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0.
INTRODUZIONE
1. Viviamo, come società italiana, tempi
impegnativi. Per ognuno lo è sempre la vita quotidiana. Si cambia, bisogna
farsi largo, bisogna sopravvivere, si cerca di durare il più a lungo possibile
e meglio che si può. Per ogni persona è così. Ma la riuscita degli sforzi
individuali dipende in larga misura da come è la società. Il benessere è sempre
un fatto collettivo. Innanzi tutto dipende dalle relazioni sociali. E poi certi
obiettivi, come la possibilità di vivere sicuri, di avere un’istruzione, di
avere una casa e un’alimentazione sufficiente, di poter svolgere un lavoro con
una retribuzione sufficiente, di essere aiutati nella nei periodi in cui non si
ha lavoro o non si può lavorare per malattia o vecchiaia, di potere fare sport,
musica e altre attività interessanti, anche di praticare una religione,
dipendono in gran parte da come è organizzata la società, a cominciare dalla
sua economia, in cui tanta parte hanno le iniziative collettive, di enti
pubblici e privati. Organizzare una società significa fare politica. Lo si può fare su grande e piccola scala. Non ci
sono solo gli stati, i comuni e via dicendo. Ognuno di noi, interagendo con gli
altri, fa politica, ad esempio nel palazzo dove abita,
nel quartiere, nel circolo che frequenta, nel gruppo sportivo, e anche in una
parrocchia. Ogni fatto collettivo influisce in maniera più o meno accentuata su
altri fatti collettivi e modifica la società intorno. Poi si cerca anche di
intervenire d’autorità, esercitando poteri pubblici, diramando ordini,
sentenziando, preparando programmi, stabilendo regole. Ma come verranno
accolti? Ogni società esprime una certa resistenza alle imposizioni. Per
vincerla c’è la strada della persuasione o quella della violenza. Si cerca di
fare in modo di scoraggiare la violenza
privata, ma allora si deve organizzare una certa misura di violenza pubblica.
Ma quando quest’ultima supera un certo livello, la società diventa infelice.
Accade anche quando non si riesce a limitare la violenza privata, ad esempio
quella delle bande criminali. Ma come persuadere più gente possibile? A questo
serve il dialogo politico, quello che
riguarda l’organizzazione della società. Perché sia efficace occorre però
fidarsi degli altri ed essere veramente convinti che insieme si possano trovare
e soprattutto attuare soluzioni più efficaci sia ai mali sociali, sia ai mali
privati che a quelli sociali sono tanto strettamente collegati. Per aver
fiducia gli uni negli altri occorre conoscersi. Meglio ci si conosce, più ci si
fida. Ma di chi? Se, conoscendo una persona, trovo che è cattiva, allora non
dovrei fidarmi di lei. Perché magari ora non è cattiva con me, ma solo con altri, ma
potrebbe venire il momento in cui lo sarà anche con me. Chi è cattivo, chi è
buono? Se lo chiedo, i miei interlocutori si trovano in imbarazzo a darmi una
risposta. In altre epoche si era meno indecisi. Ma ogni epoca ha avuto i suoi
criteri etici, per giudicare il buono e il cattivo. Nella nostra, appunto, si è
più indecisi. Però decidersi è importante. Ecco, l’Azione Cattolica, fu fondata
proprio per fare questo lavoro, politico in
senso ampio.
2. Di solito si
racconta le sue origini risalgono ad un gruppo di giovani bolognesi che si
costituì nel 1867. Si era in un’epoca molto impegnativa nella storia d’Italia.
Si sottolinea l’aspetto religioso dell’iniziativa, ma, in realtà, la politica
era il vero campo di impegno. Si stava completando l’unità nazionale. Il Regno
d’Italia, sotto la dinastia piemontese dei Savoia, era stato proclamato nel
1861. Mancava Roma e i nazionalisti di vario orientamento, i monarchici ma
anche i repubblicani di Giuseppe Mazzini (1805-1872), la volevano. A Roma e
dintorni c’era il Papa, che era anche il sovrano di un piccolo regno nell’Italia
centrale di allora, che dal 1860 si era ridotto più o meno al Lazio. Vi furono
quindi movimenti di laici cattolici che si organizzarono come forza sociale di
resistenza a difesa della monarchia pontificia. Nel 1870 lo Stato pontificio, il regno politico del
Papa, fu conquistato militarmente dal Regno d’Italia. In quel momento era in
corso a Roma un concilio ecumenico, il Concilio ecumenico Vaticano 1°. La città
fu assaltata; a cannonate si fece una breccia nelle mura della città, un
centinaio di metri a destra guardando Porta Pia. Ci furono combattimenti
sanguinosi con morti e feriti tra glie eserciti contrapposti, ma i pontifici si
arresero presto. L’anno seguente la capitale del Regno d’Italia fu trasferita a
Roma e, per garantire la posizione e la missione del Papato, fu approvata una
apposita legge, detta delle Guarentigie (=garanzie).
Il Papato vietò ai cattolici la partecipazione alla politica nazionale, sotto
pena di sanzione canonica e si considerò prigioniero
in Vaticano.
Questi fatti suscitarono un’enorme
impressione nella società cattolica italiana. Una parte dei cattolici era stati
ed erano nazionalisti. Ma molti si schierarono a difesa del Papato, a sostegno
delle sue rivendicazioni di restituzione del suo regno intorno a Roma. Naturalmente
questo movimento ebbe motivazioni profonde e colte, che, in sostanza,
proponevano l’idea che, senza quel piccolo regno, il Papato fosse menomato
anche nella sua missione religiosa. Quindi la posizione politica intransigente verso i nazionalisti
monarchici e repubblicani, verso l’ideologia liberale che in genere era da loro
seguita, verso i nuovo regno unitario italiano, ebbe anche profonde motivazioni
religiose. Senza un Papato veramente indipendente, si sosteneva, anche la
civiltà del popolo italiano, che tanto era legata alla fede religiosa, ne
sarebbe uscita scossa, alterata. Si pensò, ed era la prima volta che accadeva,
di suscitare un vasto moto di resistenza nel popolo a difesa delle ragioni del
Papato, non solo con un’azione di propaganda culturale, ma con un ampio
programma di azioni sociali, sull’esempio di ciò che si stava facendo in tutta
Europa a quell’epoca, in particolare ad opera dei movimenti socialisti, in
particolare per sostenere e istruire i lavoratori dipendenti delle città e
delle campagne, ad esempio con mutue per assisterli nella disoccupazione o nelle
malattie, con cooperative di
lavoro. Si cercò di dare un coordinamento nazionale a tutte queste
iniziative creando un’organizzazione specifica, l’Opera dei Congressi, costituita nel 1874, con articolazione
centrale e locale, strettamente legata al Papa, sebbene non fosse una sua
emanazione. C’era tutta questa attività sociale a sfondo religioso, che
comprendeva anche un capillare lavoro di formazione culturale e propriamente
politico, nel senso appunto di un atteggiamento intransigente verso il nuovo stato unitario italiano. Ma
l’intento principale era politico.
Scrive Arturo Carlo Jemolo (1891-1981),
professore di diritto ecclesiastico (che riguarda le norme degli stati che regolano
i rapporti con la Chiese) e storico, uno
dei maggiori esponenti del mondo cattolico italiano, in Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, 1948 (1° ed.) - 1963 (ed. riveduta e
ampliata) [richiede una formazione di tipo universitario]:
[pag.13] «La
prima metà del secolo era quasi consumata allorché, il 1 giugno 1846, si
spegneva Gregorio XVI [16°]; già s’intravedevano le caratteristiche della storia
della Chiesa nell’Ottocento quali si sarebbero profilate allo storico futuro.
Non grandi
controversie teologiche, né aspri dibattiti dottrinali, né
contrapposizione di scuole a scuole; neppure lotte tra Ordini religiosi, o tra
clero secolare e clero regolare.
[…]
In nessuno di questi campi la storia della
Chiesa dell’Ottocento avrebbe presentato episodi emozionanti, aspri contrasti,
com’eransi dati in altri secoli, La Chiesa avrebbe incontrato in vece le sue
ore più difficili nei rapporti con gli Stati. Di fronte alle ideologie
politiche, ai partiti che le incarnano, alle leggi per realizzarle, la Chiesa
avrebbe dovuto prendere posizione; e qui avrebbe affrontato battaglie, forse
toccato dure sconfitti.
L’Ottocento appariva ormai come il secolo
contraddistinto dal contrasto delle
ideologie politiche. Due fondamentali di fronte. Quella che era ancora la
prosecuzione dell’enciclopedismo e
dell’illuminismo, realizzatisi in struttura politica nella Rivoluzione
francese, e che, a ragione o a torto, […] si considerava avesse avuto ad erede l’impero napoleonico e,
dopo la sua caduta, quanto ne serbavano rimpianto. E l’ideologia che affermava
i valori del cattolicesimo, quelli della tradizione, anzitutto della tradizione
monarchica; che nel re legittimo, alleato con la Chiesa, scorgeva il
caposaldo per l’opera di ricostruzione,
di cui appariva urgente il bisogno ai suoi fautori; ricostruzione
degl’istituti, delle leggi, delle grandi linee della struttura politica, del
sistema dei rapporti tra popoli, e soprattutto dell’uomo interiore e di ciò che
lo forma: scuola, metodi di educazione, stessa disciplina familiare, ambiti
tutti in cui occorreva rimediare all’opera deleteria svoltasi a partire dal
Settecento.”
Con la fine del suo regno nell’Italia
centrale il Papato si vide minacciato nella sua missione religiosa, in Italia e
nel mondo, e vide minacciata la stessa civiltà degli italiani. Bisogna infatti
ricordare che il nazionalismo italiano,
di impostazione fondamentalmente liberale, era divenuto piuttosto anticlericale
nel contrapporsi alle pretese politiche del Papato di mantenere quel regno.
Quindi vennero incoraggiate quelle aggregazioni laicali confluite nell’Opera
dei Congressi, che presto divennero l’equivalente di un potente partito
politico, di impostazione politica intransigente verso le nuove istituzioni
unitarie e verso la politica nazionale che le sosteneva. Ad esse il Papato
diede uno straordinario manifesto ideologico, un documento di natura
programmatica che disegnava un progetto di riforma dell’intera società, avendo
di vista in particolare la situazione italiana: l’enciclica Rerum
Novarum - Le Novità diffusa nel 1891
dal papa Vicenzo Gioacchino Pecci, regnante ormai solo in religione con il nome
di Leone XIII (fino al papa Francesco, i papi continuarono l’uso di attribuirsi
un nome da monarchi capi di stato, con il numero ordinale a fianco: primo, secondo…). A questo punto i
cattolici italiani divennero una forza politica molto agguerrita, con una
struttura capillare sul territorio e una forte ideologia, divenuta obbligatoria, parte della dottrina, appunto una dottrina sociale, un vasto programma di riforma sociale a cui diedero il loro contributo, per svilupparlo,
ingegni di grande rilievo, come l’economista e sociologo beato Giuseppe Toniolo (1845-1918). Ma, passando gli
anni dalla conquista dello Stato pontificio, ci si rese conto che
l’atteggiamento intransigente, che comportava il divieto di partecipare alla
politica nazionale eleggendo e presentandosi come candidati, non consentiva di
cogliere le opportunità offerte dall’ordinamento democratico del Regno d’Italia,
un regno costituzionale, in cui l’indirizzo
politico dello stato era determinato anche da una camera elettiva, la Camera dei deputati, oltre che da un Senato integralmente di nomina regia e a vita. I
giovani soprattutto proposero di organizzare una partecipazione democratica alla vita politica nazionale, secondo principi
sociali orientati dalla fede,
in linea con la dottrina sociale. Ciò avrebbe richiesto maggiori spazi di
autonomia dei laici nelle cose della società. Quest’idea, della possibilità di
una democrazia cristiana, fu duramente
respinta dal Papato, con un’enciclica diffusa nel 1901 dallo stesso Papa della Rerum Novarum, il Pecci - Leone 13°, la Graves
de communi re - Le serie divergenze [sulle questioni sociali] [su
<vatican.va> solo nel testo inglese - traduzione italiana in
<http://www.totustuustools.net/magistero/l13grave.htm>]. Alle correnti democratiche cristiane si opposero duramente, nell’Opera dei
Congressi, quelle intransigenti. L’ideologia democratico
cristiana fu presto confusa e assimilata con il modernismo, il movimento essenzialmente culturale per un
rinnovamento della cultura religiosa nel cattolicesimo, in particolare
nell’interpretazione dei testi sacri, colpito radicalmente e senza tregua in
quella che fu l’ultima persecuzione religiosa attuata storicamente dal
Papato. Non ottenendosi una tacitazione
delle correnti democratiche cristiane, il Papato assunse l’iniziativa di
organizzare, in sostituzione dell’Opera dei Congressi che fu sciolta d’autorità
nel 1904, una nuova organizzazione, che comprese anche una sezione propriamente
politica, denominata Unione elettorale. L’iniziativa prese inizio con l’enciclica Fermo proposito, diffusa nel 1905 dal papa Giuseppe Sarto,
regnante in religione come Pio 10°, che potete leggere in
http://w2.vatican.va/content/pius-x/it/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_11061905_il-fermo-proposito.html
nella quale è scritto:
«Importa inoltre ben definire le opere intorno alle
quali si devono spendere con ogni energia e costanza le forze cattoliche.
Quelle opere devono essere di così evidente importanza, così rispondenti ai
bisogni della società odierna, così acconce agli interessi morali e materiali,
soprattutto del popolo e delle classi diseredate, che mentre infondono ogni
migliore alacrità dei promotori dell’azione cattolica pel grande e sicuro
frutto che da sé medesime promettono, siano insieme da tutti e facilmente
comprese ed accolte volonterosamente. Appunto perché i gravi problemi della
vita odierna sociale esigono una soluzione pronta e sicura, si desta in tutti
il più vivo interesse di sapere e conoscere i vari modi onde quelle soluzioni
si propongono in pratica. Le discussioni in un senso o nell’altro si
moltiplicano ogni dì più e si propagano facilmente per mezzo della stampa. È
quindi supremamente necessario che l’azione cattolica colga il momento
opportuno, si faccia innanzi coraggiosa e proponga anch’essa la soluzione sua e
la faccia valere con propaganda ferma, attiva, intelligente, disciplinata, tale
che direttamente si opponga alla propaganda avversaria. La bontà e giustizia
dei principi cristiani, la retta morale che professano i cattolici, il pieno
disinteresse delle cose proprie non altro apertamente e sinceramente bramando
che il vero, il solo, il supremo bene altrui, infine l’evidente loro capacità
di promuovere meglio degli altri anche i veri interessi economici del popolo, è
impossibile non facciano breccia sulla mente e sul cuore di quanti ascoltano e
non ne aumentino le file, fino a renderli un corpo forte e compatto, capace di
resistere gagliardamente alla contraria corrente e di tenere in rispetto gli
avversari.
Tale supremo bisogno avvertì pienamente il Nostro
Antecessore di beata memoria Leone XIII, additando soprattutto nella memoranda
Enciclica Rerum Novarum” ed in altri documenti posteriori, l’oggetto intorno al
quale precipuamente doveva svolgersi l’azione cattolica, cioè “la pratica
soluzione a seconda dei principi cristiani della questione sociale”. Noi pure,
seguendo così sapienti norme, col Nostro Motu proprio del 18 Dicembre 1903
abbiamo dato all’azione popolare cristiana, che in sé comprende tutto il
movimento cattolico sociale, un ordinamento fondamentale che fosse quasi la
regola pratica del lavoro comune ed il vincolo della concordia e della carità.
Qui dunque ed a questo scopo santissimo e necessarissimo devono anzitutto
aggrupparsi e solidarsi le opere cattoliche, varie e molteplici nella forma, ma
tutte egualmente intese a promuovere con efficacia il medesimo bene sociale.
[…]
l’odierno
ordinamento degli Stati offre indistintamente a tutti la facoltà di influire
sulla pubblica cosa, ed i cattolici, salvo gli obblighi imposti dalla legge di
Dio e dalle prescrizioni della Chiesa, possono con sicura coscienza giovarsene,
per mostrarsi idonei al pari, anzi meglio degli altri, di cooperare al
benessere materiale civile del popolo ed acquistarsi così quell’autorità e quel
rispetto che rendano loro possibile eziandio di difendere e promuovere i beni
più alti, che sono quelli dell’anima.
Quei diritti civili sono
parecchi e di vario genere, fino a quello di partecipare direttamente alla vita
politica del paese rappresentando il popolo nelle aule legislative. Ragioni gravissime Ci dissuadono,
Venerabili Fratelli, dallo scostarsi da quella norma già decretata dal Nostro Antecessore
di s. m. Pio IX e seguita poi dall’altro Nostro Antecessore di s. m.Leone
XIII durante il diuturno suo Pontificato, secondo la quale
rimane in genere vietata in Italia la partecipazione dei cattolici al potere
legislativo. Sennonché altre ragioni parimenti gravissime, tratte dal supremo
bene della società, che ad ogni costo deve salvarsi, possono richiedere che nei
casi particolari si dispensi dalla legge, specialmente quando voi, Venerabili
Fratelli, ne riconosciate la stretta necessità pel bene delle anime e dei
supremi interessi delle vostre Chiese e ne facciate dimanda.
Ora la possibilità di questa benigna concessione
Nostra induce il dovere nei cattolici tutti di prepararsi prudentemente e
seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati. Onde importa assai, che quella stessa
attività, già lodevolmente spiegata dai cattolici per prepararsi con una buona
organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei Comuni e dei Consigli
provinciali, si estenda altresì a prepararsi convenientemente e ad organizzarsi
per la vita politica, come fu opportunamente raccomandato con la circolare del
3 dicembre 1904 alla Presidenza generale delle Opere economiche in Italia.
Nello stesso tempo dovranno inculcarsi e seguirsi in pratica gli altri principi
che regolano la coscienza di ogni vero cattolico. Deve egli ricordarsi sopra
ogni cosa di essere in ogni circostanza e di apparire veramente cattolico,
accedendo agli offici pubblici ed esercitandoli col fermo e costante proposito
di promuovere a tutto potere il bene sociale ed economico della Patria e
particolarmente del popolo, secondo le massime della civiltà spiccatamente
cristiana e di difendere insieme gli interessi della Chiesa, che sono quelli
della Religione e della giustizia.
[…]
Ci resta a toccare, Venerabili Fratelli, di un
altro punto di somma importanza, ed è la relazione che tutte le opere
dell’azione cattolica devono avere rispetto all’Autorità ecclesiastica. Se bene
si considerano le dottrine che siamo andati svolgendo nella prima parte di
queste Nostre Lettere, si conchiuderà di leggieri, che tutte quelle opere che direttamente vengono in sussidio del
ministero spirituale pastorale della Chiesa e che si propongono un fine religioso
in bene diretto delle anime, devono in ogni menoma cosa essere subordinate
all’autorità dei Vescovi, posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio
nelle diocesi loro assegnate. Ma anche le altre opere, che, come abbiamo detto,
sono precipuamente istituite a ristorare e promuovere in Cristo la vera civiltà
cristiana e che costituiscono nel senso spiegato l’azione cattolica, non si
possono per niun modo concepire indipendenti dal consiglio e dall’alta
direzione dell’Autorità ecclesiastica, specialmente poi in quanto devono
tutte informarsi ai principi della dottrina e della morale cristiana; molto
meno è possibile concepirle in opposizione più o meno aperta con la medesima
Autorità. Certo è che tali opere, posta
la natura loro, si debbono muovere con la conveniente ragionevole libertà,
ricadendo sopra di loro la responsabilità dell’azione, soprattutto poi negli
affari temporali ed economici ed in quelli della vita pubblica amministrativa o
politica, alieni dal ministero puramente spirituale. Ma poiché i cattolici
alzano sempre la bandiera di Cristo, per ciò stesso alzano la bandiera della
Chiesa, ed è quindi conveniente che la ricevano dalle mani della Chiesa, che la
Chiesa ne vigili l’onore immacolato e che a questa materna vigilanza i
cattolici si sottomettano, docili ed amorevoli figliuoli.»
Ho trascritto
questa lunga citazione dell’enciclica, mettendo a dura prova la pazienza dei
miei lettori, perché i principi
contenuti nei brani citati sono state le
norme che hanno regolato l’azione civile e politica dei cattolici italiani fino
al Concilio Vaticano 2° (1962-1965). E’ sostanzialmente lo statuto di una
potente organizzazione politica popolare che non poteva dirsi propriamente partito politico solo perché
mancava di vera autonomia laicale ed era interamente soggetta alla supremazia
di Papa e vescovi. Anticipo che la situazione è molto cambiata, nel senso del
realizzarsi di quella autonomia, con il nuovo statuto dell’Azione Cattolica
approvato nel 1969, per renderlo conforme ai principi di azione sociale
stabiliti nel Concilio Vaticano 2°. Ma
anche ora l’Azione Cattolica non è un partito politico, perché non è
strumento di alcuna politica, non è partito del papa
né partito dei cattolici, non sacralizza
alcun orientamento politico, ma è agente di formazione politica per
preparare le persone di fede a coniugare, in autonomia e libertà, sapienza e
dottrina, dialogando i società, nella pluralità delle opzioni possibili, azione
sociale e politica e carità in senso religioso, quindi per capire come riempire
politica e azione sociale dei valori di fede. Questo il senso della scelta religiosa fatta dall’associazione, con il consenso dei
vescovi italiani, con l’approvazione del nuovo statuto del 1969, sotto la
presidenza di Vittorio Bachelet (1926-1890).
Nel 1906, l’anno seguente l’enciclica Fermo proposito, furono approvati i nuovi statuti dell’Azione Cattolica,
costituita da quattro organizzazioni: l’Unione
popolare, l’Unione economico sociale,
l’Unione elettorale e
la Società della gioventù cattolica. Il disegno si completò nel 1908 con l’Unione donne cattoliche italiane, che ebbe un grandioso sviluppo dopo la Prima
Guerra mondiale (1914-1918). E’ a questa epoca che risale la nostra Azione Cattolica. Uno dei principali
architetti di questo disegno organizzativo fu il beato Giuseppe Toniolo. Questo
potente movimento sociale venne indirizzato alla riforma sociale secondo
principi di fede e organizzò una grandioso e capillare lavoro di formazione
politica popolare, di massa, che coinvolse anche le donne, in epoca in cui esse
non potevano ancora votare (in Italia poterono farlo per la prima volta solo
nel 1946). Sempre più passò in secondo piano la questione romana, le pretese
politiche del Papato ad un proprio regno in Italia
vennero infine risolte, in maniera ritenuta disonorevole da diverse grandi anime del cattolicesimo italiano, ma comunque
risolte, nel 1929, con i Patti Lateranensi, accordi con il Regno d’Italia che
in quell’occasione fu rappresentato dal capo del governo di allora, Benito
Mussolini, fondatore del regime fascista storico, con la creazione di un
simulacro di stato in Vaticano, denominato Città
del Vaticano, dove tutt’oggi è arroccata la corte pontificia. In nessun
modo esso è il successore dello Stato pontificio. Dovrebbe servire solo a
rendere indipendente il Papato dalle pretesi degli stati del mondo. Ma il
Papato partecipa nella comunità internazionale, ad esempio mandando propri
ambasciatori (detti Nunzi) e
ricevendo quelli degli stati, non come sovrano della Città del Vaticano, ma
proprio in quanto Papato, e ciò per millenaria tradizione storica.
Nell’Azione cattolica italiana maturò la
lenta assimilazione culturale della politica democratica da parte dei cattolici
italiani.
Una prima tappa fu l’organizzazione, nel 1919, di un vero e proprio partito politico,
distinto dall’Azione cattolica e dalla Chiesa cattolica, con responsabilità
propria dei propri aderenti, per un disegno di riforma sociale nel senso
indicato dalla dottrina sociale, il Partito
popolare, sciolto d’autorità, con altri partiti democratici, nel 1926 dal
regime fascista.
Dal 1930, anche con l’enciclica Quadragesimo anno - Il quarantennale, diffusa nel 1931 dal papa Achille Ratti,
regnante come Pio 11°, documento che contiene anche la formulazione dell’importantissimo
principio di sussidiarietà, sul quale,
con la collaborazione determinante di politici cattolici, fu fondata la nostra
nuova Europa, il Papato accreditò la riforma sociale del regime fascista, al quale i cattolici
italiani furono spinti a collaborare. Il tirocinio democratico rimase proprio,
in Azione Cattolica, quasi solo di alcune organizzazioni ristrette, come la
FUCI - gli universitari cattolici - e i Laureati cattolici, in particolare
sotto la cura religiosa di Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo 6°.
Questo orientamento mutò radicalmente di fronte alle catastrofi sociali
provocate dalla Seconda Guerra Mondiale.
Dagli anni ’30 le organizzazioni intellettuali dell’azione Cattolica, costituite nella storia
dell’associazione, progettarono il superamento del regime fascista, e, in
particolare una nuova costituzione e nuovi indirizzi politici. Cattolici
provenienti dall’Azione Cattolica furono protagonisti nella guerra civile
combattuta contro le ultime manifestazioni del regime fascista, dal 1945 al
1945 e della creazione della Repubblica democratica. Essi crearono il partito
politico, denominato Democrazia Cristiana, che, dal 1946 al 1994, resse le coalizioni di
governo, prima di orientamento centrista e poi di centrosinistra,
con la partecipazione di partiti
socialisti, attuando parte delle riforme sociali disegnate nella nuova
Costituzione repubblicana, scritta e approvata, con il contributo determinante
di cattolici provenienti dall’Azione Cattolica, negli anni 1946 e 1947 ed
entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Il
successo di tale partito fu determinato dall’appoggio del Papato, che, con una
serie di radiomessaggi natalizi tra il 1941 e il 1944 del papa Eugenio Pacelli
- Pio 12° (tutti pubblicati sul sito <vatican.va>), in piena Seconda guerra
mondiale, defascistizzò l’orientamento
politico dei cattolici italiani, spingendoli a partecipare a una riforma
costituzionale e sociale democratica, realizzata con la nostra Costituzione
repubblicana, piena di principi desunti dalla dottrina sociale.
La svolta democratica
dell’Azione Cattolica fu consolidata
nel 1969 con il nuovo statuto, nel quale l’associazione è definita palestra di democrazia.
3. Mi sono dilungato su riferimenti storici per far capire che l’Azione Cattolica italiana è cosa molto
diversa da come spesso la si pensa superficialmente, assimilandola ad altre
associazioni e movimenti a sfondo religioso.
Nella nostra parrocchia quest’anno partirà l’Azione
Cattolica Ragazzi - ACR. Ci saranno altri ragazzi, poco più anziani di quelli
dell’ACR, che faranno da educatori. Si faranno delle domande sull’Azione
Cattolica. I ragazzi dell’ACR cresceranno presto e anche loro si faranno
domande analoghe. Ecco, ho cercato di spiegare che cos’è l’Azione Cattolica. Ma
anche di rendere un’idea del lavoro che c’è da fare in società. Perché a quello
ci chiamano, con particolare intensità oggi, il Papa e i vescovi.
La
società vive tempi impegnativi: così ho iniziato. Ci sono problemi sociali
che creano dolore e difficoltà nelle vite delle persone. Per pensare e realizzare soluzioni serve
gente preparata ed eticamente ben indirizzata. Quindi gente competente e buona,
capace di collaborare con l’altra gente competente
e buona che c’è, per cambiare sapientemente ciò che
non va, dialogando con gli altri, persuadendoli a seguire le vie buone e
coinvolgendoli in questo lavoro che è, ancora, riforma sociale. Formarla fin dai giovanissimi, educarla,
completarne la preparazione anche da adulta, cercando di suscitare e
diffondere, in un lavoro collettivo che è anche e principalmente di
auto-formazione, visioni realistiche, affidabili, di ciò che accade e progetti
di soluzione, è parte del lavoro di Azione Cattolica. In una prospettiva che,
ormai, non riguarda più solo l’Italia, o l’Europa, ma addirittura il mondo
interno, secondo le indicazioni che troviamo nell’enciclica Laudato si’, diffusa nel 2015 dal papa
Francesco.
Ho cercato anch’io di fare la mia parte,
negli anni passati.
Pubblico, raccolte in un unico documento, mie
riflessioni, svolte sul blog <acvivearomavalli.blospot.it> dal settembre
2012 all’agosto 2019, che possono essere
utili a quel lavoro da fare in Azione Cattolica, in particolare in un gruppo
locale di impegno collettivo che voglia
avere una certa consapevolezza storica.
Ne autorizzo il libero utilizzo in qualunque
forma, senza onere di indicarne l’autore. Come ho scritto presentando un mio
precedente lavoro, restituisco ciò che ho ricevuto in un lungo periodo di
formazione prima nella nostra parrocchia, poi tra gli scout cattolici, in FUCI
e infine del Movimento Ecclesiale di impegno Culturale, l’attuale denominazione
degli antichi Laureati cattolici.
Consiglio a tutti di avere sotto mano il
libro di storia dell’ultimo anno delle scuole medie frequentata, inferiori o
superiori. A quelli che non l’hanno più in casa, consiglio di procurarsi
l’ultima edizione del volume 3 del testo Nuovi
Profili Storici - Con percorsi di documenti e di critica storica di Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci e
Vittorio Vidotto, Editori Laterza, €40,50, un testo per i licei.
Per aggiornarsi rapidamente si possono
utilizzare:
http://www.treccani.it/enciclopedia/
e
http://www.treccani.it/biografico/index.html
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Azione Cattolica – F.A.Q.
(domande più frequenti)
(le risposte alle F.A.Q. che seguono sono frutto di una elaborazione
fatta da Mario Ardigò, sulla base di quello che pensa di aver capito
dell’Azione Cattolica. Non esprimono necessariamente il pensiero dei vertici
associativi, né rappresentano un’interpretazione autentica dell’ideologia
associativa – I lettori sono quindi invitati a verificarne personalmente la correttezza e fedeltà e a far pervenire
eventuali rettifiche o integrazioni all’account <marioardigo@yahoo.com>;
di esse si darà atto nel blog)
L’Azione Cattolica è fatta per persone di ogni età, fin dai piccolissimi (3-5 anni). Sono state
elaborate proposte di impegno per tutti. Il centro nazionale e quelli diocesani
supportano il lavoro dei gruppi parrocchiali. La struttura dell’Azione
Cattolica è democratica e la sua azione si avvale del contributo di tutti.
L’Azione Cattolica (AC)
ha fatto dell’attuazione dei principi del Concilio Vaticano 2° il suo
principale settore di lavoro collettivo. Ora è anche fortemente impegnata nella
presa di coscienza, nello sviluppo e nell’attuazione pratica dei nuovi principi
della dottrina sociale contenuti nel magistero del papa Francesco e, in
particolare, nell’esortazione apostolica La
gioia del Vangelo e nell’enciclica Laudato si’.
Nella
nostra parrocchia sono state realizzate importanti innovazioni in AC. E’
iniziato, in particolare, di iniziare le attività di un gruppo ACR, l’Azione
Cattolica Ragazzi. Le riunioni infrasettimanali del gruppo adulti/adultissimi sono riprese a ottobre. Il gruppo
parrocchiale di AC anima la messa domenicale delle ore nove. Ci proponiamo di
coinvolgere maggiormente gli adulti della fascia 30/50 anni della
parrocchia, per appassionarli al lavoro che si fa in AC e come AC. Questo
richiede, innanzi di informarli sull’AC, per far capire ciò che le è
caratteristico.
Propongo di seguito alcune risposte alle domande che più frequentemente
vengono poste in materia di Azione Cattolica.
Ulteriori informazioni sulla struttura,
finalità, metodo e progetti dell’Azione Cattolica possono trovarsi sul sito
dell’Azione Cattolica nazionale
http://azionecattolica.it/
e diocesana
http://www.acroma.it/
L’impegno dei laici di fede in Azione
Cattolica è corale, dalla vita di tutti si impara e tutti possono contribuire a
renderlo più efficace e bello. Con le parole del motto di un jamboree,
il grande raduno annuale degli scout, di tanti anni fa: “Di più saremo
insieme, più gioia ci sarà”.
L’impegno in Azione Cattolica è
vita sociale di fede nella libertà.
Chi decidesse di avvicinarci
per aderire, non pensi di trovare le cose già fatte, di salire su un treno in
corsa e di sedersi da passeggero facendosi trasportare. Di potersi limitare a
seguire un qualche metodo per il quale esista un manuale dettagliato di
istruzioni. Si tratta, di anno in anno, di costruire una nuova casa, di ideare e
attuare nuovi progetti di impegno. In particolare nel clima di rinnovamento che
si vive nella Chiesa italiana, si tratta sempre, in fondo, di ripartire.
Del resto quella della
rifondazione dovrebbe caratterizzare la nostra esperienza religiosa, nella
quale ci è anticipato che tutte le cose saranno fatte nuove. Non
viviamo in un museo, che ci si possa limitare a spolverare di tanto in tanto.
L’Azione Cattolica vive nel quartiere Valli di Roma,
come dice il titolo di questo blog: AC-VIVE-A-ROMA-VALLI!
1. L’Azione Cattolica è Chiesa cattolica?
L’Azione Cattolica è una delle
associazioni di laici inserite nell’organizzazione della Chiesa cattolica italiana.
Il suo statuto è approvato dal Consiglio
Episcopale Permanente della Conferenza
Episcopale Italiana. Vi sono diverse altre associazioni che hanno analoghe
caratteristiche di particolare legame con l’organizzazione della Chiesa
cattolica italiana.
2. Chi è il laico?
Il laico è il fedele cattolico che non è né
diacono, né prete, né vescovo (vale a dire membro dell’ordine sacro) e che non appartiene a un ordine religioso o a una
congregazione religiosa (che non è, ad esempio, frate o suora; monaco o monaca)
(si veda la definizione che del termine laico
si dà nella Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II Lumen Gentium, al n. 31).
3. Per essere un fedele cattolico
laico è indispensabile aderire all’Azione Cattolica?
No.
4. Se un fedele cattolico laico
ha già aderito ad un altro gruppo religioso laicale o ha il proposito di farlo,
può associarsi all’Azione Cattolica?
Sì. L’adesione all’Azione Cattolica non è esclusiva. Si può far parte di altri gruppi
laicali.
5. L’Azione Cattolica è un gruppo di
spiritualità?
No. Ciò che caratterizza l’Azione Cattolica non è un particolare tipo di spiritualità, anche se i
gruppi locali e le altre articolazioni associative esprimono anche una vita
spirituale. Ciascun associato manifesta poi la propria, liberamente scelta.
Alla vita associativa partecipano i Sacerdoti Assistenti per contribuire ad
alimentare la vita spirituale e il senso apostolico.
6. L’Azione Cattolica è un gruppo
di preghiera?
No, anche se nelle riunioni
associative vi sono momenti di preghiera.
7.L’Azione Cattolica è un gruppo
di approfondimento biblico?
No, anche se associandosi ci si
impegna ad approfondire le tematiche bibliche.
8. L’Azione Cattolica è un gruppo
di approfondimento culturale?
No, anche se associandosi ci si
impegna a conoscere e capire di più del mondo in cui si vive.
9. L’Azione Cattolica è un gruppo
per il catecumenato?
No. La conversione, il catechismo
per il Battesimo e il Battesimo sono
dati per presupposti. In ogni parrocchia dovrebbe essere costituita
un’organizzazione specifica per queste esigenze.
10. L’Azione Cattolica è un
gruppo per il catechismo?
No, anche se associandosi ci si
impegna ad approfondire le verità di fede. In ogni parrocchia dovrebbe essere
costituita un’organizzazione che si occupa specificamente del catechismo, per i
fedeli di tutte le età.
11. L’Azione Cattolica è un
gruppo di propaganda religiosa?
No. Essa infatti vuole stabilire
con i propri interlocutori una relazione molto più profonda.
12. L’Azione Cattolica è un
gruppo che lavora per il proselitismo religioso o associativo?
L’Azione Cattolica è certamente impegnata, in diretta collaborazione
con il Papa e i vescovi, a far conoscere il Vangelo, ad esporre le verità di
fede, a far comprendere gli ideali religiosi cristiani, a presentare correttamente
il fine e l’azione della Chiesa nel mondo e il significato della sua liturgia,
a raggiungere gli altri nel loro bisogno di religiosità, ad aiutare tutti a
migliorarsi secondo la fede professata
e, in particolare, a capire come fare per meglio favorire l’accettazione nel
mondo di quegli ideali. Ma il proselitismo religioso o associativo, l’obiettivo
di “far numero”, di “distribuire tessere”, non è tra le sue finalità dirette, anche se il
riavvicinamento alla vita della parrocchia e adesioni associative possono
effettivamente conseguire dalle sue attività.
13.L’impegno degli associati
all’Azione Cattolica parrocchiale è principalmente in parrocchia?
L’Azione Cattolica ha come primo impegno la
presenza e il servizio nella Chiesa locale, quindi anche nella parrocchia.
Tuttavia, in quanto associazione di laici, in essa è fondamentale l’impegno
nella società civile, luogo privilegiato dell’azione laicale, per favorire
l’affermazione dei valori religiosi.
14. Associandosi all’Azione
Cattolica si è sottoposti ad un giudizio sulla propria vita?
No.
15. L’adesione all’Azione
Cattolica richiede un cambiamento di vita?
No. L’associazione si ritiene
arricchita dai doni che le provengono dalle diverse condizioni ed esperienze di
quanti partecipano alla sua vita.
16. L’adesione all’Azione
Cattolica comporta particolari pratiche religiose?
No.
17. L’adesione all’Azione
Cattolica comporta particolari pratiche
di vita, oltre quelle raccomandate a tutti i fedeli laici?
No.
18. L’adesione all’Azione
Cattolica richiede un particolare livello culturale o scolastico?
No.
19. L’adesione all’Azione
Cattolica si sviluppa per gradi iniziatici, vale a dire da livelli inferiori a
livelli superiori di perfezione?
No. Si è membri a pieno titolo
fin dal primo giorno e fin quando si vuole.
20. Per chi è l’Azione Cattolica?
L’Azione Cattolica è per tutti i fedeli laici cattolici e di tutti i fedeli laici cattolici.
21. L’Azione Cattolica risolve i
problemi personali degli associati?
Gli associati si impegnano
anche a favorire la comunione fra di loro, quindi anche all’aiuto reciproco, ma
non è detto che dall’associarsi in Azione
Cattolica derivi la soluzione dei propri problemi personali. Non farei quindi molto affidamento su questo
aspetto.
22. L’Azione Cattolica risolve,
in particolare, i problemi affettivi o di socialità?
Può accadere. Ma non è scontato che accada.
Non vi farei molto affidamento.
23. Le persone che, associandosi,
si spendono per le finalità dell’Azione Cattolica devono aspettarsi
riconoscimenti o corrispettivi, anche solo morali o affettivi?
No. Ci si associa perché si sente
bisogno di agire in gruppo in relazione a certi obiettivi che si pensa di non
poter raggiungere individualmente. Ma, come tutte le esperienze sociali umane,
anche quella nei gruppi di Azione Cattolica finisce in genere per deludere certe alte aspettative, almeno
sotto il profilo umano. Solo alla lunga e considerandola complessivamente,
specialmente verso la fine di una vita, se ne può essere in fondo soddisfatti,
soprattutto se la si considera con
sguardo soprannaturale, andando contro le apparenze, in spirito evangelico.
24. Chi comanda in Azione
Cattolica?
L’Azione Cattolica è retta su basi democratiche. Tuttavia i suoi presidenti, a tutti i livelli
(nazionale, diocesano, locale) sono nominati dall’autorità ecclesiastica, su
proposta dei rispettivi consigli. A livello della parrocchia, l’Azione Cattolica è presente con un’associazione parrocchiale, che è
un’articolazione di quella diocesana. Gli organi dell’associazione parrocchiale
di Azione Cattolica sono: l’assemblea
parrocchiale (programma la vita associativa e verifica l’attuazione del
programma; elegge il consiglio parrocchiale); il consiglio parrocchiale (promuove lo sviluppo della vita associativa
secondo le linee del programma approvato dall’assemblea; assicura la presenza
dell’associazione nelle strutture di partecipazione ecclesiale; mantiene i
rapporti di amichevole collaborazione con le gli altri gruppi della parrocchia;
propone al parroco la nomina del presidente parrocchiale); il/la presidente parrocchiale (nominato/a dal
parroco, sentito il vescovo ausiliare territorialmente competente - promuove e coordina l’attività del
consiglio parrocchiale; convoca e presiede l’assemblea parrocchiale; insieme al
consiglio tiene costanti rapporti con il parroco; si fa garante degli
amichevoli rapporti con l’associazione diocesana; rappresenta l’associazione
parrocchiale).
25. Ma, insomma, quali sono le
caratteristiche per le quali l’Azione Cattolica si differenzia da altri gruppi
laicali?
Non è né facile né semplice rispondere a
questa domanda. Bisogna considerare non solo gli statuti associativi, ma anche
la storia dell’Azione Cattolica italiana.
E, per quanto riguarda gli statuti associativi, bisogna saper intendere bene il
sofisticato gergo teologico con cui sono
stati scritti.
Nello statuto nazionale (articoli 1 e 2) è
scritto che l’Azione Cattolica è
fatta di laici che si impegnano liberamente,
per impregnare dello spirito evangelico
le varie comunità e i vari ambienti. Più avanti (art.3) è scritto che gli
associati si impegnano in particolare anche ad informare dello spirito cristiano le scelte da loro compiute con
propria responsabilità personale, nell’ambito delle realtà temporali (cioè,
traducendo dal gergo teologico, nella società civile). E, ancora, (art.11) che quella in Azione Cattolica è
un’esperienza popolare e democratica. Essa poi è presentata come rivolta alla crescita della comunità
cristiana e si dice animata dalla tensione verso l’unità, da costruire partendo da diverse
esperienze e condizioni di vita. Nell’Atto
Normativo Diocesano della Diocesi di
Roma è scritto che l’esperienza in Azione
Cattolica è una palestra di democrazia e di responsabilità civile.
La storia. Dalla fine del Settecento
cominciano a diffondersi e ad essere attuati, a partire dall’Europa, ideali
democratici di organizzazione sociale. Si produce una profonda e tragica
frattura tra l’organizzazione di vertice della Chiesa cattolica, espressa dal
clero, e i movimenti democratici. Essa attraversa i popoli evangelizzati. In
Italia si complica per l’interferenza del potere temporale dei Papi con la
questione dell’unità nazionale. L’esperienza storica dell’Azione Cattolica è stata la
manifestazione di vari tentativi di
realizzare, senza rompere l’unità ecclesiale, una partecipazione di popolo alla missione
della Chiesa attuata con maggiore responsabilità laicale e secondo criteri di
non esclusiva soggezione gerarchica, sia ideale e programmatica che pratica,
almeno nelle cose che riguardano l’organizzazione della società civile. In ciò
consiste appunto la sua tendenziale democraticità.
L’impegno nel sociale è venuto poi assumendo anche il significato di un tentativo di comporre la
plurisecolare diffidenza dei vertici ecclesiali, e quindi anche della teologia
ritenuta ortodossa dall’autorità, verso le acquisizioni delle scienze
contemporanee, sia naturali che umane. Infine, dal punto di vista politico,
quello di mediare per giungere al superamento del risentimento storico del
papato per la perdita del potere temporale in Italia e della storica
indifferenza dei vertici ecclesiali verso i regimi politici democratici
rispetto a quelli non democratici o addirittura antidemocratici (venuta meno
solo nel 1944 con il radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII, mentre ancora
agli inizi del secolo il Papa allora regnante aveva condannato l’idea di una
democrazia cristiana). Con ciò è
chiaro che si è trattato di un’azione che ha riguardato non solo la società
civile, ma anche la stessa Chiesa. Essa si inquadra in un movimento storico di
pensiero e di azione i cui ideali hanno trovato ampia espressione nei documenti
del Concilio Vaticano II (svoltosi a Roma, nella Città del Vaticano, dal 1962
al 1965). A partire da tale evento l’Azione Cattolica, sotto la presidenza di
Vittorio Bachelet, ha fatto della piena attuazione, nella Chiesa e nel mondo,
dei principi stabiliti da Concilio Vaticano II
uno dei suoi principali obiettivi.
26. Vediamo che attualmente
nel gruppo di Azione Cattolica in San Clemente Papa prevalgono numericamente
gli elementi più anziani. Perché?
Il gruppo si trova in una fase di passaggio.
In realtà è composto da persone di diverse età, dai vent'anni ai novanta. E'
portatore di una tradizione culturale importante che deve passare da una
generazione all'altra: questo è il lavoro che attualmente è in corso. Nei
decenni passati l'attenzione del laicato si è forse concentrata su altri temi,
ritenuti più urgenti, e su altre esperienze religiose. Oggi dai vescovi
italiani viene un rinnovato appello ai laici cattolici per un impegno che
corrisponde a quello tipico di Azione Cattolica.
La partecipazione alla riunione del martedì
alle cinque del pomeriggio può risultare difficoltosa a chi lavora e si deve
occupare di figli ancora bambini o molto giovani. Ci sono altre modalità per
tenersi in contatto. I più giovani possono pensare a incontri a loro
specificamente dedicati. E' importante tuttavia mantenere un'occasione
periodica di incontro per tutti gli associati, appunto per favorire il passare
di una tradizione di generazione in generazione. Nell'organizzazione nazionale
e diocesana dell'Azione Cattolica vi sono settori distinti per le varie età e
condizioni della vita. Tuttavia il lavoro che si fa parte dall'idea che c'è un
unico popolo che attraversa la storia
dell'umanità.
27. Che fa l’Azione Cattolica per la parrocchia?
L’Azione Cattolica opera principalmente nella
società del suo tempo, come un fermento, come il lievito in un impasto. Di
questa società fa parte anche la parrocchia.
Due sono i campi in cui un gruppo di Azione Cattolica parrocchiale può
dare un proprio caratteristico contributo: l’approfondimento dei temi del
Concilio Vaticano 2° e la pratica della democrazia nella vita di fede. Questo
può servire per fare spazio agli altri, per aprirsi agli altri, per convivere
serenamente con il pluralismo della società del nostro tempo, che si riflette
anche nelle nostre collettività religiose. L’esperienza dell’Azione Cattolica
nacque nell’Ottocento proprio con queste finalità, scegliendo una strada
diversa da quella dell’intransigentismo dell’epoca, della dura opposizione contro ogni
moto di progresso sociale: oggi si direbbe del fondamentalismo. Essa si propose di far uscire le collettività
religiose da una condizione di arretratezza culturale, sociale e politica e di
separatezza dal contesto nazionale. Un impegno che appare sempre attuale.
Infatti è sempre viva in religione la tentazione di bastare a se stessi, la
paura di perdersi in un contesto in cui ogni opzione di vita ha lo stesso
valore e vengono a mancare solide fondamenta. In realtà si tratta di
ricostruire pazientemente, di epoca in epoca, le città degli esseri umani, secondo l’auspico di Giuseppe Lazzati,
dove essi possano vivere liberi e felici. Senza una visione di fede è arduo
riuscirci, anche se storicamente le religioni sono state anche fonte di
oppressione e di infelicità. Eppure l’era delle democrazie contemporanee si
apre, nel nord America di fine Settecento, con rivoluzionari che affermano
solennemente che tutti gli uomini sono “creati” uguali e per questo hanno diritto alla ricerca della
felicità: ecco la fede religiosa che libera. Lo ha ricordato papa Francesco nel
suo viaggio negli Stati Uniti d’America
del 2017.
Per chi vi volesse approfondire segnalo i
seguenti link:
Statuto AC Nazionale:
http://www.acroma.it/sites/default/files/allegati/1/statuto%20AC.pdf
Atto normativo diocesano:
http://www.acroma.it/sites/default/files/allegati/1/Atto%20Normativo%20Diocesi%20di%20Roma.pdf
◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊
1.1
Per cominciare a capire
Nello statuto
nazionale (articoli 1 e 2) dell’Azione Cattolica è scritto che essa è fatta di laici che si impegnano liberamente, per impregnare dello spirito evangelico le varie comunità e i vari
ambienti. Più avanti (art.3) è scritto che gli associati si impegnano in
particolare anche ad informare dello
spirito cristiano le scelte da loro compiute con propria responsabilità
personale, nell’ambito delle realtà temporali (cioè, traducendo dal gergo
teologico, nella società civile). E,
ancora, (art.11) che quella in Azione
Cattolica è un’esperienza popolare e democratica. Essa poi è
presentata come rivolta alla crescita
della comunità cristiana e si dice
animata dalla tensione verso l’unità,
da costruire partendo da diverse
esperienze e condizioni di vita. Nell’Atto
Normativo Diocesano della Diocesi di
Roma è scritto che l’esperienza in Azione
Cattolica è una palestra di democrazia e di responsabilità civile.
La storia. Dalla fine del Settecento
cominciano a diffondersi e ad essere attuati, a partire dall’Europa, ideali
democratici di organizzazione sociale. Si produce una profonda e tragica
frattura tra l’organizzazione di vertice della Chiesa cattolica, espressa dal
clero, e i movimenti democratici. Essa attraversa i popoli evangelizzati. In
Italia si complica per l’interferenza del potere temporale dei Papi con la
questione dell’unità nazionale. L’esperienza storica dell’Azione Cattolica è stata la
manifestazione di vari tentativi di
realizzare, senza rompere l’unità ecclesiale, una partecipazione di popolo alla missione
della Chiesa attuata con maggiore responsabilità laicale e secondo criteri di
non esclusiva soggezione gerarchica, sia ideale e programmatica che pratica,
almeno nelle cose che riguardano l’organizzazione della società civile. In ciò
consiste appunto la sua tendenziale democraticità.
L’impegno nel sociale è venuto poi assumendo anche il significato di un tentativo di comporre la
plurisecolare diffidenza dei vertici ecclesiali, e quindi anche della teologia
ritenuta ortodossa dall’autorità, verso le acquisizioni delle scienze
contemporanee, sia naturali che umane. Infine, dal punto di vista politico,
quello di mediare per giungere al superamento del risentimento storico del
papato per la perdita del potere temporale in Italia e della storica indifferenza
dei vertici ecclesiali verso i regimi politici democratici rispetto a quelli
non democratici o addirittura antidemocratici (venuta meno solo nel 1944 con il
radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII, mentre ancora agli inizi del secolo
il Papa allora regnante aveva condannato l’idea di una democrazia cristiana). Con ciò è chiaro che si è
trattato di un’azione che ha riguardato non solo la società civile, ma anche la
stessa Chiesa. Essa si inquadra in un movimento storico di pensiero e di azione
i cui ideali hanno trovato ampia espressione nei documenti del Concilio
Vaticano II (svoltosi a Roma, nella Città del Vaticano, dal 1962 al 1965). A partire da tale evento l’Azione Cattolica, sotto la presidenza di
Vittorio Bachelet, ha fatto della piena attuazione, nella Chiesa e nel mondo,
dei principi stabiliti da Concilio Vaticano II
uno dei suoi principali obiettivi.
Due sono i campi in cui un gruppo di Azione
Cattolica può dare un proprio caratteristico contributo: l’approfondimento dei
temi del Concilio Vaticano 2° e la pratica della democrazia nella vita di fede.
Questo può servire per fare spazio agli altri, per aprirsi agli altri, per
convivere serenamente con il pluralismo della società del nostro tempo, che si
riflette anche nelle nostre collettività religiose. L’esperienza dell’Azione
Cattolica nacque nell’Ottocento proprio con queste finalità, scegliendo una
strada diversa da quella dell’intransigentismo
dell’epoca, della dura opposizione
contro ogni moto di progresso sociale: oggi si direbbe del fondamentalismo. Essa si propose di far uscire le collettività
religiose da una condizione di arretratezza culturale, sociale e politica e di
separatezza dal contesto nazionale. Un impegno che appare sempre attuale.
Infatti è sempre viva in religione la tentazione di bastare a se stessi, la
paura di perdersi in un contesto in cui ogni opzione di vita ha lo stesso
valore e vengono a mancare solide fondamenta. In realtà si tratta di
ricostruire pazientemente, di epoca in epoca, le città degli esseri umani, secondo l’auspicio di Giuseppe Lazzati,
dove essi possano vivere liberi e felici. Senza una visione di fede è arduo
riuscirci, anche se storicamente le religioni sono state anche fonte di
oppressione e di infelicità. Eppure l’era delle democrazie contemporanee si
apre, nel nord America di fine Settecento, con rivoluzionari che affermano
solennemente che tutti gli uomini sono “creati” uguali e per questo hanno diritto alla ricerca della
felicità: ecco la fede religiosa che libera. Lo ha ricordato papa Francesco nel
suo viaggio negli Stati Uniti d’America
del 2017.
1.2
Cercatori di verità
(26-9-18)
1. Per orientarci in società in quello che facciamo, abbiamo bisogno di
convinzioni affidabili su come va il mondo, sul passato, su quello che si prevede
nel futuro e sul senso della vita. Quando queste convinzioni sono condivise da
gruppi sociali diventano verità in quei gruppi. Sono
ritenute socialmente affidabili le convinzioni che funzionano
in ciò che ci servono, innanzi tutto per essere accettati in società, ma anche
per difendersene, per farla funzionare, e per sopravvivere negli ambienti
naturali, pieni di rischi. Sono verità quelle che fanno funzionare le nostre
automobili e gli smartphone. Ne siamo convinti anche se non arriviamo a comprenderle
in dettaglio, perché funzionano. Può apparire strano dirlo, ma anche per
le verità religiose è un po’ così. Le verità, di solito, vengono sottoposte a
costante revisione: innanzi tutto per i processi di apprendimento sociale che
progrediscono (e talvolta regrediscono) e poi perché, al variare delle società
che le espressero, anch’esse devono cambiare, altrimenti non servono più. Una
verità, pertanto, è legata a un gruppo sociale e a un’epoca. Tutte le verità
compresenti in un gruppo sociale e in un tempo sono tra loro collegate: quelle
sul senso della vita, ad esempio, dipendono anche dalla concezione di come va
il mondo e di come è andata nel passato. Oggi riteniamo inaffidabili molte
verità degli antichi, ma i posteri, probabilmente, faranno lo stesso con le
nostre. Bisogna dire che, però, molte delle verità oggi credute sono legate con
quelle del passato: spesso ne costituiscono più che altro un’evoluzione, un
adattamento. Questo accade spesso in religione. Non crediamo più
negli antichi dei, ma non crediamo in un modo molto diverso dagli antichi: gli
antropologi, anzi, riconoscono l’antica religiosità in diversi atteggiamenti di
oggi. L’antichissima narrazione biblica su Adamo ed Eva, che in
parte ha analogie con quelle di altre religioni degli antichi in merito
ai primi esseri umani, oggi non è più considerata verità in
senso storico, ma rimane verità in senso
religioso.
Esistono verità assolute, vale
a dire resistenti al cambiamento dei corpi sociali nei quali sono diffuse? In
religione di solito si è convinti di sì, ma, quando si va nel particolare,
vediamo che molti rimaneggiamenti ci sono stati e, anche dove certe verità sono
espresse con parole antiche, oggi le comprendiamo in modo diverso dagli
antichi. Si spiega la cosa dicendo che, nel tempo e secondo le varie società,
esse si sono capite diversamente e, in genere, meglio, con più profondità. In
effetti c’è stata una loro diversa inculturazione. Sono penetrate
in culture diverse che le hanno intese in modi diversi. Ogni epoca vi ha lasciato
qualcosa. Ragionandoci sopra si possono individuare questi lasciti culturali e
anche tentarne un’opera di escissione per così dire chirurgica. Ma poi sempre
anche noi si lascerà in quelle antiche verità qualcosa di nuovo, perché devono
legarsi a società nuove e, se non vi riescono, non possono permearle. Questo è
appunto il lavoro della mediazione culturale.
Studiando i nostri testi
sacri possiamo renderci conto molto bene di queste caratteristiche delle verità
credute in società. E di come certe verità, che vengono ritenute ad un certo
momento non più o meno affidabili sotto certi punti di vista,
mantengono validità sotto altri, ad esempio quando si parla del senso della
vita.
Oggi in religione non si è
più obbligati a credere che gli esseri umani
furono creati esattamente come li vediamo adesso
(anche se c’è chi ancora lo crede). Ma è così che la Creazione viene
presentata nelle Scritture e a lungo, in religione, la si è pensata così. L’evoluzionismo,
la convinzione che i nostri organismi siano il risultato di lunghi processi
biologici di metamorfosi che ci accumunano agli altri mammiferi, è stato da
poco digerito dalla teologia, e non del tutto. E’
ritenuto una verità in ambito scientifico, vale a dire un’idea
affidabile ampiamente condivisa nelle comunità scientifiche che spiega come
siamo arrivati ad essere come siamo, e ciò naturalmente solo fino al
momento in cui essa sia provata come inaffidabile e sostituita con
un’altra che non sia ritenuta tale. I teologi ci hanno spiegato che, comunque,
l’evoluzionismo non mette in questione il senso religioso della vita e, in
particolare, l’idea diCreazione, che significa produrre vita e natura
dotate di senso, proprio come scritto nella Bibbia. Anche nell’evoluzione delle
specie viventi si può scorgere un senso religioso. I racconti biblici sulla
Creazione funzionano ancora come verità in quell’ambito, anche se non sono più
creduti come tali quali spiegazioni scientifiche degli eventi biologici
che portarono alle metamorfosi delle specie fino a noi.
Ci furono tempi in cui si diede
molta importanza al provare l’esistenza di Dio, impiegando
argomenti logici basati anche sull’osservazione dei fatti della natura e
della nostra psicologia. Poi ci si è convinti che è fatica
sprecata. Di fronte alle tante ragionevoli obiezioni poste dagli increduli, in
definitiva noi pur sempre amiamo Dio e perciò crediamo,
e tuttavia anche ragioniamo, ma quel nostro ragionare non è un provare,
bensì l’inquadrare armonicamente quelle religiose tra le altre nostre
convinzioni, quelle che ci servono in società. Si ricorda quel detto dello
scrittore russo Fëdor Dostoevskij secondo
il quale, se gli avessero dimostrato che Dio non esiste, egli avrebbe tuttavia
continuato ad amarlo. Quella su Dio non è una di quelle verità che abbia
bisogno di essere provata per essere ritenuta
affidabile. Per questo resiste ad ogni confutazione, ed anche a quella,
contenuta nelle stesse Scritture, secondo la quale “Dio, nessuno lo ha
mai visto”.
Nel
processo giudiziario vediamo bene esemplificato il dramma che riguarda le verità che
usiamo in società. Cerchiamo di convincerci in modo affidabile di come è andato
un certo fatto storico, che ipotizziamo come illecito e si vorrebbe come tale
sanzionare. Cerchiamo prove, le colleghiamo con dei ragionamenti: proponiamo
una certa ricostruzione. Ma è andata sicuramente così? Arriviamo a
convincercene, e dobbiamo farlo perché una decisione, in un senso o in un altro
va comunque presa. Arriva a diventare irrevocabile, non più confutabile
in sede giudiziaria con i mezzi ordinari. Ad essa il condannato è inchiodato,
come lo fu il nostro Maestro. “Che cosa è la verità?”, gli
aveva chiesto il suo giudice. Fatto sta che oggi non si è più convinti di
quella verità giudiziaria, che lo coinvolse così crudelmente. Accade anche nei
processi di oggi. Sono previste però possibilità di revisione delle
decisioni giudiziarie, quando vengano fuori prove decisive affidabili che ne
dimostrino l’ingiustizia. La verità giudiziaria, come quella scientifica, non
ha la pretesa di essere assoluta e definitiva.
La principale controindicazione alla pena di morte è che, dopo la morte del
condannato, la revisione giudiziaria diventa inutile: rimane solo il lavoro
degli storici, per i fatti di rilevante interesse sociale.
Abbiamo ancora bisogno
di verità? Certamente. La società, altrimenti, non potrebbe
esistere e funzionare, organizzarsi come tale. Abbiamo bisogno di convinzioni
sociali ritenute affidabili e ampiamente condivise. Prima dell’avvento dell’era
delle ferrovie non si sentiva la necessità di tecniche di misurazione del tempo
orario, ora per ora, con precisione al minuto, uniformi a livello
nazionale o addirittura internazionale, salvo che per fare il punto in
navigazione. Dopo fu diverso: anche se l’alba non arriva alla stessa ora in una
città rispetto ad un’altra e il giorno comincia quindi in orari diversi a
seconda dei posti, gli orari di partenza e di arrivo dei treni non dipendono da
quello e se un treno parte alle sette a Roma, arriva alle 10 e qualcosa a
Milano indipendentemente dall’orario dell’alba. Altrimenti come si farebbe a
programmare i viaggi in treno? L’orario ferroviario è unaverità nel
senso che ho precisato.
Abbiamo anche bisogno che alcune
di queste verità, quelle più importanti, non siano nelle mani dei potenti
del momento, e anzi arrivino a obbligare anche loro, come è, ad esempio, per i
valori costituzionali nel nostro regime democratico. Gran parte delle verità
religiose sono appunto del tipo che va maggiormente preservato. Quelle tecnologiche
o sulla natura possono mutare rapidamente, ma quelle sul senso della vita, no.
Nel senso della vita siamo infatti compresi noi stessi, con la nostra
dignità, la nostra felicità, il nostro destino sociale.
I teologi sanno riconoscere quel
nucleo di verità che è rimasto stabile, nelle nostre convinzioni religiose, dai
primi tempi, nonostante le molte varianti culturali, con i conseguenti apporti,
e nonostante che tante altre affermazioni, tanti altri racconti, non siano più
considerati verità in tutti i sensi in cui li si pensava
tali. Chiamano quel nucleo deposito di fede e ci dicono
che è molto importante non solo preservarlo, ma anche tramandarlo,
ciò che richiede necessariamente dimediarlo attraverso i
tempi e le società. Mediare non significa tradire,
ma interpretarlo (non solo tradurlo) in modo
che funzioni anche in epoche e società diverse da quelle originarie, mantenendo
il suo senso profondo, ciò che lo rende santo, che
appunto significa da preservare religiosamente, ma non per semplice puntiglio
dotto di eruditi, bensì per amore. Depositandolo in altre
culture, mediandolo, le comprendiamo in ciò che amiamo.
Oggi si preferisce dire che
siamo cercatori di verità, piuttosto chepossessori, volendo
intendere che siamo sempre impegnati ad approfondire quelle che permangono
stabili nel tempo, perché hanno a che fare con il senso della vita, e a capire
sempre meglio, in maniera sempre più affidabile, il contorno, le altre.
Della ricerca della verità fa parte anche la sua critica,
il vaglio per stabilirne la perdurante affidabilità. Come pure quel lavoro che
definiamo di mediazione culturale, che serve a tramandare e
trasferire le verità più importanti anche oltre le società e i tempi che le
originarono. Ad alcuni esso pare indebito perché la verità è la
verità, dicono, e non si accorgono che, così concludendo, fanno però sempre
riferimento ad una certa versione della verità, socialmente e temporalmente
collocata, ad esempio quella che si ricava dal catechismo del
1905 di san Giuseppe Sarto - Pio 10°. Alla fine restringendo la verità in
una specie di recinto culturale, oltre il quale non ce ne sarebbe più, la si
costringe in una prigione e non le si consente di fare il lavoro che serve in
società, innanzi tutto parlando alla sua gente in maniera tale che possa essere
capita. E’ un po’ l’obiezione che viene posta al Catechismo della Chiesa
cattolica, deliberato nel 1992 come documento normativo, limitativo della
ricerca teologica, non solo come strumento per la formazione dei fedeli.
Gli antichi dei e le antiche
religioni passarono: è un monito serio. Non è che gli antichi fossero
irreligiosi, come, sbagliando, a volte li riteniamo. Non avrebbero perso tempo,
in quel caso, a costruire quei grandi templi che ancora oggi ammiriamo. E’ che,
ad un certo punto, in un processo non istantaneo ma che richiese circa
settecento anni, da quando il greco Socrate cominciò a parlare
dell’insufficienza delle concezioni religiose del suo tempo a quando la nostra
fede si affermò nell’impero romano intorno al Mediterraneo, certe verità non
furono più suscettibili di mediazioni affidabili in società e vennero
sostituite da altre di cui ci si convinse. Potrebbe succedere anche alle nostre
verità di fede? Potrebbe, se abbandoniamo il lavoro di mediazione culturale e
di inculturazione.
Ai tempi nostri c’è una certa
libertà nel credere in certe verità, come quelle religiose o quelle
in materia medica. Questo non significa che si sia effettivamente più liberi,
in generale, in materia di verità. Oggi, ad esempio, si dà molta importanza ai
fatti economici, ed è come se ad ognuno sia assegnato un prezzo che ne
definisce il valore sociale. Si è liberi di dire di non credere in un dio, ma
se non si crede ai fatti economici si finisce in rovina,
e sempre meno ci si sente impegnati a soccorrere chi cade. Qualche volta la
cosa viene presentata come il conflitto tra il Dio della Bibbia e il
dio-denaro. Criticare quest’ultimo, mettendo in questione il sistema sociale
che lo esprime, può essere piuttosto pericoloso. Può costare la libertà e
addirittura la vita. E’ un sistema di valori che sta mutando. Cercare di
spiegarne, e innanzi tutto spiegarsene, le ragioni è una parte di
quel rendere ragione della propria fede, che è un obbligo
importante del fedele religioso. Non basta ripetere a memoria la dottrina
ricevuta, come una volta si faceva da bambini con i nostri vecchi catechismi a
domande e risposte per la Prima Comunione correnti ancora per tutti gli scorsi
anni Sessanta, fino al rinnovamento della catechesi del
decennio succesivo. Questo lavoro del rendere ragione, che è
confrontarsi con le verità del proprio tempo, e innanzi tutto sulla questione
della verità, è un parte importante del lavoro che ci si aspetta da un laico di
fede. Perché egli deve difendere e promuovere i valori di fede, le verità religiose,
nella società del suo tempo. Non si tratta di provare le
realtà soprannaturali, le quali in quanto tali non sono suscettibili di essere
provate, ormai lo abbiamo capito, ma di accreditare nella società del proprio tempo
il senso religioso della vita, quello basato sulla misericordia tra gli
umani che si irradia anche a tutta la natura intorno, perché quella società
cambi nel senso giusto, in questo trovando compagni ben oltre la cerchia di chi
è esplicitamente religioso.
2. Le verità, le convinzioni socialmente condivise, mutano con il
cambiare delle società in cui sono diffuse. Le società cambiano per successioni
delle generazioni o per commistioni con altre società. La formulazione delle
verità, in riti e ideologie, segue il loro affermarsi in società e, in
generale, le istituzioni che hanno il compito sociale di formalizzare le verità
resistono al cambiamento.
L’idea di un’umanità tutta
compresa in un’unica famiglia è molto antica nella nostra fede e corrisponde
alla situazione sociale in cui si affermò alle origini: quella di un grande
impero multinazionale. Tuttavia essa subì delle metamorfosi al variare della
situazione politica europea. La fede si venne nazionalizzando, venendo a
legarsi con società meno aperte, ad etnie e regni. Il processo seguì la
divisione sociale. La divisione comportava la guerra, ma quest’ultima era
considerata come un fatto naturale, come i terremoti e i cicloni atmosferici.
Ogni società si costruiva così il suo dio, ma la teologia non vedeva
contraddizione con una fede di impronta universalistica. Le conquiste europee
in Africa, America ed Asia crearono problemi più seri. In particolare, in
Africa e in America, si venne a contatto con culture molto distanti da quelle
europee e anche con culture primitive. La comune umanità, che era evidente,
faticò ad essere affermata culturalmente, anche in religione. Convissero varie
formulazioni teologiche, quelle universalistiche, quelle nazionalistiche,
quelle di impronta razzista basate su un primato etnico. Queste ultime furono
alla base della colonizzazione religiosa degli europei.
La nostra teologia si mostrò
piuttosto duttile alle esigenze sociali. Così, ciascun popolo, ciascuno stato,
poteva immaginare di avere un proprio dio e, a livello
mondiale, gli europei di avere un diritto di dominio di origine divina, come
strumento per l’evangelizzazione.
La situazione
cominciò a mutare a partire dalla fine del Settecento, con
l’affermarsi delle democrazie di popolo. Si compresero le origini sociali delle
sofferenze sociali, compresi i conflitti e, pertanto, anche delle guerre. Lo
sfruttamento sociale dei ceti più poveri e il razzismo cominciarono ad essere
intesi come peccati sociali, colpe da cui redimersi. A partire dalla Prima
Guerra Mondiale la riflessione coinvolse il problema della guerra e di un
ordine internazionale pacifico. Anche la guerra cominciò ad essere pensata come
un peccato collettivo, non più quindi come un fenomeno naturale, ma come un
prodotto sociale che, con giuste riforme, poteva essere evitato. Dopo la
Seconda Guerra Mondiale il medesimo orientamento coinvolse anche la valutazione
del colonialismo europeo. Il pensiero sociale cristiano in materia precedette,
e determinò, le pronunce del nostro Magistero, in particolare di quello dei
Papi. Riprese vigore, a partire dagli anni Sessanta, la teologia
universalistica delle origini, ma intesa secondo le esigenze sociali del
momento e il mondo nuovo che si era creato. La globalizzazione della
nostra fede precedette di molto quella dell’economia e, in un certo, senso la
prefigurò e sostenne. Questo orientamento si manifestò in maniera spettacolare
nel magistero di san Karol Wojtyla, il quale arrivò a proporre l’immagine
di radici cristiane dell’Europa che ne avrebbero imposto
la pacificazione in un nuovo ordine internazionale per preservare la pace.
Questa visione non aveva in realtà riscontri storici: la storia europea, fin
dall’affermarsi della nostra fede sul continente, dal Quarto secolo, era stata
un lungo seguito di conflitti, anche a sfondo religioso. La possiamo immaginare
come una retropia, l’immaginare un passato migliore, ma mai
esistito, a cui tornare. Un passato alternativo. Il fatto che, nel corso del
Novecento, si fosse affermata una frattura tra società in cui la fede religiosa
era tra le verità ammesse e altre in cui essa era vivamente contrastata e
ridotta al rango di credenza tollerata, quindi tra regimi di democrazia
capitalista e regimi comunisti, non poteva cambiare la realtà di un passato
aspramente conflittuale nel quale la comune fede religiosa non era stata mai un
deterrente sufficiente alle guerre e, anzi, spesso era stata all’origine di
esse.
La dottrina sociale ancora
corrente sulla pace iniziò a essere diffusa nel 1939, al manifestarsi della
minaccia di una nuova guerra mondiale, e da allora non ha mai cessato di
esserlo. Essa corrispondeva a una situazione sociale che considerava la pace un
valore importante. Ai tempi nostri la situazione sta cambiando. Sembra che
risorgano gli dei nazionali. Si sta proponendo una corrispondente teologia,
che, anch’essa, cerca in passati immaginari degli esempi sociali a cui tornare. L’epoca dei
sovrani assoluti, da essa mitizzata, non fu infatti propizia per l’affermazione
della nostra fede, perché fu caratterizzata da aspri conflitti religiosi e
quindi da valori e fatti contrastanti con quelli evangelici, che pure venivano
proclamati. Ma la si propone come più religiosa di
quella delle democrazie, basata sulla libertà di coscienza, disperando di
ottenere l’unità delle anime altro che con la forza, la coercizione. Questa è
la posizione di quei neo-fascismi di egoismo nazionale che vanno sotto il nome
di sovranismi, i quali hanno come slogan quello
antievangelico “Prima noi!”. Essi sono insofferenti
dell’attuale teologia universalistica e del suo principale esponente vivente,
il Papa regnante. Con fatti concludenti e con la battaglia delle idee cercano
di contrastarla e di ottenerne delle metamorfosi, innanzi tutto cercando da
sradicarla dai corpi sociali di riferimento. Utilizzano a questo fine la paura
ancestrale di un’invasione aliena. Cercano inoltre di modificare politicamente
la legislazione sociale e le istituzioni ispirate ai suoi principi umanitari.
Si tratta, in particolare, della Costituzione italiana vigente e dell’Unione
Europea, con la sua Carta dei diritti, nella cui realizzazione sono stati
fortemente impegnati quelli della nostra fede, sull’ispirazione della dottrina
sociale diffusa dagli anni ‘40 del secolo scorso. Avevano l’obiettivo di un
ordine internazionale pacifico, che in effetti si è prodotto a lungo.
1.3
Azione per il cambiamento
(26-9-18)
«Si può dire che
oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le
situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono
persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i
problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel
mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli
che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9).
Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi,
ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né
frontiere, ma piazze e ospedali da campo.»
Papa Francesco. Dal
discorso pronunciato il 10-11-15 nella Cattedrale di Santa Maria in Fiore a
Firenze, nel corso dell’incontro con in rappresentanti del 5° Convegno
nazionale della Chiesa Italiana, durante la visita pastorale a Prato e a
Firenze.
La nostra Chiesa
ha attraversato molti cambiamenti d’epoca nella sua
lunga storia. Tra un’epoca e l’altra ci sono stati tempi di cambiamento.
Se si è convinti che oggi non siamo in un’epoca di
cambiamento, ma che c’è stato un cambiamento d’epoca,
si vuol dire che il nuovo c’è già. Il tempo del cambiamento è stato molto
veloce? In realtà è durato più o meno una generazione, dall’inizio degli anni
’90 ad oggi. La nostra Chiesa, però, non si è allarmata più di tanto: tutto
sommato pensava al nuovo come ad un ambiente favorevole. Invece le cose stanno
prendendo una brutta piega. E’ con il regno di papa Francesco che ha iniziato a
manifestare di doversi ricredere. A lungo si è mirato, sostanzialmente, a
lasciare le cose come stavano. Ora è difficile reagire. La Chiesa appare ancora,
nel complesso, come la Bella Addormentata della favola, preda di un
incanto di inazione.
Reagire poteva
significare contrasti, lotte, divisioni. Si è preferito riuscire a
mantenere un’immagine di pace uniforme, a prezzo di quell’incantamento. Molte
energie, così, sono andate disperse. In particolare in periferia: le parrocchie
funzionano più che altro come scuola di morale per i più giovani, da dopolavoro
per gli adulti e da centro anziani per gli altri. Certe organizzazioni
religiose hanno assorbito le funzioni di club dei
maggiorenti che in passato vennero svolte da varie confraternite. La storia
nazionale ci avverte però che tra l’Ottocento e il Novecento il movimento
religioso italiano fu molto più di questo. Progettò la riforma sociale. Formulò
valori politici che poi seppe tradurre in realtà sociali. La nostra nuova
democrazia repubblicana è anche opera sua. In questo fu partecipe di un
moto che si sviluppò a livello europeo fin da metà Ottocento. Il Papa,
probabilmente, pensa a qualcosa di simile per affrontare l’epoca nuova in cui
siamo finiti. Ma manca la formazione necessaria e quindi la capacità. Chi, al
di fuori dell’Azione Cattolica, ha parlato più di certe cose alla gente?
Di solito le
analisi finiscono a questo punto: si disegna un quadro e si sta lì a rimirarlo.
Come cambiare, se si vuole farlo?
Cambiare è
sempre possibile, ma richiede impegno. Di questo si è meno capaci. Ci si
disamora facilmente. Magari le si sparano grosse, ma poi? Si frequenta e poi,
di punto in bianco, si sparisce, senza dare spiegazioni. Non parlo sulle
generali. Parlo proprio a te, che sei sparito. E che ne sarà di quelli che
contavano su di te?
Allora poi
quegli altri, quelli che si inquadrano in schemi paternalistici molto rigidi
per resistere, hanno buon gioco a criticare chi la pensa diversamente. Eppure,
onestamente dovranno riconoscere che capita anche tra i loro.
“Chi me lo fa
fare?”, ci si dice. Ecco, quelli della mia generazione più raramente la
pensano così.
Si partecipa
distrattamente: cerchiamo di fare più attenzione! Cerchiamo di fare programmi e
di rispettarli! Ne sappiamo troppo poco di tutto. Così, stiamo a ricasco dei
preti, che, ad un certo punto, si disamorano, non ce la fanno più. Non si
impara nulla! Da anziani imparare è più difficile. Ma da giovani?
Vogliamo decidere
di studiare con un po’ più di pervicacia il pensiero sociale ispirato alla
fede? Come si potrebbe, poi, uscirsene con certe avvilenti banalità xenofobe e
razziste? Si avrebbe qualcosa da dire in società, per rendere ragione,
per spiegare perché noi non siamo xenofobi e razzisti, non lo vogliamo
diventare, e facciamo blocco contro chi si propone di farci degradare in quel
modo.
Impegniamoci,
dai!, a ragionare su quello che il Papa ha detto ieri:
«Viviamo tempi in cui sembrano
riprendere vita e diffondersi sentimenti che a molti parevano superati.
Sentimenti di sospetto, di timore, di disprezzo e perfino di odio nei confronti
di individui o gruppi giudicati diversi in ragione della loro appartenenza
etnica, nazionale o religiosa e, in quanto tali, ritenuti non abbastanza degni
di partecipare pienamente alla vita della società.
Questi sentimenti, poi, troppo
spesso ispirano veri e propri atti di intolleranza, discriminazione o
esclusione, che ledono gravemente la dignità delle persone coinvolte e i loro
diritti fondamentali, incluso lo stesso diritto alla vita e all’integrità
fisica e morale. Purtroppo accade pure che nel mondo della politica si ceda
alla tentazione di strumentalizzare le paure o le oggettive difficoltà di
alcuni gruppi e di servirsi di promesse illusorie per miopi interessi
elettorali.
La gravità di questi fenomeni non
può lasciarci indifferenti. Siamo tutti chiamati, nei nostri rispettivi ruoli,
a coltivare e promuovere il rispetto della dignità intrinseca di ogni persona
umana, a cominciare dalla famiglia – luogo in cui si imparano fin dalla
tenerissima età i valori della condivisione, dell’accoglienza, della
fratellanza e della solidarietà – ma anche nei vari contesti sociali in cui
operiamo.
Penso, anzitutto, ai formatori e
agli educatori, ai quali è richiesto un rinnovato impegno affinché nella
scuola, nell’università e negli altri luoghi di formazione venga insegnato il
rispetto di ogni persona umana, pur nelle diversità fisiche e culturali che la
contraddistinguono, superando i pregiudizi.
In un mondo in cui l’accesso a
strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso, una
responsabilità particolare incombe su coloro che operano nel mondo delle
comunicazioni sociali, i quali hanno il dovere di porsi al servizio della
verità e diffondere le informazioni avendo cura di favorire la cultura
dell’incontro e dell’apertura all’altro, nel reciproco rispetto delle
diversità.
Coloro, poi, che traggono
giovamento economico dal clima di sfiducia nello straniero, in cui
l’irregolarità o l’illegalità del soggiorno favorisce e nutre un sistema di
precariato e di sfruttamento – talora a un livello tale da dar vita a vere e
proprie forme di schiavitù – dovrebbero fare un profondo esame di coscienza,
nella consapevolezza che un giorno dovranno rendere conto davanti a Dio delle
scelte che hanno operato.
Di fronte al dilagare di nuove
forme di xenofobia e di razzismo, anche i leader di tutte le
religioni hanno un’importante missione: quella di diffondere tra i loro fedeli
i principi e i valori etici inscritti da Dio nel cuore dell’uomo, noti come la
legge morale naturale. Si tratta di compiere e ispirare gesti che
contribuiscano a costruire società fondate sul principio della sacralità della
vita umana e sul rispetto della dignità di ogni persona, sulla carità, sulla
fratellanza – che va ben oltre la tolleranza – e sulla solidarietà.
In particolare, possano le Chiese
cristiane farsi testimoni umili e operose dell’amore di Cristo. Per i
cristiani, infatti, le responsabilità morali sopra menzionate assumono un
significato ancora più profondo alla luce della fede.
La comune origine e il
legame singolare con il Creatore rendono tutte le persone membri di un’unica
famiglia, fratelli e sorelle, creati a immagine e somiglianza di Dio, come
insegna la Rivelazione biblica.
La dignità di tutti gli uomini,
l’unità fondamentale del genere umano e la chiamata a vivere da fratelli,
trovano conferma e si rafforzano ulteriormente nella misura in cui si accoglie
la Buona Notizia che tutti sono ugualmente salvati e riuniti da Cristo, al
punto che – come dice san Paolo – «non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né
libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti [… siamo] uno in Cristo Gesù»
(Gal 3,28).
In questa prospettiva, l’altro è non
solo un essere da rispettare in virtù della sua intrinseca dignità, ma
soprattutto un fratello o una sorella da amare. In Cristo, la tolleranza si
trasforma in amore fraterno, in tenerezza e solidarietà operativa. Ciò vale
soprattutto nei confronti dei più piccoli dei nostri fratelli, fra i quali
possiamo riconoscere il forestiero, lo straniero, con cui Gesù stesso si è
identificato. Nel giorno del giudizio universale, il Signore ci rammenterà:
«ero straniero e non mi avete accolto» (Mt25,43). Ma già oggi ci interpella:
“sono straniero, non mi riconoscete?”.
E quando Gesù diceva ai Dodici:
«Non così dovrà essere tra voi» (Mt 20,26), non si riferiva solamente al
dominio dei capi delle nazioni per quanto riguarda il potere politico, ma a
tutto l’essere cristiano. Essere cristiani, infatti, è una chiamata ad andare
controcorrente, a riconoscere, accogliere e servire Cristo stesso scartato nei
fratelli.
Consapevole delle molteplici
espressioni di vicinanza, di accoglienza e di integrazione verso gli stranieri
già esistenti, mi auguro che dall’incontro appena concluso possano scaturire
tante altre iniziative di collaborazione, affinché possiamo costruire insieme
società più giuste e solidali.»
Ecco qua
la ragione teologica per cui non si può essere xenofobi e razzisti:
La comune origine e il
legame singolare con il Creatore rendono tutte le persone membri di un’unica
famiglia, fratelli e sorelle, creati a immagine e somiglianza di Dio, come
insegna la Rivelazione biblica.
La dignità di tutti gli uomini,
l’unità fondamentale del genere umano e la chiamata a vivere da fratelli,
trovano conferma e si rafforzano ulteriormente nella misura in cui si accoglie
la Buona Notizia che tutti sono ugualmente salvati e riuniti da Cristo, al punto
che – come dice san Paolo – «non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né
libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti [… siamo] uno in Cristo Gesù»
(Gal 3,28).
In questa prospettiva, l’altro è
non solo un essere da rispettare in virtù della sua intrinseca dignità, ma
soprattutto un fratello o una sorella da amare. In Cristo, la tolleranza si
trasforma in amore fraterno, in tenerezza e solidarietà operativa. Ciò vale
soprattutto nei confronti dei più piccoli dei nostri fratelli, fra i quali
possiamo riconoscere il forestiero, lo straniero, con cui Gesù stesso si è
identificato. Nel giorno del giudizio universale, il Signore ci rammenterà:
«ero straniero e non mi avete accolto» (Mt25,43). Ma già oggi ci interpella:
“sono straniero, non mi riconoscete?”.
Cerchiamo di tenerlo a mente.
«Essere cristiani, infatti, è
una chiamata ad andare controcorrente»: questo comporta lottare, non facciamoci
illusioni. Bisogna, ad esempio, sbarrare
la strada alla xenofobia e al razzismo, non dar loro tregua, fare barriera,
culturale, ma anche fisica, mettendosi di mezzo, innanzi tutto per
proteggere chi è minacciato e umiliato. Qualche volta si è tentati di mettersi
in mezzo, sì, ma nel senso di indifferenti, tra chi perseguita e chi è
oltraggiato. Come ci fosse un giusto mezzo tra giustizia e ingiustizia.
“Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia”, sosteneva il
democristiano cileno Rodomiro Tomic.
1.4
Riforma sociale come azione religiosa
(29-9-18)
Sembra
che poco della religione passi nella gente. Si dà la colpa alla
secolarizzazione, il modo di vivere che non ricorre più alla fede per spiegare
come va il mondo. Le ragioni che però se ne danno non mi convincono.
Essenzialmente le persone non trovano più utilità a comprendere la società
intorno: si limitano a lasciarsi trascinare e a fare come tutti. Si pensa di
essere in balia della sorte, della dea Fortuna, che qui
vicino a Roma aveva un suo grande santuario, a Preneste, l’attuale
Palestrina. Questo ha screditato l’idea di riforma sociale come
azione religiosa, che presuppone di sentire come doveroso in quanto possibile
il miglioramento sociale, e, prima di questo, di capire come va il mondo per
progettarne il cambiamento. E’ su queste basi che le persone della nostra fede
diedero un apporto decisivo alla costruzione di una grande realtà istituzionale
come l’Unione Europea, che ha garantito la pace europea dal 1945, un periodo
lunghissimo.
C’è sicuramente un problema
educativo. L’istruzione religiosa si ferma, di solito e per la maggior parte
delle persone, alla Cresima, che in Italia si all’età delle scuole medie
inferiori o poco più in là. Ma molti lasciano prima, dopo la Prima Comunione,
alle elementari. Quella scolastica per i più finisce verso i diciotto anni.
All’età di quarant’anni, quella in cui si ricoprono i ruoli più importanti
della propria vita, l’istruzione ricevuta è spesso un ricordo lontano di oltre
vent’anni. Si notano difficoltà anche nel comprendere testi semplici. I ricordi
religiosi, che dovrebbero rifarsi alla nostra complessa dottrina teologica,
appaiono molto approssimativi, come risulta, in particolare, dalle ricerche
demoscopiche.
La società, si dice, non sostiene
più la vita religiosa, come un tempo; diciamo, in Italia, come fu fino agli
anni Sessanta. Ma come la sosteneva? Non se ne era per nulla soddisfatti. Per
questo si avviò la riforma progettata nel corso del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965). Cominciò ad essere attuata negli anni 70, ma fu presto sospesa,
con l’inizio del regno religioso di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°
(1978-2005). Si temette la dispersione dei fedeli.
Quella riforma aveva
due aspetti importanti: l’idea di una comunità educante alla fede e la
concezione cristocentrica dei fatti religiosi. In
precedenza il clero, il cui potere religioso era accreditato e
sostenuto dalla politica di governo, impartiva al popolo un’istruzione
dottrinaria basata sull’idea di un potere esercitato direttamente dal Cielo
attraverso plenipotenziari terreni: i principi del clero, e i Papi
innanzi tutto. Un impero religioso che univa Cielo e terra e che era stato
organizzato a partire dall’Undicesimo secolo. Il potere sul popolo era
suddiviso consensualmente tra prìncipi religiosi e civili sulla base di concordati.
Si era organizzato una sorta di condominio. Il compito del popolo era quello di
obbedire ai prìncipi e, in quest’ottica, era molto importante che ciascuno
conoscesse il posto che gli competeva. L’istruzione religiosa si riduceva
sostanzialmente a questo. I risultati nell’etica personale non erano certi
migliori di quelli dei nostri tempi: tutti i comandamenti erano in genere
apertamente violati, in particolare da chi dominava nella società, clero
compreso, ma la coerenza del sistema era assicurata dall’obbedienza che veniva
prestata ai superiori. Ad un certo punto, la misericordia del Cielo scendeva
sulla gente, a coprire e perdonare i suoi peccati. Questo sistema religioso
aveva coperto conflitti crudeli e stragisti, che avevano travagliato innanzi
tutto l’Europa e poi il mondo, prodotti dai processi di colonizzazione europea.
L’idea di un’Europa eticamente migliore in quanto sorretta e vivificata
da radici cristiane è solo una fantasia che non
trova riscontri storici reali. Quello che in Europa funzionò a lungo fu il
sistema disacralizzazione del potere politico, mediante un’alleanza
tra prìncipi civili e religiosi, che consolidava il potere di entrambi. Essa
non escludeva la possibilità di catastrofici conflitti tra stati e la
repressione violenta di quelli civili: si trattava di eventi considerati al
pari di quelli naturali, sgradevoli ma impossibili da evitare.
La riforma religiosa
progettata durante il Concilio Vaticano 2° prese le mosse dall’idea
di fare dell’umanità un’unica famiglia, combattendo le cause sociali che
avevano portato ai disastrosi conflitti mondiali scoppiati nel corso del
Novecento. Questo rese necessario esprimere una critica sociale e, pertanto,
desacralizzare il potere politico, rompere e rivedere gli antichi concordati.
La critica sociale doveva partire dal popolo e, quindi, in una prospettiva
ecclesiale, dai laici, che fino ad allora avevano avuto come unica prospettiva
quella dell’obbedienza. Essi si sarebbero dovuti formare e attivare in nuovi
tipi di comunità di fede, non più organizzati con struttura piramidale, in alto
il Cielo e alla base i fedeli, con al centro, su vari livelli, i
plenipotenziari religiosi, ma, al modo delle origini, come discepoli intorno al
Maestro. Quest’ultimo, innanzi tutto con i suoi esempi di vita ma anche con la
sua vita soprannaturale, era il vero tramite tra Cielo e terra, accessibile ad
ogni fedele attraverso un rapporto personale, che però andava costruito nella
formazione religiosa. Occorreva una nuova spiritualità. La teologia del laicato
fu al centro della riflessione dei saggi di quel Concilio. Si volle però
preservare la struttura gerarchica del clero, prevedendone riforme molto
limitate, innanzi tutto potenziando l’autonomia e la corresponsabilità dei
vescovi, il cui potere veniva però ancora configurato come quello di prìncipi
religiosi. Mentre il laicato veniva lanciato nella riforma sociale sfruttando i
processi democratici che si erano andati affermando a partire dalle
società di tipo europeo, nessuna vera democrazia veniva ammessa
nell’organizzazione ecclesiale, riservandone la riforma al clero. Questo portò
a distinguere, separando, clero e laicato. Un bel problema in una nazione come
l’Italia dove il clero, in particolare quello di base, aveva avuto un ruolo
importantissimo nello sviluppare processi di riforma sociale, compresi quelli democratici!
Al clero venne sostanzialmente assegnata, nei processi di
riforma, la formulazione dei principi dell’azione sociale, che
però doveva essere attuata dai laici. Tuttavia dal Concilio degli
anni Sessanta uscì l’immagine di un laicato che avrebbe dovuto operare con una
certa autonomia nei campi di sua competenza, e che quindi avrebbe dovuto avere
la possibilità di essere corresponsabile della formulazione di
quei principi, come in effetti avvenne. Nella pratica questo
produsse una certa tensione. Mentre il clero era ancora soggetto all’obbedienza
canonica, nell’impero religioso nel quale era inquadrato, non così fu per il
laicato con la sua nuova autonomia. Nel laicato, inevitabilmente, per
l’affermarsi dei processi democratici, si produssero varie correnti di pensiero
e di azione, che cercarono di tirarsi dietro il potere religioso. Quest’ultimo,
ad un certo punto, sentì di non riuscire più a controllare la
situazione e bloccò tutto, sospendendo l’azione di riforma, cercando di cristallizzare
la situazione in uno stadio in cui ancora era gestibile dal vertice religioso.
Questo si riuscì a fare con il nuovo stile del Papato sotto Karol Wojtyla,
molto centrato sulla personalità del Pontefice, come mai prima di allora. La
nuova situazione influì sui processi di formazione del laicato, al quale si
chiedeva sostanzialmente, al posto dell’antica obbedienza, una sorta di
neo-papismo emotivo, un fidarsi emotivamente nel Papato in un rapporto di
simpatia personale. La riforma sociale fu sospettata di socialismo, al quale il
Wojtyla era fortemente avverso, per l’esperienza che ne aveva fatto, nella
versione di ispirazione comunista sovietica, nella sua Polonia. Nei confronti
del clero si produsse invece una dura azione di repressione di ogni tipo di
dissenso, che aveva il precedente più prossimo nella persecuzione
anti-modernista di inizio Novecento. Una manifestazione di questa durezza
gerarchica fu l’approvazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel 1992,
come documento normativo e pertanto da prendere come riferimento
universale anche dalla più raffinata ricerca teologica, pena la condanna. La
riforma catechetica attuata in Italia negli anni ’70 aveva concepito
invece i catechismi come sussidi all’azione formativa nel popolo di fede.
Tutto questo ci porta
alla situazione di oggi. Una teologia che è ancora fondamentalmente quella
riformata del Concilio Vaticano 2°, dell’umanità come un’unica famiglia umana,
ma che non ha più un attore sociale che la attui, e neppure in grado di
comprenderla veramente. Le comunità educanti alla fede, in Italia progettate a
partire dal Documento di base in materia di catechetica
del 1970, non hanno funzionato. Sono rimaste realtà artificiali, molto
confinate nell’azione catechetica e troppo dipendenti dal clero, senza vera
capacità di ragionare e agire in termini di riforma sociale. In definitiva,
appaiono inutili. Si pensa di lanciarle in società, per organizzare ospedali
da campo sociali, è l’idea del Papa regnante, ma è un lavoro che
non sanno fare: sono diventate essenzialmente collettività di auto-aiuto, per
la medicina dell’anima. Le si è tenute troppo a lungo separate perché possano
produrre qualcosa. Naturalmente, qualcosa per cambiare è sempre possibile fare.
Ma non è cosa da preti. Loro fanno già troppo. E a certe cose non sono stati
formati. Mi pare che nei seminari, per ciò che ho potuto constatare, si stia
troppo tra nuvole d’incenso e paramenti sacri, troppo lontani dal popolo, e
anche sospettosi verso di esso come possibile fonte di contaminazione religiosa.
Non avremo nuovi Murri, Sturzo, Dossetti. E’ il laicato, innanzi
tutto, che deve iniziare a pensare a certe cose.
Noi laici sappiamo troppo
poco di tutto. Questo ci rende facilmente manovrabili dalla politica
spregiudicata di oggi, che impiega raffinate tecniche di psicologia sociale per
dominare le masse. Questo pregiudica i nostri progetti di azione sociale
ispirata dalla fede. E’ necessario innanzi tutto,
allora, riunirsi per aiutarci reciprocamente a capire meglio come va
il mondo. Bisogna riprendere a studiare. Questo richiede tempo e buona volontà.
Non basta partecipare a gruppi di auto-coscienza in cui si dice la propria e si
vede gli altri che fanno. Un lavoro che Lorenzo Milani fece con i suoi alunni,
nella sua parrocchia di montagna, con tanti meno mezzi di quelli a nostra
disposizione oggi. Un impegno integrale: occorre recuperarlo. Un impegno per
certi versi anche rischioso: la società intorno è cambiata, stanno producendosi
a livello europeo processi neo-fascisti in cerca di legittimazione sacrale.
Essi fanno appello alla religiosità che negli Sessanta si volle riformare,
quella che non faceva conto di produrre conflitti e morti per sostenere
l’egoismo nazionale.
1.5
Un mondo da salvare
(4-10-18)
Il catechismo per i più giovani per molti rimane l’unico per tutta la
vita. Si vuole iniziare a spiegare il senso della nostra fede e a farne fare
l’esperienza e la pratica. Dalla metà degli scorsi anni ’70 è un po’ meno
strutturato come una lezione scolastica. Ma dovrebbe essere approfondito crescendo.
E’ qualcosa di più del semplice annuncio, ma per certe nozioni si è
troppo piccoli; occorre, in particolare, fare più esperienza di vita per
capirle. Un tempo la storia sacra veniva raccontata come una favoletta e, alla
fine, poteva essere scambiata per quella. Adesso ci si concentra di più su
alcuni episodi, ma si perde un po’ il senso generale della narrazione, la
continuità che si vorrebbe far vedere nei fatti raccontati. Il problema è che,
quando sarebbe il momento di iniziare ad approfondire, si lascia. La fede,
però, non si spegne subito, rimane come sottotraccia. E’ ancora possibile, per
un po’, suscitarla di nuovo. Questo si fa più difficile se perdura
l’allontanamento dalle consuetudini religiose. Di solito la religione non viene
sostituita da altro, ma da un tempo vuoto. Quindi, poi, ad una certa età se ne
sente la mancanza, ma da soli non si riesce più a tornare. Del resto non si
tratta nemmeno più di tornare. La fede da bimbi non serve più a
quel punto, va stretta. Serve riprendere un discorso, delle consuetudini, delle
amicizie.
La catechesi si dovrebbe
fare non in nome proprio, ma per conto della Chiesa, sotto la direzione del
Vescovo. Questo richiederebbe una formazione dei catechisti che non mi pare che
in genere si faccia. La catechetica è diventata una vera disciplina
scientifica, che si avvale di tante altre scienze, ad esempio della
psicologia e della pedagogia. Nelle parrocchie, però, si fa di necessità virtù.
Si cerca di fare con quelli che si mostrano disponibili, anche se non formati a
sufficienza, perché bisogna iniziare e i preti non bastano. Accade, però, che
poi ognuno tenda a metterci dentro i propri personali punti di riferimento, che
possono essere insufficienti o inadatti.
La cosa più difficile è la
mediazione tra fede e vita: far capire che la fede serve alla vita
e che quest’ultima interroga la fede e, in qualche modo, così la
orienta. Non è la stessa cosa vivere la fede in uno dei tanti inferni della
terra e nel nostro quartiere, dove ci sono tante situazioni di sofferenza, ma
che non è (ancora) un inferno. Quest’opera di mediazione è di solito l’aspetto
più critico della catechesi. Non si riesce più a convincere dell’utilità della
fede. Quest’ultima, ad un certo punto, viene proposta anche come
medicina dell’anima, come una specie di sostegno psicologico, ma a questo
scopo, non illudiamoci, serve a poco. Può solo funzionare, e questa è stata una
delle critiche più serie a certi tipi di religiosità, temporaneamente come
anestetico, ma nulla di più.
C’è però chi riesce a
trasferire la propria fede dall’età più giovane a quella adulta, facendo quegli
approfondimenti che servono, che comprendono anche una critica della fede
bambina. Quest’ultima, a volte, riesce ancora buona per i più anziani, per i
quali gli orizzonti si restringono. Chi conquista una fede adulta, che prima o
poi finisce per manifestarsi agli altri, si trova di fronte alla difficoltà di
renderne ragione con chi ha lasciato. Questi ultimi, di solito,
tengono a precisare che hanno lasciato, come a scansare tentativi di
proselitismo. C’è sempre il sospetto che chi ancora crede tenti di conquistare
gli altri alla religione, e certe volte è effettivamente così. Io, ad esempio,
non sono di quelli. A chi mi espone i motivi per cui non crede, rispondo che è
vero, ha ragione, e aggiungo che ce ne sono molti altri. La nostra fede, in
fondo, è inverosimile. E’ più o meno così per tutte le religioni
storiche. Ma, se da ragazzo, negli anni 70, mi avessero parlato degli
smartphone, li avrei considerati inverosimili. Eppure, eccoli nelle
nostre mani. Funzionano, ma non sappiamo come. C’è negli e tra gli esseri umani
più di ciò che appare. Uno però può ritenere di non aver bisogno di scoprire
altro oltre ciò che appare. Di solito però è la vita a proporre certi interrogativi.
Se ci si mette alla ricerca di una risposta, prima o poi si incontra la fede.
La grande riflessione biblica è tutta centrata su questo. Ecco perché, ad
esempio, Aldo Moro, quando era prigioniero nella piccola cella allestita per
lui dalle brigate rosse che lo tenevano in suo potere, chiese di avere una
Bibbia. Ma aveva avuto una lunga formazione per trarre beneficio dai tesori
nascosti in quel testo. Dico “nascosti”, perché a molti di quelli che lo
prendono in mano appare solo una raccolta di favole. Alla riflessione biblica
occorre infatti essere introdotti e guidati. C’è necessità di qualcuno che
spieghi. La prima figura che tenta di farlo è il prete, a Messa, e poi c’è il
catechista. Sembra strano, data l’importanza della liturgia, ma spesso a Messa
ci si distrae. Lo scrittore Bruce Marshall sosteneva che l’effetto di una buona
predica dura per non più di dieci minuti in chi la ascolta e circa due minuti
in chi la fa. Nella Messa per i più piccoli, allora, il celebrante cerca di
coinvolgere l’attenzione dei bambini usando il metodo interattivo, a domande e
risposte. Ma il catechista può fare di più.
All’adulto che ha lasciato faccio
osservare che c’è un mondo da salvare. Se condivide quest’idea, significa che
empatizza con chi soffre: è sulla buona strada. La nostra fede essenzialmente
è, infatti, compassione, o, altrimenti detto, misericordia. Ci sentiamo tutti
uniti: questo sentimento nel greco evangelico è detto agàpe, che
traduciamo di solito con amore, ma che è sostanzialmente misericordia,
compassione. E’ molto importante, perché nella fede crediamo che il
Fondamento sia agàpe, è scritto.
1.6
Catechesi civile
(7-10-18)
Nel 2016 l’Azione Cattolica Ragazzi
organizzò un movimento tra i suoi aderenti, dall’età di 3 anni a 14 anni, per
imparare e mettere in pratica la dottrina sociale, sostanzialmente progettando
azioni politiche, ad esempio la gestione di un Comune. All’incontro finale, qui
a Roma, venne invitata anche la Sindaca della nostra città, che però non poté
venire.
Si prese come riferimento
l’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii
Gaudium. Ecco come venne presentata l’iniziativa:
« La Chiesa italiana si è sempre
interrogata e si lascia ogni giorno interrogare molto dalle sfide dell’annuncio
di fede nel mondo, e la Dottrina Sociale della Chiesa è proprio il frutto di
una riflessione orientata a leggere il progetto di Dio nella società, nella
cultura, nell’economia, nelle nostre vite.
Gli ambienti quotidianamente
abitati, come la famiglia, l’educazione, la scuola, il creato, la città, il
lavoro, i poveri e gli emarginati, l’universo digitale e la rete, sono
diventati per tutti noi quelle “periferie esistenziali”
che s’impongono all’attenzione della Chiesa italiana quale priorità
in cui operare il discernimento e vivere la missione.
L’Azione Cattolica anche
oggi sceglie di fare sue le istanze e le intuizioni profetiche che coglie
camminando e stando con la gente alla luce del Vangelo e delle parole del
Magistero. È per questo che, in questo tempo così ricco ed entusiasmante, non
possiamo non accogliere nuovamente il rinnovato invito che Papa Francesco ha
rivolto alla Chiesa Italiana
durante il Convegno di Firenze . Il Santo Padre ci ha, infatti, detto che : «In
ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e
circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un
approfondimento della Evangelii Gaudium, per trarre da essa criteri
pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro
priorità che avrete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra
capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne
sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida
nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel
genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera
ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è
patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo
straordinario Paese».
(PAPA FRANCESCO, Incontro con i
rappresentanti del V Convegno Nazionale
della Chiesa Italiana, Cattedrale di
Santa Maria del Fiore, Firenze,
Martedì 10 novembre 2015)
Abbiamo così pensato che
sarebbe stato bello e importante per la vita delle nostre comunità ecclesiali e
civili che anche i più piccoli, i bambini e i ragazzi dell’Acr potessero avere
spazi e luoghi per potersi lasciare interpellare “a loro misura” dalle
intuizioni che Papa Francesco ha scritto nell’Esortazione apostolica, e che
stanno tracciando il cammino delle nostre Chiese locali e della nostra
Associazione. Desideriamo infatti che anche loro possano, non solo guardare con
occhi grati le loro comunità e accoglierne bellezza, ma possano anche vivere e
fare esperienza della Chiesa che sognaPapa Francesco, una Chiesa sempre “in
uscita” che vive la sua missione con e per il suo popolo.
In questo percorso abbiamo
allora scelto di lasciarci accompagnare da 5 espressioni dell’Evangelli
Gaudium, che crediamo possano illuminare il cammino che i ragazzi vivranno in
questo anno. Desideriamo che in questi mesi, durante i quali si impegneranno a
sperimentare la grandezza della misericordia di Dio nel loro cammino ordinario,
possano comprendere come, a partire dalla famiglia, dalla cura del creato e
dalla partecipazione alla vita delle loro città, possano essere guidati
dall’orizzonte e dallo stile che questi verbi disegnano.
Prendere l’iniziativa,
coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare orientano così
l’itinerario che i bambini e i ragazzi dell’Acr vivranno e che li aiuterà ad
interrogarsi su come possono anche loro ogni giorno costruire una Chiesa bella
dove crescere sperimentando la bellezza di essere amati, e per questo lasciarsi
condurre dall’amore che non può non portare frutti di bene e di lode. Infatti,
come afferma Papa Francesco:
«La Chiesa “in uscita” è la comunità di
discepoli missionari cheprendono l’iniziativa, che si
coinvolgono, che accompagnano, chefruttificano e festeggiano.
“Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo.
La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa,
l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo
passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani
e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un
desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato
l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva.
Osiamo un po’ di più di
prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha
lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi,
mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai
discepoli: «Sarete beati se farete questo» (Gv 13,17). La
comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita
quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione
se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo
nel popolo.
Gli evangelizzatori
hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce.
Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna
l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano
essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica.
L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti.
Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità
evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole
feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania.
Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha
reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che la Parola si
incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché
apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita
intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però il
suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e
manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. Infine, la comunità
evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni
piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione
gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far
progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza
della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e
fonte di un rinnovato impulso a donarsi».
(PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 24)»
Quella fu catechesi civile, quella
che molto raramente si fa nelle nostre parrocchie e che, invece, si dovrebbe
fare, pena l’inutilità della religione. Non ci si deve sorprendere, poi, se non
la si fa, che i ragazzi, avvicinandosi all’età adulta abbandonino la religione,
e, seguitando, con la religione, anche la fede, che della religione ha bisogno.
La catechesi che si fa per i
più giovani è, per ciò che ne so, di carattere piuttosto intimistico. La
religione, sostanzialmente, quando va bene, viene presentata come medicina
dell’anima, e per questo scopo serve veramente a poco, perché la fede,
quando le si dà via libera, è sommovimento dell’anima, cambia la gente
e la spinge alle cose più strane. Quando va male, la religione viene
presentata come una gabbia etica, in particolare come un rigido sistema di
divieti sessuali, contro il quale giustamente i giovani si ribellano.
Ad alcuni la catechesi
civile non sta bene perché, dicono, è fare politica, e hanno
perfettamente ragione. Infatti serve per imparare a fare politica, che
significa partecipare democraticamente al governo della società. E’ con la
politica, con l’associarsi per progettare una società migliore, che si cambia
il mondo. La politica è strumento del pensiero sociale ispirato ai valori della
fede, del quale fa parte anche la dottrina sociale, quella sua versione che
viene diffusa dal Magistero come prescrizione di doveri religiosi. Infatti la
dottrina sociale è teologia: spiega quindi qualcosa che è molto importante per
la fede. Non bastano i riti, le liturgie. Occorre l’azione sociale. E’ così che
la nostra fede ha cambiato il mondo. In meglio o in peggio? In genere siamo
stati poco portati all’autocritica. In nome della nostra fede si sono fatte
azioni sociali orrende. Si è iniziato a riconoscerlo francamente nel
2000, durante il Grande Giubileo che si celebrò quell’anno, sotto la guida di
san Karol Wojtyla, che regnava in religione come Giovanni Paolo 2°. Ma non
siamo andati più in là. Certe cose ce le diciamo sottovoce tra gente che
approfondisce, non le proclamiamo al popolo.
L’Azione Cattolica è stata
costituita, per decreto pontificio, proprio perfare politica.
Di solito si fissa la sua nascita
al 1867, quando il conte Mario Fani di Viterbo e Giovanni Acquaderni fondarono
a Bologna la Gioventù Cattolica italiana, il cui programma fu
diffuso in pubblico il 4 gennaio 1868.
Si era in epoca di durissimo
scontro politico tra il Papato, il cui regno territoriale nell’Italia
centrale era minacciato dai moti nazionalistici italiani, e il Regno d’Italia,
fondato nel 1861 sotto la monarchia cattolica dei Savoia, che di quei moti
aveva preso la guida.
In questo clima, nel 1866 a
Bologna era stato in precedenza fondato un gruppo denominato Associazione
Cattolica Italiana per la difesa della libertà della Chiesa
in Italia. La nascita dell’associazione venne consacrata da un breve del
Pontefice nel quale ne vennero fissati gli scopi. Era presieduta dall’avvocato
Giulio Cesare Fangarezzi e tra suoi fondatori aveva Giovanni Battista Casoni.
Presto si ebbe la reazione delle autorità di polizia italiane. Venne approvata,
relatore Francesco Crispi, una legge eccezionale che stabiliva il domicilio
coatto per i sovversivi politici. Fangarezzi dovette rifugiarsi in Svizzera e
il Casoni dovette fuggire da Bologna ed entrare in clandestinità, per sfuggire
all’arresto. L’associazione si sciolse. Giovanni Acquaderni era schedato come
“paolotto” (che all’epoca era sinonimo di bigotto) e “clericale reazionario”
dalla polizia italiana. Erano considerati sovversivi politici perché, prima
della fine del regno dei Papi a Roma, si opponevano al processo di unificazione
nazionale, nell’interesse politico del Papato, e successivamente avrebbero
voluto rompere l’unità nazionale restituendo al Papato il regno territoriale su
Roma. Un reato politico molto grave.
Tuttavia la nostra Azione
Cattolica non nacque né nel 1866, né nel 1868, né è l’erede dell’Opera dei
Congressi, che organizzò grandi incontri dell’associazionismo cattolico
tra il 1874 e il 1904. Anzi, per così dire, nacque dalle ceneri del precedente
associazionismo, in particolare dallo scioglimento dell’Opera dei Congressi per
volontà del Pontefice, irritato per le correnti democratico-cristiane che in
essa si manifestavano sempre più vivacemente, nonostante la condanna formulata
con l’enciclica Le gravi preoccupazioni sociali - Graves de Communi
re diffusa nel 1901 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, lo
stesso della prima enciclica della moderna dottrina sociale, la Le
Novità - Rerum Novarum, del 1891. La nostra Azione Cattolica fu
prefigurata nel 1905 dall’enciclica Il fermo proposito del
papa Giuseppe Sarto, regnante in religione come Pio 10°, proclamato santo nel
1954, e costituita nel 1906 con l’approvazione dei suoi statuti da parte di
quel medesimo Papa. Si era nel periodo più buio della persecuzione
antimodernista, l’ultima guerra di religione intrapresa dalla Chiesa cattolica.
Lo stesso Romolo Murri, prete, tra gli ideatori di una ideologia
democratico-cristiana, ne fece le spese, venendo scomunicato nel 1909.
[Traggo le informazioni di cui sopra dal
libro di Gabriele De Rosa, Il movimento
cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza,
1979, consultabile solo in biblioteca, in quanto non più in commercio].
La missione politica
dell’Azione Cattolica era chiaramente dimostrata dal fatto che la
nuova organizzazione comprendeva una Unione elettorale, in un’epoca
nella quale, per altro, ai cattolici era vietato di partecipare alle elezione
politiche nazionali, quindi alla vita democratica del Regno d’Italia. Nel 1913
il divieto fu superato, in concomitanza con l’allargamento del suffragio
elettorale (comunque limitato ai cittadini uomini). Nel 1919 venne fondato, da
cattolici democratici di ideologia democristiana, il Partito popolare italiano
e venne sciolta l’Unione elettorale.
L’Azione Cattolica venne
costituita come strumento politico del Papato, come partito di massa, per
contrastare con la forza del numero la politica nazionalista e liberale nel
Regno d’Italia e sostenere le pretese territoriali del Papato, che era stato
spodestato nel 1870 dal suo piccolo regno territoriale con capitale Roma.
Tuttavia venne profondamente trasformata, rispetto alla missione delle origini,
dall’azione autonoma dei suoi aderenti, a cominciare da persone come Giuseppe
Toniolo e Armida Barelli. Fu una delle principali agenzie culturali per la
formazione del popolo alla democrazia, donne comprese, che poterono votare solo
dal 1946. Questa azione venne progressivamente limitata negli anni ’30, ai
tempi della compromissione del Papato con il regime fascista, per stabilizzare
la conciliazione contrattata nel ‘29 con il Regno
d’Italia, con i Patti Lateranensi, firmati nel palazzo
romano del Laterano da Benito Mussolini, per parte italiana quale Presidente
del Consiglio dei ministri, e dal cardinale Pietro Gasparri, Segretario di
Stato, in rappresentanza della Santa Sede. Da quegli accordi venne a noi romani
la Città del Vaticano, simulacro del potere territoriale del Papato, con gli
Svizzeri, i francobolli, le monete ecc. Tuttavia, anche in quel triste
decennio, il tirocinio alla democrazia continuò nelle organizzazioni intellettuali dell’Azione
Cattolica, in particolare nella FUCI (gli universitari cattolici) e nei
Laureati Cattolici, ispirati da Giovanni Battista Montini, uno dei principali
artefici della democrazia italiana, in particolare quale co-autore della serie
di radiomessaggi pontifici in tema, tra il 1939 e il 1945.
L’evoluzione
dell’Azione Cattolica fu portata a termine, dopo il Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, con il nuovo
statuto del 1969, che staccò l’associazione dall’asservimento agli interessi
politici del Papato. Questo il vero significato della scelta religiosa.
La politica del Papato l’aveva incatenata al sostegno del partito
cristiano, la Democrazia Cristiana, della quale costituiva serbatoio di
voti e agente formativo. Ciò era avvenuto nel quadro del compromesso che,
regnante Eugenio Pacelli - Pio 12°, si era raggiunto con i democratici
cristiani di De Gasperi, Dossetti, Moro, La Pira e Fanfani. L’ideologia del
Concilio Vaticano 2° ampliò di molto la missione del laicato cattolico e questo
richiese quel processo di liberazione di energie. Ciò avrebbe richiesto
una laicizzazione del partito cristiano, che non si
riuscì ad ottenere, pur tentandola negli anni ’80. Questo ne innescò una sua
crisi terminale. Ma avrebbe richiesto anche la revisione dell’impegno politico
dell’Azione Cattolica, libera di sostenere l’evoluzione dei processi
democratici secondo la nuova era che si venne prefigurando nel corso degli anni
’80. Anche in questo si fallì. Non si riuscì a pensare ad un impegno politico
che sostituisse quello a sostegno di un partito cristiano. Emersero
correnti fondamentaliste e integraliste che trovarono credito presso Wojtyla,
profondamente sospettoso verso il socialismo che indubbiamente attraversava le
correnti democratico cristiane italiane per la loro lunga storia
insieme ad esso. Si arriva, in definitiva, all’attuale irrilevanza politica del
cattolicesimo sociale italiano, al quale nessuna formazione politica
rappresentata in parlamento si richiama più.
Tutto questo si sta
manifestando nel bel mezzo di una gravissima crisi della politica democratica
in Italia. La democrazia, il cui sostegno era stata la principale ragione per
cui i democratici cristiani avevano accettato il sostegno di un Papato uscito
piuttosto screditato dal compromesso con il fascismo, è posta seriamente in
questione. E si avverte una forte difficoltà della gente di ragionare di
politica in termini democratici. Ma, innanzi tutto, proprio di ragionare.
Eppure gli strumenti formativi non mancherebbero. All’esortazione
apostolica La gioia del Vangelo, si è aggiunta l’enciclica Laudato
si’, che contiene una realistica e informata spiegazione dell’origine dei
problemi sociali che ci travagliano. Si tratta di documenti che, purtroppo,
sono poco conosciuti, per quello che ho constatato, tra gli stessi formatori.
Negli anni passati siamo stati abituati ad un profluvio di letteratura
pontificia, a cui non si riusciva proprio a tener dietro. Ma a quei
due documenti bisognerebbe proprio fare attenzione.
Con fatica riusciamo a
portare i più piccoli alla Comunione e una minoranza di loro anche alla
Cresima. Questo non basta. Occorrerebbe formarli a costituire società animate
da spirito di fede, fin da piccoli. Questo sembra superare le nostre
capacità di immaginazione: eppure è appunto quello che l’Azione Cattolica
Ragazzi ha tentato nel 2016 e sta ancora facendo. Una catechesi civile.
1.7
La religione come conquista culturale
(9-10-18)
La religione, intesa come sistema di credenze nel soprannaturale, riti e stili di
vita con essi coerenti, è integralmente una produzione sociale, vale a dire un
fatto culturale, studiato
dall’antropologia, che osserva come vivono gli esseri umani, dalla sociologia,
che si occupa delle dinamiche delle società umane, e dalla psicologia, che
studia i processi della nostra mente. La fede, il confidare in un
soprannaturale, in ciò che va oltre quello che appare, è invece innata, ma senza la religione non ha parole per
esprimersi.
La religione, come fatto culturale, viene determinata
dalle necessità sociali del momento. La fede vi influisce, ma fino ad un certo
punto. Le religioni primitive sono quelle basate sull’osservazione della
natura. Ci si trova in balia di essa e la si personalizza, la si pensa opera di
dei. Poi si sono le religioni che danno molta importanza al caso, o altrimenti
detto alla fortuna. Qui vicino a Roma, nell’attuale
Palestrina, c’era un grande e frequentato santuario dedicato alla Dea
Fortuna. Più avanti nella storia, le dinamiche sociali furono immaginate
come frutto di lotte tra dei. Ogni popolo costituito in nazione con il suo dio.
Tutte queste concezioni religiosi hanno una caratteristica comune: sono facili
da vivere, frutto di tradizioni molto radicate e quindi sentite un po’ come
istintive, e anche di un certo pessimismo in materia di storia umana. Ci si
pensa come totalmente nelle mani di capricciose potenze soprannaturali, e
soprannaturali in quanto non in nostro dominio. Occorre quindi accattivarsene i
favori con riti e sacrifici.
La nostra religione è molto diversa e si
affermò intorno al Mediterraneo, in un processo dei primi tre secoli della
nostra era, all’esito di un travaglio culturale durato circa quattro secoli, gli ultimi dell’era
antica, in cui si avvertì l’insufficienza etica delle più antiche religioni. Il
veicolo culturale dell’affermazione della nostra fede fu l’ellenismo, la
cultura greca diffusa negli ambienti sociali conquistati da Alessandro il
grande e dai suoi successori dal Quarto
secolo dell’era antica.
La caratteristica principale della
nostra religione è di pensare un’unione molto stretta tra gli esseri umani,
basata su una realtà soprannaturale unica, benigna e molto vicina a ciascuno,
tanto da annullare la differenza tra Cielo e Terra. Non è una religioneistintiva, naturale, perché
costantemente smentita dalla realtà: pretende, ad esempio, la pace in un mondo
travagliato da continue guerre. E’ espressione di una certa insoddisfazione per
come vanno le cose nella natura e nella società: si vorrebbe porre
rimedio ai mali che manifestano. E’ il frutto, quindi, di una conquista
culturale, anche se corrisponde ad esigenze molto profonde degli esseri umani,
ad una loro fede indubbiamente piantata in loro. Richiede
quindi un impegno di approfondimento. Questo è, appunto, ciò che manca tra noi
di questi tempi.
La capacità di raggiungere quella conquista
culturale si ha al termine di un processo di formazione che possiamo ritenere
in qualche modo sufficiente alla fine delle scuole superiori. E’ in quel
momento che, ad esempio, si hanno le basi per capire alcuni documenti religiosi
molto importanti come le Costituzioni Luce
per le genti e La gioia e la speranza del Concilio Vaticano 2°, che, come diceva
Giovanni Battista Montini - papa Paolo 6°, sono il catechismo del mondo moderno. I catechismi per le varie età diffusi
dalla Conferenza episcopale italiana e da altre istituzioni religiose ne sono
versioni semplificate. Il Catechismo della Chiesa Cattolica è, invece, un
documento normativo diretto ai teologi, non uno strumento formativo popolare, e
richiede un’istruzione a livello universitario per essere capito.
Purtroppo il nostro sistema di formazione
permanente degli adulti alla religione è molto carente, per vari motivi. Non ci
sono le forze per reggerlo e, in genere, non si ha nemmeno il tempo e la voglia
di parteciparvi. Ci si contenta, così, di una coscienza religiosa un po’
superficiale. La situazione si aggrava molto con il trascorrere degli anni
dall’uscita del percorso formativo. Già nei quarantenni è piuttosto seria. I
più anziani mantengono solo vari ricordi. Solo chi per professione ha dovuto
approfondire tematiche culturali, come gli insegnanti, ne sanno di più.
Qual è il compito dell’Azione Cattolica di
oggi?, mi ha chiesto una signora del nostro gruppo? E’ la realizzazione dei
deliberati del Concilio Vaticano 2°, ho risposto senza esitazioni. Una riforma
religiosa, quella di quel Concilio, che
comprendeva l’esigenza di una migliore coscienza religiosa. Questo significa
darsi, come associati, una disciplina formativa, riprendendo certi testi e
discutendone. Ma anche cercare di spiegarli agli altri, dopo averli compresi.
Non è
possibile una fede irriflessa, istintiva? E’ un inizio, ma non basta.
Soprattutto non basta per quel lavoro di cambiare il mondo che è oggi richiesto
dalla dottrina sociale come dovere per la persona religiosa. Per produrre
cambiamenti, occorre capire e capire in modo affidabile. Questo fu compreso
molto bene fin dagli inizi del nostro moderno associazionismo. E’ la ragione per
la quale, ad esempio, nel gruppo fondato nell’Ottocento a Viterbo da Mario Fani
si istituì una biblioteca popolare e si faceva scuola. Così come la faceva
un’altra grande anima della nostra religione: Lorenzo Milani.
1.8
Religione difficile
(17-10-18)
La
nostra religione ha avuto problemi negli ultimi cinquant’anni. Antropologi,
sociologi e teologi hanno cercato di capirne le cause. Sono coinvolte quelle
scienze perché esse riguardano i modi di vivere e di pensare, le
dinamiche della società e le concezioni sul soprannaturale che si sono diffuse.
I risultati di questa riflessione non convincono del tutto, ad esempio quando
mettono in risalto una certa maggiore incredulità rispetto al passato. I
problemi si apprezzano maggiormente nelle realtà di base che ai vertici del
potere religioso, dove, in definitiva, può immaginarsi, e non senza ragione,
che tutto stia andando un po’ come prima. I costumi curiali e gli ambienti
principeschi in cui talvolta si lavora possono favorire questo straniamento dal
popolo. Per questo è molto apprezzabile la scelta del Papa regnante di vivere
in un appartamento in albergo. Poteri civili e religiosi continuano,
come nei millenni passati, ad accreditarsi a vicenda, anche se in Europa è
venuta meno, nel processo di pacificazione europea iniziato dalla metà degli
scorsi anni ’40, al termine della Seconda guerra mondiale, la sacralizzazione del
potere civile, che legava molto più strettamente quest’ultimo al
potere religioso e, in genere, alla religione. E’ per quella via che gli
europei, nella loro crudele conquista del mondo, poterono pensare di avere il
Cielo dalla loro parte e di svolgere una missione religiosa mentre
sottomettevano, spesso annientandoli, altri popoli e altre culture.
Le antiche religioni non
sono finite dopo l’affermarsi della nostra, ma si sono trasformate
inculturandola. Le loro credenze sopravvivono in diversi modi nella nostra, ad
esempio in molti riti popolari. Questo è stato sfruttato dal potere religioso,
in particolare quando, in Europa, e in particolare in Italia, ha avuto problemi
con quelli civili e ha cercato di mobilitare le masse in suo soccorso. Si
tratta di una religiosità che funziona ancora molto bene e si esprime nella
spiritualità di massa dei santuari e delle apparizioni. Durante il Concilio
Vaticano 2° si cercò di correggerla. Si volle progettare una formazione
religiosa più accurata, più vicina a ciò che è il cardine della nostra fede: se
ne parlò come di svolta cristologica. In questo quadro
si propose di fare dell’umanità una sola famiglia come obiettivo religioso.
Questo privò di consistenza le ideologie politico-religiose di sacralizzazione
che avevano base nazionalistica, quelle che erano l’espressione moderna
dell’antica concezione di un popolo legato ad un dio. Tutto questo incise sulla
religiosità degli europei, molto basata sulla sacralizzazione dei poteri civili
e sulla sopravvivenza culturale di certi elementi delle antiche religioni della
natura e della storia a sostegno di essa, per cui si immaginava che venendo
meno il dominio degli europei sul mondo, le cose si sarebbero messe molto male.
All’origine della spaccatura verticale e durissima tra fazioni religiose in
Italia c’è appunto la contrapposizione frontale tra chi vorrebbe tornare
all’antico sistema, essenzialmente questa volta in funzione difensiva verso un
mondo che assedia l’Europa e chi vorrebbe proseguire sulla via indicata dal
Concilio Vaticano 2°.
I sociologi hanno
osservato che il processo di secolarizzazione, vale a dire il minor credito
sociale della religione, interessa sostanzialmente solo l’Europa, è un problema
essenzialmente europeo. E’ la coscienza degli europei ad essere implicata.
Nelle altre parti del mondo va molto diversamente. In un certo senso gli
europei non sanno più bene che pensare di se stessi. La religione ancora tra
loro prevalente li spinge a farsi interpreti e fautori di una civiltà
dell’amore, quella che vorrebbe fare dell’umanità una sola famiglia, ma non
capiscono più bene perché dovrebbero farlo, in un mondo in cui si va in tutt’altra
direzione e ognuno si fa gli affari propri e pretende di fare bene
così, anche dal punto di vista religioso. Così si avvicinano alla religione se
manifesta l’antica religiosità della natura e della storia, quella che
prometteva di ammansire le potenze soprannaturali nascoste nella natura o di
far prevalere un popolo sugli altri. Ma appena si iniziano a fare i discorsi
che i saggi del Concilio vollero che si facessero, in quel nuovo processo
formativo, non intendono più. I più anziani, poi, che sono sempre di più tra
noi e in particolare nelle realtà religiose di base, quel passaggio culturale,
in genere, non l’hanno mai neppure iniziato. Tutto è stato coperto dall’ingenuo
papismo introdotto da san Karol Wojtyla al termine degli anni ’70 e dell’ultimo
travagliato periodo di papato del suo predecessore, san Giovanni
Battista Montini, che aveva segnato il clamoroso insuccesso del nuovo processo
formativo, che, iniziato alla fine degli anni ’60, apparentemente
stava portando alla dispersione del gregge.
1.9
La democrazia come problema religioso per il cambiamento della società
(13/17-10-18)
1. Chi ha meno di sessant’anni
non ha vissuto consapevolmente i tempi di Giovanni Battista Montini, che regnò
in religione come papa Paolo 6° tra il 1963 e il 1978. E molti di quelli più
giovani non hanno avuto né il tempo né il desiderio di approfondire. E ancora
non li hanno. Vivranno quindi superficialmente le celebrazioni della
canonizzazione che si farà oggi e che non riguarderà solo Montini, ma anche
Oscar Romero, assassinato in una chiesa, durante la Messa, nel 1980, da
arcivescovo di San Salvador, nel piccolo stato centroamericano di El Salvador,
al tempo di una repressione fascista: egli seguiva e insegnava una delle
versioni della teologia della liberazione, filone di pensiero e
d’azione iniziato durante la conferenza del 1968 del
Consiglio Episcopale Latino Americano - CELAM - svoltasi a Medellin, in
Colombia, e inaugurata dal papa Paolo 6°. Si tratta di una teologia
sostanzialmente scomunicata da san Karol Wojtyla (il quale pure ne fece proprie
alcune istanze), che non fece proclamare la santità di Romero, invocata a gran
voce dal popolo latino americano. E’ stata riabilitata da Jorge Mario
Bergoglio, Papa attualmente regnante, il cui magistero ne va considerato uno
dei frutti.
La teologia della liberazione, che
si presenta come il più importante movimento di riforma in linea con gli
indirizzi del Concilio Vaticano 2° succeduto a quella grande assemblea di
vescovi con il Papa, tenutasi a Roma tra il 1962 e il 1965, partiva dalla
compassione per i poveri, coloro che vivevano situazioni economiche e sociali
di oppressione e di emarginazione, dal considerare questa, la
povertà reale, come un male anche dal punto di vista religioso
frutto di sistemi economici e sociali che potevano essere riformati, e dal
concepire l’impegno religioso innanzi tutto come solidarietà, protesta e azione
di riforma in favore dei poveri, mediante uno stile di vita personale e
comunitario di povertà spirituale, intesa come disponibilità alla volontà
divina. Farsi poveri, dunque, vale a dire disponibili a quella
volontà, per soccorrere i poveri, gli oppressi ed emarginati, riformando la
società, e questo come dovere religioso. Da qui il tema centrale della teologia
della liberazione: l’opzione preferenziale per i poveri. Non si tratta
però di qualcosa di facoltativo, osservò il teologo
Gustavo Gutiérrez nell’introduzione all’edizione del 1988
del suo libro del 1971 Teologia della liberazione(edito
in traduzione italiana da Queriniana), come se la si potesse fare o non fare
come credenti, perché non è facoltativo l’amore che dobbiamo ad ogni persona
senza eccezione. Si volle esprimere, con quell’espressione opzione
preferenziale per i poveri, il carattere libero e impegnativo della decisione.
Perché farsi poveri per aiutare i poveri sconfiggendo
le cause sociali della povertà? Il motivo ultimo, scrisse Gutierrez nel
testo che ho citato, non sta nell’analisi sociale di cui facciamo uso, nella
nostra compassione umana o nell’esperienza diretta che possiamo
avere della povertà: «[…] il povero è preferito non perché
sia necessariamente migliore degli altri dal punto di vista morale e religioso,
ma perché Dio è Dio, Colui per il quale “gli ultimi sono i primi”. Questa
affermazione perentoria si scontra con la nostra frequente e angusta maniera di
intendere la giustizia, ma è proprio questa preferenza a ricordarci che le vie
di Dio non sono le nostre vie (Isaia 55,8)».
Fu il Concilio Vaticano 2° a
indicare la via per un impegno religioso per cambiare il mondo, in
particolare deliberando la Costituzione pastorale La gioia e la
speranza - Gaudium et spes, per il motivo che in religione si
insegna autorevolmente che abbiamo un unico Padre e che quindi siamo una sola
famiglia, noi, tutta l’umanità, solidali e solleciti verso gli altri come si è
in famiglia, come descritto nella prima frase della Costituzione dogmatica di
quel concilio Luce per le genti - Lumen gentium:
«Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente
umano che non trovi eco nel loro cuore», questa
la frase iniziale della Costituzione La gioia e la speranza.
In altre parole,
secondo quella teologia, per un credente è intollerabile l’esistenza di
situazioni di oppressione e di sfruttamento. La via dell’impegno per la riforma
sociale è quella di farsi poveri nel senso di
disponibili a seguire veramente la via religiosa, ripudiando ogni compromesso.
Questa prospettiva priva di fondamento teologico qualsiasi forma di conciliazione che
comporti l’accettazione dell’oppressione e dello sfruttamento e quindi i tanti
modelli di sacralizzazione dei poteri civili nei quali la
Chiesa storicamente si compromise, intendendola come male minore e
in vista di benefici materiali e sociali che la fecero ricca e potente in un
mondo di oppressi e sfruttati. E, nei suoi più recenti sviluppi, indica quella
della liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento come
una via di salvezza non solo per i poveri in senso
materiale, ma per tutti. L’ingiustizia sociale, se non corretta, farà affondare
le società intere, non solo la loro parte posta ai margini.
L’eco di quella concezione è
evidente in un documento come l’enciclica Laudato si’, diffusa
nel 2015 da papa Jorge Mario Bergoglio, gesuita latinoamericano, regnante come
Francesco in religione.
2. Ci si illudeva che le
idee del Concilio Vaticano 2° sarebbero state ben accolte dalle nostre comunità
religiose. Parte di esse erano però coinvolte nelle molte sacralizzazioni politiche
attuate nel mondo, in particolare nell’Occidente, tanto permeato dalla nostra
fede. Del resto, il dominio degli europei su quasi tutto il resto del mondo si
era compiuto secondo la più spettacolare di quelle sacralizzazioni, quella che
considerava le stragiste guerre di conquista degli europei come espressione di
una missione religiosa evangelizzatrice. Essa fu particolarmente evidente
nell’America Latina, caduta sotto il dominio delle monarchie cattoliche di
Spagna e Portogallo.
Il Concilio Vaticano 2° aprì
la via, nei successivi cinque anni a vivacissimi fermenti religiosi che, ad
esempio, condussero al nuovo statuto dalla nostra Azione Cattolica, approvato
nel 1969 sotto la Presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e, come sopra ho
ricordato, al movimento di riforma prima pensato nella linea della
nuova dottrina sociale di quel Concilio e poi deliberato come
parte del Magistero nel 1968 nel corso della conferenza di
Medellin del Consiglio Episcopale Latino Americano. Ma anche a veementi
polemiche all’interno della Chiesa tra le fazioni dei riformatori e dei
reazionari, che volevano tornare alla conciliazione tra religione e politica
attuata sotto il Papato di Eugenio Pacelli - regnante come Pio 12° dal 1938 al
1958. Si temette che la Chiesa potesse sfasciarsi. Il nuovo, ad esempio le
nuove liturgie nelle lingue nazionali, era sorprendente, ma si stavano
lasciando tante sicurezze del passato: sembrò che mettere la religione nelle
mani del popolo, ad esempio facendogliene comprendere i riti, la mettesse in
pericolo. Parlare tanto di povertà sembrò che mettesse in
pericolo l’ordine sociale che garantiva la sopravvivenza stessa della Chiesa.
Ecco quindi che da subito, fin dall’anno in cui il Concilio si chiuse, si cercò
di porvi rimedio correggendo l’impostazione
conciliare e cercando di frenarne gli sviluppi. Nell’articolo di due giorni fa
su La Repubblica Alberto Melloni ha ricordato alcune
decisioni in quel senso del papa Paolo 6° e, in particolare, l’impulso alla
preparazione di una Legge fondamentale della Chiesa, una vera e
propria costituzione come si davano gli stati, che avrebbe corretto interpretazioni
ritenute eccessivamente riformiste della teologia conciliare (i lavori,
iniziati nel 1965, nel novembre che precedette la conclusione del
Concilio, e proseguiti negli anni ’70, non ebbero seguito), i
tentativi di normalizzazione dell’Ordine dei Gesuiti,
che staccandosi da una storia generalmente conservatrice e
addirittura reazionaria avevano iniziato a procedere velocemente nella via
indicato dal Concilio Vaticano 2°, la decisione di convincere l’arcivescovo di
Bologna, Giacomo Lercaro, uno dei protagonisti di quel Concilio, di lasciare la
sua carica, dopo un’omelia contro i bombardamenti statunitensi nella guerra in
Vietnam, nel 1968. Ma anche decisioni, e soprattutto azioni, in senso diverso.
Il papa Paolo
6° morì nel 1978 angosciato da quella situazione che ho cercato di
descrivere. Fu ad un uomo dell’Europa Orientale, rimasta sostanzialmente
indenne da quel travaglio perché caduta nel dominio del comunismo ateo di
scuola sovietica e dunque libera da certi sensi di colpa degli Occidentali, in
quanto immemore del suo passato ma tutta concentrata sul suo difficile
presente, che fu affidato il compito di moderare gli influssi riformistici
conciliari. A Paolo 6° successe Giovanni Paolo 2°. Il nuovo Papa, forte del suo
grande carisma personale, fece ciò che ci si aspettava da lui procedendo ad una
estesa opera di repressione teologica e clericale, tuttavia senza
raggiungere gli eccessi di inizio Novecento nella persecuzione del modernismo,
e commissionando e approvando il Catechismo della Chiesa
Cattolica, deliberato nel 1992 non solo come sussidio ma come
documento ideologico normativo. Da oggi saranno santi, quindi
proposti a modello per i credenti, i Papi del Concilio, Giovanni 23° e Paolo
6°, e il Papa che del movimento innescato dal Concilio volle essere moderatore
e censore, Giovanni Paolo 2°. Il primo diede l’impulso, l’ultimo cercò di
frenare: Paolo 6° espresse tendenze intermedie, desideroso ma anche timoroso
del nuovo. Ad un franco sguardo retrospettivo bisogna riconoscere che il
governo del papa Giovanni Paolo 2° spense gli aneliti conciliari, silenziandone
ma non sopendone del tutto le controversie, ostacolandone gli
sviluppi nel pensiero teologico, conducendo i cattolici italiani, che dal suo
influsso furono particolarmente plasmati, in una sorta di stato di incantamento
di stasi, che è la nostra condizione attuale, nell’Italia di oggi. Ma anche la
via percorsa da Paolo 6° appare insufficiente. Ciò che gli era in parte
riuscito durante il Concilio, tenere tutti insieme a prezzo di qualche
concessione al passato, non funzionò nella società: non si riuscì ad
organizzare dal vertice una via moderata al cambiamento, innanzi tutto cercando
di dilazionarlo nel tempo, in modo che fosse assunto a piccole dosi.
Oggi si celebra la
vita di persone proposte come esemplari in religione, ma è su che
cosa vogliamo essere, noi, oggi, che dovremmo riflettere. Perché il dilemma che
si presentò negli anni ’70, che tanto travagliarono la vita e il ministero del
Montini, riguarda anche noi. Andare avanti o tornare indietro? E a che velocità
andare avanti?
La Chiesa è spaccata
verticalmente come allora. Movimenti di impostazione sostanzialmente
neofascista reclamano una nuova sacralizzazione della loro
politica. Da soli, più che sventagliare qualche rosario qua e là, non riescono
a fare, non gli basta. Hanno bisogno di una teologia e di un magistero
compiacenti. Si è diffusa, in Europa, e anche da noi in Italia, una mentalità
da assediati. Chi sono gli assedianti? Sono i poveri che si voleva liberare e salvare secondo
gli auspici del Concilio Vaticano 2°, per liberare e salvare tutti,
anche quelli che avevano avuto la parte migliore: dall’ingiustizia e dal duro
destino che attende gli ingiusti, man mano che la loro ingiustizia si afferma
travolgendo le società da cui dipendono anche loro le vite di privilegiati. Si
è immemori della cause sociali della povertà, e si getta sui poveri la colpa
della povertà. La giustizia viene di nuovo concepita come il dare a
ciascuno il suo, ai ricchi la ricchezza, ai poveri il loro triste destino:
il problema della povertà, così, ridiventa questione di ordine pubblico, da
trattare per le spicce con metodi polizieschi, invece che questione
sociale.
Da che parte stare? Verso
dove muoversi?
La fabbrica dei santi non
aiuta, perché ha proposto come esemplari figure di capi religiosi che
indicavano vie diverse: Roncalli, Montini, Wojtyla e Romero.
Rimaniamo con il nostro
problema di coscienza. Farsi poveri o accettare quel
tanto di povertà o ingiustizia che ci rende possibile la nostra tranquillità di
europei, capitati in una delle società più sviluppate, e quindi più ricche, del
mondo? La via originaria del Concilio, espressa dal magistero di Roncalli e
Romero, quella attenuata di Montini, quella della stasi, del non più di
così, di Wojtyla. Quanto a quest’ultima, se ne possono vedere i
frutti nella Polonia di oggi, alla quale anche parte dell’Italia sembra
guardare di nuovo, come negli anni ’80, per trarre esempio.
La prima cosa da fare è
saperne di più, studiare, capire. La conoscenza dei fatti e ideologie della
religione è in genere piuttosto superficiale nei più, e questo nonostante
l’insegnamento religioso impartito nella scuola pubblica. E, per chi ha meno di
sessant’anni, non soccorre il vissuto personale. Le celebrazioni per una canonizzazione
non sono il tempo giusto per farlo, ma possono costituirne l’incentivo. Oggi
l’agiografia, la celebrazione dei nuovi santi, prevarrà. Al popolo che
assisterà sarà assegnato un posto e una parte nel rito, secondo quando scritto
nel libretto che sarà messo nelle mani dei presenti. Nulla di più. Ma già
attendendo l’inizio della celebrazione, e probabilmente l’attesa sarà lunga, si
potrà iniziare a confrontarsi sui temi che ho indicato. E poi bisognerà
proseguire dove si vive, innanzi tutto nelle parrocchie, con l’aiuto dei libri
giusti, perché certe cose bisogna impararle leggendo, non ci entrano in testa
semplicemente acclamando, come si dovrà fare oggi.
3. L’accusa più dura, e più dura perché più vera, alle
persone religiose è quella di essersi costruite una divinità, e quindi una
religione, a misura dei loro interessi, “un dio tutto loro”. Gran parte del
lavoro che si fa da persone religiose è quello di redimersene. E lo si fa
facendo spazio agli altri. Questo significa essere missionari.
Nel
lessico di papa Francesco se ne parla come di organizzare un ospedale
da campo, che significa farsi carico delle sofferenze altrui. Nello stesso
tempo egli tiene a precisare che non si è, in religione, una Onlus, un
ente benefico. Quel lavoro che si fa è molto più che filantropia e non basta
andare in soccorso di chi è caduto. Bisogna cambiare la macchina sociale che
produce i sofferenti. Che cos’è il cambiare il mondo, perché
proprio di questo si tratta, se non rivoluzione? E infatti questa
parola, che ancora fa tanta paura, ricorre negli scritti del Papa. Ma in un
senso molto più radicale da come di solito la si intende, vale a dire il
contrapporre violenza a violenza per rivoltare un certo
ordine sociale. Perché la nostra rivoluzione si fa seguendo il nostro Maestro e
comporta anche il ripudio della violenza sopraffattrice, di un mondo che si
regge sulla violenza. La storia ha dimostrato chiaramente, per chi abbia tempo
e modo di studiarla, che nessun ordine che dipenda dalla violenza per
instaurarsi e resistere è veramente rivoluzionario: prosegue solo
la desolante serie del passato. E’ per questo che il Papa, volendo rendere
l’idea di una rivoluzione secondo la nostra fede, ha abbandonato l’immagine
del soldato di Cristo, tanto utilizzata
nel passato, per ricorrere a quella dell’ospedale allestito in
emergenza sui campi di battaglia, l’ospedale da campo, appunto. Si evoca
con questo una società che si pensa pacifica, pacificata e
pacificatrice e invece è in guerra, molto violenta. Quella che produce gente
da buttar via, scarti nel lessico del Papa, e che
respinge.
«Il dovere che
la Chiesa ha di chinarsi su tutte le ferite dell’umanità e di operare perché
nessuno possa risultare uno scarto non le deriva da qualche forma di neutrale
filantropia: è esigenza del Vangelo della misericordia, che è chiamata ad
annunciare.
Esso, proprio
perché è annuncio del cuore di Dio che si china sulle miserie -compreso il
peccato e ogni divisione degli uomini tra loro- non può essere
ridotto all’individuale rapporto del singolo con Dio o a qualcosa
che rimandi ad un aldilà che nulla avrebbe a che fare con l’aldiqua di una
vita, spesso misera degli uomini. Il Papa lo chiarifica mettendo in evidenza la
portata sociale dell’evangelizzazione, rilevando che il Vangelo implica il
regnare di Dio nel mondo, permettendo così che la vita sociale diventi “uno
spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti”»
[da: Roberto
Repole, Il sogno di una Chiesa evangelica. L’ecclesiologia di papa
Francesco, Libreria Editrice Vaticana, 2017, pag.87-88].
Quell’idea
di evangelizzazione, oggi come negli anni ’60 quando cominciò
a diffondersi, è ai tempi nostri duramente contestata da ogni tipo
di reazionari, quelli che vorrebbero che si tornasse come si era prima. Si
reclama a gran voce una religione che torni a sacralizzare le
società degli europei così come sono, violente e ingiuste come
sono, a ridar loro sovranità non solo
sui corpi ma anche sulle anime. C’è nostalgia, insomma, di quando c’era
un dio tutto nostro. Perché c’è stato, indubbiamente. E noi europei
ne abbiamo anche fatta evangelizzazione, lo abbiamo addirittura imposto con la
violenza, distruggendo le culture altrui per insediarlo al loro posto. Prima di
ricominciare, noi stessi, a rievangelizzarci alla sequela del vero Maestro.
4. L'apporto più importante del Montini
fu, credo, la sua azione per lo sviluppo della democrazia avanzata, piena di
grandi valori umanitari, da realizzarsi con un'intensa opera di formazione
popolare guidata da persone colte e competenti.
Un intento che inizia a manifestarsi fin dal
libretto Coscienza universitaria, del 1930, durante il suo
ministero di Assistente generale della Fuci - l'organizzazione degli
universitari cattolici, che all'epoca era inquadrata nell'Azione Cattolica -
nel quale si legge:
«[...] tocca a noi fare
dell'intelligenza un mezzo di unità sociale; tocca a noi rendere la verità
tramite della comunicazione tra gli uomini, tocca a noi diffondere
"l'unità di pensiero". [...] è una delle speranze del mondo moderno,
pur tanto traviato, questa tensione immensa verso la unificazione del
genere umano, e sarà forse è [...] l'opera buona [...] perché darà, come
l'unità del mondo romano lo diede al primo cristianesimo, il mezzo per riunire
tutti i figli della terra in un solo nome e in una sola famiglia.
Ma è pur vero che questo non è voluto e non è capito. Quelli stessi che adesso
parlano di "unità sociale" sono spesso tanto convinti che il pensiero
sia contro tale unità, che dicono di voler prescindere da ogni ideologia; e
credono di eliminare così l'ostacolo, altrimenti insuperabile, per
un'effettiva e concreta compaginazione collettiva di coscienze e di opere.
[...] Ciascuno deve avere una visione propria [...] si pretende che ognuno
[...] debba inventarsi una sua soluzione dei problemi fondamentali del sapere
[...[ Vale a dire che l'intelligenza è educata in modo da dividere e
differenziare gli uomini fra loro. [...] com'è facile ascoltare discorsi
pronunciati con la più inamidata solennità, press'a poco così "E'
questione di principi: ciascuno ha i suoi; ed è impossibile andare d'accordo
sui principi. Ciascuno conserva le sue idee. Piuttosto possiamo essere
d'accordo per via di fatto; non in teoria, ma in pratica; nel campo degli
affari. Questi sì, sono di tutti, perché non sono opinioni". [...] E così
che le forze, a cui è affidato il provvidenziale compito di affratellare i
popoli fra loro, non sono quelle redentrici e santificatrici dello spirito, ma
sono quelle economiche, quelle del progresso esteriore, quelle immensamente
pesanti della materia, che da un momento all'altro possono trasformare in
schiavitù spietata, o in ribellione violenta, la società che son riuscite a
creare tra gli uomini.
[...]
E' perché crediamo al fondamento
oggettivo della verità che abbiamo fiducia di incontrare in essa, come in un
unico punto di riferimento, le menti che vanno cercandola o che l'anno trovata.
[...] E' sui principi che avviene l'accordo. [...] E' così che avere un
pensiero, una dottrina, un'ideologia non è ostacolo alle formazioni collettive,
ma diventa una necessità, e costituisce allo stesso tempo la garanzia più
stabile degli organismi sociali e la semplificazione più benefica
liberatrice delle pesantezze burocratiche e autoritarie. [...] E' il regno della
carità umana. [...] E ciò che accresce l'ammirazione di tanto fenomeno si è che
tale coincidenza di pensiero non è ottenuta per via di contratto, di rinuncia,
o di compromesso con cui gli associati transigono fra di loro su una porzione
dei propri diritti spirituali e cercano con il tributo così estorto di
costituire un patrimonio comune di credenze e di pensiero, come capitale
indispensabile per realizzare una qualsiasi convivenza [...] Noi siamo
universitari. Noi siamo cristiani, Noi siamo cioè i ricercatori dell'universalità
e dell'unità. Noi siamo giovani, e perciò viviamo ciò che pensiamo. Spetta a
noi quindi nella scuola e nella vita preparare la società delle intelligenze e
della comunione dei santi».
Quindi poi: inculturare la politica con i valori fondamentali mediante lo strumento
della democrazia, e quindi creare, e prima di tutto pensare, una nuova
democrazia piena di quei valori. Da questo pensiero non è nata solo la nuova
democrazia italiana, ma anche la nostra nuova Europa. Un'opera epocale e, purtroppo,
ai tempi nostri misconosciuta, oltre che semplicemente ignorata. Ne troviamo
tracce importanti nei radiomessaggi diffusi tra il 1939 e il 1945 sotto
l'autorità di Eugenio Pacelli - papa Pio 12°, ma scritti con l'importante
contributo del Montini, che ho pubblicato qualche giorno fa, e in
documenti come l'enciclica Lo sviluppo dei popoli - Populorum
progressio del 1967 e la lettera apostolica L'ottantesimo
anniversario [dalla pubblicazione dell'enclicica Le novità - Rerum
Novarum, del papa Vicenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°] Octogesima
adveniens, del 1971.
Il papa Paolo 6° fu molto
avversato in vita, da reazionari e progressisti, e molto diffamato poi.
Da ragazzi, noi giovani di allora, lo sentimmo sempre più vicino mentre si
avvicinava per lui la fine, nei tristi anni '70, sorprendendoci con la sua
umanità. Ma io lo compresi veramente solo molti anni dopo, quando ebbi la
maturità sufficiente. Iniziai a capirlo, però, quando lo sentii pronunciare, a
San Giovanni in Laterano, la dolente preghiera alla Messa funebre per Aldo
Moro, il 13 maggio 1978:
«Ed ora le nostre labbra,
chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata
all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De
profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la
tragedia presente soffoca la nostra voce.
E chi può ascoltare il nostro
lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito
la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite,
saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo
spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la
vita. Per lui, per lui.
Fa’, o Dio, Padre di
misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della
morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi
tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non
è vano il programma del nostro essere di redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna ! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio,
noi li rivedremo!
E intanto, o
Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia
perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a
quelli che hanno subito la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti
raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite
della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua
dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!».
Ecco, sintetizzata con le sue
stesse parole, la ragione della grandezza di Montini: aver suscitato, in tempi bui,
e contribuito in maniera determinante a realizzare, con i suoi amici, in uno
spettacolare lavoro collettivo, la redenzione
civile e spirituale della Nazione italiana, da lui e dai suoi amici
"diletta" mediante l’azione democratica. Un'opera patriottica, quindi, a vera
chiusura della Questione romana, e nello stesso tempo europea e mondiale,
universalistica, perché espressione di un'ideologia con caratteristiche
universalistiche, tesa a fare di tutta l'umanità un'unica famiglia, a
superamento dello stragista sovranismo del fascismo storico.
La
democrazia come fattore di unità delle masse (non solo di ceti privilegiati)
sui valori, non quindi fonte di
divisione sociale secondo l’opinione dei reazionari di sempre, i quali
preferirebbero trascinare le masse al seguito di un capo indiscutibile. Un
mondo veramente nuovo, come mai c’era stato nel passato,
E mi risuonano sempre dentro le
sue accorate parole la mattina di Pasqua, rimandate da radio e
televisione: "Cristo è risorto! E' veramente risorto!". L'annuncio
che un mondo diverso è veramente possibile.
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2
Azione Cattolica è azione nella società
democratica
(26
settembre 2012)
Le associazioni e i movimenti ecclesiali hanno
sempre qualcosa che è comune a tutti e qualcos’altro che è peculiare di
ciascuno di essi. Qual è lo specifico dell’Azione Cattolica?
L’Azione Cattolica nasce nel Novecento per
confrontarsi con le democrazie popolari di massa da persone di fede. Essa venne
costituita dal papato, quindi dall’autorità ecclesiale, sulla base di un vivace
movimento sorto tra il laici cattolici italiani nel corso dell’Ottocento. L’
“azione” che c’è nella sua denominazione è dunque essenzialmente quella nella
società.
