Narrazioni
sulla Resurrezione e coscienza. La realtà trasfigurata ci è necessaria
1.
Sintesi della conferenza del mons. Mariano Crociata, vescovo di Latina e
presidente della Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità
Europea – COMECE, sul tema “Cultura della Resurrezione e resurrezione della
cultura”, tenuta nell’incontro su piattaforma
Zoom del MEIC Lazio del 13-4-23, dalle ore 18:30
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Sintesi di Mario
Ardigò – non rivista dal conferenziere
Un
problema reale: cultura e Resurrezione sembrano termini estranei
l’uno all’altro.
Parlando di Resurrezione ci riferiamo ad un determinato,
importante, articolo della fede e ad un evento che seguì la morte di Gesù.
Cultura
è l’insieme delle cognizioni intellettuali che costituiscono elemento della
personalità, ma anche l’insieme della conoscenze, valori, credenze, modelli di
comportamento e attività materiali che caratterizzano un gruppo sociale.
I
gruppi cristiani condividono la fede nella Resurrezione. E tuttavia la
condivisione culturale su questo tema anche tra i cristiani è scarsa.
La fede nella Resurrezione dovrebbe essere il
tratto distintivo del cristianesimo rispetto ad altre forme di religiosità.
Ci
sono anche implicazioni etiche.
Nel
nostro immaginario religioso la Resurrezione ha un posto scarso.
La
Resurrezione è difficile da comprendere e svolge un ruolo marginale nella
pratica e nell’immaginario religiosi. Secondo la gerarchia della verità non dovrebbe
essere così.
Tuttavia è un’impostazione consolidata.
La celebrazione
del Natale ha assunto maggiore importanza. Nella Pasqua si sottolinea
maggiormente la Passione, ci si concentra sulla esaltazione e contemplazione
del dolore di Cristo.
Certe
devozioni, espressione di pietà popolare, sono importanti. Tuttavia il processo
di secolarizzazione colpisce anche la pietà popolare con una deriva
folkloristica.
La
Resurrezione è centrale nella Pasqua, ma non ha conseguenze nella pratica dei
cattolici.
La
Resurrezione ha però efficacia strutturante. E’ l’incontro con il Risorto a
suscitare una generazione di credenti. Lo argomentano gli scritti paolini.
Tutto
sta o cade nella Resurrezione di Gesù.
Ci
vuole un processo di ripensamento per ridare centralità alla Resurrezione. Si
deve attualizzare l’esperienza degli apostoli e delle donne al sepolcro di
incontro con il Risorto.
Anche per i contemporanei di Gesù quegli
incontri non ebbero tuttavia l’evidenza che noi immaginiamo.
In
tutti i racconti di apparizione riscontriamo un processo che solo alla fine
porta a riconoscere il Risorto.
E’
Gesù che apre gli occhi a coloro a cui va incontro.
Ogni
volta è un incontro personale e insostituibile.
Così
è anche per noi. Abbiamo ancora bisogno di incontrare personalmente il Risorto.
Senza questo, non c’è vita di fede.
Tutto, la nostra vita e il mondo
intorno, deve essere riconsiderato a partire dalla Resurrezione. Dobbiamo
lasciarci incontrare da Gesù Risorto.
E’
necessaria anche la nostra collaborazione. Ci vuole una corrispondenza
personale. Un atto che si attiva nel momento dell’incontro, quando si è
raggiunti dallo sguardo del Risorto.
Occorre
distinguere tra incrociare e incontrare,
tra vedere e guardare. Vediamo
tante cose e tante persone che incrociamo. Solo ciò che si fissa nel
nostro sguardo entra in comunicazione con il nostro mondo interiore, e allora
si può palare di incontro. Vale anche per il Signore Risorto.
Questa è cultura della Resurrezione.
Dall’incontro si genere una cultura della Resurrezione, che corrisponde
all’esperienza personale e sociale. Rianima l’umano.
Se
la cultura ambientale si estenua, anche il senso della Resurrezione tende a
smarrirsi. Occorre reagire.
La
fede deve essere calata nella contemporaneità a partire dalla Resurrezione.
Così
fecero i primi cristiani.
Non si
trattò più di una cultura nazionale, ma di fede nel Risorto, una fede che riconosceva
la sua presenza nella vita dei credenti e nella storia, piena di contraddizioni
ma che permetteva speranza e salvezza.
Anche
noi abbiamo bisogno di questo sguardo di fede.
Questo
dovrebbe distinguere i veri credenti: la capacità di non fermarsi ai segni di
morte che affollano la vita dei singoli e della società.
La
Resurrezione è fonte di bene e di amore che consente l’esperienza sempre nuova
del Vivente nella vita personale e sociale.
I
nostri ambienti sono permeati da pessimismo, portati a ritenere inesorabile la
regressione del cristianesimo, che non è regressione di Cristo. Noi a quella
regressione contribuiamo con il nostro pessimismo.
C’è
una tendenza alla delegittimazione dell’Occidente. Generalizziamo giudizi
negativi sull’Occidente. Non possiamo accettarlo, anche sebcerti comportamenti
anche dei cristiani meritano condanna. Non si deve svuotare l’annuncio della
salvezza di Cristo anche per questo tempo.
Non
possiamo vergognarci di Cristo Risorto.
Dio e
Cristo non hanno bisogno di essere difesi da noi, ma non rinunceremo ad
annunciare la bellezza di Cristo Risorto.
Tre
compiti.
Un
primo compito: contribuire ad una riflessione teologica e pastorale che apra a
un ripensamento che metta al centro il Cristo Risorto e Vivente (sull’esempio
dell’Evangelii Gaudium di papa Francesco).
Occorre diffondere un sentire basato sulla speranza.
Un
secondo compito: l’impegno culturale volto a leggere i tempi alla ricerca di
tendenze capaci di far risuonare l’organismo cristiano. Guardare ciò che si
muove sotto la superficie degli eventi, convinti che il Risorto non è estraneo
a ciò che travaglia il cuore umano e i popoli. La cultura deve essere rianimata
dalla potenza della Resurrezione.
Infine: ciò che insegna il magistero di papa Francesco, nella Laudato
si’ e nella Fratelli Tutti. Prendersi cura gli uni degli
altri e del bisogno di pace. Non un ottimismo di maniera. Ma uno sguardo
allargato da quello del Risorto. Un annuncio di pace: il Risorto è all’opera.
Il Risorto vuole donarci un mondo di pace.
Mie
considerazioni
2. La narrazione della
Resurrezione è un appello ancora attuale alla nostra coscienza, sia quella
personale sia quella collettiva che condividiamo nella cultura di riferimento.
In questa prospettiva, dal punto di vista
dell'antropologia la narrazione della Resurrezione è un mito. La cultura degli
esseri umani procede per miti: narrazioni che danno senso all’esistenza personale
e sociale.
Ancora
negli anni Cinquanta del Primo secolo la fede nella Resurrezione non era
condivisa in tutte le prime comunità cristiane, come risulta dalla polemica di
Paolo con i Corinzi. Ad esso fu collegato il mito diverso della resurrezione
personale alla fine dei tempi. L'uno e l'altro acquisirono sempre maggiore
importanza nella costruzione della teologia del Cristo-Figlio-Persona della
Trinità, che (relativamente) si consolidò in un travagliato processo tra il
Quarto e il Settimo secolo. Si tratta di un mito "puro", vale a dire
senza alcun riscontro nell'esperienza, e per questo motivo nella totale
disponibilità della forza sociale che lo allestisce e promuove. Questi
tipi di miti sono stati e sono ancora strumenti di potere.
Le folle che si accalcavano intorno al
Maestro non venivano però attratte da quel mito e neppure il composito gruppo
di uomini e donne che lo seguiva nel suo peregrinare per la Palestina e oltre.
Il Maestro era ancora tra noi come uomo tra la gente. Per le folle era un
guaritore, per gli altri il Messia nel senso in cui lo si intendeva nel
giudaismo dell'epoca, che non lo divinizzava. Dai racconti evangelici mi
pare di capire però che il Maestro non fece della sua attività di taumaturgo il
centro della sua missione, e certamente non volle essere Messia come lo si
attendeva tra la sua gente. Lasciandoci, ci comandò l'agàpe, disse che
quella sola cosa ci comandava, e ci disse di andare fino agli estremi confini
per insegnarla.
Anche
l'agàpe nel senso evangelico è un mito, ma può avere una conferma
esperienziale, non è quindi un mito puro: la possiamo creare, talvolta, tra
noi, anche ora, dovunque. Ha al suo centro l'idea dell'autorità come
servizio e quindi difficilmente quel mito può essere strumentalizzato a fini di
potere. È un mito che costantemente si rigenera nel tempo e nell'evoluzione
sociale, e quindi anche si trasforma.
L'Unione
Europea è fondata su un complesso di valori che sono sostanzialmente
un'interpretazione di quel mito. È infatti opera principalmente dei
cristianesimi democratici espresso da varie confessioni cristiane in reazione
ai fascismi europei che si erano affermati a partire dagli anni Venti del
Novecento.
Detto ciò, è molto evidente perché il
mito dell'agàpe abbia avuto, e tuttora abbia, maggiore presa sociale di quello
della Resurrezione. E perché accada all'opposto nelle idee della gerarchia. Il
mito dell'agàpe è democratico, nel senso che, per definizione, non può essere
segregato da una qualche gerarchia. Tutti vi possono prendere parte e
interpretarlo.
Lo svanire dei cristianesimi nell'Europa
occidentale dipende fondamentalmente da trasformazioni sociali (richiamo le
ricerche esposte nel libro del prof. Roberto Cipriani L’incerta fede: un’indagine
quanti-qualitativa in Italia, Franco Angeli 2020) che si sono trovare la
strada sbarrata sulla via del reinterpretare i miti agapici per il fatto che,
così facendo, mettevano a rischio le
obsolete strutture ecclesiastiche delle Chiese del Continente (tutte, non solo la cattolica).
Se si accetta questo ordine di idee, la
rigenerazione mediante una revisione della spiritualità della Resurrezione non
mi pare possa produrre granché, se non
si cerca di risolvere i problemi di convivenza con riconoscimento reciproco di
dignità personale, di partecipazione effettiva alla società ecclesiale e di
revisione della modalità di esercizio dei poteri ecclesiastici che è al fondo
della crisi.
Sul piano dei valori, e in specie di
ricostruzione della convivenza civile secondo il principio speranza (espressione
tratta da un’opera del filosofo Ernst Bloch, il cui pensiero ebbe influssi
significativi sulla teologia del secolo scorso), la giurisprudenza dei giudici
europei ha da decenni surclassato sotto diversi aspetti la teologia dei maestri
ecclesiastici, ma a quella giurisprudenza i cristianesimi, e quindi anche
quella teologia, a ben vedere non sono
estranei.
3. Religioni e teologie fanno appello alla coscienza.
Le
scienze cognitive ce ne stanno dando un’immagine diversa da quella alla quale
eravamo abituati.
Ne
tratta un’opera divulgativa dello scienziato Anil Seth, docente di neuroscienze
cognitive e computazionali presso l’università inglese del Sussex: Come il
cervello crea la nostra coscienza, Raffaello Cortina 2023, anche in e-book
e Kindle.
Il tema
è divenuto di grande interesse pubblico da quando gli utenti del WEB sono stati
messi in condizione di interloquire direttamente con nuovi sistemi di
intelligenze artificiali basati su reti che imitano le reti neurali del nostro
organismo e che si sta cercando di addestrare
a parlare con le persone. Facendolo si ha l’impressione di parlare con un’altra
persona in carne e ossa, come si dice. E’ veramente così?
In realtà quella è una sensazione che possiamo ricavare anche da esperienze completamente interiori. E’ ciò che, in fondo, accade nella preghiera religiosa.
Come
sta accadendo nel funzionamento dei sistemi evoluti di intelligenza artificiale, anche noi abbiamo difficoltà a distinguere la realtà come la percepiamo e le nostre produzioni mentali (per Seth non c'è differenza). Su questo
sostanzialmente si basa la forza dei miti, che sono fattori di coesione sociale
essenziali: senza miti, insomma, non esistono le nostre società.
Seth,
sulla base di studi, esperimenti e teorie degli italiani Giulio Tononi e
Marcello Massimini, espone una spiegazione del perché ciò accade.
Siamo organismi
che, mediante il sistema nervoso e la sua interazione con gli altri sistemi del
nostro corpo, generano la mente, le cui dinamiche, producendo predizioni
che organizzano le percezioni basate sulle sensazioni, generano anche la coscienza.
Seth ha
sintetizzato questo idee in un’intervista a Jaime D’Alessandro pubblicata su La
Repubblica di oggi, 15 aprile 2023.
«Prima
di parlare di coscienza bisogna partire dalle percezioni. Tutto nasce da come
siamo fatti. Per quanto possa sembrare che i sensi siano una finestra sulla
realtà e la percezione un processo di lettura dei dati, quello che accade è
diverso. Le percezioni non vanno da fuori verso dentro, vanno da dentro a fuori»,
sostiene. Insomma la realtà, come la concepiamo, è una produzione della nostra mente.
