Venerdì
Santo
La
tradizione narra che il Maestro fu giustiziato con il supplizio della crocefissione
il giorno prima del Sabato dei giudei, a Gerusalemme sotto dominazione romana, negli
anni Trenta del Primo secolo, quand’era imperatore Tiberio Giulio Cesare, della
dinastia giulio-claudia. La sua esecuzione fu preceduta da processi dinanzi
alle autorità giudaiche, al Tetrarca di Galilea Erode Antipa che si
trovava nella città e al Procuratore romano Ponzio Pilato, governatore della
Giudea, che infine la ordinò. Le liturgie cattoliche del Venerdì Santo fanno
memoria di quegli eventi.
Si svolge una Celebrazione della Passione
del Signore, con un altare interamente spoglio: senza croce, senza
candelieri e senza tovaglie. Si legge un lungo brano evangelico
tratto dal Vangelo secondo Giovanni, dal capitolo 18, versetto 1, al capitolo 19,
versetto 42, con la narrazione di quella storia. Poi si adora la Croce che
viene portata in processione. Al termine
della liturgia, sull’altare rimangono solo la Croce e due candelieri.
Si ricordano fatti piuttosto comuni nella
storia dell’umanità. Si narra di quando ne fu vittima il Maestro, ma in seguito
anche gli stessi cristiani ne furono protagonisti come giudici ed esecutori dei
supplizi. Si tratta di una narrazione che ci è giunta rivestita di significati teologici,
che nei secoli vennero ulteriormente ampliati. Ogni epoca vi ha visto qualcosa
di nuovo. Oggi si è portati anche a vedervi ritratta un’umanità che ha perso la
sua speranza. Ed in effetti, come risulta dalle narrazioni evangeliche, sembra
proprio che così fu nella cerchia dei primi discepoli.
Naturalmente,
celebrando quella liturgia si sa già che nel terzo giorno sarà Pasqua, ma, per
chi vive intensamente la spiritualità del Venerdì santo, non manca di drammaticità.
Perché
il timore di essersi ingannati c’è, quando ciò che accade smentisce le nostre
aspettative. E non possiamo essere rassicurati più di tanto dall’esterno.
Dobbiamo fare appello a nostre risorse interiori.
Anche
dopo la Pentecoste tra i primi cristiani dubbi serpeggiavano, come dimostra una
accorata lettera che Paolo scrisse alla comunità di Corinto, in Grecia, negli
anni Cinquanta del Primo secolo.
Per
l’antico giudaismo la propria vita dopo
la morte non era una questione centrale e mi pare di capire che non lo sia
nemmeno per gli ebrei nostri contemporanei. Per i cristiani lo divenne. All’inizio
ci fu la fede nella Resurrezione del Maestro. Poi ci si attese la sua imminente
venuta nella gloria, dal Cielo: che insomma, il mondo finisse da lì a poco. Passando gli anni senza
che ciò accadesse si dovette sviluppare una teologia dell’attesa più
complessa, che troviamo esposta negli scritti attribuiti a Paolo. Ma certo non
vediamo chiaro nell’aldilà. Dunque, speriamo che la morte non sia l’ultima parola su di
noi, come tutto invece sembrerebbe indicare.
Nei secoli
le attese sul dopo divennero
preponderanti. Il timore della pena eterna, il desiderio dell’intimità con il
divino. Ma su questo non si poté che dar corso all’immaginazione, perché,
appunto, ne sappiamo poco.
Quando
cominciai a leggere la Divina Commedia, alla scuola media, riuscii a conservare
la fede solo perché mi rassicuravano che quello che vi si narrava era solo l’immaginazione
del poeta per rivestire le sue concezioni politiche sul mondo del suo tempo.
A
volte, tra il serio e il faceto come si
dice, me ne sono uscito esprimendo lo sconcerto di potermi trovare in un aldilà
pensato da altre religioni.
Ma,
in definitiva, non ho mai trovato molta utilità nel pensare a quello.
La vita
religiosa mi è sempre servita per cercare
di vivere in un modo più degno. E nel
farlo mi sono disfatto senza rimpianto dei modi poco degni in cui venne vissuta
e praticata nella nostra tremenda storia.
Ho parlato di supplizi inflitti dai cristiani,
quando riuscirono a impadronirsi dei governi. Sotto questo punto di vista, il supplizio
della croce non è certamente il modo più atroce per essere tormentati e uccisi.
La cosa che in quel supplizio inflitto al Maestro ci ha tormentato maggiormente è l’aver ucciso un giusto, colui che ci voleva aprire una via di salvezza. Ora si immagina che morendo in quella maniera l’abbia fatto, vale a dire che ci abbia aperto una via. Questo significa che la sofferenza e la morte non ci saranno risparmiate, perchè quella è la via da percorrere dietro a lui. In un brano del Vangelo secondo Marco viene esposto l’ordine di idee con cui le persone cristiane le affrontano:
«E cominciò a insegnare loro che il Figlio
dell'uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei
sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva
questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a
rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò
Pietro e disse: "Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio,
ma secondo gli uomini".
Convocata
la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: "Se qualcuno vuol venire
dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché
chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita
per causa mia e del Vangelo, la salverà. Infatti quale vantaggio c'è che
un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? Che cosa
potrebbe dare un uomo in cambio della propria vita? Chi si vergognerà di
me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche
il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre
suo con gli angeli santi".» [dal Vangelo secondo Marco, capitolo 8, versetti da 31 a 38 - Mc 8, 31-38]
Qui di
solito si interpreta per vita quella che continuerà anche dopo la morte.
Ma penso che è già qui, in questo mondo,
che iniziamo a rovinarcela rifiutando il
vangelo
che la tradizione ha fatto giungere
fino a noi.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli