa molto buona (Gn 1,31), perché non ci illudiamo e ne vediamo
le imperfezioni, tuttavia l’animo nostro
è pur sempre pieno, religiosamente, non tanto razionalmente, di speranza, confidando che ciò che per
mezzo nostro è stato generato dal contatto con un appello soprannaturale, poi sarà portato a
termine, quindi al compimento, da colui che ci ha chiamati e attirati verso di
sé.
Ora, bisogna prendere coscienza
che in quel brano della Gaudium et spes
ci sono cose che appartengono da sempre alla tradizione cristiana e cose nuove.
Queste ultime le possiamo considerare come manifestazione viva di quel lavoro di cui si parla nel brano
medesimo. La cosa veramente nuova è l’appello
a tutti coloro ai quali il Concilio volle rivolgersi, vale a dire a tutte le persone umane [Gaudium et spes, 2], alla
sollecitudine nel lavoro per il progresso delle società umane verso la dignità
delle persone umane, la comunione fraterna e la libertà, attraverso nuovi e
migliori ordinamenti.
Vogliamo approfondire un po’ di più? Come potremmo dire in modo diverso
gli obiettivi di quei nuovi e migliori
ordinamenti sociali indicati nella Gaudium
et spes? Butto lì: uguaglianza, fraternità, libertà, i
principi cardine delle democrazie moderne.
Si legge nella nota 793 del Compendio della dottrina sociale della
Chiesa (2004)
793« Libertà, uguaglianza, fraternità » è stato
il motto della Rivoluzione francese. « In fondo sono idee cristiane » ha
affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia
a Le Bourget (1º giugno 1980), 5: AAS 72 (1980) 720.
Per oggi finisco qui. Per
riflettere su certe cose serve tempo. Quando parlo con gli altri non noto una
grande consapevolezza della natura anche religiosa del lavoro che si fa in democrazia per il miglioramento della società.
Anzi sento spesso contrapporre religione e democrazia ed alcuni con
compiacimento proclamano che la logica
della democrazia non ha posto nella Chiesa. Ne siamo proprio sicuri?
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41
La pace universale come
finalità religiosa
(3 dicembre 2012)
Tutti gli uomini quindi sono chiamati a questa cattolica unità del
popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in
vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri
credenti in Cristo, si infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia
di Dio chiama alla salvezza.
[dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium – n.13 -, del Concilio
Vaticano 2°]
La prima volta che mi posi
veramente il problema della pace come finalità religiosa fu quando partecipai,
la sera dell’ultimo dell’anno del 1981, a una Marcia della pace che fu percorsa qui a Roma, dal Colosseo a piazza
San Giovanni e che terminò con la Messa nella basilica lateranense. All’inizio pronunciò un breve discorso il rabbino capo di Roma prof.
Elio Toaff e il tema che svolse fu quello del rapporto tra pace e giustizia: non si poteva
essere vera pace senza giustizia e la vera giustizia non era quella dei
compromessi che si fanno nelle storie umane ma quella religiosa.
Negli anni ’70, che pure erano
stati piuttosto turbolenti in Italia, si era parlato molto di pace nel mondo giovanile, ma in genere
non se ne era colto il senso religioso e questo nonostante la dottrina sociale
della Chiesa cattolica e il Concilio Vaticano 2° l’avessero molto messo in
risalto. Il mondo all’epoca era diviso in due blocchi, quello capitalista e quello
comunista, e la Chiesa cattolica veniva annoverata nel primo. Nella società
italiana, poi, la Chiesa cattolica veniva vista come alleata di chi comandava,
in politica con la Democrazia Cristiana, nelle relazioni di lavoro con i
padroni, tanto che c’era l’uso di chiedere raccomandazioni di lavoro al
parroco, quando non c’era di meglio.
Il problema è che, in genere, il
conseguimento della giustizia
richiede una lotta, non è una cosa naturale nelle società umane. In esse i
rapporti vengono strutturati sulla base della forza delle componenti che si scontrano per l’affermazione dei
propri interessi. Questo lega la stabilità delle società umane all’impiego
della forza e quindi, come conseguenza, la possibilità del mutamento di un
ordine sociale all’esercizio di una forza maggiore. Le democrazie contemporanee
sono i regimi politici in cui si fa un minor impiego della forza, ma anch’esse
si sono affermate con la forza, per scardinare ordini politici precedenti, i
quali resistevano al cambiamento.
Ma anche se si riuscisse a
realizzare un ordine giusto esso
tuttavia non potrebbe fare a meno di prevedere l’impiego di una certa forza, per resistere a sua volta a
cambiamenti prodotti dall’aggressione opportunistica di chi voglia di più per
sé o per il proprio gruppo. Nell’antichità romana si era soliti ricordare il
detto secondo il quale se si vuole la
pace, bisogna preparare la guerra, ma poi quel tipo di pace sarebbe
veramente tale? Tacito scrisse la celebre frase, a proposito della politica
romana: fanno un deserto e lo chiamano
pace.
Il problema della pace
universale è piuttosto recente. Risale fondamentalmente al periodo storico in
cui si affermò il movimento filosofico detto dell’Illuminismo, nel Settecento.
L’idea che in questo movimento per la pace universale possano essere coinvolti tutti
i popoli della terra, anche, per dire, gli aborigeni o le genti
socialmente meno sviluppate, è ancora più recente: risale al periodo tra le due
guerre mondiali del Novecento. Le immani stragi che ne conseguirono, che non si
erano mai verificate in alcun altro periodo della storia dell’umanità, e
soprattutto la possibilità concreta di stragi ancora maggiore derivanti da un
conflitto con l’impiego di armi nucleari, portarono alla revisione delle idee
che si avevano sul problema della guerra. Fino ad allora la guerra, vista
essenzialmente come manifestazioni di conflitti tra dinastie regnanti, non era
stata un vero problema per la Chiesa cattolica, che vi si era, anzi, trovata
spesso invischiata e, in ogni caso, aveva sempre voluto dire la propria sulle
guerre che coinvolgevano potenze europee.
Del resto nella Bibbia ci sono molte guerre, alcune che vengono presentate come
giuste, quelle a beneficio degli
israeliti e dell’unità del loro popolo, e altre malvagie, quelle contro gli israeliti e che comportano la divisione
di quel popolo. Fondamentalmente l’ideologia cattolica sulla guerra si era
sempre rifatta a quell’ordine di idee. Nell’Apocalisse, l’ultimo libro del
Nuovo Testamento e della Bibbia cattolica, si narra di molte guerre sanguinose
e si situa alla fine dei tempi l’avvento della pace religiosa, ma non come
opera degli esseri umani, ma come iniziativa portentosa soprannaturale, per cui
la nuova Città dell’uomo la si vedrà
venire dall’alto, già tutta pronta, adorna come la sposa per lo sposo.
Nelle guerre tra popoli in
prevalenza cristiani, i rispettivi preti e religiosi parteggiavano per i propri
stati e i propri eserciti, invocando il soccorso divino per le pretese
nazionali. Alla fine delle guerre, nelle nazioni dei vincitori si celebravano
Messe di ringraziamento per la vittoria e
pochi vi videro un’incongruenza religiosa, mentre il filosofo tedesco
Emanuele Kant (1724-1804) vi scrisse sopra pagine roventi nella sua opera Per la
pace perpetua (1795). Secondo lui si sarebbero invece dovute celebrare
Messe funebri e riti penitenziali per ricordare i tanti morti che la pace era
costata sui due lati del fronte e, soprattutto, l’insuccesso della ragione
umana che non era riuscita se non con quella barbarie a regolare i rapporti tra
nazioni.
Un precursore come don Lorenzo
Milani entrò in contrasto con i cappellani militari per discorsi come quelli e,
quando si disse a favore dell’obiezione di coscienza su basi anche religiose al
servizio militare, fu messo sotto processo penale. Si era negli anni Sessanta, e si era già dopo il Concilio Vaticano 2°.
Il modo in cui nel Novecento la
Chiesa manifestò per un certo tempo la sua adesione alla pace fu quello della neutralità.
Dopo la Seconda guerra mondiale esso risultò profondamente insoddisfacente. Si
disse, ad esempio, che non era stato detto e fatto abbastanza di fronte
all’enormità del disegno criminale hitleriano dello sterminio delle popolazioni
ebraiche europee, manifesto fin dall’inizio come proposito e noto alla Santa
Sede anche nella fase attuativa attraverso i suoi canali diplomatici. Rimanere neutrali
è un modo debole di promuovere la pace:
semplicemente si cerca di non accrescere le ragioni di conflitto e di non
portarvi nuovi combattenti, ma si rimane sostanzialmente indifferenti sulle
cause della guerra, che in genere si fondano su pretese ingiustizie sociali.
Dopo la Seconda guerra mondiale
la Chiesa cattolica parteggiò apertamente per il blocco capitalista, che si
contrapponeva a quello sovietico, in cui si era apertamente avversi alla
religione e al clero. Si vide un senso religioso allo stallo per cui le grandi
potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, si trovavano nelle
condizioni di dover evitare un conflitto globale con l’impiego di armi nucleari
per il concreto pericolo di sterminare le loro stesse popolazioni. Si trattava
in effetti di un paradosso: la pace poteva essere mantenuta mantenendo un
equilibrio nelle armi più devastanti che andava sempre situandosi al rialzo.
In Europa si andò ideando un
ordinamento diverso da quelli che avevano preceduto nella storia dell’umanità,
nel quale la pace fosse mantenuta
attraverso una forma di collaborazione e di integrazioni dei popoli. Questo
processo vide protagonisti politici cattolici, ma non la gerarchia cattolica,
in genere piuttosto sospettosa verso iniziative del genere. Essa infatti
ragionava essenzialmente, nella politica internazionale, in termini diplomatici e una nuova entità europea
sovranazionale sarebbe stato un altro organismo con cui patteggiare un
accomodamento, una specie di nuovo concordato,
qualcosa che metteva in questione gli accordi che già in varie parti si erano
raggiunti con gli stati nazionali.
In questo periodo, e ancora
oggi, l’idea di un’istituzione di promozione della pace universale che la
gerarchia cattolica ha è quella di una potenza sovraordinata a tutte le altre
potenze, capace di imporre una sorta di polizia internazionale per il
mantenimento della pace. Essa confida
molto nell’organizzazione delle Nazioni
Unite. Si è visto però che quest’ultimo organismo, che realizza una forma
di effettiva concertazione permanente tra nazioni, è in definitiva alla mercé
delle potenze maggiori, che oggi non sono più solo le potenze vincitrici della
Seconda Guerra mondiale. E la concertazione di maggior rilevo è quella che si
assume nel Consiglio di sicurezza in occasione di crisi internazionali, quando
viene data l’autorizzazione a una superpotenza militare di intervenire in un
teatro di guerra, come ripetutamente accaduto negli anni passati.
L’ordinamento pacifico su cui si
fonda l’idea europea è profondamente diversa, perché la si vuole fondare dal
basso e, in particolare, attraverso la realizzazione in concreto di diritti
umani fondamentali e di una comune dignità delle persone dei popoli coinvolti
nel processo di pacificazione. Questa soluzione si è dimostrata capace di
mantenere la pace in Europa dal 1945, tra popoli che si erano storicamente
combattuti per secoli, anche su basi religiose. Essa ha anche determinato un
moto centripeto, per cui i popoli d’intorno chiedono di unirsi a quelli che si
sono già in tal modo federati.
Addirittura questo moto ha coinvolto un popolo erede di uno storico nemico come
la Turchia, islamica.
Attualmente la dottrina sociale
della Chiesa oscilla tra l’idea di una pace mantenuta con la forza da
un’autorità mondiale e quella realizzata a partire da popoli profondamente
federati. La prima soluzione è conforme alla storica tradizione diplomatica della nostra Chiesa, quindi
alla sapienza con cui ha saputo intavolare di volta in volta trattative con i
sovrani, la seconda presenta l’incognita della volontà popolare. La gerarchia
cattolica è piuttosto diffidente verso quest’ultima, tanto da rifiutare la democrazia come metodo organizzativo al
proprio interno. Eppure è proprio dalla pace come obiettivo culturale dei
popoli che sono venuti i migliori risultati, lì dove si è avuto un disarmo degli spiriti che ha reso
inutili le armi materiali. La convergenza dei popoli ha prodotto l’abbattimento
di storiche e sanguinose frontiere come quelle tra l’Italia e l’Austria o tra
la Francia e la Germania. Ma il suo fondamento ideologico, pur dovendo molto
alle idee religiose dei cristiani, in particolare a quelle che erano state meno
sviluppate nella storia europea, non coincide totalmente con la dottrina
cattolica e, anzi, su certi punti può addirittura contrastare con essa, in
particolare in sviluppi recenti, come quelli che riguardano le libertà
religiose o la discriminazione su base sessuale.
C’è inoltre il problema di
costruire un nuovo ordine economico, fondato su principi di giustizia sociale
ma anche di efficienza economica. Questo è prettamente un lavoro in cui devono
impegnarsi i laici cattolici, ma che succede quando sono in questione interessi
economici della Chiesa cattolica intesa come organizzazione?
Per la prima volta nella storia
i cattolici sentono che la questione della giustizia come fondamento della pace
universale coinvolge anche la loro Chiesa, la sua struttura e i suoi interessi
come organizzazione sociale. In particolare è centrale il tema del ruolo delle
donne, le quali, con varie argomentazioni, vengono tenute fuori dai centri di
elaborazione della dottrina comune. Ma vengono in rilievo molte alte questioni
che sono rimaste irrisolte e che in qualche modo possono essere riassunte nel
dibattito sull’appartenenza ecclesiale come unica
via di salvezza. Questa è stata storicamente l’occasione di infiniti conflitti
a base religiosa.
In queste settimane sono stati
tra noi membri del movimento che si è formato intorno alla comunità ecumenica
di vita religiosa di Taizé, in Francia. Lì è concretamente dimostrata e
prefigurata la possibilità di una coesistenza pacifica tra diverse idealità
religiose cristiane che, dal punto di vista teologico, non è invece ancora del
tutto scontata.
Nel processo ideale di
unificazione europea la gerarchia è stata come trascinata dagli eventi, non ne
è stata protagonista. La dottrina sociale in merito è ancora insufficiente. In
questo noi laici siamo chiamati ad avere oltre che un ruolo esecutivo, un ruolo ideativo, a pensare un modo nuovo di essere persone religiose nella
nuova Europa. Poi, come sempre è accaduto, seguiranno la teologia e la
dottrina, per sancire ciò che si sarà dimostrato valido.
Azione cattolica è anche tutto
questo. Non consiste solo nel portare
gente in chiesa. E’ un compito molto complesso nella società del nostro
tempo. E’ un lavoro che supera le capacità del nostro piccolo gruppo
parrocchiale? In realtà no, perché noi ragioniamo religiosamente. Così come
nella Messa pensiamo di rendere presente l’unica Chiesa universale, allo stesso
modo possiamo ragionare tra noi sentendoci parte dell’intera umanità, per
escogitare, secondo la terminologia del filosofo e giurista Norberto Bobbio, le
vie della pace (1966, ripubblicato da
Il Mulino nel 2009).
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42
Che fanno i laici cattolici nel
mondo?
(3 dicembre 2012)
Col nome di laici si intende
qui l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello
stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati
incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi dell’ufficio
sacerdotale, profetico e regale di Cristo, compiono nella Chiesa e nel mondo,
la missione propria di tutto il popolo cristiano.
[…]
Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
Vivono nel secolo, cioè implicati in
tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della
vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi
sono da Dio chiamati a contribuire,
quasi dall’interno a modo di fermento,
alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico,
e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la
testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro
speranza e carità. A loro quindi
particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali,
alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano
costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e al Redentore.
[Dalla Costituzione dogmatica Lumen
Gentium (n.31), del Concilio Vaticano
2° (1962-196)]
Vi propongo come pio esercizio
per questa settimana di imparare a memoria i due brani della Lumen Gentium che ho sopra riportato.
Sono legge molto importante della nostra Chiesa. E contengono alcune delle
affermazioni più rilevanti del Concilio
Vaticano 2°. Dalla mente devono scendere nell’anima e poi di nuovo devono
tornare alla mente, per progettare il futuro con la determinazione che è
richiesta dal carattere religioso dell’impegno a cui siamo chiamati.
Abituati forse ancora a considerare
Chiesa il Papa, i vescovi, i
sacerdoti e i loro stretti collaboratori, i monaci e le monache, i frati e le
suore, dobbiamo sforzarci ora di figurarci l’immane massa di persone, quasi un
miliardo di cattolici, che compone il resto,
quella parte del Popolo di Dio che
viene denominata il laicato
(l’espressione, usata in questo senso, risale agli scritti di San Clemente
papa, I secolo della nostra era, al quale è intitolata la nostra chiesa
parrocchiale).
L'occasione immediata
della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento
sull'identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati
degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell'affievolimento della
carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i
fedeli all'umiltà e all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive
dell’essere nella Chiesa: “Siamo una porzione santa”, ammonisce, “compiamo
dunque tutto quello che la santità esige” (30,1). In particolare, il Vescovo di Roma
ricorda che il Signore stesso “ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi
liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo
beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà... Al sommo sacerdote infatti
sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato
preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri.
L'uomo laico è legato agli ordinamenti laici” (40,1-5: si noti che qui, in
questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura
cristiana, compare il termine greco “laikós”, che significa “membro del laos”,
cioè “del popolo di Dio”).
[dalla meditazione svolta dal
papa Benedetto 16° all’udienza generale del 7-3-07]
La
valorizzazione dell’impegno religioso dei laici è uno dei temi chiave lanciati
da padri conciliari soprattutto per sviluppi futuri, che ancora sono in corso.
Naturalmente considerare quasi come un resto la gran massa dei fedeli,
detratti i membri dell’ordine sacro e i
religiosi, è una particolare prospettiva che risente del metodo della teologia
di ordinare le argomentazioni. Per la gran parte della storia della chiesa i
laici sono stati poi considerati essenzialmente come sudditi della potestà religiosa esercitata dal clero, allo stesso
modo in cui lo erano, nel campo civile, delle dinastie regnanti e dei loro
vassalli e funzionari. In effetti i Papi ebbero anche, e ancora hanno sebbene
in un ambito poco più che simbolico, la condizione giuridica di monarchi, ad un
certo punto equiparati come dignità agli imperatori, ai re dei re, e i vescovi
ebbero effettivamente la condizione di feudatari e così i capi degli ordini
religiosi maschili. Un suddito onora il proprio Signore e gli ubbidisce e lo
serve. Il potere religioso trovava limitazione in quello politico civile e
storicamente si ebbero varie combinazioni tra gli stessi, con accomodamenti e
anche conflitti. La gente del popolo era, come dire, oggetto di una sorta di condominio tra autorità religiose e
civili. Questo assetto c’era nella Bibbia e, in particolare, nel Vangelo?
Diciamo che ci si costruì una teologia sopra, imposta ai fedeli laici per
vincolo di obbedienza religiosa. Il Concilio
Vaticano 2° consacrò al massimo
livello un profondo ripensamento (già in corso da diversi anni), il quale
naturalmente venne espresso in termini teologici, collegandolo alle Scritture e
alla Tradizione, ma fondamentalmente originò dall’esperienza storica dei
movimenti laicali cattolici nell’Ottocento e nel Novecento e dalla
constatazione che solo l’azione di masse illuminate poteva contrastare i
moventi ed esordi di conflitti catastrofici come quelli che si erano prodotti
in Europa fin al 1945. Ricordo di nuovo il Radiomessaggio natalizio del 1944
del papa Pio 12°, la prima manifestazione pubblica della nuova mentalità:
Queste moltitudini,
irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi
invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai
incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere
l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel
turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il
ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci
garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
Forse, per una certa pigrizia e rassegnazione,
che anch’io, ormai cinquantacinquenne,
comincio ad avvertire, pensiamo al nostro impegno religioso come un farci intrattenere con discorsi
edificanti e belle liturgie. E invece dovremmo essere costruttori di mondi, questo appunto significa l’espressione trattare le cose temporali ordinandole
secondo Dio. E lo dobbiamo fare in modo creativo, perché si tratta di cose
per i tempi nuovi. Con competenza e
guidati dallo spirito evangelico. E’
qualcosa che viene anche espresso anche con il concetto di regnare. Ma siccome dobbiamo farlo tutti insieme e pacificamente, lo dobbiamo fare democraticamente rispettando la dignità
di ciascuno, compresa la libertà e la franchezza (in greco parrhesia) di espressione. Ne siamo consapevoli?
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43
Laicità dello stato: nuovo
fronte religioso?
(9 dicembre 2012)
1. Il Discorso
alla città pronunciato lo scorso 6 dicembre 2012 dal cardinale arcivescovo
di Milano Angelo Scola sul tema L’editto
di Milano:initium libertatis (l’editto era quella del 313 dell’imperatore
romano Costantino che concedeva libertà di culto e di professione religiosa
pubblica ai cristiani) interroga sull’apertura di un nuovo fronte religioso in materia di laicità e aconfessionalità dello
stato.
Aconfessionalità dello stato significa che lo stato non riconosce
come propria alcuna religione, in
particolare quella cattolica, e quindi non si impegna a integrarla nel proprio
sistema di potere, anche solo come sistema
di valori etici.
Nello Statuto del Regno d’Italia del 4-3-1848 e nel Trattato Lateranense dell’11-2-1929 (uno
dei due accordi che sono noti come Patti
Lateranensi; l’altro è il Concordato)
era previsto, con forza di legge (ai Patti
Lateranensi fu data esecuzione nel Regno d’Italia con legge n.810 del 1929)
che la religione cattolica, apostolica romana fosse l’unica religione dello stato.
Con l’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984, la Repubblica Italiana e la Santa
Sede:
·
tenuto conto del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia
negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa dal Concilio
Vaticano 2°
·
avendo presenti da parte della Repubblica
italiana, i principi sanciti dalla Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico
Vaticano 2° circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità
politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico:
nell’art.1 del Protocollo
addizionale di quell’accordo, stabilirono:
·
“Si
considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi,della religione
cattolica come sola religione dello
Stato.”
L’aconfessionalità della Repubblica Italiana si ricava poi
ulteriormente dal fatto che tutte
le confessioni religiose sono dichiarate
libere davanti alla legge (art.8, 1°
comma della Costituzione). La posizione della Chiesa cattolica risulta
particolarmente rafforzata in quanto la si dichiara con norma costituzionale
(art.7 della Costituzione), indipendente e sovrana nel proprio ordine, quindi un vero e proprio potere autonomo, di cui
lo staterello di quartiere Vaticano vorrebbe essere una sorta di
rappresentazione, e in quanto, con
l’art.7 della Costituzione si è prodotto un riconoscimento costituzionale del
diritto concordatario e, innanzi tutto, del principio
concordatario, che esclude modifiche unilaterali da parte dello stato, per cui si ritiene anche che il diritto
concordatario cederebbe solo dinanzi ai principi supremi dell’ordinamento dello
stato.
Il principio di laicità dello stato è qualcosa di più
della semplice aconfessionalità dello
stato. Significa che la dignità
civile dei cittadini non deve essere discriminata sulla base della religione
professata.
Ricordo, ad esempio, che quando
mio padre mi mandò a Dublino, negli anni ’70, per imparare un po’ di inglese,
all’epoca, nelle contee settentrionali ancora sotto dominio britannico, si era
nel periodo dei cosiddetti Troubles,
dei moti degli irlandesi di religione cattolica che lamentavano di essere
discriminati nell’organizzazione statale e nell’economia nazionale a motivo della loro religione.
Il principio di laicità dello
stato si ricava dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20
della Costituzione ed è considerato un principio
supremo dell’ordinamento della Repubblica italiana, capace di prevalere
anche su norme di rango costituzionale, ““uno
dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della
Repubblica” (sentenza della Corte costituzionale n.3 del 1989).
Per i principi di aconfessionalità
e laicità dello Stato le religioni non possono ottenere che lo stato imponga ai cittadini le loro norme
etiche e le proprie visioni del mondo.
Esse dovranno conquistarsi autorevolezza conquistando il consenso delle
persone. Comunque nessuna maggioranza
religiosa potrà mai ledere il principio di laicità e quello di aconfessionalità
dello stato, a meno di fare una rivoluzione,
di rovesciare uno dei principi supremi della Repubblica.
L’accordo di revisione del Concordato Lateranense concluso nel 1984
menziona i deliberati del Concilio
Vaticano 2°.
Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo, al n.76 è enunciato il principio della laicità dello stato:
·
La comunità politica e la Chiesa sono
indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo
Segue tuttavia un temperamento che corrisponde anche all’attuale
concezione delle nostre autorità religiose:
·
Ma tutte e due, anche se a titolo di verso,
sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse
svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più
efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra loro, secondo le
modalità adatte alle circostanze di tempo e di luogo.
Questa formulazione è stata ripresa
nell’art.1 dell’Accordo del 1984 di revisione del Concordato Lateranense:
·
La Repubblica italiana e la Santa sede
riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio
ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale
principio nei loro rapporti per la promozione dell’uomo e il bene del Paese.
I conseguenti problemi (che ci sono sempre
quando organizzazioni che si riconoscono reciprocamente lo stato di poteri devono necessariamente
coesistere, condividendo, al modo condominiale, dei sudditi) si sono fatti più
acuti in Italia per tre ragioni:
·
il
decremento della popolazione che si riconosce cattolica (secondo una statistica
pubblicata ieri si tratta di poco più del 60%);
·
la vasta
inosservanza pratica da parte di chi si riconosce cattolico dei precetti
religiosi riguardanti l’esercizio della sessualità (compresa quella
omosessuale), la contraccezione, l’indissolubilità del matrimonio;
·
il
favore di larga parte dei cattolici a una regolazione giuridica di forme di
famiglia diversa da quella tradizionale (basata su matrimonio eterosessuale
tendenzialmente di lunga durata) e di limitazioni su base volontaria a sussidi
meccanici o farmacologici alla sopravvivenza in condizioni di sofferenza
estrema in cui non vi è alcuna prospettiva di miglioramento;
·
il vasto
dissenso, anche tra i cattolici e specialmente in periodi crisi, all’aumento
delle erogazioni di fondi pubblici a sostegno di attività della Chiesa
cattolica e di altre confessioni religiose e a forme di esenzione fiscale che
riguardano in particolare molte attività svolte da organizzazioni della Chiesa
cattolica;
·
l’aumento,
a seguito di imponenti fenomeni migratori, di fedeli appartenenti ad altre
confessioni religiose, i particolare a confessioni islamiche e cristiane
ortodosse.
La Chiesa cattolica appare oggi
particolarmente preoccupata sulle seguenti questioni:
·
la
progettata introduzione di una disciplina giuridica del matrimonio tra persone
omosessuali, con la conseguente possibilità di adozione di figli;
·
l’equiparazione,
ai fini degli interventi pubblici di sostegno, alle famiglie tradizionali
basate sul matrimonio eterosessuale tendenzialmente di lunga durata ad altri
tipi di famiglia, basate sulla semplice convivenza o su forme di matrimonio
omosessuale;
·
il potenziamento
della rete delle strutture sanitarie in cui possano essere praticati gli
interventi di interruzione volontaria della gravidanza (allo stato assai
carente in alcune Regioni, in particolare del Meridione);
·
l’autorizzazione
al commercio di farmaci abortivi, che consentano l’interruzione volontaria
della gravidanza senza interventi chirurgici invasivi;
·
la
possibilità sempre più larga, a seguito di sentenze dichiarative di
incostituzionalità della legge in materia di fecondazione assistita, di ricorrere
a diagnosi di salute degli embrioni realizzati al di fuori dell’organismo della
donna e ancora da impiantare, in modo da selezionare
quelli non affetti da patologie rilevabili;
·
la
possibile introduzione di una disciplina giuridica sulla eliminazione, o
impiego a fini di ricerca, degli embrioni prodotti in soprannumero nel corso di
procedure di fecondazione assistita;
·
la
revisione in peggio di esenzioni fiscali ad attività svolte da organizzazioni
della Chiesa cattolica o ad essa collegate, in particolare nel campo
assistenziale, scolastico e sanitario;
·
il
diniego di finanziamenti, sotto varie forme giuridiche, a organizzazioni
scolastiche della Chiesa cattolica o ad esse collegate;
·
la
progettata introduzione di norme giuridiche in materia di fine vita che
attribuiscano al malato grave la decisione finale dell’interruzione di sussidi
meccanici o terapeutici alla sopravvivenza in caso di patologie gravi,
irreversibili e che creino grandi sofferenza, sia sulla base di una volontà
espressa al momento in cui si pone il problema, sia su volontà anticipatamente
espressa in un atto che debba valere per un
momento futuro, al realizzarsi di certe condizioni, sia sulla base della
ricostruzione della presumibile volontà del malato in base a certe sue
manifestazioni di pensiero prodotte nel corso della sua vita.
·
l’esclusione
di manifestazioni esplicitamente cristiane (Crocifisso, Presepio, preghiera,
visita di autorità religiose) nelle scuole pubbliche con forte presenza di
alunni di altre confessioni religiose o non avvalentisi dell’insegnamento della
religione cattolica.
Complessivamente si tratta di quel principio di valori che il papa Benedetto 16° ha dichiarato come non negoziabili. Si discute abbastanza
su che cosa si debba intendere come non
negoziabili. E’ stato fatto osservare che in democrazia non esistono temi non negoziabili, su cui quindi non si
possa dialogare e discutere. In sede costituente lo si è fatto anche sui
principi fondamentali della Repubblica, come quello di laicità dello stato.
Quell’espressione è stata intesa anche nel senso che in nessun caso si devono
appoggiare partiti che non si impegnino espressamente a realizzare quei valori secondo l’interpretazione che di
essi dà in concreto la gerarchia cattolica. Ma, oggi, i
partiti maggiori non sono disposti ad accogliere in tutto la volontà dei capi
religiosi cattolici in materia e questo in quanto le posizioni espresse
dalla gerarchia in quelle materie che ho ricordato è in genere più o meno
minoritaria tra gli elettori, anche tra quelli cattolici. La differenza è tra quelli che manifestano in materia
agnosticismo e lasciano libertà di scelta ai propri parlamentari e quelli che
invece seguono una linea precisa, divergente da quella del Papa e del vescovi,
e pretendono fedeltà dalla propria forza parlamentare. Si è anche inteso quel non negoziabili come un invito al
massimo impegno per ottenere concretamente il miglior risultato possibile, ma
in realtà si tratterebbe di una
contraddizione in termini, perché questo risultato non potrebbe essere
raggiunto se non mediante un negoziato,
sia pure particolarmente agguerrito su certi punti sensibili.
2. Con
il Discorso alla città del 6 dicembre
2012 il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, sembra voler aprire un vero e proprio fronte con le istituzioni pubbliche. Le accusa di agnosticismo verso la verità.
Le accusa di voler promuovere, in tal modo, una propria visione del mondo (da lui definita mondovisione), in cui la religione e Dio non hanno parte. Propone
quindi di rivedere le interpretazioni che si sono date della dichiarazione Dignitatis humanae, del Concilio Vaticano 2°, in cui è stato
proclamato che “l’adesione alla verità è possibile solo in maniera volontaria e
personale e la coercizione esterna è contraria alla sua natura”. Queste condizioni non sono in realtà realizzabili, proprio per
l’interferenza di uno stato che, facendo professione di neutralità,
impone di fatto una propria mondovisione, con la forza derivante dalla
propria pervasiva e autorevole organizzazione.
Scola giunge ad affermare che il contrasto in
atto non è, come generalmente si crede, tra credenti di diverse religioni, ma
tra le religioni e le culture secolariste di cui si fanno portatori gli
stati che finiscono in tal modo per proporre una propria mondovisione
alternativa a quella delle religioni.
Secondo il cardinale, per come ho capito, la
libertà religiosa non può essere disgiunta dallo sforzo di ricercare la
verità, compito nel quale anche lo stato deve impegnarsi, innanzi tutto per
distinguere tra religioni e sette
(queste ultime da considerarsi al di fuori della tutela della libertà
religiosa?)
·
“D’altra parte, ci si deve chiedere a quali
condizioni un “gruppo religioso” può rivendicare un riconoscimento pubblico in
una società plurale interreligiosa e interculturale. Siamo di fronte alla
delicata questione relativa al potere dell’autorità pubblica legittimamente
costituita di distinguere una religione autentica da ciò che non lo è.”[discorso citato, n.2]
e poi per discernere tra le proposte religiose
quelle che meglio corrispondono all’edificazione del bene comune. Secondo Scola
occorre quindi ripensare il tema della
aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero della libertà
religiosa. In questo il
cardinale, dopo aver dichiarato che il cattolicesimo popolare ambrosiano è
affetto da profonde fragilità,
conclude:
·
Il nostro è un tempo che domanda una nuova,
larga cultura del sociale e del politico. I molti frammenti ecclesiali e civili
che già oggi anticipano
3. Il discorso del cardinale, con la prospettazione di un conflitto tra
culture statali secolariste, in esse
compresi i principi supremi di laicità
dello stato e di aconfessionalità
dello stato, è suscettibile di aprire una gravissima crisi tra le
istituzioni democratiche della Repubblica e le confessioni religiose,
coinvolgendo i rispettivi credenti, costretti a scegliere tra fedeltà
costituzionale e fedeltà religiosa ai propri capi. Prima di rassegnarsi a un
disastro del genere, la persona di fede dà corso a tutte le proprie risorse
razionali e di discernimento per capire se è possibile un diverso sviluppo.
Innanzi tutto: in Italia non è
in questione la libertà religiosa.
Qualcuno trova veramente limiti nell’espressione privata e pubblica della
propria fede? Io, pur esse noto come cattolico “praticante” non ne ho trovato
nessuno. In questi ultimi anni si sono insediati nel mio quartiere numerosi
islamici, provenienti dal continente indiano, e anche loro non hanno trovato
difficoltà nell’espressione della loro fede. A due passi da casa mia c’è una
delle più grandi e belle moschee europee e un altro centro di preghiera
islamico è stato aperto proprio nella via in cui abito. Alcune donne islamiche
girano velate e nessuno ci fa caso, così come le non islamiche circolano
vestite come credono e nessuno le rimprovera.
In parrocchia ho detto che
bisogna stare più attenti al linguaggio che si usa, anche nella liturgia,
perché offendere gli dei altrui è ancora vietato (art.724, 1° comma- illecito
amministrativo), così come è vietato l’incitamento alla discriminazione su base
religiosa (art.3 della legge n.654 del 75- reato). Quando ero bambino ricordo che ci si prendeva
spesso gioco di certe consuetudini islamiche (si pensi a certi film con
protagonista Totò): ora non è più
possibile farlo.
Detto questo. il vero problema è
che alcune norme etiche promulgate dall’autorità religiosa cattolica sono
venute a contrastare con l’etica pubblica. Quest’ultima trova il suo fondamento
in movimenti diffusi nella società (che trovano credito anche tra molti
cattolici) i quali hanno espresso democraticamente una forza parlamentare che
si è determinata di conseguenza. Pensare di riuscire a convincere le autorità
pubbliche, con un discorso razionale, che la verità è una sola, precisamente quella sostenuta dalla Chiesa cattolica e,
inoltre, che quest’ultima su certe questioni deve avere maggiore voce in
capitolo, perché migliore di altre
confessioni religiose è irrealistico. Pretendere di riuscirci
con la forza è irrealistico (tenendo conto degli orientamenti della maggioranza
degli elettori) e, in fin dei conti, anche immorale,
in quanto contrasta con principi fondamentali sanciti con forza di legge della
Chiesa durante il Concilio Vaticano 2°. Riuscirci negoziando la propria forza ecclesiale di influenza elettorale (che in Italia si
stima intorno al 10% dell’elettorato) con i gruppi che, opportunisticamente non
per convinzione, si impegnino a seguire i desideri della gerarchia in certe
questioni, in particolare nell’impedire novità
legislative sgradite potrebbe essere
considerato umiliante per i cattolici democratici, tale da ricacciarli in una
condizione di minorità dalla quale faticosamente sono emersi.
Mia opinione
La mia opinione è che occorra sempre negoziare, ma non per uno scambio
politico-elettorale, ma per proporre
con sapienza le ragioni e i metodi che su ogni tema controverso consentano di
arrivare a soluzioni condivise che rispettino a pieno la dignità delle persone
umane, rifuggendo in particolare gli estremismi ideologici. Questo si potrà
fare nei vari schieramenti politici in cui i cattolici si sono attualmente
divisi, salvo poi recuperare l’unità quando si tratterà di decidere su certi
determinati temi sensibili in cui i cattolici hanno maturato convinzioni
comuni.
Concludo osservando è che, nella mia opinione, andranno inevitabilmente
riducendosi certe incrostazioni di confessionalismo cattolico che ancora
permangono nel costume delle istituzioni pubbliche italiane e che, del pari,
saranno inevitabilmente superate le discriminazioni su basi sessuale che ancora
travagliano il dibattito legislativo, in particolare in materia di normative
riguardanti le famiglie. A questo punto tutto, nella mia visione, l’impegno dei
cattolici dovrebbe essere centrato sull’impegno a mantenere gli spazi di libera
e pubblica espressione della loro fede religiosa (compresi quelli negli spazi e
nelle istituzioni pubbliche, senza tuttavia imporli ai diversamente credenti) e
nella particolare tutela della famiglia tra uomo e donna fondata su un
matrimonio tendenzialmente stabile in vista della generazione della prole.
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44
Civiltà cristiana e Azione Cattolica
(15 novembre 2012)
A cavallo tra l’Ottocento e il
Novecento la polemica tra il movimento dei cattolici denominato “guelfo”,
perché nella spaccatura tra Regno d’Italia e Papa cattolico seguita alla presa
di Roma nel 1870 parteggiava per il Papa, e gli altri movimenti politici che
animavano all’epoca la società civile italiana riguardò in particolare la
questione del conflitto di civiltà. I
cattolici consideravano sé stessi come i veri eredi delle glorie della nazione
e portatori di un ordine sociale fortemente radicato nel popolo, minacciato
dall’orientamento liberale delle istituzioni del nuovo stato unitario. A
quell’epoca vi era effettivamente una larga base sociale che condivideva le
idee guelfe e che, a lungo, rimase
per tale motivo esclusa dalla partecipazione politica alle nuove istituzioni
democratiche del Regno d’Italia.
I movimenti precursori
dell’Azione Cattolica e l’Azione Cattolica, nel corso della sua articolata
storia, si adoperarono per sanare quel contrasto e per conquistare ai cattolici
la piena cittadinanza civile. Questo risultato fu conseguito realmente solo tra
il 1946 e il 1948, con la stabilizzazione del regime democratico scaturito
dall’abbattimento cruento del regime fascista e
con la partecipazione fondamentale delle forze democratico cristiane
italiane (in particolare nell’Assemblea Costituente), a lungo emarginate nella
Chiesa cattolica all’epoca della dominazione fascista e dei compromessi
raggiunti in quei tempi infausti dalla gerarchica cattolica con il Mussolini.
Per certi versi, nonostante che,
nel sistema dei diritti umani, importanti principi religiosi siano venuti a
costituire le basi delle nuove istituzioni europee, quel conflitto sembra oggi
rinascere, in particolare sulle questioni della laicità degli stati e del
principio di non discriminazione delle persone su basi religiose e sessuali.
E’ stato notato che permangono
in Italia importanti elementi di confessionalismo nelle istituzioni e che, in
particolare, la gerarchia cattolica pretende che le sia riconosciuto un ruolo
preminente nella collaborazione con le istituzioni pubbliche, in modo
corrispondente allo speciale regime giuridico che le viene riservato dall’art.7
della Costituzione. Essa inoltre ritiene di poter giungere a certe conclusioni
di natura anche politica sulla base di discorsi razionali
incontrovertibili e quindi di dover
avere udienza non solo per argomentazioni fideistiche, opinabili per i non
credenti, ma per la forza della ragione rettamente esercitata.
E’ chiaro però che la situazione
italiana è caratterizzata da:
-un pluralità di opinioni
politiche tra i cattolici, che evidentemente non può essere risolta da quegli argomenti razionali;
-una diminuzione
sensibile, di circa trenta punti percentuali, delle persone che dichiarano di accettare le regole della
confessione religiosa cattolica e una
percentuale molto minore dei praticanti
(persone che vanno regolarmente a
Messa la domenica e nelle feste comandate)
che seguono effettivamente in
tutto quelle regole, soprattutto in materia sessuale e matrimoniale;
-un forte aumento di
persone per le quali la religione non è una questione particolarmente importante, perché non sentono la necessità
di ricorrervi spesso nella loro
vita quotidiana, salvo che in alcune occasioni cerimoniali (nascita, matrimonio, morte);
-un forte aumento di
fedeli di altre religioni, in particolare di confessioni islamiche e cristiano ortodosse;
-la marcata insofferenza
delle donne verso le residue forme di discriminazione
nella Chiesa cattolica;
-la sempre più marcata
insofferenza dei giovani verso pratiche pastorali troppo autoritarie nei loro confronti;
-il potente emergere del
movimento contro la discriminazione sociale delle persone omosessuali.
Manca quindi, nel contesto
sociale di oggi, la base sociale per
sostenere in conflitto di quella natura, vale a dire per ripristinare una specie di
ordine sociale cristiano, di una civiltà
cristiana, secondo le opinioni della gerarchia cattolica. Ma, in realtà, a
parte alcune questioni specifiche, che si fanno rientrare nel tema complessivo
dei valori non negoziabili
(contraccezione, aborto, procreazione assistita, divorzio, patti matrimoniali
tra omosessuali, manifestazioni di volontà per il fine vita, sussidi alla
scuola cattolica) la Chiesa cattolica, pur con la sua complessa e articolata dottrina sociale, non è più
nemmeno portatrice di un progetto di
società complessivamente valido per i nostri tempi, anche considerando la
sola Europa. Nell’attuale epoca di crisi globale le istituzioni sovranazionali,
in particolare l’Europa Unita, stanno costruendo nuove modalità di intervento
per il governo e la risoluzione dei problemi che si sono manifestati. In questa
dinamica può prevedersi che tutte le residue forme ingiustificate di
discriminazione tra le persone verranno gradatamente rimosse, divenendo
addirittura illecite.
Naturalmente rimane un
possibilità di influenzare i movimenti in corso nelle società civili, ma questo
deve necessariamente farsi non su basi fideistiche, non condivise all’esterno
della cerchia dei più volenterosi praticanti,
ma con argomenti razionali, tenuto conto però che questo metodo in genere non
consentirà mai di arrivare ad una e una sola conclusione che si imponga agli
altri per forza di ragione. Questo non accade sempre neanche nella matematica,
figuriamoci nei fatti sociali. Sarà quindi sempre necessario, su certe
questioni, un negoziato responsabile,
in cui l’identità di gruppo potrà valere come argomento sulla base dei buoni
risultati eventualmente conseguiti (non per l’argomento Dio lo vuole). In materia di discriminazione su base sessuale noi
cattolici non ne abbiamo molti. Piuttosto l’argomento che, a mio parere, va
sfruttato molto è quello del principio di precauzione, per cui intorno a realtà
umane sulle quali si sa ancora poco e che sono suscettibili di sviluppi
catastrofici, occorre imporre una serie di limiti per evitare che i pericoli
supposti si avverino. In questo lavoro l’Azione Cattolica può senz’altro
svolgere un’opera positiva, essendo stata fin dall’origine aperta ai tempi
nuovi e impegnata a comprenderli in una prospettiva cristiana, non invece
chiudendosi in un intransigentismo settario che porta solo soddisfazioni effimere.
Purtroppo questa esperienza di metodo non è più patrimonio culturale di larghe
fasce della popolazione dei più volenterosi nostri praticanti, che del resto lo ammettono francamente, essendosi formati in un diverso ambiente
ecclesiale.
Vi è la necessità quindi, in
particolare nelle nostre riunioni settimanali, di riprendere migliore
conoscenza del senso del lavoro e dell’associarsi in Azione Cattolica, che, a
differenza di un qualsiasi gruppo parrocchiale di spiritualità, riguarda la
religione e la spiritualità ma anche l’impegno nella società civile. Non si
tratta di seguire un catechismo,
quindi di farsi spiegare da altri
quello che si deve sapere, fare o non
fare, ma di scoprire insieme, capendo bene la società del nostro tempo,
ciò che è meglio fare.
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45
L’incontro della Chiesa col
mondo
(23 dicembre 2012)
Nel 1982 un amico mi condusse alla presentazione dell’ultimo volume
degli scritti di mons. Enrico Bartoletti, vescovo che ebbe un ruolo
fondamentale, quale segretario della Conferenza Episcopale Italiana,
nell’attuazione del Concilio Vaticano 2°. L’opera completa, in quattro volumi,
era stata curata da don P.G.. So che ora è parroco in Toscana. Quel giorno un
suo amico e collaboratore, che era sacerdote e svolge anch’egli il suo
ministero in Toscana, mi diede da leggere tutti i quattro libri e io lo feci.
Non ebbi più occasione per chiedergli se intendesse riaverli indietro. Da
allora fanno parte della mia biblioteca, mi hanno sempre accompagnato dove ho
abitato e mi sono stati preziosi per formare la mia spiritualità e, innanzi
tutto, per capire il clima di quel Concilio.
Nel quarto volume dell’opera
citata, intitolato La Chiesa e il mondo,
ho trovato questa citazione, da un discorso che mons.Bartoletti tenne nel gennaio 1962 (nella fase
preparatoria del Concilio) al Movimento
Laureati Cattolici, che oggi si chiama MEIC-
Movimento ecclesiale di impegno culturale:
“E giacché il primo incontro
della Chiesa col mondo avviene in noi, che già siamo in lei, e pur portiamo la
cultura, e istanze, le incertezze del mondo, si tratta di offrirci alla Chiesa
in consapevole disponibilità, perché inizi o rinnovi in noi il suo compito di
penetrazione e di santificazione”.
Per intendere la portata
anticipatrice di queste considerazioni, bisogna figurarsi la Chiesa come era a
quell’epoca. Era un’organizzazione che vedeva in prima fila il Papa e i
vescovi, la gerarchia, poi i loro
collaboratori, i preti, e poi, come quasi come truppe scelte, gli istituti
religiosi, frati, monaci, suore e monache. Tutte le altre persone, gli altri
fedeli, erano oggetto di una normazione di carattere giuridico e morale: si
diceva loro che cosa dovevano fare e si pretendeva che lo facessero. Al più si
ammettevano libertà di dettaglio, per tradurre meglio nella società quello che
si era deciso in alto. Naturalmente c’erano eccezioni. Proprio nel Movimento Laureati Cattolici, che
all’epoca era una delle organizzazioni professionali
dell’Azione Cattolica, ci sforzava di
formarsi meglio, di approfondire le questioni, di dare un contributo più ampio.
Questo in particolare dopo che il cattolici, nell’Europa ricostruita dopo al
disfatta del nazismo tedesco e dei vari fascismi suoi alleati, avevano avuto
tanta parte nelle riconfigurazione delle istituzioni pubbliche e dei principi.
Le attese (e i timori) maggiori
erano per quello che saremmo diventati
noi laici, dopo tanti secoli di posizione subordinata nelle cose religiose,
anche se riguardavano poi le cose del mondo,
di ciò che si muoveva fuori dello spazio liturgico.
Nel corso degli anni ’50, sulla
scorta di riflessioni avviate già nei precedenti anni ’30 in Francia, si
pensava che l’efficacia dell’azione della Chiesa nella storia sarebbe stata in
futuro molto più condizionata dall’atteggiamento dei laici.
Da alcuni si temeva una deriva protestante dei cattolici, ma, in
realtà, movimenti analoghi si erano prodotti anche in alcune Chiese non
cattoliche. Ad esempio nel movimento promosso negli Stati Uniti d’America da
Martin Luther King, pastore della Chiesa Battista.
Certe storiche divisioni tra
cristiani erano state spesso già superate nella pratica. E in molte cose il
Concilio Vaticano 2° più che essere un aggiornamento a ciò che si muoveva nel mondo, fu semplicemente un aggiornamento
a ciò che si era già prodotto nella Chiesa cattolica.
Bisogna dire che, dopo un inizio
piuttosto effervescente e promettente, qualcosa venne meno nello slancio sulla
strada indicata dal Concilio Vaticano 2°, i cui deliberati, più che bisognosi
di essere attuati chiamavano ad
essere sviluppati. Ci furono
resistenza da varie parti, ci furono insufficienze in molti, in particolare nei
laici. Talvolta si assistette, nelle sperimentazioni che vennero promosse, a
una clericalizzazione dei laici e a
una laicizzazione dei preti e dei
religiosi. Questi ultimi entrarono in crisi, non riuscendo più a inquadrare
bene il senso del loro ruolo nella Chiesa, mentre i laici, spesso anche per
remore clericali, stentarono a conquistare il campo loro proprio, di ordinare
secondo i principi religiosi le cose del mondo, in cui erano immersi, di cui
erano coautori e partecipi.
Ci furono aspre controversie
negli ambienti laicali più impegnati, delle quali oggi solo i più anziani
serbano lo spiacevole ricordo. Non merita nemmeno di perderci ancora tempo su,
visto che ai tempi nostri sono divenute insignificanti. Ma certamente,
specialmente nella realtà italiana, i laici si sono formati a due scuole con
obiettivi divergenti, per cui, quando in parrocchia ci si trova insieme e si
cerca un accordo sulle cose da fare e specialmente su come manifestarsi
all’esterno, la differenza di impostazione si sente. In realtà oggi si pensa di
solito che occorra agire dall’interno della società in cui si vive, come
lievito, che fa crescere l’impasto ma non è più riconoscibile nel prodotto
finale, e nello stesso tempo anche rendersi presenti come gruppi sociali
organizzati. Sempre più spesso assistiamo a vaste convergenze tra gruppi che in
passato si guardavano piuttosto in cagnesco.
Una parte del lavoro che
dobbiamo fare in Azione Cattolica, per la nostra vocazione specifica, è di fare
unità, di promuovere l’amicizia e la comprensione tra chi vive la fede nei
tanti modi in cui lo si può legittimamente fare, senza che ci si scambi
arbitrariamente scomuniche o simili.
L’altra parte di quel lavoro è
di capire meglio le società in cui viviamo e in cui democraticamente abbiamo
diritto di parola e di scelta, senza scegliere la via della separazione
settaria, nel presupposto che tutto il male sia fuori della nostra Chiesa e che
il mondo in cui viviamo sia la città del
diavolo destinata alla perdizione.
C’è infine un ultimo lavoro che
occorre fare, e che è la parte forse più dolorosa del nostro impegno, che è
quello della purificazione della memoria,
del riconoscimento franco e veritiero del male che, come Chiesa vivente sulla Terra, è stato storicamente fatto, per
sterilizzare i conati reazionari che vorrebbero riproporre infelicemente ciò
dal quale solo di recente, in particolare sotto la guida del Papa Giovanni Paolo
2°, ci siamo distaccati. Non illudiamoci che sia un compito facile. Né che
l’arrendevolezza ai voleri altrui, spacciata per ubbidienza gerarchica, sia la
via più virtuosa. In questo si dovrà praticare la virtù della fortezza, della
fermezza sui principi acquisiti. E questo sforzo è tanto più difficile perché
sono stati veramente tanti i secoli bui dai quali velocemente, nella seconda
metà del Novecento ci siamo distaccati come confessione religiosa. L’Azione
Cattolica ha fatto parte storicamente del movimento laicale che ha spinto
per questo risultato, trovando udienza nei capi religiosi. Ricordiamo che le
radici del Concilio Vaticano 2° affondano addirittura nei moti religiosi
dell’Ottocento.
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46
Cattolicesimo forza di
progresso?
(29 novembre 2012)
Dalla Costituzione dogmatica
Lumen Gentium sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.36
I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo
valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente
secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga
più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo
ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza
quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata
intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro,
affinché i beni creati, secondo i
fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano
fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per
l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più
convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso
universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei
membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua
luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le
condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte
siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare,
favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore
morale la cultura e le opere umane. In
questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme
della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe,
per permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.
Ai tempi nostri probabilmente la definizione del cattolicesimo come
forza di progresso non troverebbe un generale consenso. Eppure è proprio
questo, in fondo, il fine che durante il Concilio Vaticano 2° si pensò di
assegnare all’azione dei laici nelle società in cui vivono e operano. Ne è un
esempio il brano della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: Luce per le genti) che ho sopra trascritto. Possiamo considerarlo
una novità in un documento della gerarchia ecclesiale, tenendo conto delle
precedenti millenarie prese di posizione in merito.
Come ho osservato in altri miei
interventi, non è facile, leggendo le deliberazioni del Concilio Vaticano 2°,
individuare quelle parti che contengono sviluppi innovativi. Questo accade in
particolare in un documento di particolare rilevanza, normativo, come la
Costituzione dogmatica citata, che riguarda la Chiesa. Ad uno sguardo
superficiale tutti i temi che solitamente si facevano rientrare in questo
argomento sono esposti nell’ordine consueto. Infatti troviamo le parti che spiegano
di dove, da chi e come la Chiesa originò, la ripartizione dei compiti in esso,
da chi e come l’autorità in essa venga
esercitata, il carattere sacro di alcune funzioni, come quelle del papa, dei
vescovi e dei preti, le caratteristiche dell’impegno dello stato religioso, la
posizione degli altri fedeli, la missione della Chiesa nella società del suo
tempo, vale a dire in quello che nel gergo teologico viene definito il mondo o anche il mondo profano.
Eppure le novità ci sono, anche
se esse non vengono mai presentate come idee che si contrappongono alla
precedente tradizione, in particolare a
quella che riguarda i principi fondamentali, ma, al limite, come
scoperta, o riscoperta, di potenzialità di bene che storicamente erano state
poco capite o praticate. E ciò anche quando, sostanzialmente, si viene a
ripudiare qualcosa di male che si riconosce esserci stato nel passato.
E’ solo con il Grande Giubileo
dell’anno 2000, indetto e guidato dal papa Giovanni Paolo 2°, che si giunge a
richiedere a tutti, come esercizio
specificamente religioso, un lavoro particolare per raggiungere una memoria
storica veritiera sull’azione della Chiesa del mondo e il ripudio, vale a dire l’impegno a non riproporli in futuro, di certi
modi di essere, di organizzarsi, di entrare in relazione con le altre persone,
individualmente considerate o nei gruppi in cui sono inserite vitalmente.
Le conseguenze sono state molto
rilevanti, perché i principi normativi del Concilio Vaticano 2° sono stati
fecondi e hanno ispirato molteplici sviluppi, che, in larga parte,
corrispondevano a modi di vivere la religiosità che si erano già affermati, più
o meno largamente, tra i fedeli e che attendevano solo di essere riconosciuti
in un documento normativo della gerarchia. Questo in particolare ha riguardato
i compiti dei laici cattolici, anche se su questo tema in genere c’è ancora
insufficiente consapevolezza e ciò per vari motivi.
Il primo è di ordine culturale:
mentre per i sacerdoti e i religiosi è previsto e obbligatorio un processo di
formazione continua, questo non è previsto per i laici, dopo il periodo
dell’iniziazione ai Sacramenti nell’infanzia e nell’adolescenza, che di solito
termina con la Cresima, se non ancora prima, con la Prima Comunione.
Il secondo motivo è di ordine organizzativo: poiché nella
Chiesa cattolica i principi morali e di organizzazione e le linee guida delle
varie attività vengono formulati da appartenenti all’Ordine Sacro, quindi dal
clero, è ovvio che abbiano avuto il massimo risalto le questioni che riguardavano
questa parte qualificata dei fedeli, innanzi tutto per mantenere un loro ruolo
preminente in ogni settore e poi per conservare l’integrità della struttura
gerarchica del clero, centrata su centri di potere sostanzialmente monarchici,
con temperamenti di collegialità a vari livelli. Lo scopo è di rendere coerenti
su scala mondiale gli insegnamenti
religiosi, le liturgie e l’organizzazione ecclesiale, in modo, in particolare,
che la Chiesa appaia parlare con una sola voce, diventando manifestazione
dell’unità dei fedeli, secondo il comandamento ricevuto evangelicamente.
Il terzo motivo è che spesso i
laici sono appagati da una religiosità meramente liturgica, e in particolare
sacramentale, della quale essi, sebbene coinvolti molto profondamente nella
loro interiorità, sono partecipi ma non protagonisti, in quanto in tale campo
emerge e prevale la missione del clero. Del resto, per millenni è solo questo
che, in definitiva, si è preteso dai laici, vale a dire da chi non era prete,
vescovo, monaco o monaco, frate o suora.
Le società civili, e le loro
popolazioni, erano lasciate al dominio di monarchi, con i quali la Chiesa, a
diversi livelli, tramite suoi plenipotenziari, e al massimo livello in persona
dei papi, entrava in relazione innanzi tutto per garantire spazi di libertà
alla propria organizzazione (clero e religiosi, con esenzioni e privilegi che
riguardavano le persone e i beni) e poi per assicurarsi il riconoscimento di un
potere spirituale sui sudditi dei monarchi civili, venendosi in tal modo a realizzare
una sorta di condominio sulle
posizioni assoggettate al trono e
all’altare. I due tipi di potere, quello civile e quello religioso,
venivano poi a sostenersi a vicenda, specialmente dove il monarca civile
riconosceva quella cattolica come unica
religione ammessa nel suo dominio e/o le autorità della Chiesa riconoscevano la
qualifica di cattolica a una dinastia
monarchica civile. Per queste relazioni politiche
tra autorità civili e religiose, la critica sociale su base religiosa, di cui
si trovano tanti esempi nell’Antico Testamento e che quindi aveva una salda
base biblica, era in genere scoraggiata dalle autorità religiose, perché
avrebbe messo in crisi quegli accordi, a volte semplici armistizi piuttosto
precari, raggiunti con le autorità civili. Ad esempio nel documento normativo
denominato Sillabo (=elenco),
allegato all’enciclica Quanta Cura (1864)
del papa Pio 9°, con l’indicazione di quelli che la dottrina cattolica riteneva
essere i principali errori del tempo, si dichiarava erronea l’idea che fosse
logico negare obbedienza e anzi
ribellarsi ai prìncipi legittimi.
L’esperienza delle due guerre
“mondiali” combattute nel Novecento manifestò l’insufficienza dei princìpi che
erano stati seguiti per millenni nelle relazioni con i capi delle nazioni, secondo l’espressione utilizzata dal papa
Benedetto 15°, nel 1917, nel chiedere di fermare l’inutile strage in cui si era risolta la Prima Guerra mondiale.
Il primo di quei due conflitti
bellici catastrofici era stato iniziato da monarchi cristiani e combattuto fra popoli di antica civiltà cristiana. Il
secondo era stato scatenato da despoti rivoluzionari che si erano avvalsi in
modo nuovo dei popoli assoggettati, non più come storici sudditi di una
dinastia, ma come espressioni di una nuova condizione umana di dominatori, in
virtù della quale avevano il diritto, come sorta di stirpi elette, di predare e
soggiogare il mondo. Qualcosa di simile aveva travolto la dinastia imperiale
cristiana russa, portando all’ordine sovietico, in cui la religione era considerata
una impostura di classe per tenere soggiogata la parte subalterna delle
popolazioni. Risolutiva, in entrambe le guerre mondiali, era stata l’azione
della democrazia statunitense, la quale aveva fondamenti religiosi espliciti ma
che, nello stesso tempo, era struttura con un’organizzazione politica
pluralista. Ad essa, nel pensare l’Europa che sarebbe sorte dopo la fine dei
totalitarismi guerrafondai nazisti e fascisti, si cominciò a guardare come
esempio di coesistenza pacifica di popoli con diverse tradizioni etniche,
culturali, linguistiche, religiose. E’ questo il momento il cui, anche sulla
scorta di antecedenti storici risalenti all’Ottocento, comincia a prodursi
nella Chiesa cattolica quel movimento che ebbe piena manifestazione molto più tardi,
negli anni Sessanta, in particolare con il Concilio Vaticano 2°.
In Francia e in Italia ci si
stava ragionando fin dagli anni ’30, sullo spunto del pensiero dei filosofi
Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier.
Maritain intervenne nel
Concilio Vaticano 2° quale rappresentante degli intellettuali e in tale veste
ricevette uno specifico messaggio del Papa.
L’idea era che la sfida lanciata
dai regimi popolari totalitari, quello nazista tedesco, i diversi fascismi
europei e il regime comunista sovietico, non poteva essere vita con i metodi e
i principi del passato, quindi con la riproposizione della restaurazione di una
civiltà cristiana europea retta da un condominio di dinastie civili e di
monarchi religiosi, ma che occorresse coinvolgere più profondamente, non solo
chiamandole all’ubbidienza, le masse dei popoli europei, rendendole
protagoniste della costruzioni di civiltà, intese innanzi tutto come
istituzioni politiche, economiche e sociali, che non configgessero con gli
ideali di sempre della cristianità.
Una prima pronuncia in questo
senso della gerarchia cattolica al massimo livello si trova nel radiomessaggio
natalizio del 1944 del papa Pio 12°, che ho più volte citato, in cui ci si
chiede se gli sconvolgenti avvenimenti dei decenni passati avrebbero potuto
essere evitati se i popoli europei avessero avuto più voce in regimi
democratici.
Questa lunga premessa è stata
necessaria per comprendere il senso del brano della costituzione Lumen Gentium che ho trascritto
all’inizio. Ci ritornerò sopra in altri interventi. Vorrei però che chi legge
lo facesse interiormente proprio, direi quasi mandando lo a memoria.
La prima caratteristica di
questa che è giuridicamente una legge fondamentale della nostra Chiesa, parte
di un documento normativo molto importante, è che non pone divieti e non indica
nemmeno precisi obblighi di fare, come, ad esempio, nel Decaloco, quando si
prescrive di non rubare (obbligo
negativo – di non fare) o di
santificare le feste (obbligo positivo – di fare).
Il discorso che viene sviluppato
in quel brano è in sostanza un appello,
una chamata ad un lavoro, rivolto in primo luogo ai laici, a coloro che quindi non fanno parte del clero o dei
religiosi (frati e suore, monaci e monache).
Si riconosce ai laici una competenza, vale a dire un insieme di
conoscenze e di saper fare, nelle discipline
profane, che sono tutte quelle che non sono comprese nella teologia, in cui
sono formati il clero e i religiosi. Li si chiama ad essere, come persone
singole ma ance associandosi, forze di progresso a beneficio non solo della
Chiesa cattolica, ma di tutti gli
esseri mani senza eccezione.
Ecco in che cosa consiste
l’auspicato progresso: a)nel far progredire i beni creati mediante il lavoro
umano, la tecnica e la cultura civile; n) nella giustizia distributiva, perché
i beni creati aumentati e migliorati dall’azione umana, siano più
convenientemente distribuiti perché aia fonte di libertà umana e cristiana per tutti. L’obiettivo finale è risanare le istituzioni e le condizioni
del mondo, perché siano rese conformi alle norme
di giustizia e in tal modo favoriscano, anziché ostacolare, l’esercizio
delle virtù e, in particolare, quelle predicate nell’evangelizzazione dei
popoli.
In sostanza l’appello è per operare per un progresso tecnologico,
culturale, civile e sociale, se del caso cambiando anche le istituzioni, perché
a tutti gli esseri umani sia aperta la via delle virtù nella libertà.
Questa è definita come opera di illuminazione
dell’intera società umana e l’utilizzo di questa espressione è analogo a quello
che ne fecero gli illuministi nel
Settecento. Solo che nella prospettiva cattolica non si vede contraddizione tra
la luce portata dalla ragione e la luce portata da Cristo.
Se volessimo individuare dal
brano citato della Lumen Gentium
delle parole d’ordine, potremmo individuarle in queste: progresso, libertà, giustizia sociale, unità per risanare il mondo
comprese le sue istituzioni sociali, virtù, illuminazione religiosa. Esse non sono rivolte dalla gerarchia
cattolica (solo) ai capi delle nazioni,
ma in primo luogo a tutti i fedeli laici. E’, a mia conoscenza la
prima volta che accadde nella storia della Chiesa in un documento normativo
della gerarchia. Vi invito a verificare la correttezza di questa mia
osservazione.
Certamente nel passato nella
dottrina del magistero di era fatta questione del buon governo, ama gli insegnamenti era rivolti essenzialmente ai capi delle nazioni e, a partire
dall’enciclica Rerum Novarum di Leone
13° (1891), alle parti sociali, imprenditori e lavoratori, invitate a trovare
una composizione dei reciproci interessi essenzialmente nello spirito di non
sfruttare le classi lavoratrici a tal punto dallo spingerle alla rivolta. La giustizia sociale, come la intende ai
nostri giorni a partire da movimenti politici che si diffusero nell’Ottocento,
era estranea a questa prospettiva.
Bisogna precisare che in questo
la Chiesa cattolica, scrivendo sue norme fondamentali, non intese,
all’improvviso, aggiornarsi a come andava il mondo, corrispondendo in tal modo
alle attese di molta gente. Non è di questo aggiornamento
che si è trattato. In realtà la
Chiesa cattolica, nella sua dottrina teologica e nella sua normazione, si
aggiornò a come essa era già diventata
nel corso dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto nell’impegno alla
costruzione della nuova Europa dopo la catastrofe bellica degli anni ’40. Già i
cattolici si stavano infatti da tempo impegnando nel senso auspicato dalla Lumen Gentium, trovando però difficoltà
nella normazione e nella teologia ufficiale della loro Chiesa. In qualche modo,
in questo campo, i deliberati conciliari
vennero semplicemente a ratificare e a
sistemare teologicamente, creando una continuità dogmatica tra il passato e
il presente, ciò che già i laici erano
diventati e stavano facendo.
E infatti questo che fu
effettivamente un significativo cambio di rotta nel magistero gerarchico no fu
effettivamente avvertito come una novità, mentre fecero molta più impressione
le riforme che, dopo il Concilio Vaticano 2° e sulla base dei suoi deliberati,
vennero attuate nella liturgia della Messa: in questo campo infatti fu
effettivamente introdotto un rito diverso, pur se articolato nelle parti
tradizionali, e, soprattutto, iniziarono ad essere usate le varie lingue
nazionali dei popoli cristiani, in luogo del solo latino liturgico.
Concludo questo intervento
scrivendo che il difficile per noi laici non è tanto il capire gli appelli che
ci sono venuti dal Concilio Vaticano 2°, ma, esercitando collettivamente le
competenze che si sono proprie, ciascuno ragguagliando gli altri sulle proprie
specifiche e acquisendo dagli altri notizie sulle loro (nessuno infatti nel
mondo di oggi è capace di interloquire validamente su tutto), capire il mondo in cui viviamo per
individuare come farlo progredire verso una migliore giustizia sociale, per
rimuovere gli ostacoli all’esercizio delle virtù e, innanzi tutto, quello che è
costituito dalla mancanza di libertà, determinata dall’ignoranza e dal bisogno.
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47
Fede religiosa, forza di
progresso
(4 gennaio 2013)
L’angelo è … il messaggero che,
secondo le immagini bibliche, collegando il cielo alla terra, annuncia a un
essere umano che la Parola divina che l’ha creato vive ancora nel suo intimo
più profondo, anche nel momento della sua disperazione. L’esteriorità è dunque necessaria a questa speranza, essa
aiuta a combattere il destino, a imporsi su di esso e a crescere. Per coloro i
quali non percepiscono angeli nella loro
esistenza quotidiana così spesso tormentata, questa esteriorità – dice il Rabbi
di Gur – proviene dalle parole della Torà. Sono esse che hanno la forza
stupefacente di rinnovare il desiderio di vita in ognuno. Questa esteriorità
talvolta prende anche la forma della voce di un’altra persona, che, proponendo
parole di vita a colui o a colei che si trova imprigionato nel labirinto delle
sue sofferenze e del suo male, non sa più trovarle. Ma in ambedue i casi, e del
resto uno non esclude l’altro, è necessario affinché quella persona le intenda
e colga il filo di chiarore che gli viene teso –attraverso parole udite da una
voce che non è la sua – che quella persona resti attenta a ciò che quelle
parole vengono a toccare in lei: quel punto di speranza non domato, quella
certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può
ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli
scacchi subiti.
[da Caterine Chalier, Angeli e
uomini, Giuntina, 2009, pag.62]
Ai tempi nostri, e anche
nell’insegnamento catechistico, si è piuttosto cauti nel proporre una visione
religiosa della vita, pensando che poi possa risolversi, nell’interpretazione
personale, in qualche tipo di stranezza per cui mediante certe pratiche
liturgiche o ad esse somiglianti, o comunque
mediante una disciplina personale, si confidi di poter cambiare, quasi
magicamente, la realtà intorno a sé. Si preferisce parlare della santità
personale come risultato del confidare nella Parola di Dio, la quale però,
nelle situazioni concrete che si presentano, non è facile da individuare e
allora poi si finisce per consigliare di fidarsi dell’interpretazione che ne dà
la Chiesa in persona del clero o addirittura dei capi della comunità a cui si è
più legati. Ecco quindi che una parte di quelli che sono stati raggiunti dal
messaggio religioso si allontanano dalla comunità in cui l’hanno ascoltato,
cercando l’autonomia e la libertà di pratica e giudizio. Questo pregiudica
l’efficacia propria dell’azione laicale, che ha bisogno di gente per essere
attuata, essendo anche un lavoro collettivo, ma anche della possibilità di
sviluppare in concreto concezioni particolari, adatte ai vari problemi che si
affrontano, facendo quindi reagire in modo originale e autonomo fede religiosa
e vita concreta, senza però aspettative eccessive quanto a felicità qui su
questa terra.
Sarebbe bello poter dire che se
si ha fede si è felici, in qualsiasi situazione ci si trovi, ma non è vero che
questo accada sempre. Anzi, per ciò che mi è stato dato di sperimentare accade
piuttosto di rado e non penso nemmeno che ci si debba sentire in colpa per
questo, perché non si è felici pur essendo parte di una collettività religiosa
e avendo in misura maggiore o minore una fede religiosa. E’ vero che
invece i cambiamenti in meglio della
vita delle persone possono dipendere da azioni, individuali e collettive, a
fondamento religioso, nel senso di motivate non sulla base di come vanno di
solito le cose, quindi su un realismo materialista, ma su considerazioni
paradossali, fondate su come vorremmo che fosse il mondo, quindi su un’esigenza
interiore che ci fa essere diversi perché collegata all’idea di essere creature, non un accidente della natura,
quindi esseri dotati di una speciale dignità. E’ qualcosa che, come scritto nel
brano che ho sopra riportato, giace e opera nel nostro intimo più profondo ed è
a volte suscitato, riportato alla superficie della coscienza, dall’esterno:
qualcuno la descrive come esperienza angelica, per altri è il contatto con le
scritture sacre, per altri ancora si tratta della voce di un’altra persona o di
un’altra situazione in cui ci si trova. E’ allora che si risveglia in noi “quel punto di speranza non domato, quella
certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può
ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli
scacchi subiti.” E che si comincia a costruire un mondo nuovo, in cui le
tante cose dolorose della realtà che viviamo e che pure è appunto la realtà siano superate e migliorate. Ad
esempio una società basata sul principio di uguaglianza intesa come pari
dignità, una cosa che in natura
semplicemente non c’è, come ricordavano gli schiavisti contro le obiezioni
degli abolizionisti. Tra gli esseri umani c’è stato sempre chi ha sfruttato e
chi è stato sfruttato, osservavano. Eppure questa realtà umana storica dello schiavismo è stata contrastata sulla
base di motivazioni in fondo religiose, quindi paradossali, almeno fin dal
Cinquecento, e dal Settecento con particolare efficacia, e ha portato
l’abolizionismo a prevalere a livello globale. E ciò anche se nella Bibbia,
composta di scritti composti in tempio piuttosto antichi, in cui lo schiavismo
era realtà giuridica accettata non c’è una parola esplicita contro di esso,
dico un appello alla rivolta contro
di esso. Eppure il movimento contro lo schiavismo, specialmente nell’Ottocento,
ebbe anche motivazioni religiose cristiane (pur avendone avute anche di
analoghe le pratiche schiavistiche degli Europei contro gli africani e i nativi
americani).
A una persona più giovane di me
che ha lasciato le consuetudini di fede respinta dal fideismo irriflessivo che
le era stato proposto, non attesterei mai che recuperando la fede sarà felice
su questa Terra, ma certamente le farei notare che su basi religiose, dunque di
ribellione contro le cose come normalmente vanno, in particolare in natura,
potrebbe capitarle di collaborare a cambiare in meglio il mondo, in particolare
nello sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo nel pensiero e nella pratica.
La nostra fede non ci impone di rassegnarci ad accettare le cose come vanno e a
ritenerle volontà di Dio, anche se si trattasse, ad esempio, di una malattia
grave o di un altro accidente “naturale”. L’altro giorno sono stato in visita
ad un centro oncologico e alle persone che ho incontrato in sala d’attesa davanti
agli ambulatori non avrei mai fatto questo discorso. Né avrei promesso che,
seguendo certi riti, Dio le avrebbe salvate. O che, comunque, anche nella
prospettiva della morte avrebbero trovato la beatitudine, la felicità. La mia
infatti non è una fede consolatoria o
di rassegnazione, ma di ribellione,
di rivolta, a partire da una realtà
affrontata senza facili illusioni. E’ vero tuttavia che, in una prospettiva
religiosa, in particolare cristiana, si può dare un senso a ciò che ci accade e
quindi si può essere portati ad agire di conseguenza: questo rafforza il
sentimento della propria dignità di fronte a una realtà sociale o naturale che
invece porta a deprimerla. Fa bene e porta a fare il bene. Non mi sentirei di
dire che accada sempre e non ne
faccio una colpa a quelli ai quali non accade. Per un malato grave, ad esempio,
la fede può essere solo un problema in più da affrontare e talvolta il problema
della teodicea, di giustificare
l’operato di Dio nel mondo, quindi il mondo come risultato di creazione, può superare effettivamente
le nostre forze. Ma di solito nella sofferenza è ancora possibile, come scrive
la Chalier, percepire un filo di chiarore,
e ciò sovente deriva da un’esperienza francamente religiosa, di voce o
situazione che risveglia una convinzione paradossale, che riguarda “parole di vita a colui o a colei che si
trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa
più trovarle”.
Il primo dovere religioso del
laico è quello di capire
realisticamente ciò che sta succedendo, per lui la fede non è quindi un fattore
anestetizzante, e poi di agire per
realizzare un mondo diverso (ordinare le
cose temporali secondo Dio, nel gergo teologico). In particolare è questo
appello, non di rassegnazione, che viene ai laici, e a tutti gli esseri umani
di retta volontà, dal Concilio Vaticano 2°
e dai documenti del magistero che si sono proposti di svilupparne i
deliberati.
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48
Noi, la Chiesa e la società nella crisi
(7 gennaio 2013)
Il duro inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di
sacrificio per i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi,
per le famiglie con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa
provvidenzialità di questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la
sollecitazione a rinnovate opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero
rapporto della Chiesa con la società italiana e col mondo che viene in primo
piano. E non più solo o tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del
sistema sociale e politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma
soprattutto per la sfida che la crisi economica, istituzionale e culturale pone
al presente e al prossimo futuro nella società e civiltà italiana.
Il nostro paese è in incombente pericolo di
precipitare in un nuovo periodo di decadenza, secondo una triste regolarità
della nostra storia. C’è già chi si rassegna. Ed è forse proprio contro la
inclinazione anche di molti cattolici alla rassegnazione che questo convegno acquista
ora la sua drammatica attualità.
Tra le non molte interpretazioni complessive
della situazione attuale della società italiana, che ho trovato tra i documenti
di risposta pervenuti dalle diocesi, da singole comunità e gruppi di lavoro di
Chiese locali [nella fase
preparatoria – nota mia], da associazioni
nazionali cattoliche e da qualche comunità cosiddetta di base – la
rassegnazione non trova però spazio.
Il senso di gran lunga prevalente delle
risposte sul tema generale del rapporto fra la Chiesa e la società italiana, è
che occorre accrescere il mutuo aiuto tra Chiesa e mondo nello spirito della
“Gaudium et spes”. E proprio la ricerca, da parte della cattolicità italiana,
di vie e modi e obiettivi specifici, per una congiunta e non contraddittoria azione,
di annuncio del Vangelo e di impegno per la giustizia e per la partecipazione
alla trasformazione del mondo, configura lo specifico apporto della Chiesa alla
società profana.
[Dall’intervento del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al
convegno ecclesiale “Evangelizzazione
e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976
– in Evangelizzazione e promozione umana
– atti del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice
A.V.E, 1976]
Le parole che ho sopra
trascritto sembrano scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema
della nostra Chiesa che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in
relazione con il mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a
trentasei anni fa. Che significa questo?
Significa che un lavoro che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto
e che ora può essere ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte
nuovamente favorevoli, in particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo
nell’enciclica Caritas in veritate
del papa Benedetto 16°.
Che cosa è la nostra Chiesa? Non
parlo naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue finalità
sotto il profilo teologico, della
fede comune professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di vista
sociale, delle relazioni come collettività con il mondo in cui è storicamente
inserita. Questo è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire la società
arricchendola con i principi evangelici che riguardano la vita comune.
Non vi aspettate che vi dia qui
delle risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse nelle nostre
riunioni infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito prendessero
parte anche coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla vita della
parrocchia e anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa come è ora
e lo dicono francamente, ma tuttavia nella loro interiorità apprezzano ancora,
al di là di quelle critiche anche dure, un discorso religioso.
Siamo, ad esempio, una ditta per la propaganda del sacro? Siamo una federazione di collettività che in
senso molto lato condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che
fanno vita separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui?
Siamo una federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che
vuole dare una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla
contro le critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire
un’organizzazione che ha come scopo principale sostenere l’azione del Papa nel
mondo di oggi e in particolare in Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo
di avere la ricetta giusta per cambiare il mondo rovesciando i principi
perversi su cui esso si fonda? Siamo gruppi di oranti che pensano di ottenere
il cambiamento del mondo con la preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i
vescovi e il Papa per noi? In che cosa i preti si differenziano dagli
assistenti sociali, dagli psicologi, dagli psichiatri e dagli insegnanti delle
scuole? Quale autorità riconosciamo loro, di fatto?
In questo Anno della fede queste domande mi sembrano importanti. Possiamo
aspettarci che la risposta ci venga dall’azione catechistica svolta nella
Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa siamo o come
dovremmo essere? O dovremmo, come punto di partenza, riconoscere
francamente come abbiamo voluto essere
finora e capire se questo modo di
essere è sufficiente in relazione ai principi che proclamiamo e che, come
non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di sé e ancora informano di
sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?
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49
Un processo continuo di liberazione
(8 gennaio 2013)
Se c’è, come non può non
esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la Chiesa, il cristiano
con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in questo processo di
liberazione. In che modo? Con la triplice azione sacramentale che è propria
della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di liberazione e
di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano deve essere
innanzi tutto presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il cristiano
nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo
stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno,
deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti
che la Chiesa deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata
da Cristo.
[ da La Chiesa sacramento di
Cristo e segno e strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a
Terni dal vescovo Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI,
in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo
– a cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo scritto che ho sopra
riportato rende bene il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio
Vaticano 2°. La Chiesa cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale,
se non una organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo
nuovo, nel senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente
motivati, in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni
o strati di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla
sofferenza e alla minorità.
Bisogna dire che di certi temi
in Italia si parlava accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello
dell’elevazione e liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in
Africa e in Asia. Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici
sono migrati dalle nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.
E’ necessario anche aggiungere
che il disegno conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici
in questi nuovi compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976
volle progettare un lavoro di preparazione di questa parte della Chiesa, nella
sua totalità, non in alcune sue porzioni particolarmente illuminate.
L’impostazione cambiò abbastanza sotto il pontificato del papa Giovanni Paolo
2°, che aveva in mente un altro modello di presenza
dei fedeli laici nella società in
cui vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni
’80, nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel
nostro complesso e parlando francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana,
o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?
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50
Pace come promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra
è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende
i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli
sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così
« chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di
Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio,
introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo,
ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme
di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica,
le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta
con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e
nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is
60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di
Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare
tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello
Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le
singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in
modo che il tutto e le singole parti si
accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la
pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie
da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse.
Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni
impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la
condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla
santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro
fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò
che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima
comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse
materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i
beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da
bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a
servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del
popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i
fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini
senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965), n.4:
“E mentre il mondo avverte così
lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una
necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da
forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti politici,
sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una
guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta lo scambio delle idee; ma le
stesse parole con cui si esprimono i più importanti concetti, assumono nelle
differenti ideologie significati assai diversi.
Infine, con ogni sforzo si vuol costruire un'organizzazione
temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il progresso
spirituale.
Immersi in così contrastanti
condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare
realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte
recenti.
Per questo sentono il peso della
inquietudine, tormentati tra la speranza e l'angoscia, mentre si interrogano
sull'attuale andamento del mondo.
Questo sfida l'uomo, anzi lo costringe
a darsi una risposta.”
Dalle relazione tenuta da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal
1972 Segretario generale della C.E.I.) al seminario della Caritas italiana del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982,
pag.123.
Ecco allora quello che è la Chiesa o per lo meno quello che ella è
virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve di continuo divenire: una comunità, una comunione di uomini amati da
Dio e che hanno la capacità per il dono dello Spirito che è stato loro concesso
di trasfondere, di manifestare, di realizzare questo amore di Dio per gli
uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto verso coloro che Dio ha
chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere membra vive della
medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli uomini: “ogni uomo
è mio fratello”.
Se noi comprendiamo questo e se non
ripetiamo pappagallescamente lo slogan dell’amore che risolve tutto, ma
arriviamo a comprendere la radice profonda che costituisce l’essenza intima e
autentica della Chiesa come comunità di credenti, come comunione di coloro che
Cristo ha redento, allora veramente noi abbiamo della Chiesa e quindi di noi
stessi un’altra visione. Noi comprendiamo che se questa è l’essenza profonda
della Chiesa, se questa è la sua realtà di base, la sua intima connessione
interiore, se questo in fondo è il suo mistero, rivelare questo mistero al
mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per primi e poi via via a
cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco, Dio non ha abbandonato il
mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha abbandonato la storia perché ha
messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù nell’amore dello Spirito,
questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo secondo il progetto di
Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per lui.
Intendere la Chiesa
comunità pacificante è stata una delle idee forti che si sono manifestate nel
Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Bisogna considerare che sul
tema della pace non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in
particolare dopo il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso
le concezioni che oggi sono diffuse dal magistero.
Il tema della pace, nei
documenti conciliari, si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché
la pace è cosa da realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei
templi dove dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito
principalmente laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica
per l’instaurazione e il mantenimento della pace tra i popoli è quello di un’autorità
mondiale, universalmente riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una
sorta di polizia di pace, nel senso
di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i
conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che
un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di
degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In
realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione
di un ordine pacifico, in una accordo tra
autorità costituite, con una cessione di
sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo
espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizione di parità con gli altri
Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la
pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali a tale scopo.
In realtà un’autorità mondiale di questo tipo
non è stata ancora realizzata. L’esperienza europea di pacificazione
continentale, che l’anno scorso ci è
fruttata il Nobel per la pace,
è basata molto su una progressiva convergenza dei costumi dei popoli oltre che
sull’azione di autorità a vario livello, secondo il principio, riconosciuto
anche dalla dottrina sociale della Chiesa, della sussidiarietà. In questo quadro ha avuto molta importanza la
penetrazione sociale di costumi democratici, intesi sia come forme partecipate
e pacifiche di decisioni su temi di interesse comune sia come affermazione
concreta dei diritti umani fondamentali.
Il lavoro di pacificazione
può farsi rientrare nell’impegno di promozione
sociale, quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo
fondamentale al laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli
scritti che ho sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo
da un intervento fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono
indicate specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come
realizzare la pace in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta
considerazione del contesto sociale umano ( lo scrutare i segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei
laici, che, nella visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con
tutti le altre persone bene intenzionate.
Pace, in senso religioso,
non è solo assenza di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui
la personalità degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente,
secondo il vero bene di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà
esercitarsi l’azione laicale.
Nei discorsi religiosi e su
base biblica, si collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace
potrà essere realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia,
realisticamente, non è garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace
nelle società umane, in cui si manifestano sempre, ad un certo livello, delle
devianze rispetto all’ordine costituito, talvolta sulla base esclusivamente
degli appetiti e degli interessi individuali e di gruppo. Questo significa che
per il mantenimento della pace occorrerà
sempre l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una
prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e,
comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con
procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone
umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie
avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di
punizione dei colpevoli.
Mons. Bartoletti metteva in
guardia dal parlare con troppa disinvoltura di amore come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che
richiede un impegno concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che
essa scaturisca, quasi magicamente, dal parlare
di amore.
Pacificare le società umane
non è sempre facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala
globale o nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità
parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto
limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come
quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza
di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale e dall’Asia, l’integrazione sociale degli
stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle
realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono
essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa.
Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e
adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità
di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo
politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la
possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più
giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter
entrare di nuovo in contatto con le tante persone più giovani che, formatisi in
religione nella nostra parrocchia, non la frequentano più, forse essendo
rimasti a vivere in zona. Anche questo farebbe parte di un’opera di
pacificazione, se si fossero allontanati per qualche motivo di risentimento o
di rancore nei confronti della nostra comunità.
Molti sono impegnati nel lavoro o nello studio quando il gruppo si
riunisce. Io stesso ho talvolta difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E
anche gli impegni di famiglia possono ostacolare un impegno extradomestico in
certi orari. Sentiamo però la nostalgia
e il bisogno di queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro
storie. Come ho detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il
mondo in cui vivono per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri
umani, secondo grandi principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a
dire ben consci della sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo.
Eppure, passo dopo passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è
pure sorta dai millenni bui delle guerre continue!
Non abbiamo la pretesa, noi
del gruppo parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la
vite degli altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede
un impegno enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che
stiamo facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale,
che passa anche il prendersi cura degli altri
a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo,
ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
Ma, in definitiva, lo
sforzo che si fa in un gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso,
segna innanzi tutto un progresso
spirituale, che, come contagio, può diffondersi nella società intorno a
noi, nei punti in cui entriamo in contatto con essa.
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51
Unita’/comunione nella Chiesa e
promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In
tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio,
poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non
terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in
comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che
gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo
mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo
regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario
favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei
popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida
ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re,
al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città
queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo
carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello
stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta
l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di
lui.
In virtù di questa cattolicità, le
singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in
modo che il tutto e le singole parti si
accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la
pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie
da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse.
Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni
impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la
condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla
santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro
fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò
che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione
circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I
membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche
alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi
amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio
degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del
popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i
fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini
senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Da “Una Chiesa in ricerca, in
servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e
promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:
“…se le due funzioni di
servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente
distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi nella unità
organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il
vero contributo della evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera
della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve
passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in
Italia il primo problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il
nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito
dal convegno) è quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.
Venerdì prossimo inizierà la
settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo tema, pensiamo
alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno organizzazioni separate
mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte legate a un unico
pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad un unico Signore.
Tuttavia il problema dell’unità
sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione religiosa. Esso si è
fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio Vaticano 2°, come
indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che ho sopra trascritto.
Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha fatto le spese in
particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80 ha visto ridursi
molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura messo in
discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e i vescovi
e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
Ad esempio nella nostra
parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non sia più,
da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è sostituita
l’organizzazione del Cammino
Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella
Chiesa e nel mondo hanno caratteristiche
piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica. Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è
diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra
parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una
confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione
tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono
varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione.
L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
Come ho cercato di riassumere
nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme
organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per
l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della
società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai
sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare
anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio
Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2°
l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi
principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una
certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era
organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della
partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno
dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del
fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno
avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti
rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società
civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra
i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo
dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più
prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si è sentita di meno l’esigenza dell’unità di
pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni
che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di
essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che
l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha
potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha
fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere,
vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo
complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto
di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano
quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella
società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società,
sul modo in cui vivere una buona vita cristiana e poi, principalmente, sul problema
degli alleati che si vogliono avere per fare
progredire la società, vale a
dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del
passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e
della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente con le ideologie liberali, fasciste o socialiste che esprimevano un’azione di
forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che
si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si
individuava una cultura della mediazione,
impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come portatrici varie organizzazioni, tra le quali
il Cammino Neocatecumenale. In genere
si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa
abbia scelto il metodo della presenza.
Oggi si è ormai perso il senso di questo
diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno
imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa
ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora
ci sono quelli per i quali i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa
effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i
principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la
pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle
relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal
magistero.
Certamente siamo chiamati
all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati a parlare delle nostre
scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover essere in comunione. Mancano però di solito le
sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo separato.
Ma non è detto che poi, parlando, discutendo, si
arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di
laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio
in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise.
Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente
affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato
nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria
a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da
venire, mi pare.
Uno dei luoghi in cui essa
potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la
quale appunto non ha le caratterizzazioni forti
di altri gruppi e pratica il metodo
democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a
convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il
proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni
ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità
parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
Se però guardiamo alla nostra
realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano dall’essere
realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza associativa, se non
riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro. Eppure esso sarebbe
ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è ancora un contributo che
potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo, non ci sono altre
organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale storicamente l’Azione
Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare efficacemente nell’idea
dell’evangelizzazione come promozione umana e della promozione umana come
evangelizzazione.
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52
Scrutare i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)
Dalla Costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965):
Pertanto il santo Concilio, proclamando
la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe
divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare
quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la
Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza
alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.
LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO
CONTEMPORANEO
4. Speranze e
angosce.
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche. Bisogna
infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono
delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della
sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente
si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e
dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi
giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e
d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i
cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione
reca con sé non lievi difficoltà.
L’Azione Cattolica è
particolarmente impegnata non solo ad attuare
i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne
tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei
laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già
si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo
nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare
ciò che si debba fare nel dopo Concilio.
Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha
nostalgia della Chiesa-di-prima,
anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in
particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al
mondo in cui i cristiani vivono, a ciò
che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in
particolare la seconda questione.
Riassumendo molto, le posizioni
che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle piuttosto
fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo in vari
campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della politica.
Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano producendosi
e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli aspetti
religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi in un
tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui risultati di
questo processo. Nel brano della Gaudium
et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad esso. Si volle quindi aprire gli occhi e il cuore a quello che
accadeva nel mondo, per capirne le opportunità religiose di bene. Si usò a
questo proposito l’espressione evangelica scrutare
i segni dei tempi, parlandone come di un dovere permanente per la
Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano che ho sopra riportato. Ora, bisogna
considerare che, storicamente, questa può essere considerata una novità
rispetto alle posizioni precedenti del magistero. E giunse in un tempo in cui ancora sussisteva
l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le visioni religiose
diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva propaganda attiva di
ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra fredda, la
contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici dominati dagli Stati
Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia non esplodeva in una conflitto guerreggiato,
in una nuova guerra mondiale, per il
timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di
una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna
ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo
in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche
l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da
alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno provvidenziale. Dovettero però
passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello
mondiale divenissero infine realtà.
Fino al Settecento la Chiesa
cattolica fu piuttosto integrata con il
mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente al modo
in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i suoi capi
o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero,
religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del
popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i
suoi signori delle nazioni.
A partire dal Settecento la
situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i fondamenti ideali
del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il potere temporale
della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul mondo in cui viveva.
Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero cristallizzandosi nei
movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un moto di opposizione e di
contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione era consentita, con
l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la particolarità dell’ideologia
rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva mantenuto saldi legami con
fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di proporsi al mondo culminò in due
momenti: l’elencazione legislativa degli errori del tempo, contenuta nel
documento denominato Sillabo,
allegato all’enciclica Quanta Cura, promulgata
nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata
nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il
divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno
d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con
provvedimento della Penitenzieria
Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un
precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con
l’enciclica Graves de communi, promulgata
dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una
politica democratica cristiana.
Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose
anche la conclusione, nel 1929, dei Patti
Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia,
quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze
reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i
movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La
situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale,
sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione
del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici
cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione
nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato
viene chiarito il senso dell’espressione scrutare
i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il mondo in si
vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
La Chiesa nei secoli precedenti si era
considerata e dichiarata maestra di
umanità, come ancora ritiene di
essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia
dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è
proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio
liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica
competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del
magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto
influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare
dall’enciclica Populorum progressio,
promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.
La concezione ottimistica dell’andamento delle cose
del mondo espressa nei deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto
temperandosi durante il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu
certamente uno dei maggiori artefici degli sviluppi conciliari, ma era
portatore, specialmente negli ultimi anni del suo regno, di una visione
pessimistica sull’umanità sua contemporanea, vista come soggiogata da potenze
di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in questo l’influsso del pensatore
eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev (1853-1900), il quale pronosticava
l’avvento dell’Anticristo nell’apparente
progressismo delle tendenze sociali
moderne e che era portatore di una visione di stampo religioso fortemente pessimistica sul mondo del suo
tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti che idealmente
agiscono come piccolo resto in
opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti negativi e
antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del cristianesimo
delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta ostilità o vera e
propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità di impronta
familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un cristianesimo
integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri aderenti che
condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009
dal papa Benedetto 16°, la tendenza si è di nuovo invertita.
Non che nella Chiesa
cattolica non possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate
all’idea del piccolo resto: esse anzi
ci saranno sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita
religiosa. La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un
ordinamento fortemente pluralistico, in cui da
sempre sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur
nella condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che
specificamente vengono denominati dogmi di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico
della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia
chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi
non solo con la modalità della testimonianza
di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire
articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere
condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione
culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che
comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della
pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
Capire il mondo è fatica,
non nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una
religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata
prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma,
devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano
invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù e in questo a volte sorprendono i più
giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
Bisogna riconoscere che
nell’opera di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore.
E ciò è ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti
a diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel
nostro gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco
quindi, come spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro,
nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario,
ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso,
non c’è mai stato nel
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53
Fede cristiana:
speranza credibile e onesta o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera di Paolo
VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978 – San Giovanni in
Laterano)
Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un
enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro
di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido cioè ed
il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra
voce.
Signore,
ascoltaci!
E chi
può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della
morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro,
di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non
hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è
la risurrezione e la vita. Per lui, per lui.
Signore,
ascoltaci!
Fa’, o
Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle
tenebre della morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza
temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che
inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere redenti: la
nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede
pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati
nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!
Signore,
ascoltaci!
E
intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro
cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo
carissimo e a quelli che hanno subìto la medesima sorte crudele; fa’ che noi
tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità
superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della
sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione
italiana!
Signore,
ascoltaci!
Interrompo gli interventi sui temi del
Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione sulla base del dibattito che si è articolato nella riunione di martedì
scorso del nostro gruppo.
La
fede religiosa ci salva dalla sofferenza dandole un senso, si è detto. Eppure
spesso siamo piuttosto angosciati da ciò che ci accade e lo sono stati anche
dei Papi in alcuni momenti della loro vita. Ho sopra trascritto la preghiera
che il papa Paolo 6° recitò nel corso della messa funebre per Aldo Moro, il
presidente della Democrazia Cristiana, suo amico personale, ucciso quattro
giorni prima da un’organizzazione terrorista di impronta comunista, le “brigate
rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.
Una
delle accuse più tremende rivolte alla nostra religione è di essere una
organizzazione dedita a una pia frode, che prospetta realtà soprannaturali
immaginarie per lenire sofferenze reali invece che porvi rimedio per quanto
possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a farlo per vigliaccheria o
addirittura per collusione con gli oppressori e aggressori. Si tratta di
un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista storico e sociologico ha
qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra spiritualità, ci
convinciamo che in definitiva è infondata.
Noi,
da credenti, non ci facciamo illusioni sulla consistenza ed effettività del
male e del dolore nella vita degli esseri umani: costituiscono effettivamente
un grosso ostacolo sulla via della fede, simile
alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo
l’espressione usata dal papa Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa può essere uno dei modi per reagire alle
avversità, in alcuni casi essa può addirittura essere di impaccio sulla strada
della resistenza e allora ce se ne libera. Ma, di solito, quello che in certe
condizioni personali difficili si rifiuta non è la vera fede, ma una sua
approssimazione insufficiente, il fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare
le difficoltà che anche da credenti ben formati si incontrano in certe
condizioni di contrasto e di dolore. La nostra infatti è una fede religiosa
paradossale, che quindi non trova
definitive conferme nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se
la magnifica complessità della natura suggerisce l’idea di un disegno intelligente che si spera essere
anche amorevole, visto che l’amore
nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e l’incessante lotta di
questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo, per prevalere a spese
di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte. Per quanto poi ci si
ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che le cose, in
conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità interiore profonda
che noi troviamo il fondamento della nostra speranza religiosa, alla quale, per
quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va, sentiamo di non poter
rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle cose, quindi non
chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che tutto è bene.
Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore Bernanos usò nel
romanzo Diario di un curato di campagna (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con
tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita
umana, la nostra vita, merita di essere
vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo
meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che
è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che
sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine.
Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato
che tutti riescano ad arrivarci con facilità:
ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione
religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a
concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°: Non è
vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà.
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54
La Chiesa vuole rinnovare il
mondo
(19 gennaio 2013)
Dal decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal latino: L'attività apostolica) sull'apostolato
dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza
degli uomini, però abbraccia pure il
rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della
Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli
uomini, ma anche ad animare e perfezionare l'ordine temporale con lo
spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato
nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi
ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino,
che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una
creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del
tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il
laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli
uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.
In queste poche righe del
decreto conciliare Apostolicam
Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi
molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra
confessione religiosa.
Innanzi tutto, iniziamo a
tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a loro volta,
sono una traduzione dal testo originale scritto in latino ecclesiastico
moderno.
Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui viviamo, l'ambiente
naturale e sociale. Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia
teologica, è quello della fede, in cui
il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e
dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono
stati considerati distinti per i
cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo
della nostra era, però anche legati.
Il cristianesimo nasce nella
Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione ebraica ma
sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica del tempo
non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui bisognava
organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di distinzione
origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema
dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per
la guerra ai romani, all'opposizione dura,
si deliberò di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio". Cesare era
l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo
appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire
ai doveri specificamente religiosi.
Nei primi secoli, quelli
dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il cristianesimo, con un processo durato
circa due secoli, si integrò nell'ordine politico dell'impero romano. In questa
epoca comincia a porsi il problema del legame,
vale a dire dell'influenza dei principi religiosi, oggi diremmo dei valori, sull'ordinamento politico e
civile della società. Non è che, prima di allora, le società dominate
dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare l'errore di
considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante dei secoli
dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano, chiamiamo i pagani fossero atei. Tutto al
contrario, i pagani dell'ellenismo e
della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si spiegherebbe perché costruirono tutti quei
grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto
è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi
molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in
particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti
pensare al titolo di pontefice che si
dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
La dialettica, che ebbe
storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli
imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa
nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione e legame.
Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie
assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà
ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica
autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che
l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione
religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas,
che significa papà), si era
instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come
succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie,
aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali
(un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano,
a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono
problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi.
L'accusa di papismo cattolico
ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati
Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy.
Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535),
importante ministro e consigliere del re
Enrico 8°.
Nella visione antica del legame
tra temporale e spirituale,
pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare
un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era
considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di
idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come
gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,
con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo
costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento
politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di
confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad
arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano
emarginati.
Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società
civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie
assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione.
I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America,
nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia
ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un
sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che
portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso
accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori
particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun
potere.
L'assimilazione alle monarchie
assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un certo
momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad esempio,
cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui, secondo
un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in
una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in
quello politico, re dei re.
E' chiaro che la prospettiva è
molto diversa nel brano della Apostolicam
Actuositatem che ho sopra citato. Qui
l'idea di rinnovamento delle
società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni di
popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella
di un tempo: essi vengo denominati città degli
uomini, espressione cara a Giuseppe
Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in
cui, con riferimento all'idea di rinnovamento
delle società civili, sono tramontati i monarchi
e sono sorti i popoli.
La pace tra cielo e terra non è
poi più affidata ad un accordo condominiale
tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in
passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli
ordini di sovrani: la coscienza.
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55
Democrazia, difficile virtù
In religione si ha di solito
difficoltà a pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo senso la si
subisce e perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in guardia i fedeli
dalle sue degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di rimettersi al
giudizio della gerarchia del clero, un’organizzazione non solo non democratica,
ma addirittura antidemocratica. E,
infatti, si ripete abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti
così come sono organizzate non lo sono)
e non si capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un
loro problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.
Considerando che tra il
1944 e il 1991 la democrazia è entrata
anche nella dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si considera una
condotta politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei processi democratici
moderni, a fine Settecento, la si era sostanzialmente assimilata all’eresia e
condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella nostre collettività di
fede, e soprattutto praticarla.
Democrazia non è solo la regola
per cui la decisione comune è quella maggioritaria. Significa, prima di tutto,
libertà di coscienza e di parola, rispetto degli altri, processi decisionali
preceduti da un dibattito franco, aperto, completo, informato, responsabilità
dei capi verso i governati, temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto
un particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma
- “grande anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto
dire sempre la verità, perché noi non possediamo la verità e sempre la dobbiamo cercare come a
tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In
religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le
persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere
impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili
con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali
fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire gli altri secondo un certo nostro modello
promettendo la felicità.
Bisognerebbe fare scuola di
democrazia a partire dai bambini della prima iniziazione religiosa, quando
scoprono l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia, perché
presuppone la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i processi
decisionali. Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia tra gli
esseri umani, il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli altri,
quella dimensione relazionale che ci fa crescere, come ci è stato spiegato nel
primo incontro del ciclo Immìschiati sulla dottrina sociale della Chiesa, per cui
non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la democrazia, prima
di studiarla sui libri, occorre viverla e innanzi tutto scoprirla nelle relazioni
con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto,
imparare a non diffidarne.
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56
Dottrina sociale, liturgia e Concilio
Vaticano 2°
I documenti
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione
religiosa e contengono importanti disposizioni in materia di liturgia e di
dottrina sociale. Le novità più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni,
quelle in materia di liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente
innovata.
Nell’Ottocento, quella che consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà
ne è storicamente l’ultima propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni
democratici che si venivano manifestando in Europa, animati da spirito di
libertà e di giustizia sociale. Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in
polemica, fin dall’enciclica Le novità del papa Pecci
del 1891, con il liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora
sopita, tanto che è stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del
ciclo Immischiati, nella nostra parrocchia.
Durante il
Concilio Vaticano 2° si corresse il tiro. La libertà di coscienza del
liberalismo e l’impegno per la giustizia sociale del socialismo divennero virtù
anche in senso religioso.
Nello stesso
tempo si cercò di avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più
ampiamente l’uso delle lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato
un grosso ostacolo alla formazione religiosa dei fedeli mediante la
partecipazione alle azioni liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà
del papa Montini l’uso della lingua nazionale divenne poi la forma normale
delle liturgie con la partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti
monastici o della Curia Vaticana e di altri ambienti particolari.
Per quanto
riguarda il rito della Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella
Costituzione Il Sacro Concilio:
48.
Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come
estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo
bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra
consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si
nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la
vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con
lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di
Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio
sia finalmente tutto in tutti.
La
partecipazione attiva alla liturgia era collegata all’impegno per la giustizia
che si ritenne di promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per
infondervi i principi religiosi, per ordinarla secondo Dio, come
venne scritto nella Costituzione Luce per le genti
n.31
Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le
cose temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici dovevano
essere adeguatamente preparati e la liturgia era un’occasione molto importante
per farlo.
Il nuovo
ruolo dei laici di fede nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega
perché negli anni successivi venne accettata anche la democrazia come virtù
politica e religiosa insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle
affermazioni teoriche, con l’enciclica Il Centenario del
papa Wojtyla, ma ancora in corso nei suoi sviluppi pratici.
Nell’incontro Immìschiati sulla persona è stato detto che la
dottrina sociale non è una terza via tra liberalismo e socialismo ed è vero. In
realtà si tratta di una mediazione culturale della nostra fede che recepisce,
ibridandoli, principi liberali e principi socialisti. Ne costituisce una
sintesi, costruita per rendere compatibili le loro principali istanze con la nostra
fede religiosa. In un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno
sia libero di fare di sé stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare,
perché noi non siamo dei, ma solo creature fragili. E’ questa è
sicuramente la realtà.
Nell’Ottocento
la via democratica era ancora molto di là da venire in religione.
Il
nazionalismo del Regno d’Italia privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia
centrale ed essi la presero molto male.
Il Regno
d’Italia era retto da un sistema politico che integrava conservatorismo,
autoritarismo, nazionalismo e liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però
che di quest’ultimo poteva fare a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere
del contenzioso con il Papato si presentava come uno stato democratico, anche se
l’elettorato era piuttosto selezionato, tra i soli uomini di un determinato
censo o con un livello minimo di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto
sta che il Papato, nella polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un
movimento del popolo minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un
arrogante e presuntuoso ceto politico irreligioso, tuttavia era ancora custode
delle buone e antiche tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente
appartenenti ai ceti colti, che cercavano una via per vivere attivamente
le istituzioni democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine
Ottocento del movimento politico della democrazia cristiana, e
anche l’ideatore del nome e del concetto di tale politica, e cercò
di mantenere le masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato,
per utilizzarle come strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato
tolto con la guerra del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di
avere mantenuto una sovranità sugli italiani. La prima
dottrina sociale della Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date
da un sovrano, il Papa, al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione
all’elaborazione di quei principi sociali, sebbene le encicliche sociali non
siano mai state il frutto di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre
un lavoro collettivo, a più mani, perché i Papi hanno una
formazione prevalentemente teologica, anche se, ad esempio, persone come
Montini e Wojtyla si intendevano pure di filosofia. La repressione dei ceti
colti dei laici di fede determinò che la religione apparisse cosa da incolti.
In più, i fedeli erano indotti a non partecipare alle elezioni politiche e così
si trovavano nella stessa condizione degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi
a causa della loro condizione di ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi
del Novecento, che si cominciò, faticosamente, a cercare di andare in altra
direzione, dando una formazione ai fedeli laici, ed anche alle donne dal primo
dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata per essere un più docile strumento alla
politica papale in Italia rispetto alla rissosa Opera dei Congressi, indotta a
sciogliersi d’autorità nel momento di più acceso scontro tra intransigenti (contrari
alla partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,
divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle
organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato
con il regime fascista, che consentì di chiudere la questione
romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione
della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file
dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo
la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre).
L’ideologia di questi politici democratici cristiani fu
modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla.
Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo
inserirono nella loro nuova dottrina sociale.
Ecco ad
esempio che cosa si legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da parte
loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella
Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino
loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di
azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria
iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le
iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino
e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari
rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la
Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria
responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono
associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici,
possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che
temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con
maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Sia nella
liturgia che nelle cose sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo
Concilio fu quello di promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la
dottrina sociale non furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di
tutti richiede di fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto
indietro.
Da un lato la
gerarchia del clero diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto
dell’apostasia e bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo
è il tremendo verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi
di vita buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che
cercano di imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con
la forza del numero o della loro veemenza.
In
particolare si ha sempre difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e
religioso dei nostri tempi.
Le cose si
sono molto complicate nella società italiana di oggi. Per molti italiani è
impossibile tornare a una fede religiosa che non è
mai stata quella della loro tradizione, perché provengono dall’ortodossia
orientale e da altre confessioni cristiane, dall’islamismo, dall’induismo, dal
buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il maggior livello di istruzione
della gente, raggiunto per merito del sistema scolastico pubblico, ha
comportato che su molte questioni di coscienza non si
sia più disposti all’obbedienza acritica. Nessuno in genere,
neanche le donne che in passato sono state le fedeli più docili,
è più disposto adabitare ambienti sociali in cui gli è
vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre certe umiliazioni
non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora talvolta
colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i fedeli
considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
Così, ad
esempio, si è insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi
liturgici, come la Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e
infarcita della simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione
di tutti e la comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si
pongono tanti problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
La
partecipazione attiva nella società del nostro tempo richiede la democrazia, e
innanzi tutto il rispetto degli altri, perché ci troviamo a vivere in un
contesto sempre più pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto
diversi punti di vista, è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai
tempi nostri, può sapere tutto di tutto, salvo che in settori
superspecialistici, ma per questo sempre più limitati. Come scrisse Pierre
Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note di catechismo per ignoranti
colti, Mondadori, non più in commercio) al più riusciamo ad essere ignoranti
colti. Insieme ci sforziamo di superare i nostri limiti individuali.
La sapienza degli altri ci arricchisce e viceversa. Confrontando le conoscenze
e le opinioni, le correggiamo. E’ questo che si fa nel dialogo: ci si
mette in relazione gli uni con gli altri, chiarendosi. Questo è l’inizio della
democrazia.
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57
Convincersi della democrazia
Ho imparato
la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni
’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati
due grandi esponenti del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in
fondatori della nostra nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i
principali artefici di varie fasi di rinnovamento della democrazia italiana,
ucciso nel 1978, e Vittorio Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione
Cattolica, ucciso nel 1980. Divenne evidente il carattere antidemocratico dei
moti insurrezionali dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste:
la democrazia italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo,
lentamente, nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire
quelli che vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di
Roberto Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A
quei tempi egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.
Di fronte al
pericolo, si ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni
negli altri, questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di
duri conflitti sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici,
ma non avrebbe avuto successo senza questa nuova situazione nella società
italiana.
La FUCI
storicamente è stato l’ambiente sociale della nostra fede che più si è
dedicato, fin dalle origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine
Ottocento, qui a Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri,
prete e attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era
ancora vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una
generica azione sociale.
Quello degli
universitari è un mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in
cui si studia all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il
bisogno degli altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può
stare in manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola
libreria domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari,
e più lo si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più
limitati della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una
persona di cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati
in altri settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro.
Bisogna, in questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i
risultati della propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico,
e anche per capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più
si capisce quanto non si sa. Sapere di non sapere venne
considerato da un antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è
anche il sapere, il rendersi conto, di ciò
che non si sa, quindi uscire dal generico e individuare bene i propri
limiti, per capire che cosa occorre, quale collaborazione cerare, per andare
avanti. E' in quel momento che si comincia a ricercare chi possa aiutare a
superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre alla ricerca (Ricerca è
la rivista dei fucini). Nel momento in cui si capisce di avere bisogno degli
altri per superare i propri limiti nasce anche la democrazia. Infatti per
interagire con gli altri occorre creare il contesto giusto, praticare un certo
metodo.
Non si può
praticare la democrazia quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è
convinti che gli altri non solo non servono, ma costituiscono anche un
pericolo, o comunque un fastidio, perché tendono a mettere in dubbio certe
sicurezze. Allora si cerca di imporre agli altri la propria visione, così come
avviene certe volte nelle riunioni condominiali, e si finisce per litigare
inutilmente: la cosa comune poi ne risente, si deteriora, perché non c’è
accordo su come farne la manutenzione. L’incapacità di democrazia degrada la
società, che richiede un lavoro comune per sostenersi, e innanzi tutto un impegno,
di molti. Fino al Settecento la democrazia veniva considerata in religione, ma
sulla base di un antico pensiero greco, una forma di disordine e di
allontanamento dalla verità. La democrazia, come oggi la intendiamo, nel senso
di potere di tutti, ha invece bisogno di ordine, di chiarezza, e
anche di fiducia reciproca e di rispetto.
All’origine
della democrazia c’è l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la
democrazia come una forma di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno
dell’aiuto degli altri ed essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene
di tutti, irraggiungibile senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare
ma anche essere rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici.
Questo collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a
collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che
definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al
termine del greco antico agàpe, vale a dire a un lieto
convito in cui ce n’è per tutti.
Se la
democrazia è una forma di amicizia, si capisce come non si possa praticarla
veramente per via telematica. Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare
esperienza concreta gli uni degli altri. In questo incontro ci si svela e si
possono avere sorprese piacevoli e spiacevoli, ma comunque in genere si hanno
sorprese. Finché gli altri rimangono una linea di caratteri sul video servono a
poco. D’altra parte conoscerli veramente è impegnativo, in tutti i sensi:
richiede uno sforzo, una pazienza nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica,
un tempo da trascorrere insieme. E’ così che però si costruisce la società, si
creano legami duraturi.
Se lo stare
insieme dipende solo dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale,
politico, religioso e via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo
con il punto di riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco
perché l’ingenuo attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a
poco sia per formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.
Certe volte
ci si incontra, in religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli
altri le parole d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve?
Si rimane estranei come prima, con in più molto risentimento.
Un
universitario per la prima volta nella sua vita viene posto di fronte alla
realtà così com’è veramente, ed essa è complessa. Tutte le semplificazioni
degli studi precedenti si rivelano ciò che sono, vale a dire, appunto,
semplificazioni, una base di partenza. Scopre che ci sono molte
interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte, anche perché è in movimento,
evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche parte, ed evolve anch’essa.
Questo è vero anche per tutte le verità, comprese quelle ritenute fondamentali,
della nostra fede. E’ per questo che si scrive tanto di teologia. Se tutto
fosse così semplice come talvolta viene presentato, non servirebbe.
Il primo
passo per affrontare il pensiero sociale della nostra fede è il convincersi
della democrazia, perché questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla
dottrina sociale nel corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per
influire nelle società pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi
i grandi principi ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è
possibile dominare culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso,
un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la
democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività
religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in
circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così,
perché la democrazia è per tutti, ed è solo così che è
veramente efficace.
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58
Democrazia dei cristiani, democrazia di tutti
(30-3-16)
[dal libro: Pietro
Scoppola, La democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico
nell’Italia unita - intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza,
2005, €10,00, disponibile in commercio]
Domanda: Ma ci sarà
un ruolo significativo per i cattolici nella vita politica italiana di domani?
SCOPPOLA:
Certamente, anche se sarà diverso da quello che svolsero in passato, al momento
dell’Unità d’Italia nel 1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e
mortificati proprio perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43,
quando assunsero la responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato
verso la libertà e lo sviluppo.
Il loro
futuro sarà di sostenere la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di
una profonda ispirazione etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri
credenti, alla migliore tradizione laica e alle tradizioni popolari delle
sinistre europee, ma ancora una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.
La Democrazia
cristiana è stato il partito dei cattolici italiani, l’espressione più riuscita
della loro maggiore età politica, lo strumento del loro enorme potere e insieme
della loro crisi, come sempre accade nella storia umana.
Ma oggi il
problema è la democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico
italiano si misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la
Democrazia Cristiana per un proprio partito esclusivo, e di lavorare piuttosto
per la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).
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Quand’è che
si entra veramente in società? Un primo momento importante è quando si trova un
lavoro stabile. L’altro è quando si forma un famiglia coniugale, basata
su un rapporto d’amore coniugale, più stabile perché si pensa anche a dei
figli. In genere, ai tempi nostri, ci si arriva intorno ai trent’anni.
E quand’è che
si hanno le prime esperienze veramente sociali, al di fuori della famiglia,
nella società generale, che di solito coincidono con la scoperta
dell’amore sessuale, la base della famiglia coniugale? Per me è accaduto al
terzo anno delle superiori, a sedici anni.
I trentenni
di oggi hanno compiuto sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da cui ho
tratto la citazione sopra trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un testo
da universitari. I trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le mani
appena pubblicato. Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito dei
cattolici, finito dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario
della metà del primo decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale
esperienza, anche se era citata in un capitolo o due dei libri di storia per le
superiori.
Un trentenne
di oggi, allora, potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto tra le
mani quel testo di Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i cattolici
abbiano vissuto sotto il dominio dei laici, intesi come gli irreligiosi, i non
credenti. Invece i cattolici, dal 1946, hanno dominato la politica italiana,
ininterrottamente sino ad oggi, prima con lo strumento di un partito e poi,
dalla metà degli anni ’90, mediante un’azione di pressione politica attuata
direttamente dalla Conferenza Episcopale Italiana per il tramite di gruppi di
pressione transpartitici.
Di solito si
ricordano le leggi sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria della
gravidanza (1978) come casi di sconfitta delle posizioni politiche dei
cattolici. Sono stati gli unici due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia
della Repubblica democratica. E in realtà non si trattava di una sconfitta
dei cattolici, perché si trattò di leggi ampiamente condivise dai
cattolici, come dimostrarono i successivi referendum promossi su di esse, ma di
una sconfitta della politica della gerarchia cattolica.
Un terzo caso
simile potrebbe darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle persone
omosessuali e sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione. L’azione di
interdizione politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora impedito
l’approvazione di qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo vaglio di
costituzionalità, che aveva travolto la legge sulla fecondazione assistita del
2004, pesantemente condizionata dall’azione politica della gerarchia cattolica.
Anche nel caso delle unioni civili omossessuali e delle unioni di fatto i
sondaggi evidenziano un ampio consenso della maggioranza degli italiani,
cattolici compresi. Se la legge fosse approvata, e non è ancora sicuro che lo
sia, e si andasse ad un referendum, probabilmente sarebbe democraticamente
confermata dalle urne.
Tutto il
resto della politica italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito con
il contributo determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro
volontà, ispirata in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa,
in particolare a quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si
attenuò molto l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata
dalla fine dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del
pensiero laicale in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia
e la sociologia.
L’idea
di trovarsi in uno stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa.
Ecco perché Scoppola parlò del partito dei cattolici come
lo «strumento del loro enorme potere».
Il potere dei
cattolici italiani raggiunse il suo massimo livello nel regime democratico
post-fascista. Fu sorretto da un’ideologia originale, riconducibile al pensiero
di politici come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Aldo
Moro, che colmava le grandi lacune della dottrina sociale in materia di
democrazia. Quest’ultima fu accettata pienamente dalla gerarchia cattolica solo
con l’enciclica Il Centenario, del 1991, del papa
Wojtyla. Ma nei testi della dottrina sociale la democrazia non viene trattata
in dettaglio. La si presenta genericamente come una forma di potere del popolo
che richiede partecipazione. Ma come si debba partecipare non è precisato. In
genere si è molto attenti a fissarne dei limiti nei confronti della gerarchia
del clero e in materia di trasformazioni sociali. La gerarchia, in genere,
diffida del popolo; e spesso non comprende bene la vita della gente, i
suoi problemi, le sue aspirazioni. Vive in un universo autoreferenziale. E poi
sente il pensiero democratico come un pericolo per il suo stesso potere, perché
essa non è organizzata democraticamente e addirittura se ne vanta, non vuole
esserlo (ma le spiegazioni che dà in merito non sono molto convincenti). Questo
spiega anche perché il tirocinio democratico non rientra in genere tra le
esperienze che vengono proposte ai fedeli nelle collettività di base. Lo si
pratica, ad esempio, nei circoli intellettuali della FUCI e del MEIC, due
movimenti scaturiti dall’Azione Cattolica che in questo si sono particolarmente
specializzati.
In realtà la
democrazia, come ai tempi nostri la intendiamo, è una forma di governo delle
società umane molto particolare, perché è strettamente legata alla giustizia,
la comprende al suo interno. Nelle altre forme di potere essa può essere al più
un orientamento morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno: in quei casi la
legge suprema del potere è il potere stesso, il mantenimento del potere, e di fronte
ad essa la giustizia recede. Viene praticata se e nella misura in cui serve al
mantenimento del potere, alla creazione di un consenso sociale, al mantenimento
della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti, invece, vive della
giustizia, perché non si può governare tutti senza
essere giusti, senza riconoscere a tutti la
medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della
felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non
democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di
giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere
umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere
giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale,
oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo
non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa.
Questo crea qualche problema alla dottrina sociale, intesa
come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della
democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una
conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei
nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia.
Questo rende ancora difficile, talvolta, spiegare teologicamente come
una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella
collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e
il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste
difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa,
fondata su democrazia e giustizia sociale.
Io che
ho fatto il liceo ai tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei
cattolici, o il partito cristiano come lo definì un altro
fine intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a
capire come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da
esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi
dovrebbe forse ripartire da capo.
Innanzi
tutto occorre fare realisticamente i conti con la storia. Respingere certe
interessate falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i
cattolici vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti
sotto il regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è
stata costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel
mondo cattolico, ed è innanzi tutto crisi del pensiero democratico
espresso dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una
particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica. Tutto
questo è necessario in
politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte,
in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo
può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei
Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i
testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale
<www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno
sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,
il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del
papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015, del
papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi,
per poi approfondire ulteriormente. In questo tempo di sviluppo della
dottrina sociale, le novità dei tempi hanno inciso
moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi
come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa
realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina
sociale che è rimasta, appunto, una dottrina,
vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale
pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana.
Questa realtà normativa è poco adatta al pensiero
sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e
sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.
Non so quanti
sarebbero disposti, ad esempio, a condividere questa affermazione, riportata
nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 227,
riprendendo pronunce del papa Wojtyla:
“Le unioni di
fatto, il cui numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa
concezione della libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del
tutto privatistica del matrimonio e della famiglia”.
Questa
sentenza non corrisponde a ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche
inutilmente insultante verso chi ha realizzato unioni coniugali non
formalizzate in un matrimonio, religioso o civile, ma comunque stabili e
feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia a quelle
unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è uscita
da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale. E' stato
scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste sociali.
Alla
democrazia è essenziale un pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente,
vale a dire nel libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non
si possono fare progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi in
politica lascia, allora, un po’ il tempo che trova, come si dice.
O si vorrebbe
che la gente, imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse ad essere
il braccio secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in politica,
secondo il progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo l’esperienza di
politica democratica della Democrazia Cristiana volle superare.
Come persone
di fede non possediamo la verità, ogni soluzione giusta,
sui fatti sociali e politici. Le soluzioni devono essere ricercate nel
confronto democratico, in quella che Scoppola definiva la democrazia di
tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava come di Omnicrazia, che
significa la stessa cosa, e la vedeva attuata attraverso Centri di orientamento,
in cui capire e scegliere nel confronto e dialogo democratici.
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59
Nella grande politica
(6-6-16)
Incollo di
seguito il testo di un discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a
magistrati convocati a Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle
scienze. In esso ha ripreso il tema della necessità di immischiarsi nella
politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della
necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra
natura.
I primi
commentatori delle parole di Bergoglio hanno notato il riferimento alla
"grande" politica più che quello alla libertà dei giudici. Entrambi
però sono importanti e connessi e rappresentano delle novità nell'ideologia
proposta negli ultimi anni alle collettività di fede che riconoscono l'autorità
religiosa del vescovo di Roma.
Più o meno
dal Sesto secolo della nostra era la Chiesa cattolica come complesso di
istituzioni è stata uno dei più importanti attori politici europei; questo in
particolare a partire dal secondo millennio, da quando si è costituita come un
impero religioso ad ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in
politica", e in quella "grande". Dove sta la novità?
La novità sta
nel fatto che nelle parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo
ne ha rifiutati i segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia
romana dei pontefici.
Ci sono i
popoli e ci sono delle esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze
da lenire, ci sono delle vittime a cui dedicare "grande attenzione".
C'è un ordine sociale da cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che
viene evocato come una "buona onda", "dall'alto in basso e
viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità
e dai popoli e dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli
dirigenziali", dove quei "viceversa" sono molto importanti,
perché in passato non se ne faceva conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in
basso e dal centro alla periferia.