Prosegue
Seth: «[…] quello di cui si fa esperienza è costruito a partire dalle percezioni
del cervello, ipotesi circa le cause dei segnali sensoriali. Il cervello le fa
costantemente e i segnali dei sensi servono a correggere gli errori. L’esperienza
percettiva è un’ipotesi e un’interpretazione». E fa l’esempio dei colori:
non esistono nella realtà, «sono solo un’illusione nata dalla lettura della
luce fatta dal nostro cervello. Li generiamo noi ed è una sistema di traduzione
molto utile. Un’allucinazione controllata, appunto».
I più evoluti sistemi di intelligenza
artificiale, strutturati sulla base di reti neurali, procedono dal fuori
verso dentro, quindi in senso inverso rispetto ai nostri processi mentali. Prevedono quale sarà il risultato finale analizzando su basi
statistiche enormi quantità di dati. «Noi però» dice Seth «per farlo
non abbiamo bisogno di leggere tutto quel che è stato scritto. La nostra mente
non arriva a fare quel che fa sulla base del numero di neuroni, bensì grazie
agli schemi di interazione fra di loro», in questo modo generando anche la
sensazione mentale del sé. Il sé, così, è «principalmente un insieme
di percezioni ed è una percezione allo stesso tempo. Quelle relative al nostro
corpo, al suo interagire con ciò che ci
circonda e con quanto avviene al suo interno. Segnali sui quali la mente fa le sue predizioni, come aveva intuito
David Hume [filosofo scozzese del Settecento], per poter controllare il
corpo. Questa è l’esperienza del sé. […] Le radici della coscienza, che
ancora non abbiamo individuato con precisione, sono nel com’è strutturato il nostro
corpo. Il sé e la coscienza nascono lì. Le continue predizioni che facciamo
percependo quel che ci circonda a un certo punto hanno portato al linguaggio e alla
voce interiore e la cosa è di grande interesse, ma non è l’origine».
Insomma, sbagliamo a raffigurarci la nostra mente come un computer e la
coscienza come un processo legato alle informazioni. E le abilità espresse dai
più evoluti sistemi di intelligenza artificiale non sono equiparabili alla nostra
coscienza, al senso del sé, perché quei sistemi non sono (ancora)
organismi. Tuttavia questo potrebbe non essere poi tanto lusinghiero per noi.
Siamo
organismi come gli altri organismi viventi, come lo sono anche gli alberi e i
funghi. L’idea di un eccezionalismo umano, osserva Seth, è un’illusione.
E la
parola, allora? Non è quella il centro della nostra coscienza?
«[…] la narrazione è sicuramente una parte importante
del come ci rappresentiamo in quanto individui o società e per descrivere i
meccanismi del nostro modo di comprendere il mondo» risponde Seth, ma «[…] la
narrazione, parte della nostra coscienza, non è un elemento necessario. Il suo
ruolo è sovrastimato […] Ci sono persone che non hanno la capacità di
parlare né la voce interiore, eppure hanno una coscienza, come abbiamo constatato
grazie ai nuovi sistemi di analisi».
Applicando
queste idee ai fatti religiosi, che sono elementi culturali profondamente interiorizzati
dalle persone, possiamo dire che esse corrispondono a quanto sentiamo sulla nostra fede, vale a dire che essa nasca dentro
di noi. Quando parliamo di speranza non facciamo forse delle predizioni?
E non ci pare, nell’esperienza religiosa, che la realtà, quindi le percezioni
organizzate dalla nostra mente sulla base delle sensazioni corporee su ciò che ci circonda, venga talvolta trasfigurata?
Ma fino
a che punto la realtà trasfigurata può resistere alle correzioni basate sui
nostri segnali sensoriali, che, ad esempio, sono tutti nel senso che ciò che
definiamo come mente e coscienza non perdurano dopo il disfacimento del nostro organismo? E fino a che punto, invece,
la necessità interiore di dare senso alle percezioni riesce a mantenere nella
nostra mente e nella nostra coscienza
proprio quella trasfigurazione di ciò che siamo e di ciò in cui siamo immersi?
Non
abbiamo ancora individuato con precisione le radici della nostra coscienza,
ma ho l’impressione che le scienze cognitive vi siano molto vicine e che ciò
che potrebbero concludere forse non soddisferà a pieno la nostra autostima, il
nostro pensarci come viventi eccezionali.
Sarà
forse difficile accettarci come siamo, noi che a volte ci pensavamo come
sovra-umani, ma, in fondo, come insegna da sempre gran parte della spiritualità,
la via giusta è proprio quella di riuscirci, perché in questo modo possono diventare
realtà i nostri più grandi
aneliti, una vita sociale pacificata e solidale e che la morte non sia l’ultima
parola su di noi. La Trasfigurazione, la Resurrezione.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro Valli