In
quest'ottica sembra quasi che dal giudice si pretenda molto di più di quello
che egli è autorizzato a fare, anche negli ordinamenti di tipo democratico:
qualcosa che pare una rivoluzione sociale, da fare agendo insieme, in comunità,
per "aprire brecce, vie nuove di giustizia". E' perché Bergoglio,
prendendo lo spunto dall’udienza a quei magistrati, sembra aver considerato il
giudice come un modello di cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti a
farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando
i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,
avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato"
che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della
società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la
Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più
potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non
hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare un
nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a
qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi
essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione
dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre. Può liberare forze
potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più
importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o
semi-liquido.
Venendo
veramente da un altro mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a
cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica
per la riforma sociale, presentata come dovere religioso:
" Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale,
regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di
ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di
scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città,
della nazione, dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento
"L'80° Anniversario"].
"Giustizia,
libertà, azione collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione
se ne riprende a parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento.
Un capo religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna
riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse
sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare,
tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per
l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma
anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi.
“La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho
sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà
della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini”
tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto
dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma
impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla
luce della fede che rende esigente l’impegno politico come
valore anche religioso.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
INTERVENTO DEL
SANTO PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]
Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016
Buonasera. Vi
saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra
collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, di cui la
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è capace.
Se mi rallegro di
tale contributo e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione del nobile
servizio che potete offrire all’umanità, approfondendo sia la conoscenza di
questo fenomeno così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo globalizzato e le
sue forme estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida, cercando di
migliorare le condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi.
Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio
dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la
Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo VI — la
politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la Chiesa è
anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano
le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali
sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in
cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra
specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel corso degli
ultimi anni non sono mancate importanti attività della Pontificia Accademia
delle Scienze Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente, del
Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che
ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e
donne di oggi e, in particolare, attività volte a sradicare la tratta e il
traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione,
il traffico di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha
detto il mio predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in
diverse occasioni, questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono
essere riconosciuti come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e
plasmati nelle leggi nazionali e internazionali.
L’incontro con i
leader religiosi delle principali religioni che oggi
influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli
amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo,
il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di
perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo
particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei
giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che
l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di
considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione
illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere
radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare
una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo
divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del
passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua
incidenza.
Ora, ispirata dagli
stessi aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici ministeri di tutto
il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello sradicamento della tratta,
del traffico di persone e della criminalità organizzata. Siete venuti qui in
rappresentanza dei vostri colleghi con il lodevole intento di progredire nella
piena consapevolezza di tali flagelli e, di conseguenza, di rendere manifesta
la vostra insostituibile missione dinanzi alle nuove sfide che ci pone la
globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della
società e nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico
della propria vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici
e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi
dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato”
di cui parla il mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare della
“struttura di peccato”, liberi dal crimine organizzato. So che subite
pressioni, subite minacce in tutto questo; e so anche che oggi essere giudici,
essere pubblici ministeri, significa rischiare la pelle, e ciò merita un
riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono continuare a essere liberi
nell’esercizio della propria funzione giuridica. Senza questa libertà, il
potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina corruzione. Tutti
conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no? La giustizia con
gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la bocca.
Fortunatamente, per
l’attuazione di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano, cioè
liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che
l’Accademia realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare
sull’importante e decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore
consapevolezza di ciò, una forte consapevolezza. Sono lieto che i
rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i
nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e integrale, in particolare il numero
8.7, che recita: «Adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro
forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri
umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro
infantile, inclusi il reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi
entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui
la Risoluzione. Si può ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un
imperativo morale per tutti i Paesi membri dell’ONU.
Perciò occorre
generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci
l’intera società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e
viceversa, dai leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica
fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come
hanno già fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici
prendano piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria
responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone
pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che
agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della
promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della
felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria,
potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo
alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere
sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si
riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va
recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la
figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato
prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa
tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché
lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo
processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà
interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza,
che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti,
accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di
liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a
trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non
è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una
società di popolo.
L’Accademia,
convocando i giudici, aspira solo a collaborare in base alle proprie
possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle
nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono
mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno
collaborato attivamente con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice.
Gli ambasciatori che non hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati
le mani o che hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla
prossima riunione.
Chiedo ai giudici
di realizzare la propria vocazione e missione essenziale: stabilire la
giustizia senza la quale non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale, e
neanche pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo
odierno è la corruzione a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo,
debilita la democrazia partecipativa e l’attività della giustizia. A voi
giudici spetta fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare
giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò
e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela
delle corruzioni.
Quando diciamo
“fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si debba cercare il
castigo di per sé, ma che, quando si comminano pene, queste siano date per la
rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa dare loro una speranza
di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza speranza. Una
pena chiusa in se stessa, che non dà luogo alla speranza è una tortura, non è
una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della
Chiesa contro la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo che nella
concezione della teologia medievale e post-medievale la pena di morte conteneva
la speranza: «li affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è più così.
Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento... La speranza del reinserimento
nella società: “neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso
se ne fa garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae,
n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in
fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini
contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale
soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più
passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella
trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più
intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a
ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da
pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del
lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.
I giudici sono
chiamati oggi più che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni delle
vittime. Sono loro le prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella
società, e per loro si devono perseguire in una lotta senza quartiere
trafficanti e carniferos, i carnefici. Non vale il vecchio adagio:
«Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le vittime possono cambiare e di
fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei buoni giudici, delle persone
che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non poche di queste
persone sono uomini e donne avvocati e politici, scrittori brillanti o hanno
incarichi di successo per servire in modo valido il bene comune. Sappiamo
quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di parlare del suo essere
vittima come di un passato che ha superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto
o, per meglio dire, una persona con qualità di vita, con dignità recuperata e
libertà assunta. Riguardo a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare
un’esperienza empirica. Mi piace, quando vado in una città, visitare il
carcere. Ne ho visitati diversi. È curioso, senza voler offendere nessuno, ma
la mia impressione generale è stata che le carceri in cui il direttore è una
donna vanno meglio di quelle in cui il direttore è un uomo. Questo non è
femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo al tema del reinserimento, un
olfatto speciale, un tatto speciale che, senza perdere energie, per ricollocare
queste persone, per reinserirle. Alcuni lo attribuiscono alla radice della
maternità. Ma è curioso, lo dico come esperienza personale, vale la pena
rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta percentuale di carceri dirette da
donne, molte donne, giovani, rispettate e che sanno trattare con i detenuti.
Un’altra mia esperienza personale è che alle udienze del mercoledì non è raro
che partecipi un gruppo di detenuti — di una o l’altra prigione — portati dal
direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono tutti gesti di reinserimento.
Voi siete chiamati
a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che insistentemente chiede
giustizia (Lc 18, 1-8) alle vittime di oggi, tutte alimentano un
anelito di giustizia, come speranza che l’ingiustizia che attraversa questo
mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.
A volte può essere
di giovamento applicare, secondo modalità proprie di ciascun paese, di ogni
continente, di ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i
beni criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti, per offrirli
alla società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime. La
riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre
realmente possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla
comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la
sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una
crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se c’è una cosa che
attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo del giudizio divino con
cui tutti saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo (cap. 25), è il tema
della giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli
che soffrono per la giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati
gli operatori di pace, benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più
bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me stesso». Essi o esse — e
qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici — avranno la ricompensa
più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio,
vedranno Dio, e gioiranno eternamente insieme al Padre.
In tale spirito oso
chiedere ai giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici di continuare la
loro opera e realizzare, nei limiti delle loro possibilità e con l’aiuto della
grazia, le felici iniziative che onorano il loro servizio alle persone e al
bene comune. Grazie!
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60
Il partito del Papa
Con
l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha
diffuso un progetto integrato di riforma della società contemporanea, un vero e
proprio manifesto politico. Esso deve essere discusso democraticamente, ma
proprio per la fonte da cui proviene è difficile farlo in religione, e al di
fuori dei contesti religiosi non lo si fa perché non interessa. Infatti
il partito del Papa non ha seguito in Italia. Il nostro
è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato dominato da un artito
cristiano ed è stato impressionante constatare che nelle ultime
elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti che le animavano si è
richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha affrontato il tema di
Roma come città della fede, e questo nonostante il Giubileo in corso. Nessuno
si è richiamato ai temi politici della Laudato si’, che
probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e anche laddove è
conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto specificamente politico.
Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura pontificia, si sia considerato
distrattamente un documento in cui invece ogni parola è importante perché segna
un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove opportunità. Si dà uno sguardo ai
titoli, si legge qualche brano scelto traendolo dai commentatori, e poi si
aspetta il prossimo documento, che infatti è venuto con
l’esortazione Letizia dell’amore.
Fare politica
ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si
sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene
sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come
una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita,
sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Sarto, il Papa dei
Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai dirigenti della
Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono riuscito a trovare
uno stralcio sul WEB:
“I giovani talora si
chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco
che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se
stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è
diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis,
della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a
cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi
comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto
più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso
è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli
interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più
vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire
null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.
È con questo
intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica;
poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal
rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di
un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o
se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute
particolari.”
In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli
che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi.
Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in
religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena
responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica di
Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:
“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E
forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto
incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per
gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o
piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti
erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e
venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta
pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti,
siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere
un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo
tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che
crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”
Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo
Anniversario[della prima enciclica sociale Le novità, del
1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:
"Significato dell’azione politica
46 […]È vero che sotto il termine
«politica» sono possibili molte confusioni che devono essere chiarite; ma
ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che
internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.
Questo, in quanto è
il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del corpo sociale,
deve avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso agisce, nel
rispetto delle legittime libertà degli individui, delle famiglie e dei gruppi
sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio di tutti, le
condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell'uomo, ivi
compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della sua competenza,
che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e interviene sempre nella
sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene comune, di cui ha la
responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d'azione e le
responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi concorrono
alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni intervento
in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già di
distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il
potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per
considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di
tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la
politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale -
significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà
concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di
realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La
politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni
problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua
sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente,
tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur
riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani,
sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere
una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo
pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della
loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini."
Che cosa c’è
di diverso tra il pensiero del Sarto e quello del Montini sulla politica? C’è
la democrazia, che significa anche considerare la politica non come inevitabile
sviluppo di interessi particolari, ma come servizio
efficiente e disinteressato per realizzare insieme il
bene della città, della nazione, dell'umanità. E c’è la mediazione,
che significa concepire la politica come ricerca insieme
ad altri, in un clima di pluralismo.
Esercitare
il potere in modo insieme democratico e conforme allo spirito evangelico
non è innato nei fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio.
Negli anni ’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in
cui in Italia fiorirono tante scuole di politica.
Ma poi emerse il pluralismo della politica e si lasciò
perdere. Si riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni
bui dell’intransigentismo ottocentesco, quelli della polemica
durissima con il liberalismo democratico, che ancora risalta moltissimo nelle
parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è persa una tradizione di
impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea solo sui libri. Quindi
poi la rinnovata esortazione all’impegno politico democratico di Bergoglio cade
nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto agli orientamenti politici della Laudato
sì, la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni
francamente di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su
migranti ed emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a
scapito di qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare più
tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e
di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per
preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali
e dell’edilizia intensiva.
Ad essere
cittadini di una democrazia avanzata si impara e se la politica democratica ha
un valore anche religioso si tratta di un lavoro che deve essere impostato
anche negli ambienti di fede, come una parrocchia. Si inizia con un tirocinio,
con fare esperienza di democrazia negli affari minuti, nella gestione di un
gruppo, di un servizio, rifuggendo e contrastando il cesarismo dei
capi. Poi ci si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che
costa fatica, perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo
tempo, tutte le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in
disuso, a cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di
legittimazione democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare
quando si svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle
stesse persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno
ben chiaro a che titolo vi partecipino.
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61
Fede e politica: una relazione essenziale
[da: Ludwig
Hertling, Storia della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad
opera del cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag,
Berlin, 1967)]
La nuova serie di
papi sotto l’influenza degli imperatori
Ottone I (1°)
[912-973, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero
dal 962] e suo figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di Germania
e imperatore del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto, erano
intervenuti nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza ottenere
veri risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo Ottone
[Ottone III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania, imperatore
del Sacro Romano Impero dal 996], il quale personalmente non possedeva la
qualità dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma deve avergli
giovato il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno alla corona
imperiale per merito di suo padre e di suo nonno.
Gregorio V e
Silvestro II
Quando
nell’anno 996 morì Giovanni XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio
verso Roma. I romani lo pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III
contava allora 16 anni, era profondamente religioso, essendo stato
educato dai migliori maestri del tempo, ed inoltre era un idealista
entusiasta che sognava gli splendori dell’antico Impero romano. Egli designò
come papa il suo cappellano di corte, che era anche un suo parente, Brunone.
Questi, a sua volta molto giovane, perché contava solo 24 anni, in fatto di
idealismo non la cedeva all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio
V (5°), ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai
promettente. Dopo di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro
Gerberto. Gerberto, un francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era
molto ammirato per la sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha
fatto un mago. Non meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro
II (2°), era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un
lungo tempo la Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro
istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente
cristiana e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli
ungari con la metropoli di Gran, A colui che era stato fino allora il
duca degli ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.
Il nuovo predominio
dei signori di Tuscolo
Dopo la morte
prematura dell’imperatore Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente
un conflitto tra i conti di Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V
avevano tentato di suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un
antipapa. Ma il nuovo imperatore Enrico II (2°) fece accettare ai
romani il legittimo pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della
famiglia di Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due
città vinsero i saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani.
Nel 1020 il papa si recò in Germania e consacrò il duomo di Bamberga,
fatto erigere da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in
Pavia, in cui il celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero
promulgati fin d’allora decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli
ordini sacri in cambio di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia
si vennero un po’ alla volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal
sistema delle chiese di proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della
Chiesa dai signori feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta
delle investiture.
I conti di
Tuscolo tornarono a essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il
fratello di Benedetto VIII, Alberico, governava la città col titolo di console.
Dopo la morte di Benedetto VIII, un terzo fratello divenne papa col nome
di Giovanni XIX (19°). Questi incoronò imperatore
Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re Rodolfo III (3°) di
Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al resto, egli non si
occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°) di Bisanzio gli
profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al patriarca di
Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi precedenti gli
avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma dovette rinunciarvi
a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i monaci cluniacensi
(federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di Cluny, in
Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di Tuscolo, che
voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei suoi membri,
impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto. Il ragazzo,
che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato dopo poco
tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse, dal momento
che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra volta, egli
ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete di
San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole
pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal
partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro
III (3°).
Intervento di
Enrico III (3°)
Giovanni
Graziano aveva agito con le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver
ora accettato egli stesso l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°),
come egli si chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli
ecclesiastici più rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma
poiché uno dei principali punti del programma di riforma si riferiva alla
simonia, e cioè al commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno
un’imperfezione che il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo
scopo di farlo abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua
abdicazione e ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro
III. In questo ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere
d’aiuto. Enrico III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia.
Egli tenne un sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto
IX, che già aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo
papa, furono definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare
volontariamente il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma,
l’imperatore lo prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane
chierico romano, Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo
storico di grande importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.
L’imperatore
sembrava l’unica personalità in grado di ristabilire l’ordine, tanto che tutti
furono d’accordo che fosse lui stesso a nominare i papi seguenti. I suoi due
primi papi, Clemente II (2°), precedentemente vescovo di
Bamberga, e Damaso II, vescovo di Bressanone, uomini eccellenti
entrambi, morirono dopo pochissimo tempo dopo la loro elezione. Allora Enrico
III nominò un alsaziano, il vescovo di Toul. Il nuovo papa, però, Leone
IX (9°), desiderò un’elezione regolare da compiersi a Roma. Nel
viaggio che doveva condurlo a questa città, prese con sé il giovane
Ildebrando, il quale, dopo la morte di Gregorio VI, s’era fatto monaco,
probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e i suoi successori, finché non
venne eletto papa egli stesso [con il nome di Gregorio 7°].
[…]
Alessandro
II [papa eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e senza
l’ingerenza dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero
luogo il giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di
arcidiacono, il popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I
cardinali si ritirarono immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo
secondo le regole precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò
il giorno dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico
IV. A ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato
nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).
Gregorio VII appartiene a quegli
uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché suscitino le
reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio appropriato
sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del medioevo,
morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è cattolico e
papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un barbaro. E
fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute spavento al
mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone la festa ogni
anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali Gregorio VII è
il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che Gregorio VII fece
un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier Damiani lo
chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò significare
l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni altro. Come
già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura, mobilissimo,
infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile vitalità. Lo zelo
lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio. Ogni cosa era per
lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a sant’Ignazio di Lojola.
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Quando da
ragazzo lessi le pagine che ho sopra trascritto, da un libro di studio di mia
madre, rimasi meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling di
argomentare, contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in cui
mi ero formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio
seguente e quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi
racconti sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra
fede e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende
dal suo attivismo, è un progetto suo.
Nel 2013 è
stato eletto papa un vescovo, un religioso dello stesso ordine di
Hertling, che ha assunto un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era
mai stato prima un papa di nome Francesco. E’ andato a vivere in un
albergo nella cittadella vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha
rifiutato le insegne della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un
nuovo corso politico, con il suoi documenti La gioia del
Vangelo, del 2013, e Laudato si’, del
2015. Un po’ come avvenne intorno all’anno Mille. All’epoca il moto di
cambiamento fu sostenuto dai monaci della federazione di Cluny, oggi dal
movimento conciliare.
Quanto è
importante la politica nella fede?
Una tesi che
si potrebbe tentare di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto, tanto studio
per farlo) è che è tutto, da un punto di vista storico e
sociologico, naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine
soprannaturale.
Adottando il lessico di Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’
superficiale come è quello di un ignorante colto come io sono, uno che non è
uno specialista di certi temi e che pure per rendere ragione della propria fede
deve tentare di ragionare su di essi, come se dal Quarto secolo della nostra
era la penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo sia
avvenuta per la massima parte per via politica. Una politica che nel primo
millennio fu dominata dai sovrani civili, gli imperatori romani e
poi da quelli che si considerarono loro successori, e che nel secondo
millennio, da Gregorio VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai
sovrani religiosi romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti
come un impero religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta
di condominio su un popolo di sudditi. Questa era dei
papi-imperatori sta volgendo al termine in questi anni ed è questa l’epoca in
cui noi fedeli siamo finiti in mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo
nascere nella Roma dominata dai signori di Tuscolo, che espressero sovrani
religiosi definiti da alcuni storici, spregiativamente, pornocrati.
Se, da un punto di vista
storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione della fede, è
evidente che chi propone l’apoliticità della fede non fa gli
interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte durissime non
nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben vedere, su
temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società del nostro
tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare il pastore chi
a questo ruolo è designato in quanto membro del clero? E poi: come combattere
la povertà? Come evitare che l’industria rovini l’ambiente in cui viviamo? Chi
e in base a che criteri deve fare le parti della ricchezza che si produce? Una
fede religiosa che non affronti questi temi diventa inutile. E
la nostra fede non lo è mai stata storicamente e non lo
è. Infatti di questi temi si discute oggi, in religione.
La politica
contemporanea si fa con metodo e secondo principi democratici, che significa
partecipazione di tutti al governo, elevazione di tutti alla
sovranità. Questo implica un tirocinio, una formazione che non può
limitarsi allo studio dell’imponente letteratura dei papi. La politica
democratica richiede una partecipazione anche alla elaborazione dei principi e,
vista la stretta connessione tra fede e politica, per cui la nostra mi appare
essere stata sempre (questo mi sembra il suo vero tratto distintivo rispetto ai
tanti culti misterici che le furono coevi nel primi tre secoli
della nostra era) una fede politica, ciò finirà (come del resto è
già accaduto con lo sviluppo del movimento di idee che sfociò negli scorsi anni
Sessanta nell’ultimo Concilio ecumenico) per riflettersi anche sul modo
di pensare la fede. E’ stato osservato, ad esempio, che
alcuni dei più importanti movimenti scaturiti nel
post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica teologia,
anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in genere
alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la
proposta politica del nostro vescovo e padre universale
Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la
prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la
discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio
solo degli specialisti.
Possiamo
considerare, sotto l’aspetto politico, i papi Wojtyla, regnante
come Giovanni Paolo 2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto 16°, gli
ultimi sovrani dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da quelli del
primo millennio. E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il papa che ci
è venuto dal Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata dai sovrani
medievali alla cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato, il
capostipite di una nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un processo
che coinvolgerà anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo. Un ritorno
al passato è impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il nostro mondo è
la Terra intera e non il piccolo universo umano in cui pensavano di essere
signori del mondo i papi intorno all'anno Mille.
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62
La vita di fede come esperienza civile
La fede può
essere alla base di un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato che
fosse possibile. Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una
storia analoga si è vissuta in Germania. In altre regioni europee la fede
è stata integrata nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad
esempio, alla Spagna e alla Polonia. In Italia al centro di tutto ci sono
stati dei valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici.
Tutto ciò è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo
punto, però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.
Di tutto ciò
si sono avuti riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato. Ho
ricordato i fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con
quell’epoca, appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose.
In passato, e molto a lungo, si è pensato che oltre a catechismo e
famiglia ci fosse poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli
di storia, in cui la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.
Negli ultimi
vent’anni c’è stato anche un problema di formazione del clero. Sono venuti a
collaborare molti sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di quella
storia di esperienza civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non
conoscendola non l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte
eccezioni naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica,
molto centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio.
Quando ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha
fatto impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li
ricordo sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi
visitatori laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza:
certo, eravamo meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo
in qualche modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro
erano destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime
comunioni, a cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata
a stare in chiesa. Ma non è proprio questo il nostro
popolo? Quando lo si idealizza nei bei documenti del nostro supremo magistero,
popolo qui, popolo lì … tutto va bene, ma quando
il popolo esce dalla carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona
impressione. E’ perché manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in
cui ognuno sia ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di
eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la
liturgia serve appunto anche asuscitare un popolo diverso,
per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno
a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro da una certa
storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e
soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli
ambienti con questi nugoli di incenso.
Si è puntato
molto al perfezionamento interiore, cercandolo di
sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi pare abbiano
vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di alcuni ordini religiosi,
le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno l’amicizia della
fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per le donne.
Ma la vita di fede non sta solo in questo.
Agli albori
del cattolicesimo democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò Fava
Ghisilieri, in Riflessioni politico-morali raccolte da un solitario ad
uso della gioventù libera d’Italia [citato in Vittorio E.
Giuntella, La religione amica della democrazia - i cattolici
democratici del Triennio Rivoluzionario (1976-1799)]:
“Quand’è che l’uomo
può dirsi un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti de’
suoi fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola
dolce a se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi
della morale? Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata,
più stabile della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle
interpretazioni in spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il
più dolce, e il più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual
altro è mai, se non quello della Carità? E non è forse nel sistema
repubblicano, che più si cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più
opportuna di questa a un tal uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci
tutti come fratelli. Le dissensioni civili, che son tanto nemiche della
Libertà, non trovano forse ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei
dinanzi al Giudice supremo persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che
lacerano l’altrui fama, non che degli odi covati a lungo nel seno?”
Ad uno spirito religioso può non
bastare di distinguersi dalla società, di starsene da parte in un mondo tutto
suo che, man mano che ci si separa, finisce per diventare tutto fantasia,
sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che siamo stati mandati nel
mondo? Da giovane non avrei sopportato questa prospettiva, che per altro non mi
fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci adatto. Però ci sono pochi posti
in cui vivere un’esperienza civile animata dalla fede. Uno deve fare da sé.
Certe cose non te le spiegano in parrocchia e nemmeno altrove. Viene tra noi
uno come don Ciotti e sembra un marziano, una persona da un altro mondo. Eppure
intorno a lui ci sono tante persone di fede che condividono la sua esperienza
civile.
Da dove
ripartire?
Direi dai
più giovani perché in genere hanno più tempo per la formazione: è il loro
lavoro. Il tempo degli adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane
poco per qualcos’altro. Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in
cui presentiamo la religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il
nucleo di spinta di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante
rigenerazione, è costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano:
occorre che sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne
diffidino, che arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro
le fosche visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri
ultimi sovrani religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società
in disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è
solo questo intorno a noi.
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63
Condominio o
repubblica
C’è una bella
differenza tra un condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono
decisioni seguendo il metodo democratico.
In un
condominio ci si finisce perché si compra un appartamento e si diventa
proprietari anche di parti comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci
si serve anche di altre cose, però per queste si è obbligati a
farlo insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio
o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro
bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e,
soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle
decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose e non le vogliono
cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.
Una
repubblica nasce quando ci si sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare
una società migliore, in cui si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia
abbandonato alla propria sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose
molto meno. Ci si cerca perché si vive bene insieme. Al centro di una
repubblica ci sono dei valori: questo significa una certa concezione di
società. E poi la fedeltà a quei valori. Si è disposti a dare molto, anche la
vita, per realizzarli. Uno di essi, molto importante, è l’eguaglianza in
dignità, che significa rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo
richiede di essere sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra.
Per diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la
giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e
innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni,
i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide
che vinca la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad
ognuno dei diritti fondamentali che nessuna maggioranza
può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò
per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni
persona è sacra, nel senso che ha diritti intangibili.
Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un
qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non è
qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come
vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente,
che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per
cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima in
cui non c’era e che avrà un dopo in cui non ci sarà più.
Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si
ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo?
In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe,
che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno
venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che
però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe
anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale. Nessuno
escluso.
Alcuni
dicono che bisogna cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il mondo. E
seguono vie di perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro sforzo
di perfezione rimangono poi soli con sé stessi. Gli
esseri umani non sono fatti per essere così.
Questi cammini allora dove portano? Ci si perfeziona,
se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe,
crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà
limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale,
a tutto quello che c’è intorno.
Anche in una
parrocchia, come in ogni specie di società, si fa la scelta di essere condominio o repubblica. Dipende
da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro per
noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la
si condivide al modo dell’ascensore in un condominio,
con l’essere umano si entra in relazione.
La nostra
Cena rituale, con le povere cose che condividiamo, alle quali però
diamo un valore infinito perché ci mettono in relazione
benevolente e universale, non è forse la celebrazione dell’agàpe religiosa?
Farne una realtà condominiale sembra impossibile, eppure
è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente per il fastidio che
certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare una realtà universale,
in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno sia sacro… Ma non è meglio
essere in meno a condividere, in modo che ce ne sia di più per
quelli che ci sono? Questa è fondamentalmente la ragione politica della
crisi della nostra nuova Europa comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto
delle cose e non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione,
quella per cui nell’agàpe l’inventario contabile di
ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza
universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne
avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità,
stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La
nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano
da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori
della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per
rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito repubblicano.
Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci
portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata:
ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in
spirito repubblicano e non condominiale.
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64.
Democrazia -1
La democrazia è una forma di
organizzazione della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione
alle decisioni comuni.
Democrazia è
una parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos,
che significa popolo, e cràtos, che significa potere.
Dunque significa il potere del popolo.
Gli antichi greci furono tra i
primi a ragionare sul potere sociale.
Contrapponevano la democrazia,
il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e
alla oligarchia, il potere di pochi.
Anche in democrazia i capi
sono pochi, ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e
possono essere periodicamente sostituiti.
Ciò che distingue una
democrazia da una oligarchia è dunque la possibilità di critica sociale
e l’esistenza di regole che limitino il
potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che
coinvolgano i più.
Schematicamente: in una
democrazia il potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i
pochi che saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto,
perché i pochi che comandano scelgono i loro successori e quelli che
comanda ai livelli inferiori.
Ogni democrazia, degenerando,
tende a diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai
processi democratici, così come ogni monarchia.
Nelle società complesse non
esistono vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle
oligarchie dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere
supremo rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.
Un altro tipo di oligarchia è
la ierocrazia (un'altra parola greca composta da ieròs,
che significa sacro, e da cràtos): in essa i capi
ritengono di essere stati scelti in modo soprannaturale per fare da tramite tra
il Cielo e il mondo umano.
Attualmente la nostra Chiesa
è, dal punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia
in cui si stanno sviluppando processi democratici.
La Repubblica italiana è
invece attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi
oligarchici: questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che
in pochi stati.
Paradossalmente le monarchie
dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi
democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è
segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di
quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei
capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio
della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni, e
dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici
supremi.
Le monarchie e le oligarchie
in genere cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le
democrazie possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
Queste informazioni vengono
date di solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e
Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i
cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari
i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati
nell’enciclica Laudato si’.
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65.
Democrazia -2
Democrazia - 2
Ogni
forma di organizzazione sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che
ci viene dallo studio dei fatti umani, fin da quelli più antichi.
Possiamo farci un’idea di come si era in tempi molto lontani studiando
le società umane meno evolute che ancora ci sono e che verosimilmente vivono
come i primitivi.
L’evoluzione delle società umane è stata favorita dalla conquista del
linguaggio e soprattutto da quella della scrittura. Con la produzione di
documenti scritti inizia la storia umana.
A quel punto le società erano già piuttosto complesse.
Dal
punto di vista biologico discendiamo da esseri viventi sociali. Come erano i
nostri progenitori non umani? Si pensa che fossero simili alle scimmie
antropomorfe (parola che significa: con
aspetti fisici e movenze simili a quelle umane) che vivono in gruppi
sociali dominati da un maschio che si accoppia con molte femmine e al quale
altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è sociale ha reso
possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie di maschi o, più
raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di più i cacciatori
e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano come andavano le
cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle società primitive contemporanee
i capi sono anche mediatori con le divinità. Fin dalle origini probabilmente
era così. Gli esseri umani capivano di essere dominati da potenze non umane,
innanzi tutto quelle della natura, e le deificavano. Per rendersele propizie si
escogitarono dei riti, delle cerimonie simboliche, che avevano bisogno di chi
compisse le azioni prescritte: questo era il compito dei sacerdoti. I re, le
figure dominanti tra gli oligarchi, erano in genere sacerdoti. Fin dalle
origini troviamo quindi il potere connesso con la religione. Uno dei compiti
degli oligarchi, e i particolare dei re, era quello di risolvere le
controversie civili e religiose: questo produsse una giurisprudenza, vale a
dire una tradizione nelle decisioni con cui si risolvevano le liti, connotata
religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di carattere sacro perché non in dominio umano, e, nel caso
venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione e il diritto servivano a questo e venivano
somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane
anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una
costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
Ai
tempi nostri si ha talvolta l’idea che le società umani siano radicate in certi posti. Questo è uno sviluppo politico relativamente
recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo
dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle
origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime
migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i
progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
Il radicamento politico su un territorio sviluppò molto la
concezione giuridica della proprietà,
sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e
anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come
figure paterne, come padri
del loro popolo, iniziarono ad agire
come proprietari di esso. Cercarono a lungo un’investitura
divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani
assumessero anche la carica di pontefice
massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice è uno dei
nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo
collegato all’ordine universale, cosmico (cosmo
è una parola del greco antico che significa universo).
Si ebbe così una sacralizzazione del potere, che significa appunto collegare il
potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei soprannaturali. Ciò che riguardava le cose
soprannaturali era sacro, nel senso
di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi
conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano
accostare il sacro. Sacralizzare il potere significò volerlo sottrarre alle
contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era
accentrato in chi deteneva il potere politico
e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche
re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere
considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione del potere è ancora molto forte nella nostra
organizzazione religiosa.
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66.
Democrazia -3
Democrazia 3
La sacralizzazione del
potere politico spiega perché i processi democratici siano stati considerati
anche delle eresie e l’importanza che ha per la loro
affermazione il principio della laicità delle
istituzioni pubbliche.
Secondo il
principio della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche
non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è
vietata ogni discriminazione su base religiosa.
La sacralizzazione del potere
si è sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla
democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da
europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi
italiani siamo europei.
Dal Quarto secolo della
nostra era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la
teologia della nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette
in questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici
che scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio,
nella regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella
sacralizzazione: di là dominarono l’imperoromano, ridottosi
poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,
procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel
meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei
cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i
Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici, vale
a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della
nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti
dagli imperatori di Bisanzio. In questo modello c’era
un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era
un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la
parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della
nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro
Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra
fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del
potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa
sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia,
piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e
legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa
Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante
Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo
dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della
Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti
legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità
si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
La sacralizzazione giustifica
il potere assoluto, vale a dire senza limiti, del
sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del
delegato terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel
mondo. La sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è,
secondo il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un
sovrano assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un
processo che si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era
originario nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era
stato politicamente subordinato all’imperatore romano, in
realtà al potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne
politicamente un feudatario (che significa principe di
livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli
imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel
secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso,
come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un
potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga
di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra
queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi
la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che,
tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione del
potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi
democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale del
potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo
quadro, un potere assoluto, per di più attribuito a una sola
persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle
monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione
del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi
analoghi nella nostra organizzazione religiosa.
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67.
Democrazia -4
Democrazia - 4
Gli esseri umani,
nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel corpo e nella
mente, e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto,
mutano continuamente. Se non se ne è convinti, è inutile procedere
con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia come la si
concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di
democrazia serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare.
La sacralizzazione del potere politico serve invece a
contrastare la tendenza delle società a cambiare, travolgendo che le domina. In
una società dominata da un potere sacralizzato un
cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato quando
lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si
istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che
si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro si
ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di
punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina
concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato
a irrogarle per conto della potenza celeste che
l’ha delegato. Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla
metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi
assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di
volta in volta da esse espressi, governavano“per grazia di Dio”.
Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.
Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione
del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro
continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto
molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno
stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere
romano di Borgo. Lo definisce stato in modo non del
tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano,
regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima
Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,
con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del
Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato si
legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di
tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati
dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle
istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione del
potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati
dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei
regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi
pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle
istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in
genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità
dello Stato.
Il principio giuridico,
e addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa
prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per
grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità
di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi
democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la
sua strumentalizzazione politica, per lasacralizzazione del
potere politico.
Storicamente il processo
di desacralizzazione del potere politico iniziò con il
finire dell’era storia che definiamo Medioevo europeo,
nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di
pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di
libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni
commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come
nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelleuniversità europee
cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
Dal Duecento in Europa si
svilupparono università degli studi, istituzioni di studi
superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione del
potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine
naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di
una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra
i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più
potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia
politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il
secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni
campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un
esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina
Commedia di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento
essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le
concezioni dell’epoca sull’universo.
Il primo regno ad essere
colpito dal processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo
in questione nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento,
il papato romano, con la Riforma promossa del monaco
agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg,
nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo
processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti
politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione del
potere politico, anche se ad essere contestata era la sacralizzazione del
papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero
processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti
bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria
sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel 1648
nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della Germania.
Il papato romano, fino ad
epoca recente, reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare il
suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu
l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)],
del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento
culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in
realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge
(testo integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html )
Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così
detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o
Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran
tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero
di Cristo su tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce
dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di
governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco
la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e
indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al
potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati.
Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire
alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati
i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione
nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.
In seguito il papato romano usò
toni più sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito
essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici
in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma
operando attraverso la mediazione prima di un partito cristiano desacralizzato,
vale a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato da
poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate,
presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
A conclusione di questo discorso, tengo a precisare che
bisogna convincersi di questo: non sono le religioni che minacciano la
pace politica, come talvolta sento sostenere, ma la sacralizzazione
del potere politico. Se il potere politico è sacralizzato,
allora viene a dipendere per la propria stabilità
da una, e una sola, religione. Per questo diventerà
intollerante della altre e queste ultime lo avverseranno per affermare il
proprio diritto civico ad esistere o per affermare un potere politico
sacralizzato basato sulle proprie convizioni di fede. Se invece lo
si desacralizza, quindi se trova giustificazioni non
religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si
manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio
di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti
d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una
società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.
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68.
Democrazia -5
Democrazia 5
L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di
ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul
futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto
certi profili il passato non è sempre veramente passato. Lo
vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo
latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di
oggi.
La Questione romana ha
travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni
politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi
cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del
suo piccolo stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò
ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato
mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali,
sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un
Regno che nel suo Statuto proclamava: “La Religione
Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!).
Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici
nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori di
fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia
cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a
quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il
Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel
quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava
gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora
erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri
fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente il
conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il
Quarantennale, del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando
di apprezzarne l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma
anche l’azione repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna
autocritica è mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il
riconoscere, come fece il papa Montini, la natura provvidenziale della
fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica
deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza
negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia
nazionale.
La lunghissima sacralizzazione dei
poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro a
sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un
proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra
mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere
supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra
di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei
manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente,
dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun
potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse
indispensabile possedere uno stato. Nel mondo di oggi
non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale,
quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi
ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella
nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per
deporre dittatori o per far cessare crudeltà e guerre. Un potere
che possieda uno stato non può più essere considerato
solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno
di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di
controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora
gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
Ecco come la
rivista Panorama ha sintetizzato quella vicenda in un
articolo del gennaio 2013:
I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44
ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si
tratta del perimetro della Città del Vaticano.
È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al
distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed
elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti
o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di Religione , che
però i numerosi turisti e italiani che frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha
poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia,
braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San
Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.
E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non
può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa
antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non
equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola
caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un
soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni
fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.
La storia ci ha lasciato in eredità
il piccolo regno di quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un
impaccio da chi lo governa. Sotto certi aspetti è un po’ un parco a
tema, come Disneyland, con tanti pittoreschi figuranti. Non è
come capi di stato che i papi contano nel mondo, ma come
capi spirituali di circa un miliardo di fedeli. Possedere uno
stato è anche sotto certi altri aspetti controproducente per il papato romano,
come segnalarono ai tempi del compromesso con il fascismo gli studiosi di
diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si
potrebbe tornare indietro? Il Papa è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno,
certo che potrebbe farlo, ma, in realtà, non può. Quella storia di
cui parlavo lo condiziona, lo limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in
tante cose e, in particolare, nella questione della democrazia. Questo perché
il cedimento al fascismo, avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce
profonde in noi, nella cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo
e religione si compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando
pensiamo al modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello
clerico-fascista. In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza
la memoria storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o
con le genti che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia.
Su quella del Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si
sostiene superficialmente che la Chiesa non è una democrazia si
ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e
non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio
le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo
mondo? Se però, nel mondo, si costituiscono delle
istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un
ente caritativo, un’università, o una parrocchia, perché non si dovrebbe
praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come
migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene,
altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene,
su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa
intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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69.
Democrazia - 6
Per chi scrivo queste brevi note sulla
democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato Legge, Scienze
politiche e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in
Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo
conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La democrazia
infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire il futuro.
L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una formazione
per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’ di più? Ho
studiato Legge e ho approfondito un po’.
La democrazia, più o meno come
noi ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò
nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento
anni prima che si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi
greci produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era
legato ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita
umana e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo
parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono
molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i
criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché
coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento,
si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota
degli adulti maschi liberi. Liberi da
che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva
considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di
quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne,
e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
La schiavitù non venne posta
in questione dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù
dell’affermarsi dei processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per
abolirla vennero trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto
che riteniamo di essere stati creati e di essere
all'origine figli di un unico Padre. Da qui
l’idea che si sia creati uguali. Quindi i processi
democratici contemporanei sorsero in Europa, nel Settecento, sulla base
di concezioni che intendevano liberare gli esseri umani dalle
schiavitù sociali perché li si considerava uguali per
natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro,
ma come ogni figlio è diverso dal fratello.
Il padre tra loro fa parti uguali.
Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella
degli schiavi.
Benché dette con le parole
della teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad
affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di
solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia
civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica
convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo
2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in
Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della
Rivoluzione francese. In fondo sono idee cristiane ». Che
progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come
eretica, solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con
l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità,
del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla
piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di
argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano
l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero e
giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno
detto cose diverse dai papi di un tempo.
Certo, ai tempi in cui si
formarono le nostre collettività delle origini, gli antichi processi
democratici si erano da tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme
politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle
collettività non troviamo dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo
politico. Parlò di un Regno, ma non di questo mondo.
Il detto che gli è attribuito “Date a Cesare quel che è di Cesare…”,
non va inteso, naturalmente, come una sorta di regolamento di condominio tra
poteri nel mondo, quello di Cesare, il nome a cui si
richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello Celeste,
ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo
intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere
particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti
l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur
di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che
le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto
monarchico, come piccoli regni federati tra loro con intese di comunione:
si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci
si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica,
e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale
venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un processo
ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come propria
forma di sacralizzazione politica, e quindi come
ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della
nostra era.
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70.
Democrazia - 7
Gli antichi filosofi greci,
ragionando sulle esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della
democrazia. Vi partecipava una minoranza della popolazione che
praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava
trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli
che meglio mostravano di saper agitare le collettività
divenendone guide. I più decidevano secondo i propri interessi
privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di voleri favorire, ma
chi arrivava al potere promettendo di farlo spesso ne
abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare, per cui
occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide
politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il
bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi
come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad
esserlo. Al massimo furono consiglieri di chi comandava di
volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di
forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che
ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua corte,
un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri.
Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a
sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura.
Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.
In fondo è storia anche dei nostri giorni.
In un mondo fatto di
tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di
pochi, sembrava inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle
cose della politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si
manifestarono processi democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel
dominio di imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica,
nell’età d’oro dei Comuni europei, le esperienze di libertà
delle industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e
fino al Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti
che si riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare il
proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi
dal lavoro, non avevano la capacità di occuparsi della politica, in
particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se
non fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una
situazione naturale e che la ribellione fosse un grave
delitto. I poteri assoluti proposero diverse
giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La
loro sacralizzazione li aiutò in questo: si presentarono
come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società
sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa
situazione di temuta anarchia fu assimilata alla democrazia,
dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.
Quello che ho cercato di
sintetizzare spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere tutti nei
processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare
il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento.
Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama
l’Italia come una repubblica democratica fondata
sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha
iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici
sono entrati in crisi.
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71
Capire la
democrazia
71. 1. La
democrazia: non solo regole, ma una forma di convivenza sociale per risoluzione
pacifica dei conflitti.
La
democrazia è un sistema di convivenza che consente di superare i
conflitti senza che l’impiego della forza distrugga la società o
generi infelicità. Serve a regolare l’esercizio di poteri in conflitto
limitandoli nel tempo e nella loro estensione. Una volta che si è radicata in
un corpo sociale, ne consente anche l’evoluzione senza che esso venga disperso
nel corso di conflitti violenti. Per questo la democrazia viene mantenuta
sempre in una fisiologica instabilità, in modo da consentire le dinamiche
sociali di potere, ma in una instabilità controllata, come accade nei reattori
nucleari per la produzione di energia elettrica, nei quali le reazioni di
fissione nucleare, capaci di produrre potenze distruttive, vengono moderate e
contenute, ma comunque attivate.
Gli esseri umani, in
particolare nelle società contemporanee estremamente complesse in particolare
per essere composte da vastissime moltitudini di individui, dipendono dalle
loro società per la sopravvivenza. Un gruppo di esseri umani diventa società
quando manifesta la capacità di azione collettiva. Le azioni individuali devono
quindi essere coordinate, per produrre un’azione collettiva. Questo
coordinamento è dato da dinamiche di potere che coinvolgono individui e gruppi
di individui. Ad un certo punto un individuo o, più spesso, un gruppo di
individui riesce ad imporsi e a dettare le linea collettiva: questa è una
situazione di potere. Essa tende sempre a prolungarsi nel tempo e ad
estendersi, finché non incontra una resistenza. In questo momento si produce
una situazione di conflitto sociale che arcaicamente veniva risolta
prevalentemente mediante la violenza collettiva e, progressivamente,
producendosi delle culture dalle società umane, quindi evolvendo le società
umane, anche con altre modalità che preservassero la società dall’essere
sfasciata nel conflitto. In particolare questo avvenne, e ancora avviene,
mediante la produzione del diritto. Il diritto è uno dei modi in cui si
possono limitare i poteri collettivi e privati in modo che non
giungano a confitti distruttivi. E’ integralmente una produzione sociale, che
si basa essenzialmente sull’esperienza storica e sociale delle conflittualità
sociali. Oggi siamo abituati a pensare il diritto come un sistema di ordini di
autorità pubbliche, quindi di leggi, ma esso non si genera
solo in quel modo, anzi, per millenni, la legge non ne fu la fonte prevalente.
Una volta accettata l’idea che alla società convenga limitare i conflitti
sociali per preservare la sua integrità e quindi la sua efficacia per la
sopravvivenza collettiva, essa costituisce un valore, e un valore
molto importante, che è anche tra quelli fondamentali nelle concezioni
democratiche. Come risolvere senza violenza i conflitti sociali? Mediante la
pratica dell’equità, che implica una certa proporzionalità negli scambi
e una certa ragionevolezza nella pretesa dell’esercizio di poteri pubblici,
sugli altri. L’equità e la ragionevolezza sono
altri valori tipici del diritto, ma anche molto rilevanti nelle concezioni
democratiche. Sono espressione dell’idea di dignità della
persona che si trova inserita in una società, persona della quale i poteri
sociali, privati o collettivi, non possono, appunto per ragione di equità, fare
ciò che vogliono, a loro arbitrio. Le democrazie contemporanee si distinguono
da quelle antiche, medievali e moderne (che si sono sviluppate dalla fine del
Settecento alla metà del Novecento) per aver molto sviluppato l’idea di dignità della
persona umana, fino a fare un valore fondamentale,
attorno al quale ruotano tutti gli altri. Precisamente le concezioni
contemporanee della democrazia riconoscono ad ogni
persona umana una dignità che non può essere
lesa da alcun potere pubblico o privato, che quindi viene limitato. Questa
concezione di dignità è uno sviluppo del pensiero sociale cristiano, dall’epoca
in cui le masse europee iniziarono ad affermarsi politicamente. Essa è anche
insegnata dalla dottrina sociale cattolica, sebbene la Chiesa cattolica sia
stata storicamente uno dei più accaniti avversari della democrazia
contemporanea, fino addirittura a scomunicarla nel 1901, con l’enciclica Le
gravi controversie sulle relazioni economiche del papa Vincenzo
Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°. Solo a partire dal 1939, dopo aver
preso consapevolezza dei disastri che la compromissione con i fascismi mondiali
aveva provocato, la posizione iniziò a cambiare, fino a giungere nel 1991, con
l’enciclica Il Centenario del papa Karol Wojtyla, ad un
riconoscimento dell’utilità dei processi democratici nel governo delle società
civili, per indurne la pacifica evoluzione nel senso di sviluppare la dignità
delle persone. La democrazia è in genere ancora negata nell’organizzazione
ecclesiastica, da cui lo sciocco e superficiale detto “La Chiesa non è
una democrazia”: chi ne fa uso mostra di non avere consapevolezza della
realtà sociale della Chiesa e delle sue dinamiche di potere, a cui certamente
converrebbero processi democratici. Può accadere che ne abbia consapevolezza,
ma tema che con la democrazia venga mutato un sistema di potere che lo avvantaggia
o, molto spesso, teme, una volta scelta la strada della democrazia, si perda il
controllo del corpo sociale dei fedeli. In effetti la democrazia
consente l’evoluzione delle società. Del resto solo una concezione mitica della
nostra Chiesa, e in particolare della sua gerarchia, può condurre a negare che
essa sia mutata anche su aspetti essenziali. Ma l’evoluzione è stata
storicamente molto travagliata e a prodotto atroci sofferenze e violenze.
Le guerre di religione sono cessate, nelle loro manifestazioni
più eclatanti, con l’affermarsi dei processi democratici. Essi hanno portato a
riconoscere la dignità delle persone anche nei confronti delle autorità
religiose e, in particolare, a negare validità pubblica alla loro pretesa di
incondizionata sottomissione. Questa pretesa non è però ancora
sopita ed è legata al valore dell’obbedienza incondizionata all’autorità
religiosa, che senz’altro non è evangelico e umilia la dignità delle persone.
In quest’ottica, la vera libertà starebbe nella rinuncia alla propria libertà,
quindi alla propria dignità. Si crede, in questo modo, di prevenire i conflitti
sociali e di preservare l’unità del gregge, risolvendo i
confitti sociali mediante la pretesa, appunto, di sottomissione. La
sottomissione non è certamente un valore democratico. La democrazia conosce,
nelle dinamiche di potere, il valore dell’adesione, a seguito di
dibattito pubblico secondo procedure democratiche, e quello della resistenza,
quando pace, equità, ragionevolezza e dignità sono minacciate da poteri che si
manifestano dispotici, in quanto pretendano sottomissione arbitraria, e ciò
anche se si tratti di poteri maggioritari. La resistenza è un dovere
democratico anche contro la tirannia della maggioranza, come venne
definita dai primi teorici dei processi democratici. La democrazia non tollera
alcun potere arbitrario, che si pretenda illimitato e voglia sottomissione,
perché contrario alla dignità delle persone. Non tutto in democrazia è
nell’arbitrio delle maggioranze: non lo sono la pace, l’equità, la
ragionevolezza, la dignità delle persone.
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71.2. Cambiare democraticamente la
società.
La dottrina sociale indica ai laici
l’obiettivo di cambiare la società in modo da consentirvi l’attecchimento della
buona novella cristiana. Non si tratta di cristianizzare la
società: questo è un fine molto diverso. Le persone possono divenire persuase
della buona novella cristiana e allora vengono accolte tra i cristiani, nella
Chiesa. Se consideriamo invece le società cristiane, esse non
hanno mai funzionato tanto bene. La cristianizzazione delle persone può
presentare grandi vantaggi per le società, la cristianizzazione della
società, vale a dire costruire l’organizzazione politica intorno a una qualche
ideologia cristiana, porta ad escludere molti, e non solo i non cristiani, ma
anche coloro che vogliono essere cristiani in modo diverso dal modello proposto
dalla politica cristiana. La democrazia come ai tempi nostri la si
intende è incompatibile con la cristianizzazione politica della
società, non può darsi questo scopo se vuole mantenersi democrazia. Questo
perché deve rispettare la dignità della persona, vale a dire il complesso dei
diritti fondamentali che le sono connaturati e non dipendono da un
riconoscimento politico. Tra essi, anche quello di professare una fede
religiosa nel modo in cui se ne è persuasi. Questo diritto fondamentale è una
delle condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. E’ il
diritto alla libertà religiosa. La fede non può essere imposta. Avverto che
questa convinzione è molto recente tra i cattolici e non condivisa in altre
confessioni religiose. Uno dei principali e più fruttuosi metodi di
evangelizzazione cristiana dal Quarto secolo fino al Ventesimo è stata la
violenza politica, che storicamente raggiunse punte di spietata efferatezza ed
ebbe anche connotati stragisti. E’ a questo che, ad esempio, si deve
l’evangelizzazione dell’America Latina. Non ci si deve però scoraggiare: quella
della pace sociale è un ideale molto recente, e non universale, acquisizione in
nelle culture del mondo e, in passato, ognuno si è condotto secondo la cultura
di riferimento. Così fanno gli umani e non possono fare diversamente, appunto
perché sono umani, esseri limitati che dipendono dalle società che costruiscono.
Cambiare la società significa
influire sul suo governo, e quindi sulla sua politica. Significa anche
misurarsi con le situazioni di conflitto che sempre travagliano le dinamiche
sociali, in particolare quelle tra i gruppi che dominano e quelli che sono
dominati, tra chi è ricco è chi non lo è (posizioni dipendenti da situazioni di
dominio sociale), ma anche, ad esempio, tra chi parla una lingua maggioritaria
e chi ne parla un’altra, da anziani e giovani, tra uomini e donne anche nella
sottospecie delle relazioni coniugali (che esprimono posizioni sociali di
dominio), tra chi vive in certi quartieri ben tenuti e chi in altri dove vivere
è più penoso e via dicendo. Le situazioni di conflitto sociale dividono la
società per strati, ceti, classi. L’apparenza di stabilità è ingannevole, come
quella del suolo: al di sotto sono in azione forze potenti che ciclicamente si
squilibrano con conseguenti sommovimenti. Questa situazione può
osservarsi in tutti i gruppi sociali, fin dai più piccoli, e anche nelle
società dei bambini. Quando l’individuo inizia a interagire in società,
fatalmente emergono situazioni di conflitto. Ma l’essere umano non può
liberarsi a lungo dalla società perché ne dipende per la sopravvivenza. Solo
nella collaborazione sociale è possibile procurarsi beni indispensabili. L’essere
umano è un vivente che crea e governa società, è stato scritto
nell’antichità: è un’affermazione che tutt’ora è valida. Ma come superare i
conflitti? Questo il principale problema della politica. Ciò che ho scritto
della società in generale, vale anche per la nostra Chiesa, nel suo aspetto di
società umana. Dal punto di vista teologico vi è anche altro di molto
importante, ma considerandola come società umana vi si notano tutte le
dinamiche che si osservano più in generale nelle società intorno.
La nostra Chiesa
è anche una società umana. Questo significa che
anche in essa è possibile agire politicamente, perché è una società che, come
tutte le altre, deve essere governata, e lo si deve fare in particolare per
creare le condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. Si
potrebbe però osservare che, per definizione, la Chiesa dovrebbe essere la
migliore delle società sotto questo profilo, ma nell'esperienza pratica non è
così. Una volta dirlo sarebbe costato caro, molto caro. Ora che però lo hanno
insegnato anche i Papi è diverso. Un grande maestro in questo fu il papa Karol
Wojtyla, che regnò dal 1978 al 2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°,
proclamato santo nel 2014, il Papa della mia giovinezza, al quale sono
spiritualmente e affettivamente molto legato pur avendone chiari i limiti
politici. Ci guidò, nel percorso di preparazione al Grande Giubileo dell’Anno
2000, nel lavoro che definì di purificazione della memoria, che
consiste nel considerare realisticamente ciò che i cristiani hanno fatto in
passato per trarre esempio solo da ciò che, con il criterio del Vangelo,
possiamo riconoscere come ben fatto. Non si tratta di condannare i
morti. Ma di capire i limiti di come intesero essere cristiani e di cercare se
sia possibile affrancarci, oggi, da quei limiti, per non ripetere un passato
che non proprio non va. Si tratta, quindi, di un giudizio su di noi, innanzi
tutto. Noi che, come sempre si è fatto fin dalla storia più antica, facciamo
memoria degli avi per trarne orientamento.
All’inizio del suo regno, nel
2013, l’attuale Papa, regnante con il nome di Francesco, ed era (ed è per certi
versi) Jorge Mario Bergoglio, argentino, ci ha esortato ad essere Chiesa
in uscita, avendola trovata come barricata nei propri spazi liturgici con
figure di doganieri ai varchi per selezionare chi poteva
entrare o non. E’ stata una dura critica a come si era stati Chiesa, in Italia,
e in particolare a Roma. La leggiamo nell’esortazione La Gioia del
Vangelo, del 2013, il suo primo messaggio a noi tutti. I
Papi scrivono molto, anzi l’attuale Papa meno di altri, ma spesso le loro
parole non ci raggiungono. Ci sono stati momenti nei quali l’imponente
letteratura pontificia superava le nostre capacità di assimilazione, in
un’Italia dove, stando alle statistiche, la maggior parte delle persone non
legge nemmeno un libro all’anno. Bisogna dire però che papa Francesco ha
integrato gli scritti con una catechesi verbale, e per gesti simbolici, molto
efficace, per cui l’essenziale ci è divenuto sicuramente accessibile. Egli però
viene, in tutti i sensi, da un altro mondo, lontano non solo in senso spaziale,
ma anche culturale. Più lontano, in tutti i sensi, da quello da cui veniva san
Wojtyla, tutto sommato vicino in senso geografico ma diviso da noi dalla
barriera che fino agli anni ’90 divideva l’Europa tra sistemi politici di
democrazia liberale e capitalista e sistemi politici ideologicamente di
democrazia ed economia comunista ma degradatisi in autocrazie oligarchiche dispotiche,
secondo la scuola sovietica ai tempi di Stalin. Il principale problema che
riscontriamo con papa Francesco, come già con san Wojtyla, riguarda la
concezione della democrazia, sulla quale i cattolici italiani progredirono
molto, tanto che l’attuale Repubblica democratica è in gran parte opera loro. I
due Papi, in particolare, appaiono disallineati con l’evoluzione ideologica che
ha caratterizzato il processo di costruzione dell’Unione Europea. Ho spesso
osservato che, del resto, per ciò che ne so (e mi ritengo solo una persona
colta, ma non uno specialista delle scienze implicate in questa valutazione),
non è stata ancora elaborata in ambito cattolico una teologia della
democrazia. Il nostro potere ecclesiastico parla e intende secondo
la teologia e quindi non appare avere ancora gli strumenti sufficienti per
intenderla bene.
Per la gran parte dei
cattolici italiani (ma residuano correnti clerico-fasciste di varia natura)
quella della democrazia è stata, più o meno dal ’39 e su esortazione
pontificia del Papa Eugenio Pacelli – Pio 12° (1939-1958), la via privilegiata
per incidere sui fatti sociali in modo da cambiare la società per favorire
l’attecchimento della buona novella cristiana. Parlo naturalmente di un lavoro
in società che è diverso da quello sulle persone, sulla loro formazione, sulla
loro spiritualità. In particolare gran parte dei cattolici italiani ripudiarono
il disegno perseguito sotto il fascismo storico, quello mussoliniano
(1922-1945), di cristianizzare forzatamente la società. E,
con metodo democratico, riuscirono ad inserire nella Costituzione repubblicana
i principi fondamentali della dottrina sociale cattolica. E procedettero nello
stesso modo nel costruire l’Unione Europea, la cui bandiera è palesemente un
simbolo mariano, con la corona di dodici stelle in campo
azzurro. Va detto che a quella diffusa dai papi Leone 13°
(enciclica Le novità, del 1891) e Pio 11°
(enciclica Il quarantennale, 1931), profondamente rielaborata
dai loro successori, storicamente si ispirarono anche despoti che si
proposero di cristianizzare coercitivamente la società, del
resto forti di apprezzamenti positivi del corporativismo mussoliniano contenuto
nella seconda.
Bisogna prendere atto che
nell’Italia di oggi l’azione sociale per cambiare la società secondo le
esortazioni della dottrina sociale può e deve farsi solo
con metodo democratico. Ogni altro metodo contrasta con l’affermazione di
dignità inviolabile delle persone che, a ben vedere, è di diretta discendenza
dal pensiero sociale cristiano.
Tuttavia la democrazia si
pratica poco nelle istituzioni ecclesiastiche, salvo che in alcuni limitati
ambiti associativi o di vita religiosa. Ad esempio n on si insegna e non
si pratica, in genere, nelle parrocchie. La prima formazione religiosa, che per
la maggior parte dei laici rimarrà l’unica per tutta la vita, è fatta di
solito di alcuni rudimenti di storia sacra, di alcune istruzioni etiche basate
sui Comandamenti, e di un addestramento minimo su come partecipare alla Messa
(in piedi, seduti, in ginocchio, come recitare le invocazioni e risposte che
competono al popolo, come ricevere la Comunione). Non c’è da stupirsi che poi i
ragazzi non manifestino interesse ad approfondire, visto che, crescendo, hanno
bisogno di dritte per inserirsi in società e quello che
hanno imparato da piccoli al catechismo non serve. Servirebbe, invece,
integrare fede e democrazia, perché
nell’Italia democratica di oggi, il saper agire in un contesto democratico fa
una grande differenza. La formazione che si cerca di dare, anche raggiungendola
mediante auto-formazione tra adulti, in Azione Cattolica mira
principalmente a dare quel tipo preparazione. E’ per questo che l’Azione
Cattolica definisce se stessa come palestra di democrazia (nell’atto
normativo diocesano per l’AC nella Diocesi di Roma).
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71.3. Democrazia e istituzioni.
Spesso ho sentito presentare la
democrazia come un insieme di regole di buona creanza civile imposte dall’alto.
Lo stesso per la religione. Entrambe sono molto di più, ma anche di diverso.
Viviamo in società che
sono altamente istituzionalizzate. Questo significa che ci si muove, nelle
relazioni sociali quotidiane, secondo rigide regole formali che, se violate,
comportano vari tipi di sanzioni. Ci si trova inseriti in organizzazioni
disegnate da quelle regole. Accade sul lavoro, nell’utilizzare servizi
pubblici, ma anche, ad esempio, nella pratica della nostra
religione.
La parrocchia, ad
esempio, è stata istituita anche come un ufficio
burocratico dipendente gerarchicamente dal vescovo. E’ retta da un funzionario
ecclesiastico che è il parroco, che la rappresenta giuridicamente e accentra
ogni potere. In questo contesto, i fedeli sono utenti di un servizio
ecclesiastico, gli altri preti e i diaconi, come anche i
catechisti e chiunque altro abbia affidate mansioni ecclesiastiche
anche a titolo di volontari, sono sostanzialmente
degli impiegati. In parrocchia i fedeli ricevono
un’istruzione religiosa e vari servizi liturgici. Sono anche organizzati spazi
conviviali, specialmente per i più anziani, che si ritengono ormai usciti dal
sistema della formazione. Non vi è possibilità di esercizio di una certa
autonomia da parte dei fedeli, che, al più, sono chiamati a collaborare come
impiegati o consulenti. Questa la realtà istituzionale della
parrocchia. Se però ne vogliamo parlare con i concetti della teologia, allora
essa ci viene presentata come comunità, nella quale ognuno ha pari
dignità e vi partecipa come in una famiglia allargata. Il parroco e i preti e
diaconi che con lui collaborano sono pastori che
conducono il gregge per il giusto cammino, in un
contesto di relazioni di benevolenza e rispetto. Il gregge ama il
buon pastore ed è da lui riamato. Questa realtà, di carattere spirituale, non
corrisponde però a quella istituzionale, formale, giuridica. Entrambe non sono
democratiche. La parrocchia, in entrambi quegli aspetti, non è un ambiente
democratico, la democrazia non vi viene praticata, non vi viene insegnata, la
si riserva per i rapporti civili, dove però dovrebbe essere lo strumento con il
quale i laici di fede dovrebbero influire sulla società per renderla
aperta a ricevere la buona novella della fede. Dove si impara la democrazia? A
scuola, viene da rispondere. In realtà, però, a scuola la si insegna
sommariamente, come dicevo prima, come un sistema di regole di buona creanza
imposte dall’alto. Ma ben presto si fa esperienza di una cosa fondamentale: in
società le regole vivono diversamente da come sono scritte o anche solo
tramandate per consuetudine. Questo perché le società, come gli esseri viventi
cambiano. Quindi ognuno, nel concreto delle relazioni sociali quotidiane, è
costantemente impegnato ad impersonare quelle regole che
trova in società e, innanzi tutto, a decidere se, e in che misura, valgono per
lui e nei rapporti sociali in cui è coinvolto. In questo, ciascuno di noi
esercita un potere sociale, anche se spesso non ne ha
consapevolezza o ne sottovaluta l’importanza.
Questo che ho osservato serve a
rendere l’idea che ogni fatto sociale, come lo sono la democrazia e la
religione, come anche qualsiasi altra forma di potere sociale, ad esempio
quello in cui si dovrebbe essere solo sudditi di un’autocrazia, un potere che
non vuole rendere conto che a se stesso, o quello rigidamente diviso per caste o ceti
corporativi, nel quale le regole cambiano a seconda del gruppo sociale in
cui ci si trova inseriti o si è ammessi, vive e quindi
viene impersonato, e, in questo, viene anche cambiato, perché,
per quanto ci si sforzi di ottenere uniformità, rimane il fatto che gli esseri
umani sono viventi l’uno diverso dall’altro, è ciò anche nella coscienza e
nella volontà.
Il sistema politico e la
religione non sono solo un sistema di regole, ma innanzi tutto
sistemi di convivenza sociale sempre soggetti a mutamenti più o meno rapidi
secondo le dinamiche sociali, quindi alle relazioni di potere in cui ciascuno,
solo che viva in società, è coinvolto come attore e, insieme, oggetto.
La Chiesa assume
teologicamente di essere sempre la stessa dalle origini, e questo, secondo una
concezione mitologica che non significa erronea ma non necessariamente
corrispondente alle dinamiche sociali, perché comprende anche aspetti emotivi
che sono connaturati negli umani, può anche essere accettato, tenendo conto
degli elementi di continuità che indubbiamente emergono nella sua storia
bimillenaria, innanzi tutto la riflessione sulle Scritture. Ma, da un punto di
vista sociale, e anche giuridico, la nostra Chiesa è molto diversa da quella
delle origini, perché è espressa da una società molto diversa, anzi, studiando
la sua storia, ci si può convincere che nel tempo, sotto l'aspetto sociale, ci
sono state molte Chiese, quindi molti modi in cui si è vissuta e
impersonata la Chiesa, e certamente quelli dei bellicosi e irruenti vescovi dei
primi secoli della storia della nostra fede, che avevano l’anatema (oggi
diremmo scomunica) facile, non corrispondono al nostro attuale
modo di essere Chiesa. E, tuttavia, noi cattolici veneriamo i nostri santi,
ma anche nella tradizione delle altre confessioni religiose c’è una analoga
alta considerazione per certi personaggi del passato molto significativi nelle
questioni di fede, perché vorremmo stabilire una continuità ideale
con le vite di chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso quello
che definiamo deposito di fede, che non è fatto solo di scritti,
concetti, pensieri, regole, ma soprattutto di modi di vivere la
fede. E’ per questo che troviamo annoverati tra i nostri santi anche
persone di fede del passato piuttosto criticabili sotto vari aspetti, ma delle
quali apprezziamo ancora l’impegno fortissimo a vivere la
propria fede come il valore fondamentale della loro
vita. Quindi non le lasciamo seppellire dal passato, ma recuperiamo il loro
messaggio di vita per trarne ispirazione oggi. Ed è anche per questo che
ciclicamente rivediamo il catalogo dei santi, che una
volta proclamati tali sicuramente non possono essere come dire declassificati dal
punto di vista delle procedure istituite nella nostra Chiesa, nel senso che di
epoca in epoca ne risaltano di più alcuni e meno altri. Ad esempio, dell’elenco
dei papi “Pii” dall’Ottocento al Novecento, le scelte
politiche antirisorgimentali di un papa Pio 9°, il Papa del Sillabo (1964;
l’elenco di proposizioni erronee contro il liberalismo che contribuì a rendere
difficilissima l’assimilazione della democrazia tra i cattolici), o quelle
religiose di un papa Pio 10°, che ordinò una durissima e spietata persecuzione
antimodernista causando gravissime sofferenze e lacerazioni nella Chiesa e la
perdita di grandi anime (lo stesso don Romolo Murri, che aveva teorizzato tra i
primi l’ida di una democrazia cristiana ne cadde
vittima), che, con il senno del poi si sono rivelate del tutto
inutili, o l’apprezzamento positivo verso il corporativismo del fascismo
mussoliniano e l’elogio della repressione antisocialista di un papa Pio 11°, ci
creano ora qualche difficoltà e, di fatto, non seguiamo quei loro insegnamenti.
Noi, oggi, non impersoneremmo più la fede in quel modo. La
nostra religione, intensa nel suo aspetto di convivenza sociale, è molto
diversa.
E, tuttavia, parlando di
democrazia, che è il sistema politico in cui i più sono nati e che solo i più
anziani hanno contribuito a costruire con il loro voto per l’Assemblea
Costituente nel 1946, e di religione, e uno della mia età ne ha vissuto ormai
almeno cinque versioni, a partire da quella degli anni Sessanta del secolo
scorso, nel trapasso dalla rigidità gerarchica della Chiesa del papa Pio 12°
alla Chiesa del Concilio, a che punto siamo in termini di convivenza sociale?
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71.4. Democrazia,
desacralizzazione e secolarizzazione. Le società creano istituzioni allo scopo di durare. Così, nella
vita quotidiana, ciascuno sa qual è il suo posto, chi comanda, che si deve fare
in ogni occasione, come può relazionarsi con gli altri per avere ciò che gli
necessità, quando rischia una sanzione. Una istituzione è un sistema di regole
formali che riguarda l’esercizio del potere pubblico. Ingloba, quindi, un
sistema di potere. Per alcune istituzioni sono previste regole per modificarle,
altre, quasi nessuna in democrazia, vengono presentate come non modificabili e
quindi sono sacralizzate. Il sacro è appunto ciò
che in nessun caso può essere cambiato. Ogni potere storicamente ambì la sacralizzazione.
Le religioni, anche la nostra, vennero strumentalizzate per produrla. Di fatto
le società cambiano e con esse le loro istituzioni, vale a dire i loro sistemi
di potere. Se questi ultimi mantengono la loro pretesa di sacralizzazione, ad
un certo punto vengono rovesciati, se non riescono a reprimere i movimenti
rivoluzionari. Nella preghiera del Magnifica (Vangelo di Luca,
capitolo 1, versetti 49-53), che si recita ogni sera nei Vespri,
c’è un versetto che accenna a questo:
Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome;
50 di generazione in generazione la sua
misericordia
per quelli che lo temono.
51 Ha spiegato la potenza del suo
braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
In quelle parole vi è la descrizione
di un processo propriamente rivoluzionario. Un monito severo verso ogni potere
che pretenda di sacralizzarsi. Per quanto si finisca umiliati da un potere
dispotico, si confida che esso abbia fine e in un diverso
modo di convivenza. La nostra Chiesa ha prodotto una forte sacralizzazione del
proprio potere pubblico, ma, fin dall’antichità, i biblisti hanno concluso che
quel “Ha rovesciato i potenti dai troni”, non le si
applica. Tuttavia, nonostante la sacralizzazione delle sue istituzioni,
elaborata in particolare all’inizio del Secondo Millennio, quando il Papato
romano si costituì in una sorta di impero religioso, affrancandosi dal
precedente vassallaggio politico agli imperatori civili, esse sono storicamente
molto cambiate. In particolare vanno ricordate tre grandi stagioni di riforma,
nell’11°, nel 16° e nel 20° secolo, quest’ultima con il Concilio Vaticano 2°,
celebrato a Roma, in Vaticano, dal 1962 al 1965. La seconda fu catalizzata
dalla Riforma protestante, che, in religione, costituì un moto propriamente
rivoluzionario, quindi un rovesciamento.
La democrazia è un tipo di convivenza
sociale che non utilizza la sacralizzazione per avere continuità. Quando se ne
cominciò a parlare, nel Settecento se ne temette l’instabilità. Nell’Ottocento
la parola democrazia venne anche utilizzato per
intendere confusione sociale. Questo perché si voleva
praticarla con un’estensione che non aveva mai avuto nel passato, in
particolare nell’antichità greca, da cui ricevemmo le prime teorizzazioni e il
termine stesso democrazia (che in italiano e
nel greco antico e contemporaneo suona
uguale), nell’esperienza repubblicana di Roma antica, dove si
contava in base al censo, e in quella del Medioevo europeo, in cui era dominata
dalle corporazioni dei mestieri. Nell’era contemporanea se ne predica l’universalità senza
distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni
politiche, condizioni personali e sociali. E’ chiaro, da ciò, il
motivo per cui l’affermarsi dei processi democratici, in particolare in Europa,
comportò il ripudio del propositi di cristianizzare, con le
buone (la persuasione) o con le cattive (la coercizione mediante le
istituzioni), la società. Quando si parla di secolarizzazione delle
nostre società contemporanee, si vuole appunto intendere questo, non certo che
la gente non creda più all’azione di agenti soprannaturali. Quindi certamente
la secolarizzazione della società, nel senso di desacralizzazione dei
suoi poteri pubblici, è elemento costitutivo della democrazia:
non può esservi democrazia in un ambiente di istituzioni sacralizzate. Questo
spiega i problemi che i democratici, anche i cristiano
democratici, hanno sempre incontrato, e per certi versi ancora
incontrano, nelle loro Chiese, ma in particolare nella Chiesa cattolica, data
l’elevata sacralizzazione delle sue istituzioni e addirittura delle persone
stesse che dirigono ai vertici quelle istituzioni. Nella Chiesa cattolica
ancora si teme la dissoluzione procedendo nella desacralizzazione dei propri
poteri pubblici, e questo anche se l’esperienza delle democrazie Occidentali
contemporanee dovrebbe convincere del contrario. Quindi nella
dottrina sociale, il pensiero sociale diffuso dal Papato e dagli altri vescovi,
non troviamo una teologia della democrazia, ma solo una
cauta ammissione dei processi democratici nel governo delle istituzioni civili
in quanto più confacenti alla dignità delle persone umane, come oggi anche
nella Chiesa la si intende. Di conseguenza, la formazione alla democrazia non
viene ritenuta compresa nei programmi per l’istruzione religiosa di base, e
nemmeno per quella di secondo livello, venendo certamente fatta, e questo è un
bel passo in avanti, prevalentemente per i fedeli che hanno un’istruzione
superiore, quindi agli universitari e post- universitari. L’Azione Cattolica fa
certamente eccezione perché la pratica fin dai più piccoli: anche per loro
vuole essere quindi palestra di democrazia.
Poi, naturalmente, i nostri vescovi
si lamentano che i laici di fede non contano più molto nella società civile, in
particolare nei processi politici. Certo, ancora dalla scuola della dottrina
sociale escono ancora grandi ingegni, persone alle quali tutti si rivolgono nei
tempi di crisi come riserve della Repubblica, ed esse si
riconoscono per avere nelle loro biografie periodi più o meno lunghi, più o
meno intensi, di formazione alla democrazia nelle istituzioni culturali
religiose (molte università religiose hanno corsi specifici), ma i più hanno
avuto solo la formazione alla democrazia che è comune a tutti, vale a dire i
pochi cenni alla democrazia come buona creanza civile
che si fanno nella scuola e poi nulla di nulla, anzi l’anti-formazione che si
riceve nel marketing politico, quel modo di accattivarsi la
simpatia dell’elettore che è pubblicità commerciale e che si base
essenzialmente nello sfruttare le possibilità di inganno cognitivo su base
emotiva che la nostra mente offre, un’anti-formazione che umilia dove
invece la democrazia si propone di elevare.
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71.5. Democrazia: una forma di
convivenza che consente il cambiamento sociale.
Richiamo la definizione di democrazia che ho proposto
all’inizio:
«La democrazia è un
sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego
della forza distrugga la società o generi infelicità. Serve a
regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro
estensione».
Se la democrazia, prima
che un sistema di regole formali, è una forma di convivenza,
c’è molto spazio per l’ingegno e la creatività personali. Essa è stata anche
interpretata in istituzioni, in organismi sociali costruiti per durare e quindi
più rigidi, ma le istituzioni democratiche non coprono l’intero campo della
democrazia come convivenza. E, per quanto molto dettagliate, le regole delle
istituzioni democratiche non riescono mai a disciplinare ogni aspetta della
convivenza democratica nelle istituzioni. Infine c’è la grande area sociale non
ancora democratizzata o non completamente democratizzata. Come si
disse per la nonviolenza, anche per la democrazia
ogni giorno può portare progressi per l’azione dei democratici, per cui si può
concludere che «ieri eravamo meno democratici». Se scopo della
democrazia come oggi la si intende è anche quella di aumentare la felicità e il
benessere sociali, questo significa che la democrazia è una forza sociale
di progresso. La mentalità democratica, come anche la nostra
mentalità religiosa, comporta un certo grado di insoddisfazione nei
confronti di ciò che è stato realizzato: una società democratica è
necessariamente dinamica.
L’anno scorso ho
scritto:
«"Chi è il
più grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui che
serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse
colui che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che serve" (dal
Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano
CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il più giovane" traduce
con "il più piccolo" - il testo in greco antico
ha "neòteros": letteralmente "il più
nuovo").
Credo che storicamente
nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai principi di fede,
sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando evangelico che ho
sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni, vale a dire di un
completo rovesciamento di un ordinamento politico, con instaurazione di un
nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle precedenti.
Rivoluzione è un termine che
il pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa il moto di un
corpo intorno ad un altro corpo, che si considera come centro. Una rivoluzione
è compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito un nuovo
ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di stare come
colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza,
significa introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a
qualsiasi potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario.
Questa appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime
comunità di fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in
seguito, degli analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che
intesero promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.»
Il sistema democratico è
anche, quindi, una convivenza sociale in cui è ammessa la libera critica di
ogni potere, pubblico o privato, rispetto al quale si conviene che ciascuno
abbia libertà di coscienza, e dunque di pensiero, e
di manifestazione del pensiero, nella parola, negli scritti, nelle
arti e in ogni altro modo in cui questa libertà possa essere esercitata. Questo
significa che è aliena alla convivenza democratica la pretesa e la pratica
della sottomissione. Una persone che vive democraticamente non
si sottomette mai. La sua osservanza alle regole stabilite democraticamente,
all’esito di una procedura regolare che abbia consentito anche la presa di
coscienza e il dialogo su di esse, non è sottomissione, ma adesione
ad un metodo e accettazione delle decisioni pubbliche che produce. Rimane però
sempre spazio per la resistenza, che in democrazia è un diritto e
un dovere, quando un potere collettivo, anche con metodi corretti dal punto di
vista delle procedure, leda una posizione umana che si ritenga incoercibile e
non vulnerabile, un diritto umano inviolabile in quanto
connesso con la dignità della persona umana. Certamente questo pone sempre la
convivenza sociale democratica in una situazione di fisiologica instabilità,
nella quale ogni potere deve sapersi conquistare e saper mantenere innanzi
tutto con la persuasione la propria legittimazione sociale e politica, a
prescindere da quella giuridica, e in cui il corpo sociale organizzato per
convivere democraticamente mantiene un permanente stato di tensione dialettica
verso qualsiasi potere. In particolare la delega per la rappresentanza politica
non consiste, in democrazia, in una investitura, come le incoronazioni dei
monarchi, data la quale quel potere non potrebbe più essere messo in questione
per tutta la sua durata istituzionale. E’ proprio quella fisiologica
instabilità che consenta al sistema di convivenza democratica di adattarsi ai
mutamenti sociali e di resistere ad ogni potere che
tenda ad espandersi arbitrariamente. E, va detto, la legge sociale del potere
pubblico è che esso tende ad espandersi fino a che incontri una resistenza
valida.
La gran parte delle
relazioni sociali più significative della nostra vita si svolgono in spazi non
o poco istituzionalizzati. La famiglia, un’associazione ricreativa o sportiva,
hanno quel carattere. Vi sono però spazi sociali quotidiani piuttosto
istituzionalizzati nei quali tuttavia vi è molto spazio per configurare
liberamente una convivenza sociale, ad esempio nella scuola e nella parrocchia.
Gli ambienti di lavoro sono spesso poco o per nulla democratizzati,
specialmente quando l’organizzazione del lavoro è fatta da un datore di lavoro
proprietario. Sui luoghi di lavoro la democratizzazione è rappresentata
dall’azione sindacale che è in tensione dialettica con i potere del soggetto
proprietario dell’impresa. La democratizzazione delle organizzazioni del
lavoro è una grande sfida e ha un significato altamente politico
dove mette in questione la concezione della proprietà. I processi
politici di democratizzazione delle società europee, dal Settecento, ebbero
nella proprietà quale frutto del lavoro e
quindi espressione della dignità sociale personali un
punto di forza, e questo in particolare verso quei poteri politici connessi
alla proprietà terriera tramandata di generazione in generazione in dinastie di
nobili, accreditate da un potere supremo anch’esso dinastico e sacralizzato. Ma
nel progresso delle concezioni democratiche sta venendo meno l’assolutizzazione
della proprietà, espressione, proprio in quell’assolutizzazione, di un potere
con caratteri di arbitrarietà sociale, a favore di una diversa concezione, che
troviamo scritta nella nostra Costituzione repubblicana, che ne richiede
una funzione sociale, vale a dire una finalizzazione anche al
benessere e alla felicità collettivi.
Ciò detto, il primo
passo per un tirocinio democratico non è studiare un complesso di regole,
come viene in genere proposto agli studenti nell’insegnamento di educazione
civica e allora si prende in mano la Costituzione, di creare forme
di convivenza democratica nella propria quotidianità o di modificare in
senso democratico quelle alle quali si partecipa nella propria quotidianità. Il
primo campo di applicazione è il piccolo gruppo di
prossimità, ad esempio la classe scolastica, o un gruppo parrocchiale, come è
il nostro dell’AC parrocchiale.
Si riscontrerà che elevare un
gruppo alla democrazia richiede uno sforzo, una fatica, per la necessità di
vincere resistenze determinate da abitudini consolidate, in particolare da
stati di sottomissione nei quali alcuni si trovano rispetto ad
altri. Ho notato che non di rado nei gruppi religiosi i capi tendono a
debordare nel loro potere, che assume carattere autocratico e addirittura
sacralizzato. Data questa condizione, i capi così impostisi hanno poi in genere
la scomunica facile, come i bellicosi primi vescovi delle nostre comunità
religiose, anche se si tratta di un potere arbitrario, perché nella
nostra Chiesa l’allontanamento del fedele è disciplinato rigidamente da una
normativa penale, analoga a quella degli stati, è riservato a casi
gravissimi, e nessuno può arrogarselo. Una delle prime
manifestazione democratiche è dunque quella chi resiste a quella
pretesa di allontanamento arbitrario, ad opera di colui che, avendo conseguito
una qualche posizione di potere ed avendola estesa di fatto a danno altrui,
indica sbrigativamente la porta al dissenziente. Se in passato si avesse avuto
più coraggio in questa azione di resistenza attiva, ci saremmo potuti
risparmiare molti problemi e, innanzi tutto, una certa disaffezione da parte
delle persone più giovani alla vita religiosa. La democrazia non è fatta
certamente per persone remissive verso le posizioni di potere, per persone con
la tendenza ad essere docili, richiede coraggio, e
innanzi tutto quello di rimanere ad occupare gli spazi sociali contro ogni
potere pubblico o privato che pretenda di escludere e, lì, di prendere la
parola.
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71.6. Democrazia come convivenza che libera da sottomissioni
umilianti. Il conflitto è una dinamica costitutiva delle
società umane ed è pertanto ineliminabile. E’ legato alla nostra struttura
biologica e, in particolare, al funzionamento della nostra mente. Gli psicologi
cognitivi osservano che la nostra mente risale a duecentomila anni fa e ancora
possiamo influirvi in maniera molto limitata. Produce, in particolare, le
emozioni, oltre al pensiero riflesso, quello che consideriamo razionale.
Le situazioni di conflitto consentono
il cambiamento delle società e quindi possono essere anche un fattore di
progresso. Ma possono semplicemente distruggerle se divengono troppo intense e,
soprattutto, se coinvolgono non solo limitati gruppi sociali, ma la società
intera o addirittura varie società. La democrazia è una forma di convivenza che
si propone di risolvere in progresso le
situazione di conflitto sociale. A lungo è stato un lusso per ceti
privilegiati, ad esempio, nell’antica Grecia, per gli uomini che non avevano
necessità di lavorare per vivere. Allora, le altre persone, le donne, le
persone troppo giovani, i lavoratori, e nell’antichità si faceva ampio ricorso
al lavoro schiavo, insomma tutte le persone escluse dai processi democratici,
erano ridotte ad una posizione di pura e semplice sottomissione ai poteri
sociali costituiti. Dall’inizio dei processi democratici contemporanei, dalla
fine del Settecento, essi si fecero sempre più inclusivi, fino a comprendere
ora tutte le persone umane, anche a prescindere dalla
loro cittadinanza o maggiore età. Ciò per l’affermarsi della cultura dei
diritti umani fondamentali, che ancora è visto con sospetto dalla dottrina
sociale, espressione del Magistero dei vescovi cattolici. Questo, appunto, per
il potenziale di liberazione da poteri dispotici e arbitrari che comporta.
Da essa si teme l’inasprirsi del conflitto sociale e la dissoluzione della
società, in particolare della nostra Chiesa, e questo con una considerazione
realistica basata sull’esperienza, senza far tanto conto sui miti religiosi che
ne predicano un fondamento soprannaturale e che dovrebbero porla al riparo
secondo la profezia del “non
prevarranno”.
«[…] io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa
e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.» [dal Vangelo secondo
Matteo, capitolo 16, versetto 18]
Da 2013 in Italia stiamo vivendo un’esperienza propriamente
rivoluzionaria: è stata quasi totalmente
rinnovato il ceto politico nazionale e locale e i partiti politici che conobbi
fino agli anni ’80 non ci sono più. L’ultimo a rigenerarsi, era rimasto
l’ultimo dei partiti politici che c’erano già negli anni ’80, è stata la Lega Nord, che ha completamente rivisto
la propria ideologia, diventando un partito nazionalista, da anti-nazionalista
che era alle origini e fino al 2013. Nella politica nazionale si sta passando
da un’ideologia neo-liberista in economia ad una neo-statalista, mentre si
danno battaglia neo-nazionalismo identitario ed europeismo. Nel giro di due
anni si è passati da un governo che era
il più a destra di sempre ad uno che da molti viene considerato come tra quelli
più a sinistra. Questi processi sono stati aggravati dalla crisi istituzionale
provocata dall’emergenza sanitaria nazionale determinata dalla pandemia della
malattia Covid 19, che ancora si manifesta estremamente attiva e che ha
prodotto forti mutamenti nei metodi di governo e la necessità di aspri
confronti internazionali. A tutto ciò si aggiungono le crisi internazionali
riguardanti il conflitto libico, in cui l’Italia è coinvolta, e quella prodotta
dal recente espansionismo militare turco, che minaccia importanti interessi
economici italiani nel Mediterraneo, generando da ultimo potenziali situazioni
di guerra. E tuttavia, nonostante questi profondi scossoni politici e una
situazione sociale ed economica in veloce cambiamento, la società continua a
funzionare e una persona distratta potrebbe addirittura non rendersi conto di
ciò che sta accadendo. Questo perché in Italia si è radicata, in particolare
nei primi quarant’anni di esperienza nella Repubblica fondata dal ’46, una
convivenza democratica. Questo appunto è il miracolo delle concezioni evolute
della democrazia che si sono sviluppate in Italia, in Europa e altrove nel
mondo, dal secondo dopoguerra, vale a dire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale (1939-1945).
Ogni situazione di conflitto che non sia risolta democraticamente genera
o la sottomissione dei ceti subalterni, che quelli dominanti
riescono controllare e finché ci riescono, o processi rivoluzionari violenti. Nel primo caso si ha l’infelicità
dei sottomessi, nell’altro l’infelicità sociale diffuso, perché la violenza
genera sempre infelicità. Inoltre l’esplosione della violenza sociale di massa
è una catastrofe che, come i terremoti naturali, non si sa che cosa porterà e
come potrà essere risolta, iniziando una nuova ricostruzione sociale. Nella
Somalia contemporanea abbiamo l’esempio di una situazione rivoluzionaria
catastrofica che, iniziata all’inizio nel corso degli anni ’80, non si è ancora
conclusa e ha portato alla dissoluzione dello stato, che era stato costituito
nel 1960, alla fine della dominazione coloniale italiana e inglese, sul modello
europeo, ma presto caduto preda di un dispotismo militare, che solo formalmente
manteneva alcune procedure democratiche. La rivoluzione democratica italiana,
tra il ’43 e il ’45, ebbe caratteristiche diverse per merito di un ceto
politico democratico, che nella guerra di Resistenza fronteggiò quello
fascista, del quale i cattolici democratici ispirati alla dottrina sociale
ebbero un ruolo determinante. Ma il lavoro di formazione democratica del
popolo, svolto in particolare in Azione Cattolica e nei partiti politici, per
creare cittadini democratici dopo la lunghissima sottomissione al fascismo,
così come l’adeguamento delle strutture dello stato alle regole e principi
della nuova democrazia, poterono dirsi conclusi solo all’inizio degli anni ’90
del secolo scorso, quando, per effetto della globalizzazione dell’economia e della dissoluzione della
frattura con le economie comuniste, il mondo, e in esso l’Italia, prese
nuovamente a cambiare.
Proprio all’inizio degli anni ’90 quel lavoro di formazione popolare
alla democrazia venne interrotto, in particolare per la rapida dissoluzione dei
partiti italiani storici. Continuò e continua ad essere svolto in Azione
Cattolica. Tuttavia in questo ambiti ci si scontra con il fatto che la Chiesa,
pur investita da processi democratici dagli anni ’70, con il rinnovamento della catechesi, non è
strutturata come una democrazia, ma come una autocrazia oligarchica, e ciò
anche riguardo l’inquadramento del laicato. In essa i conflitti vi sono, ma
vengono negati e si cerca di mantenerli, come dire, sotto traccia. La modalità con cui in genere i laici si rapportano con le varie gerarchie
che pretendono di dettare la linea è quella della sottomissione. Però la stessa gerarchia li vorrebbe anche capaci di
influire nella società democratica intorno con gli strumenti e secondo i
principi della democrazia. Questo è il nostro, di noi laici di fede, problema
dei problemi nella Chiesa in cui siamo immersi. La conquista di una cittadinanza ecclesiale democratica è ancora da costruire e in genere
si è nella condizione di sudditi,
quindi di sottomissione, della quale
viene bene resa l’idea con l’immagine del gregge,
che saremmo noi verso i nostri pastori
terreni. Quella del gregge è indubbiamente una figura evangelica, ma
riferita al Buon Pastore soprannaturale:
è solo lui che ci proponiamo di seguire e amare incondizionatamente. Ogni altra
autorità, salvo per certe questioni e solo nella teologia e nel diritto
canonico cattolici quella del Papa, non ha veramente titolo e legittimazione
per sacralizzarsi, rifiutando di
essere messa in questione, costituendosi in autocrazia, sottraendosi a processi
democratici.
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71.7. Democrazia: cominciare dal piccolo e dal basso
Di solito a scuola si
studiano le istituzioni democratiche e
le regole democratiche. Si accenna
alla storia della nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza politica
popolare, vale a dire di massa, a un potere autocratico, quello del fascismo
mussoliniano, che aveva sottomesso le genti d’Italia. Si aggiunge che il
risultato fu quello di una Liberazione politica
e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà,
dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle
istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra, che per gli italiani, a
differenza degli stati che la combattevano contro gli stati del fascismo
europeo, fu anche propriamente di Liberazione
politica. Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da
Regno che si era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in
quanto condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un
voto popolare ad un referendum a cui parteciparono per la prima volta nella
storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non fu solo
di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità. Dalla fiducia nelle virtù
della guerra, propagandata dal fascismo mussoliniano, all’anelito verso la pace
determinato dalle gravi sofferenze belliche che avevano riguardato anche la
popolazione civile, finita sottomessa al nazismo hitleriano, quindi ad un
dispotismo straniero. Questa formazione alla pace, profondamente contrastante
con quella, opposta, insegnata dall’ideologia fascista, si fece in particolare
sull’esortazione del Papato, era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°,
contenuta in una serie di radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore
di encicliche, e che furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione
popolare condotto dal clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali
che coinvolsero in vario modo la gente di fede.
E’ alla formazione di
questa mentalità che dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che
dovrebbe farsi ad ogni livello tra i laici, per renderli capaci di operare in
una società democratica per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della
buona novella cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei
laici che collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove
possibile, e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della
convivenza democratica, quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino
con caratteri autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità
personale. Ciò è largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e,
in particolare, nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si
articolano.
Spesso l’affanno per i servizi che la parrocchia
deve rendere alla comunità, in particolare quelli liturgici per gli eventi
della vita e per il ciclo liturgico delle messe, come anche le attività di
formazione di base e per il matrimonio, che finiscono per assorbire quasi
interamente le energie del clero parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di
gestione del patrimonio parrocchiale, in particolare di quello immobiliare,
porta una certa burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia
un po’ al modo di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il
parroco decide tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta la parrocchia come ente
ecclesiastico con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più
rimangono consulenti. E le
istituzioni minime di democrazia previste per questa attività di consulenza, l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio
pastorale, il Consiglio per gli affari economici rimangono talvolta sulla carta, ma comunque
contano poco. Non si sente, ad esempio, l’esigenza di esporre un bilancio patrimoniale ed economico della gestione
parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone, il suo indebitamento, e
quali siano le sue esigenze.
Nell’ultima grande riforma della Chiesa
Cattolica, quella attuata con il Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si
tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa
- comunità, ma di fatto direi che siamo appena agli inizi degli sviluppi
conciliari per quanto riguarda questo aspetto. Non c’è da aspettarsi molto
dalla gerarchia, perché la legge del potere sociale è che chi ce l’ha non lo lascia fino a quando non è
costretto a farlo per l’emergere di poteri resistenti che pretendano
condivisione. La riforma in senso
democratico, dunque, può anche essere pensata
dall’alto, ma, se non si fa
dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o trapasso nei
sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va dal noto
all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno forza i
poteri che si vorrebbe ristrutturare.
Non basta quindi riconoscere, come ormai
generalmente si riconosce, che il sistema di potere ecclesiastico cattolico è
obsoleto, e oltretutto inefficiente e poco o per nulla trasparente: la critica
deve essere accompagnata alla dimostrazione pratica
che forme più democratiche di conduzione funzionano, e non disperdono
il gregge, innanzi tutto perché c’è una mentalità che, a prescindere dall’intervento di poteri
autocratici, porta a considerare fondamentale il valore dell’unità. Ma c’è tra noi laici? Possiamo
dire che, le rare volte che abbiamo voce in qualche cosa, fosse anche solo
l’organizzazione delle iniziative per la festa del santo patrono della
parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto vuol dire avere particolarmente a cuore l’unità? La mia esperienza con il laicato
non è questa: in realtà spesso le discussioni generano contrasti che
rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di meglio che cercare di
prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del parroco o addirittura di
chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti ad andarsene. Qualche
anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla Pasqua, che nella
nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola accesi dissidi sul
modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa, organizzò una serie di
incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in frizione. Ciascuno
disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva bisogno di unità, che la
via che aveva scelto era la migliore e che quella della separazione era la sola
soluzione che consentisse una convivenza pacifica. Notai in ogni gruppo di
lavoro in cui eravamo stati divisi la presenza di capi delle comunità: questo
evidentemente impediva di andare avanti nel processo di assimilazione
reciproca. In genere i capi di comunità assumono le consuetudini del clero, si
clericalizzano, e quindi tengono molto a marcare le differenze e consolidare la
sottomissione degli altri al proprio potere. La via giusta credo sia, sulla
base di quell’esperienza, non quella di riunirsi per discutere, ma per fare qualcosa
insieme, nel contempo convenendo che, in quel fare, per la durata di quel fare,
limitatamente a quel fare, si è sciolti da altri poteri che non sia quello
collettivo dell’assemblea di coloro
che si sono riuniti per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa
costituiti per specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di
estensione. Questo che ho descritto è uno spazio
democratico di base. Il fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione,
e quindi conoscenza. Si diffida di chi non si conosce. E la convivenza
democratica si basa essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella
basata sulla comune sottomissione
sulla presenza di un’autorità autocratica comune alla quale tutti si
sottomettono.
Ogni piccolo gruppo parrocchiale, e più in
generale ogni piccolo gruppo sociale, dovrebbe essere trasformato in uno spazio
democratico di base per fare tirocinio di convivenza democratica e per
convincersi che la democrazia funziona. Ho
letto che questa esperienza è molto diffusa in una delle culle della
democrazia, in Gran Bretagna, dove ogni esigenza collettiva genera un comitato. Abbiamo ricevuto la parola comitato dal latino, lingua in cui si
componeva della parole che significavano andare
con, espressione corrispondente a quella sinodo, che ci viene dal greco antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in uno stesso modo (ordine
di idee in cui si dà dell’eretico chi
non la pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel rimanere insieme sulla via nonostante non la si pensi
nello stesso modo. Questo è al centro della convivenza democratica.
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71.8.
Democrazia: una questione di dignità.
«L’uomo è un vivente che costruisce e
governa società»: questo è uno degli insegnamenti più noti del filosofo greco Aristotele, vissuto nel Quarto
secolo dell’era antica, quella che contiamo a ritroso partendo dall’anno in cui
convenzionalmente poniamo la nascita di Gesù il Cristo. Una filosofa vissuta
nel secolo scorso, Anna Arendt, osservò che esso non dice tutto delle
persone umane nelle loro società. Questo perché la società è un modo di
vivere in relazione e, dunque, è propria degli umani nelle loro
relazioni, non dell’uomo in sé. E
costruire e governare società è appunto un modo degli umani di
vivere in relazione tra loro, un modo di convivere. E’ ciò che definiamo politica.
Eppure
è anche vero che la società dice molto di noi, ci determina. Siamo ciò che la
società riconosce che siamo. In società
riceviamo un nome, ci vengono riconosciuti dei parenti, quindi linee di
discendenza biologica che si ramificano e creano legami molto forti, ci viene
data una lingua, quella che chiamiamo madre
perché non la impariamo a scuola ma da una delle relazioni umane più forti
della nostra vita, ma anche molto altro,
ad esempio i ritmi della vita, il modo di vestire, il modo di atteggiarci
quando siamo con gli altri, crescendo anche un ruolo sociale, che comprende
l’esercizio di poteri e la soggezione a poteri altrui, la nostra posizione
nelle dinamiche sociali di potere. Tanto che ci riesce difficile isolare una
persona umana dalla sua società e che, quando muovendoci passiamo da una
società ad un’altra, anche noi cambiamo: questa è una delle esperienze
fondamentali del viaggio. Il monaco eremita si isola dalla sua società appunto
per cambiare, lì dove cerca una relazione privilegiata con Colui che
incessantemente cerca e che nessuno ha mai visto, è scritto, ma comunque
gli è stato rivelato, e dunque attende di essere cambiato in e da
quella relazione.
Nel
romanzo Robinson Crusoe, scritto dall’inglese Daniel Defoe all’inizio
del Settecento, ci viene presentata l’esperienza di un naufrago su un’isola
disabitata. Egli, raccogliendo cose scampate dal naufragio e costruendosi
abitudini quotidiane di vita cerca di mantenersi nella civiltà di origine, ma
recupera veramente la sua umanità solo quando gli giunge un indigeno, che
libera da chi lo aveva fatto prigioniero per ucciderlo e mangiarlo (nella sua
società di origine si praticava il cannibalismo), ed entra in relazione con lui
assegnandogli anche un nuovo nome, Venerdì. Ecco il nucleo fondamentale
dalla società, che manifesta immediatamente la politica perché richiede
di essere governata. La governa Robinson, l’Europeo. Il contatto con il diverso
ha stabilito delle relazioni di potere. Uscendo dalla società dei nativi e
stabilendo una nuova relazione sociale con l’Europeo, e attraverso di lui con
la società degli Europei che Robinson sta cercando di mantenere sull’isola, Venerdì
ne
ricava un nuovo nome, ma anche una nuova identità sociale. Ma anche
Robinson, in fondo, ne esce cambiato. E’ un’esperienza comune nei grandi
racconti di viaggio, reali o immaginari: la ritroviamo, ad esempio, nel
racconto di Marco Polo, il veneziano che nel Duecento raggiunse la Cina e vi
visse a lungo, divenendo anche un dignitario della corte dell’imperatore che
all’epoca dominava quella società.
In
sostanza: dalla società in cui viviamo immersi e dalla sua politica, vale a dire da com’è costruita e governata,
ci viene riconosciuta la nostra dignità sociale, che quindi ne dipende.
Ecco perché non è la stessa cosa esservi solo sottomessi ad una
politica, ma anche parteciparvi.
Ma, mi si può obiettare, dal punto di vista
religioso riteniamo che la nostra
dignità di esseri umani preesista alla società e non dipenda veramente
da essa, secondo quanto fu scritto a fine Settecento dai rivoluzionari
nordamericani che proclamarono la loro Dichiarazione di indipendenza dalla
monarchia inglese:
«Noi teniamo per certo che queste verità
siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che
essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra
questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità. Che per
assicurare questi diritti sono istituiti tra gli uomini i Governi, che derivano
i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando una qualsiasi Forma
di Governo diventa distruttiva di questi fini, è Diritto del popolo di
alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo Governo, ponendo il suo
fondamento su questi principi e organizzando i suoi poteri in una forma tale
che sembri ad esso la più adeguata per garantire la sua sicurezza e la sua
felicità.»
Eppure, se quella nostra dignità non ci viene riconosciuta socialmente ci sentiamo infelici. Per
questo fu fatta quella rivoluzione: « è Diritto del popolo di alterarla o di
abolirla, e di istituire un nuovo Governo» Ecco perché nella nostra
Costituzione repubblicana, all’art.2, si
fa obbligo a tutti, questa è legge fondamentale della nostra società
politica, appunto, di riconoscere quella dignità.
Art. 2 della Costituzione.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale.
Di solito questa norma viene
presentata come diretta ai pubblici poteri, in primo luogo allo Stato, ma, in
realtà, è diretta a tutti coloro
che esercitano una forma di potere, pubblico o privato, e anche religioso.
Perché è in questione la Repubblica, quindi la convivenza sociale e
politica di tutti noi, che si vuole anche democratica, è scritto
nell’art.1 della Costituzione.
Dall’art.1 della Costituzione.
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
Nessun potere, nemmeno quello che
esercitiamo in famiglia e nelle altre realtà sociali di prossimità, e neanche
quello di una Chiesa, neppure quello di una Chiesa come la nostra che abbia
avuta riconosciuta una sovranità nelle cose sue, può ledere la dignità
della persona umana, che è caratterizzata da quel complesso di diritti
fondamentali che nella nostra Costituzione vengono definiti inviolabili. Questa
dignità è colpita tutte le volte che in società una persona viene costretta
solo a subire il potere altrui,
senza poter in alcun modo interagire, quindi
quando si è totalmente in
mani altrui.
Quest’idea, alla quale spesso
non prestiamo abbastanza attenzione, è piuttosto ostica nei nostri ambienti
religiosi, e in particolare nella nostra teologia e nella nostra pratica
religiosa. Abbiamo, in particolare, diverse preghiere usate nelle pratiche di
pietà dei laici che evocano una totale sottomissione non solo al
Creatore, ma anche alla Chiesa intesa come realtà sociale, e quindi anche come
sistema di potere costituito nella società religiosa in cui siamo stati
accettati. Sono specchio di una condizione laicale che, con i principi che
iniziarono ad essere accettati nelle leggi ecclesiastiche al tempo del Concilio
Vaticano 2°, ormai oltre cinquant’anni fa, si voleva cambiare, perché non solo
umiliante, ma anche controproducente per ciò che dal laico si pretende in
religione quanto ad azione sociale in
un contesto democratico.
Di fatto, ad esempio, vediamo,
che nella vita parrocchiale i laici contano ancora poco. Sono apprezzati se
fanno quello che gli si dice, ma non li si ritiene, in genere, capaci di
collaborare anche con la propria volontà, in processi democratici in cui possano
realmente influire sulle decisioni collettive. Ecco perché, in fondo, si
ritiene inutile insegnare la
democrazia negli ambienti religiosi, come una volta si riteneva inutile
istruire le donne.
Questa mancanza di istruzione
democratica, fa sì che poi la convivenza sociale ne risenta, nelle relazioni
interpersonali, nelle quali non ci si manifesta capaci di risolvere i
contrasti, venendo subito alle mani, metaforicamente e non, ma anche in altri aspetti della vita
religiosa, nella quale ci si sente poco considerati, posti nella condizione,
diciamo, di gregge, e alla quale quindi ci si disaffeziona, non solo
perché umiliante, ma anche perché inutile per interagire collettivamente in
società. Se possibile, infatti, si cerca di evitare le situazioni umilianti, e
una di quelle più umilianti è l’essere costretti a fare cose inutili. In
religione, invece, spesso l’umiliarsi è presentato come una virtù, ma una cosa
è farlo verso il Creatore, altra è farla verso qualsiasi autorità umana, anche
sacralizzata.
Da dove cominciare a provare se
ci si può organizzare in modo diverso? Direi di farlo passo dopo passo,
senza fretta od ambizioni eccessive, a cominciare dai piccoli gruppi e dalle
piccole cose, per prendere confidenza con un metodo, quello democratico, con
questa forma di convivenza sociale, verso le quali ancora il clero, e il potere religioso è
formalmente quasi tutto nelle sue mani, è piuttosto diffidente. Poi si può
provare ad estendere questa esperienza fin dove possibile, fin dove si arriva
allo scheletro autocratico del diritto canonico, e lì il processo sarà molto
più lungo e complicato ma in definitiva riguarda meno la nostra vita
quotidiana, fino ad esempio a tentare ciò che si è fatto altrove, vale a dire
un Sinodo parrocchiale nel quale
non ci si limiti a stare a rimorchio del clero, ma si sia creativi.
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71.9. Istituzioni e comunità
71.9.1. Un’istituzione sociale è
un’organizzazione che si vuole rendere stabile dandole regole che possano essere
cambiate solo con precise procedure e ottenendole il riconoscimento da parte
delle altre istituzioni, in un sistema di relazioni ordinato secondo
altre regole, per il quale alcune istituzioni sono tra loro pari
ordinate, alcune subordinate ed altre sovraordinate ad altre.
L’istituzione è stata una
conquista culturale molto antica dell’umanità: essa, ci dicono gli antropologi,
risale addirittura a tempi preistorici, quindi a quando ancora non ci si
tramandava il ricordo del succedersi degli eventi sociali. Essa è strettamente
collegata all’esercizio di poteri sociali, dalle cui relazioni emergono le
regole di convivenza pubblica, che è quella non limitata agli
ambienti familiari e amicali.
Attraverso le istituzioni
i poteri sociali diventano stabili e si perpetuano, addirittura di generazione
in generazione.
Il potere politico, vale a dire
quello che riguarda il governo delle società, e la proprietà, quel complesso di
poteri che le persone esercitano sulle cose, ma che storicamente è stato
imposto anche sugli esseri umani, sono i principali moventi per la creazione di
istituzioni sociali.
Nelle narrazioni
evangeliche ci si accorge presto che, nella vita delle prime comunità di
seguaci del Maestro, l’istituzione non è presente, e questo anche se, per
ragioni essenzialmente ideologiche, di legittimazione dell’esercizio di poteri
religiosi si cerca in quella prima esperienza di vita di fede un accredito per
istituzioni che furono di molto successive.
Una delle ragioni della
mancata istituzionalizzazione religiosa nei primi tempi può essere vista nella
mancanza di esigenze propriamente politiche e di problemi relativi alla
proprietà. Verso la politica dell’epoca, si praticava un blando anarchismo e si
cercava più che altro di marcare i confini tra la sfera pubblica, che è il
campo della politica, e quello interpersonale, che fu lo spazio privilegiato
per la prima diffusione della buona novella.
Hannah Arendt, in uno dei
saggi raccolti nel libro Che cosa è la politica, pubblicato postumo
nel 1993 e attualmente disponibile in commercio (anche in e-book) edito da
Einaudi [si tratta di un testo di difficile lettura che richiede come minimo il
livello di conoscenze che si raggiunge nell’ultimo anno delle scuole
superiori], cita una frase dello scrittore cristiano Tertulliano,
vissuto nel 2° secolo, il quale esercitò una grande influenza nella formazione
della prima teologia cristiana: «Niente è più estraneo a noi cristiani
della cosa pubblica» [dal trattato Apologetium,
38]. Arendt sostiene che le prime tendenze antipolitiche del
cristianesimo si devono al fatto che all’origine fu centrato su ciò
che è essenziale per la convivenza umana nelle relazioni interpersonali.
71.9.2. Sappiamo però che, già alla fine del
1° secolo della nostra era, le nostre comunità di fede presero a
istituzionalizzarsi, a organizzarsi in istituzioni sociali, come emerge ad
esempio nel pensiero di Clemente Roma, al quale è intitolata la nostra
parrocchia, vescovo di Roma vissuto nel 1° secolo, da quello di Eusebio di
Cesarea, vescovo di Cesarea in Palestina vissuto nel Quarto secolo, molto
ascoltato dall’imperatore Costantino, e da quello di Gelasio,
vescovo di Roma vissuto nel Quinto secolo, e, soprattutto, da Agostino vescovo
di Ippona, nell’attuale Algeria, uno dei maggiori teologi della
cristianità di tutti i tempi, vissuto tra il Quarto e il Quinto
secolo.
Quella
istituzionalizzazione delle Chiese cristiane fu una delle più importanti delle
loro molte metamorfosi rispetto alle comunità delle origini. Una volta
istituzionalizzate, in particolare intorno ad episcopati monarchici, esse
presso ad entrate in relazione con le istituzioni politiche del loro tempo,
divenendo anch’esse tali.
L’istituzionalizzazione
specificamente politica delle nostre Chiese fu un fatto decisivo nella
conquista dei popoli al cristianesimo, nella sua nuova versione
istituzionalizzata, quando la pressione per la conversione venne sorretta anche
dalla coercizione politica, e quindi anche dalla violenza politica. In questo
contesto di istituzionalizzazione della religione, acquistò sempre più
rilevanza il clero, costruito come classe sacerdotale, secondo una teologia che
prendeva liberamente spunto dai modelli sacerdotali israelitici presenti nelle
Scritture. Ma la acquistarono anche gli ordini religiosi monastici, e
successivamente altri tipi di ordini religiosi, nei cui ambiti si rivivevano,
ma in spazi ben delimitati dalle loro istituzioni, interni ad
esse, le esperienze di libertà evangelica delle origini, quindi anche di
separazione dalla politica. Clero e religiosi, istituzionalizzandosi, presero
ad esercitare poteri propriamente politici sul resto della società,
ma anche ad accumulare proprietà. La Chiesa cattolica è accreditata oggi per
essere uno dei maggiori proprietari di immobili in Italia e vi possiede,
addirittura, una istituzione organizzata come uno stato, la Città del Vaticano
a Roma.
Sia la politica che le
proprietà vennero considerate strumenti essenziali per sostenere
l’evangelizzazione dei popoli. Questa è la situazione nella quale ai tempi
nostri ancora ci troviamo, anche se, negli anni ’60 del Novecento, prese corpo
quel movimento di riforma religiosa volto a recuperare l’esperienza di comunità
amicale delle origine, secondo una nuova teologia del “Popolo di Dio”,
che assimila anche elementi dei principi democratici contemporanei. La riforma
venne deliberata, infine, durante il Concilio Vaticano 2°, svoltosi a Roma tra
il 1962 e il 1965, ma in gran parte attende ancora di essere attuata, in
particolare per quanto la posizione dei laici cattolici, tuttora piuttosto
marginale e umiliante.
Tra quella teologia
comunitaria e la teologia e la dottrina delle istituzioni religiose
si è conseguentemente creata una certa tensione, che si manifesta
anche in una realtà sociale di base come la parrocchia. Infatti, una volta che
si riusciti a radunare una comunità viva, le regole delle
istituzioni, tramandate addirittura da secoli, sono sentite come troppo
coercitive e, soprattutto, poco rispettose della dignità delle persone che si
sono incontrate comunitariamente, in quanto pretendono sottomissione a poteri
autocratici e fondamentalmente insindacabili. D’altra parte, istituzioni
religiose che tengano conto solo delle loro regole di organizzazione, con il
principale obiettivo di perpetuarsi mantenendo certi poteri politici e sociale
e la disponibilità delle loro proprietà, senza avere in sé comunità vive, e
cioè attive e creative, perdono rapidamente attrattiva sociale, e, dove non
possano più valersi della coercizione politica e della pressione ambientale al
conformismo perbenistico per mantenere la loro presa sociale, perdono senso,
rimanendo solo vuote burocrazie.
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71.310.
Radicare la democrazia nelle istituzioni a partire da tirocini democratici nelle realtà di base.
Quando si cerca di spiegare di democrazia si parte in genere dalle
regole, perché la si vede essenzialmente come uno dei metodi per fare ordine nella società e, per questo, come molto legata
alle sue istituzioni. La democrazia, quindi, come adesione ad un sistema di regole vissute
come norme di buona creanza sociale, ma alla cui creazione non si è collaborato. Un po’ come le convenzioni
della lingua parlata e scritta e quelle sul modo di vestire. E le istituzioni
come presidio di quelle regole, in una sorta di polizia sociale.
Certo, anche la democrazia esprime istituzioni e quindi ha le sue
regole, ma esse non ne sono la caratteristica principale e la sua ragion
d’essere. Anche altri regimi politici non democratici hanno istituzioni e
regole e, con esse, si propongono di mantenere un ordine sociale, quindi,
fondamentalmente, di stabilizzare un ceto assetto di potere sociale, secondo il
quale c’è chi domina e chi è dominato e chi domina vive meglio. In democrazia,
invece, ci si propone di assecondare i moti sociali che pongono in conflitto i
gruppi che compongono le società, consentendo il cambiamento sociale, e quindi
anche di regole e istituzioni, senza che le dinamiche di conflitto distruggano
le società o generino infelicità sociale nei processi di dissoluzione o di
repressione. Il suo metodo politico è quello della limitazione di ogni potere
mediante la pressione della partecipazione popolare attiva mediante dialogo
sociale e persuasione personale. Il principio fondante della democrazia è che
nessuno potere sociale sia illimitato: questo fa spazio per la partecipazione.
Proprio perché ci si propone di assecondare il movimento sociale che deriva dal
mutare fisiologico delle società, la democrazia è tenuta programmaticamente in
una condizione di instabilità controllata. Proprio quella che i regimi non
democratici temono.
La
nostra dottrina sociale è ancora
piuttosto affascinata dall’idea che, a livello mondiale, ci debba essere, e
vada quindi istituita, un’autorità superiore che metta
ordine nel mondo e lo mantenga,
mettendo in tal modo fine ai confitti sociali. E’ il modo in cui si ripropone
il modello medievale dell’impero
religioso. In questa concezione il governo della società è essenzialmente
affare di istituzioni, che si vorrebbero coordinate tra loro in modo che ce ne sia una al vertice alla quale
sia riconosciuto il massimo potere e che quindi spenga i conflitti. Fino al
magistero di papa Francesco, i Papi nella loro dottrina sociale in genere si
rivolsero, infatti, ai governanti, vale a dire alle persone che esercitavano
autorità politica nelle istituzioni di governo, dando loro dei precetti d’azione, che, al di là della loro formulazione come regole
solamente morali, avevano la natura
di direttive politiche, come quella, che ricorre spesso dagli anni ’40 del
secolo scorso, di porre fine alle guerre. Questo accade perché la teologia
della dottrina sociale in materia di democrazia è veramente poco sviluppata,
anche nel magistero di papa Francesco, e questo sebbene, in esso, abbia un
posto molto rilevante l’idea di popolo.
In realtà la democrazia è essenzialmente cosa che riguarda coloro che, nella
concezione politica che distingue governanti
e governati, sono indicati
come i governati. È infatti un metodo che li vuole elevare alla partecipazione
al governo della società senza mai farne dei governanti, vale a dire dei monopolisti del potere politico
mediante il controllo delle istituzioni. Quindi vuole abolire la distinzione
tra governanti e governati. La partecipazione democratica
al governo, in quanto pluralistica e programmaticamente nonviolenta, può avvenire solo nel dialogo, nel quale ai partecipanti sia riconosciuta la medesimo dignità politica e sociale: questa è la politica secondo la concezione democratica. E’ molto
chiaro che la nostra Chiesa è ancora strutturata, invece, secondo il modello governanti / governati e quindi quando
superficialmente, alle proposte dei cristiani persuasi della democrazia, si
sbotta “Ma la Chiesa non è una democrazia”,
si dice una cosa vera. Ma se poi si vuole anche intendere che la Chiesa non potrà essere mai una
democrazia, perché le è connaturata l’autocrazia secondo la quale è stata organizzata fin dall’alto Medioevo, e
la religione svanirebbe con una diversa organizzazione, si dice una cosa senza
fondamento, perché, non solo, dal punto di vista concettuale, la Chiesa potrebbe senz’altro assimilare i
processi democratici senza alcun danno per l’essenziale della fede, anzi con
molti vantaggi per essa, ma dall’esperienza storica di altre Chiese cristiane
emerge che la democrazia può effettivamente essere realizzata anche in
religione. La profonda diffidenza delle istituzioni religiose cattoliche,
quindi dei nostri governanti religiosi, vale a dire della gerarchia religiosa cattolica, verso i processi
democratici, comporta che la formazione religiosa non comprende ancora, se non
per il ceto intellettuale, una formazione ai processi democratici e, anche dove
si fa, con la prescrizione di agire democraticamente solo fuori della Chiesa, pena il
disconoscimento e l’emarginazione. Questo è stato finora il destino di chi ha
cercato di agire e pensare diversamente.
La nostra Chiesa è fondamentalmente ancora organizzata come un’autocrazia sacrale che umilia i governati. E questa umiliazione, vista
come manifestazione di obbedienza filiale,
di docilità, viene addirittura
presentata come una virtù. Questo effettivamente ostacola i processi
democratici che richiedono, invece, una elevazione in dignità e la consapevolezza della propria
dignità sociale.
Ecco
che cosa la filosofa Hanna Arendt scrisse su questi temi [da uno dei saggi
raccolti nel libro Che cosa è la
politica, edito da Einaudi anche in e-book]:
«[…] Dietro i pregiudizi nei confronti della politica si celano la
paura che l’umanità possa autoeliminarsi
mediante la politica e gli strumenti di violenza di cui dispone , e, in
stretta connessione con tale paura, la speranza che l’umanità si ravveda e,
anziché se stessa, tolga di mezzo la politica, ricorrendo a un governo
universale che dissolva lo stato in una
macchina amministrativa, risolva i conflitti politici per via burocratica e
sostituisca gli eserciti con schiere di poliziotti. Certo tale speranza è del
tutto utopica se per politica si intende, come normalmente avviene una
relazione tra governanti e governati. In questa ottica, invece di una
abolizione del politico otterremmo una forma dispotica di governo di dimensioni
mostruose, in cui lo iato tra governanti e governati assumerebbe proporzioni
così gigantesche da impedire qualunque
ribellione, e tanto più qualunque forma
di controllo dei governanti da parte dei governati. Tale carattere dispotico
non cambierebbe neppure qualora in quel regime mondiale non si potesse più
individuare una persona, un despota; infatti il dominio burocratico, il dominio
mediante l’anonimità degli uffici, non è meno dispotico perché “nessuno” lo
esercita; al contrario: è ancora più terribile, perché nessuno può parare o
presentare reclamo a quel Nessuno. Se però per politico si intende una sfera
del mondo dove gli uomini si presentano
primariamente come soggetti attivi, e dove conferiscono alle umane faccende una
stabilità che altrimenti non le riguarderebbe, la speranza appare tutt’altro che
utopica. L’eliminazione degil uomini in
quanto soggetti attivi è riuscita spesso nella storia, sebbene non a livello
mondiale: sia sotto forma di quella tirannide
che oggi ci sembra antiquata, dove la volontà di un uomo pretendeva
totale libertà di azione, sia sotto forma del moderno totalitarismo, dove si
vorrebbe liberare la presunta superiorità
dei processi e delle “energie storiche” impersonali e sottomettervi gli
uomini.»
Data
l’importanza politica che la nostra Chiesa ha sempre avuto nelle questioni
italiane, tutto ciò ha inciso molto negativamente nell’acculturazione
democratica della nostra gente, in particolare a partire dal durissimo
contrasto del Papato, nell’Ottocento, contro l’irredentismo italiano durante il
nostro Risorgimento. Tra pochi giorni ricorre il centocinquantesimo
anniversario della soppressione, mediante conquista militare cruenta, con
decine di morti da ambo le parti, dello
Stato Pontificio da parte del Regno d’Italia, il 20 Settembre 1870. Una istituzione ormai obsoleta, quel regno del
Papato nel Centro Italia, rifiutava ostinatamente di evolvere, e, anche in quel
caso, come sempre quando si affrontano temi simili, fu questione di potere
politico e di proprietà, non di religione (tra i precetti evangelici, quello di
costituire un regno territoriale religioso in Italia - o altrove - non
c’è). Ma la tragedia più grande non fu quella, quanto invece la susseguente
decisione del Papa all’epoca regnante, Giovanni Battista Mastai Ferretti - Pio
9°, nel 2000 proclamato beato, di
ordinare ai cattolici, sotto pena di scomunica, di non partecipare alla
democrazia nazionale nel Regno d’Italia, e questo per sostenere le
rivendicazioni territoriali del Papato su Roma. E, in effetti, il governo
nazionale del Regno d’Italia, quello che aveva deciso la conquista del regno
pontificio, era espresso da una democrazia liberale, anche se escludeva ancora
le donne, gli incolti, i meno abbienti. La democrazia e il liberalismo, che della democrazia aveva posto i fondamenti
culturali, erano temuti dal Papato come fonte di insubordinazione, di usurpazione di poteri sacralizzati e di predazione dei patrimoni delle
istituzioni religiose. Contro di essi si cercò di far insorgere il popolo italiano nel presupposto che fosse rimasto
nonostante tutto nella condizione di gregge sottomesso all’autocrazia sacrale del Papato.
Questo sostanzialmente l’ordine di idee sotteso anche alla prima dottrina sociale, in dura polemica
politica con il liberalismo e il socialismo (il movimento che intendeva
promuovere l’elevazione sociale del proletariato
- proprio così definito nell’enciclica Le
novità, del 1891, del papa Leone
13°- Vincenzo Gioacchino Pecci). In
realtà i processi democratici che da fine Ottocento coinvolsero anche il laicato
cattolico portarono poi, in un lungo e travagliato processo nel quale l’Azione
Cattolica fu protagonista, a ridefinirne il senso, appunto in direzione dei
principi democratici. Questo consentì poi ai cattolici democratici italiani di
avere un ruolo assolutamente di primo piano nella costruzione della nuova
Repubblica democratica, dopo la vittoria sul fascismo mussoliniano, e poi nel governo nazionale fino al 1994. Ciò
però fu possibile solo quando, dal 1939, il Papato richiese il superamento del
fascismo mediante processi democratici, con una serie di radiomessaggi che
costituirono la nuova base ideologica in particolare per i gruppi intellettuali
in Azione Cattolica. Quindi, in fondo,
l’emancipazione politica dall’autocrazia religiosa è ancora da
conquistare. Finché non ci sarà dal Papato un via libera per costruire,
all’interno del pensiero sociale cattolica, una sezione sulla democrazia che
trovi base anche in una teologia sulla
democrazia (la dottrina sociale è considerata una branca della teologia), è
poco probabile che accada qualcosa di nuovo e che quindi si inneschino processi
di reale riforma.
Questo non toglie che si possa cominciare dalla base, nelle realtà di
prossimità come le parrocchie, da un
tirocinio pratico di democrazia, negli spazi (pochi), lasciati
liberi, per acquisirne dimestichezza e imparare come fare, e anche per convincersi che funziona. Questo tirocinio potrebbe poi essere progressivamente
esteso, tenendo conto che, come in genere si scrive, la democrazia è in crisi un
po’ in tutti i settori della società, anche in quelli che la praticavano, e, in
questa condizione, assumono un rilievo preponderante le istituzioni, però sempre meno collegate a una vita democratica diffusa e quindi sentite sempre più distanti e
indifferenti, e quindi avviate verso una sorta di tirannia istituzionale, in
quella che recentemente si è denominata, con una certa ironia, democratura, vale a dire un sistema
sostanzialmente di dittatura ma formalmente ancora democratico.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro - Valli
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte
Sacro, Valli
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◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊di Mario Ardigò per l’A.C. in San
Clemente papa - Roma◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