Si tratta di un’associazione di laici convinti
della propria fede e persuasi che democrazia ed esperienza religiosa non siano
in antitesi. L’idea fondamentale alla base dell’esperienza associativa è che i
valori della fede possano plasmare la società civile attraverso l’opera di
laici che cooperano democraticamente con le altre forze sociali, in un contesto
istituzionale democratico. L’Azione Cattolica non ha scopi puramente difensivi
degli interessi della Chiesa come istituzione, né è volta ad assoggettare la
società civile al governo dell’autorità ecclesiastica. Non mira a ritornare ai
tempi passati, non è quindi una forza reazionaria. E’ non è nemmeno una forza
conservatrice, perché, in particolare dopo il Concilio Vaticano 2°, è impegnata
nella riforma sociale secondo gli ideali evangelici: in questo senso è un
movimento che punta a un miglioramento, quindi a un progresso, della società
civile.
Nell’esperienza di Azione Cattolica è molto
importante l’approfondimento delle verità di fede come parte di una
spiritualità che cerca un’adesione consapevole e informata alla religione
professata. E tuttavia quello in Azione Cattolica è un impegno che presuppone
una formazione catechistica precedente. Non è quindi caratterizzata da un
percorso di iniziazione religiosa. Si entra già persuasi della propria fede.
Gli associati nell’Azione Cattolica
partecipano alle attività liturgiche e di formazione della Chiesa, ma ciò che
caratterizza veramente il loro impegno, quello che è loro peculiare, è
l’impegno collettivo e individuale nella società in cui vivono da laici, con
piena cittadinanza. L’Azione Cattolica non è quindi un’aggregazione che vuole
costituire un’alternativa a quel tipo di impegno, un mondo chiuso in sé stesso
dove sviluppare la propria socialità e la propria personalità. I momenti di incontro
che si hanno nell’associazione sono diretti a migliorare l’azione nella società
che c’è fuori, in cui gli aderenti vivono, da laici, nella famiglia, nel
lavoro, nella cultura, nella politica.
Detto ciò, è chiaro che nei gruppi spesso si
sperimenta una certa distanza tra gli ideali associativi e la realtà
particolare. Accade anche a noi, in San Clemente Papa?
L’età media del nostro gruppo è piuttosto
alta: in che cosa ci differenziamo da un “gruppo anziani”?
Giovani e anziani possiamo riscoprire di avere
tra noi, nella nostra esperienza associativa, un tesoro prezioso da preservare,
che è quel modo di impegno nella società, da gente di fede, di cui dicevo.
Qualcosa che ci è proprio e che non ha attualmente sostitutivi. Qualcosa che è
ancora necessario alla Chiesa di oggi.
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3
Agire da gente di fede nella società
democratica di oggi
(29
settembre 2012)
In una società ordinata democraticamente le
moltitudini dei cittadini hanno la possibilità di influire di più sul corso
delle cose. E ci sono valori da definire, perché, quando si comanda in molti,
bisogna trovare un accordo per rispettarsi a vicenda e poi su quello che deve
essere fatto e su come farlo, e infine per stabilire come si forma la volontà
di tutti, che necessariamente deve, alla fine, essere unitaria. In una
monarchia assoluta, come ce ne sono state in passato e come ce ne sono ancora (poche, non so se si
arriverebbe a cinque volendo fare l’inventario), è diverso. Decide uno solo, o meglio, spesso, decide la
famiglia reale o la corte che ruota intorno ad essa e gli altri devono attuare,
con una discrezionalità più o meno ampia. Come una volta si provvedeva a
istruire e formare i giovani rampolli delle famiglie regnanti, così ora questo
lavoro si fa su più larga scala, perché vanno formate all’esercizio della
sovranità le masse dei cittadini. Il sistema dell’istruzione pubblica serve
anche a questo.
L’avvento, dalla fine del Settecento, delle
democrazie, non è stato indolore per la Chiesa cattolica, mentre non vi sono
stati problemi per altre Chiese cristiane, come quelle che sorressero fin dagli
inizi le idealità del nuovo stato federale uscito dalla rivoluzione
nordamericana contro il Regno Unito (“In
God we trust – Confidiamo in Dio” fu
ed è uno dei suoi motti). Quale ne è stata la ragione? Il problema è che la
Chiesa cattolica era (ed è ancora) ordinata come una monarchia assoluta. E una
di quelle monarchie assolute contemporanee di cui dicevo l’abbiamo proprio qui
a Roma ed è la Città del Vaticano, che la Santa Sede ha ordinato come un vero e
proprio stato, con una propria costituzione, propri uffici e servizi
amministrativi e giudiziari, una propria polizia e un piccolo (ma molto
motivato) esercito.
Con l’avvento, in Europa, delle democrazie, i
cattolici, laici e clero, si posero il problema di come e su che basi influire
in esse. I Papi, nell’Ottocento e fino a metà del Novecento, considerarono con
preoccupazione la politica democratica. Una pronuncia in questo senso la
troviamo ancora agli inizi del Novecento, rispondendo a che pretendeva di
conciliare democrazia e valori esplicitamente cristiani. Diciamo così i Papi
che non si fidavano tanto dei nuovi “sovrani”, delle masse elevate alla
cittadinanza, anche se anche gli antichi monarchi assoluti avevano dato
problemi. In Italia le cose furono complicate dalle caratteristiche specifiche
del nostro processo di unificazione nazionale che, per il fatto che il Papa era
sovrano temporale nel Centro Italia, e soprattutto possedeva Roma, si svolse anche
“contro” la Santa Sede, il cui stato, ad un certo punto, fu invaso militarmente, con morti e feriti
(Nella Chiesa di San Luigi dei Francesi una lapide li commemora). La prima
presa di posizione pubblica di un Papa che in cui fu dichiarato che la democrazia
il regime politico preferibile risale al 1944 (radiomessaggio natalizio del
Papa Pio XII): la trovate sul WEB al seguente indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
La
riflessione della Chiesa sui problemi creati dall’avvento delle democrazie e
sulle opportunità determinate dall’elevazione di moltitudini alla sovranità,
con piena cittadinanza, si è espressa in quel vasto corpo di insegnamenti che
va sotto il nome di “dottrina sociale della Chiesa” e che si suole far partire
dall’enciclica Rerum Novarum, del
1891, del Papa Leone 13°. La trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father//leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html
Gli
insegnamenti i questa materia vengono promulgati con autorità dai pontefici e
dai vescovi, ma hanno sempre avuto l’ampia collaborazione dei laici nella loro
ideazione e, più di recente, anche nella loro formulazione. Infatti, quando si
deve trattare del mondo fuori dei templi, quello che nel gergo ecclesiale viene
definito “il temporale”, gli specialisti sono, in fondo, i laici. Questo è
stato riconosciuto formalmente in alcuni importanti documenti normativi del
Concilio Vaticano 2°, ma era già una realtà anche prima.
Oggi
la dottrina sociale della Chiesa cattolica comprende un corpo veramente molto
esteso, tanto che se ne è fatto un compendio, una sorta di testo unico, che
sintetizza dichiarazioni solenni che si sono avute in un arco temporale ormai
più che centenario. Lo trovate sul WEB a
questo indirizzo:
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html
Come
risulta da quello che ho scritto prima, il ruolo dei laici, per quanto riguarda
l’azione nel sociale negli ordinamenti democratici, è primario e comprende
anche la fase ideativa. Non si tratta solo di eseguire decisioni prese da
altri. Il Papa e i vescovi ci chiedono espressamente di collaborare con loro a
capire i tempi in cui viviamo. Mi fece molto impressione, quando il mio gruppo
F.U.C.I. (gli universitari cattolici) venne ricevuto dal cardinal Vicario
Poletti), sentire che il mio vescovo dichiarava che noi giovani eravamo i suoi
occhi e le sue orecchie nell’Università. Me ne sentii lusingato ma mi resi
anche conto della mia insufficienza. I tempi nuovi richiedono un impegno
maggiore di noi laici: non possiamo limitarci a farci trascinare da un clero
eroico.
E il
lavoro nella società richiede soprattutto un impegno continuo. Le cose non
possono essere pensate una volta per tutte. La dottrina “sociale” della Chiesa,
a differenza di quella “teologica”, è
infatti soggetta necessariamente a continui aggiornamenti, perché i nuovi
problemi, in particolare nel mondo contemporaneo, si producono continuamente.
Ma su certe cose è necessario riflettere insieme. Nessuno, come scrisse Hannah
Arendt, da solo, senza compagni, arriva ad avere una visione sufficientemente
completa delle cose. Questa è appunto
una delle ragioni per associarsi nell’Azione Cattolica: dare continuità
all’impegno di fede nella società civile democratica e vedere le cose da più
punti di vista.
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4
Libertà e democrazia come esperienze
collettive di elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza. Esse
contrastano con la nostra esperienza religiosa?
(30
settembre 2012)
Da Strada
verso la libertà di Paolo Giuntella, Paoline Editoriale Libri, 2004, a
pag.36 (ancora disponibile in commercio ad € 12,00) :
“…presentare
una verità che vi farà liberi come una religione repressiva è quanto di
meno evangelico si possa immaginare. I tarli dell’integralismo e della
mentalità normativa possono ridurre il Vangelo in polvere. No. Tutto al
contrario di quello che dicono i detrattori, il cristianesimo è una grande
esperienza di liberazione interiore. Le Beatitudini sono scritte in positivo,
indicano un modello, una strada: ‘Beati…’. Un’esclamazione di gioia, una
speranza. Il comandamento cardine del Nuovo Testamento, l’amore, indica la forza d’amare, non la forza di non fare. A me piace usare l’espressione
di Martin Luther King, la forza d’amare (che è poi una delle possibilità di tradurre
il vocabolo indiano non violenza;
l’altra è la forza della verità),
proprio perché c’è una proiezione dell’amore in fare, in azione, in forza,
appunto, e non in sdolcinatezza, in sentimentalismo. Dunque amore come energia
creativa, come forza della creatività, come costruire, tessere, unire: una
coppia di innamorati, un gruppo di persone (una comunità), un popolo, il genere
umano”.
Quando, in occasione di incontri religiosi, si affronta il tema
della libertà, molte volte si comincia con l'elencarne i danni, si prosegue con
il fissarne limiti precisi e si conclude che la vera libertà sta nel decidere
liberamente di obbedire. Non è così? Questa impostazione crea qualche problema
nel trattare dell’esperienza religiosa nelle società ordinate come democrazie
di popolo e, in particolare, per stabilire se democrazia e religione possano
andare d’accordo. Un argomento in contrario viene tratto dal fatto che, pur se
oggi riconosce che la democrazia è il regime politico preferibile per la
società civile, la nostra Chiesa al suo interno non è ordinata democraticamente e non vuole
esserlo.
La
libertà di tutti, dei popoli interi, è uno degli aneliti fondamentali delle
democrazie moderne e, in particolare, delle democrazie di popolo contemporanee,
che si propongono di elevare alla piena cittadinanza le masse, senza
distinzione tra le persone che le compongono.
E’
scritto nell’art.3, 2° comma, della
nostra Costituzione, legge fondamentale della Repubblica italiana:
“E’ compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”.
In
questa norma è chiaramente espresso l’impegno democratico, che in Italia è un
obbligo di legge per tutti, di elevazione delle moltitudini alla piena
cittadinanza, senza distinzione di sesso,
razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, che è come dire alla sovranità comune. Un bel rovesciamento
di prospettiva rispetto, ad esempio, alla condizione degli ultimi nelle
monarchie feudali, nelle quali il potere emanava dall’alto, e poi veniva, come
dire, delegato in parte a persone inserite in diverse posizioni decrescenti di
una scala gerarchica in cui, più in basso di tutti, c’erano moltitudini fatte
di chi non contava nulla ed era semplicemente dominato da quelli che stavano
sopra!
In
una preghiera di origine evangelica che recitiamo ogni giorno nella liturgia
delle Ore, ai Vespri, il Magnificat,
c’è qualcosa che richiama quell’idea. In greco fa kazèilen dinàsta apò trònon/ kài ùpsosen tapinùs, che viene
tradotto nella Bibbia CEI 2010 con ha
rovesciato i potenti dai troni/ha innalzato gli umili. La diversità di
questa concezione rispetto a quella democratica sta nel fatto che in quella
biblica il risultato è soprannaturale
mentre nell’altra è prodotto da un’azione collettiva e consapevole, da una rivoluzione, dal basso. Rivoluzione ha
significato spesso violenza tra le persone e per questo motivo la Chiesa
cattolica, tanto più in quanto storicamente, fin dalla rivoluzione francese
della fine del Settecento, ha fatto le spese di simili moti, ha posto
un’obiezione morale contro di essa. E tuttavia in un ordinamento democratico
contemporaneo certi cambiamenti, certe riforme anche radicali, possono essere
attuati senza violenza, anzi questa è una delle caratteristica salienti dei
regimi politici di questo tipo. Ciò avviene perché, nella concezione contemporanea,
la democrazia integra in sé anche un sistema molto esteso di valori, che viene
definito come quello dei diritti umani:
non è fatta solo della regola per la quale decide la maggioranza. Molte cose sono infatti
sottratte all’arbitrio delle maggioranze. Ad esempio il principio supremo
dell’uguaglianza tra le persone umane. Ed è proprio per questo che ai tempi
nostri l’azione democratica costituisce un’opportunità importante anche per chi
abbia una concezione religiosa della vita e, in base ad essa, ritenga che le
società umane di oggi possano essere migliorate. Uno dei più importanti auspici
che troviamo nella dottrina sociale della Chiesa espressa dal Concilio Vaticano
2° in poi è quello che i laici cattolici, cooperando con altre formazioni nella
società civile, riescano a introdurre nei principi fondamentali degli
ordinamenti democratici valori tratti
dalle idee religiose, mediati,
quindi, come dire, tradotti in modo
che possano essere compresi e accolti anche al di fuori della Chiesa, con l’impiego
del discorso razionale e della cultura nel dialogo con le altre componenti
della società. Per riunire intorno ad essa le forze sociali, i popoli e, al
limite, l’intero genere umano, come scrisse Giuntella. Questo lavoro è centrale in Azione Cattolica. Esso
non è altro che l’espressione della missione della Chiesa nel mondo, tra le
genti.
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5
Fede religiosa, uguaglianza e
democrazia: relazioni in veloce
evoluzione
(1
ottobre 2012)
dal Catechismo della Chiesa cattolica (1992) n.1934 e 1935 (nella Parte terza: La vita in Cristo; Sezione
seconda: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito; Capitolo secondo: La
comunità umana; articolo 3: La
giustizia sociale; paragrafo 2°: Uguaglianza e differenze tra gli uomini:
1934. Tutti gli uomini, creati ad immagine
dell’unico Dio e dotati di una medesima anima razionale, hanno la stessa natura
e la stessa origine. Redenti dal sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a
partecipare della medesima beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una
eguale dignità.
1935. L’uguaglianza tra gli uomini poggia
essenzialmente sulla loro dignità personale e si diritti che ne derivano:
“Ogni genere di discriminazione nei diritti fondamentali della
persona […] in ragione di sesso, della
stirpe, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione,
deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio” [dalla Costituzione pastorale Gaudium
et spes del Concilio Vaticano 2°, 29],
Dunque il principio dell’uguaglianza
universale degli esseri umani, fondamento delle democrazie popolari
contemporanee, è oggi legge anche della Chiesa cattolica, in quanto sancito
dalla Costituzione pastorale Gaudium et
spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e dal Catechismo della chiesa cattolica, il quale è molto di più di un
semplice sussidio per l’iniziazione religiosa, ma è anche un documento
normativo, promulgato dal papa Giovanni Paolo 2° con la Costituzione Apostolica
Fidei depositum, dell’11 ottobre 1992 (alcune modifiche furono
apportate in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, il 15
agosto 1997).
La
formulazione di quell’ideale di uguaglianza sociale che troviamo nella Gaudium et spes è simile a quella che si legge nell’art.3,
comma 1° della nostra Costituzione (deliberata dall’Assemblea costituente il 22
dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948), la cui elaborazione
iniziò durante i lavori della prima sottocommissione della Commissione per la
Costituzione dell’Assemblea costituente (luglio 1946 – gennaio 1948) in cui i
cattolici erano ben rappresentati, in particolare dai democristiani Umberto
Tupini, che la presiedeva, Giorgio La Pira (al quale si deve la formulazione
dell’art.2 della Costituzione), Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Camillo
Corsanego. E sostanzialmente essa richiama l’analoga formulazione che troviamo
nell’art.2, 1° comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
(approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-12-1948):
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà
enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni
di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o
di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di
altra condizione.
Ora,
vi propongo un lavoro comune, perché, in tutta sincerità non ho la sapienza
necessaria per fare asserzioni sicure sul tema: cercate nella storia ormai
bimillenaria della nostra Chiesa dichiarazioni normative (atti dei papi, dei
concili, dei vescovi) analoghe a quella
che trascrivo nuovamente, della Gaudium
et spes, in materia di uguaglianza: “Ogni genere
di discriminazione nei diritti fondamentali della persona […] in ragione di sesso, della stirpe, del
colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere
superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio”.
Vi
sarò grato se mi farete conoscere il risultato della vostra ricerca.
Intanto ricordo che il 12
marzo del 2000, durante il Grande
Giubileo dell’anno 2000, il papa Giovanni Paolo 2° presiedette una solenne
liturgia penitenziale denominata Preghiera
universale – Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che comprese
la seguente parte:
[…]
VI. CONFESSIONE DEI PECCATI CHE HANNO FERITO LA DIGNITÀ DELLA DONNA
E L'UNITÀ DEL GENERE UMANO
Un Rappresentante della Curia
Romana:
Preghiamo per tutti quelli che sono stati
offesi
nella loro dignità umana e i cui diritti sono stati conculcati;
preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate,
e riconosciamo le forme di acquiescenza
di cui anche cristiani si sono resi colpevoli.
Preghiera in silenzio.
II Santo Padre:
Signore Dio, nostro Padre,
tu hai creato l'essere umano, l'uomo e la donna,
a tua immagine e somiglianza
e hai voluto la diversità dei popoli
nell'unità della famiglia umana;
a volte, tuttavia, l'uguaglianza dei tuoi
figli non è stata riconosciuta,
ed i cristiani si sono resi colpevoli di atteggiamenti
di emarginazione e di esclusione,
acconsentendo a discriminazioni
a motivo della razza e dell'etnia diversa.
Perdonaci e accordaci la grazia di guarire le ferite
ancora presenti nella tua comunità a causa del peccato,
in modo che tutti ci sentiamo tuoi figli.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
Viene accesa una lampada davanti al
Crocifisso.
…
Orazione conclusiva
Il Santo Padre:
O Padre misericordioso,
tuo Figlio Gesù Cristo, giudice dei vivi e dei morti,
nell'umiltà della prima venuta
ha riscattato l'umanità dal peccato
e nel suo glorioso ritorno chiederà conto di ogni colpa:
ai nostri padri, ai nostri fratelli e a noi tuoi servi,
che mossi dallo Spirito Santo
ritorniamo a te pentiti con tutto il cuore,
concedi la tua misericordia e la remissione dei peccati.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
Il Santo Padre in segno di penitenza e di
venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso.
BENEDIZIONE E INVIO
12 marzo 2000
Il Santo Padre:
Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.
Vi benedica il Padre che ci ha generati
alla vita eterna.
Amen.
Vi benedica il Cristo che ci ha fatti suoi
fratelli.
Amen.
Vi benedica lo Spirito Santo che dimora
nel tempio dei nostri cuori.
Amen.
Vi benedica Dio onnipotente, Padre e
Figlio e Spirito Santo.
Amen.
Fratelli e sorelle,
questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore
e ha voluto purificare la memoria
del cammino dei cristiani nei secoli
susciti in tutta la Chiesa e in ciascuno di noi
un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo:
mai più contraddizioni alla carità
nel servizio della verità,
mai più gesti contro la comunione
della Chiesa,
mai più offese verso qualsiasi
popolo,
mai più ricorsi alla logica della
violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni,
oppressioni,
disprezzo dei poveri e degli ultimi.
E il Signore con la sua grazia
porti a compimento il nostro proposito
e ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Amen.
La proclamazione dell’uguaglianza universale
degli esseri umani è oggi quindi parte della dottrina sociale della Chiesa, un
principio promulgato con la massima autorità: quella di un Concilio ecumenico e
di un papa. Il papa Giovanni Paolo 2°,
con le parole pronunciate nel 2000 al termine della preghiera universale
di confessione delle colpe e richiesta di perdono ha anche assegnato a tutti
noi fedeli, e in particolare a noi laici
che operiamo nel “temporale”, cioè al di fuori della sfera liturgica di
competenza canonica dell’autorità ecclesiastica e del clero, un compito molto chiaro, da svolgere con
determinazione e senza cedimenti o
arretramenti (“mai più…”), anche in
materia di realizzazione dell’uguaglianza sociale universale.
C’è ancora molto da fare, sia dal punto di
vista pratico che da quello teorico, ideativo. Ma molto indubbiamente è stato
fatto.
Considerate ad esempio quante volte nel Catechismo
della Chiesa cattolica (1992 – 1997) ricorre il tema dell’uguaglianza.
E’ una ricerca che possiamo fare agevolmente mediante l’indice tematico. Dunque
il termine ricorre cinque volte ai numeri:
n.369: riguarda l’uguaglianza tra uomo
e donna;
n.872:
non riguarda l’uguaglianza nella società civile, ma il contributo
all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi alla missione della Chiesa;
n.1935 (sopra citato)
n.2273: se ne parla con riguardo ai
diritti del nascituro;
n.2377:
se ne parla con riferimento alle pratiche di inseminazione e fecondazione
artificiali omologhe.
In
sostanza il tema dell’uguaglianza è considerato nel senso a cui vi si riferiva
il citato brano della Gaudium et spes solo nel n.1935, poche righe.
Molto di più vi è nel Compendio della
dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel giugno 2004, che raccoglie
precedenti dichiarazioni del magistero dei pontefici e dei concili. Si tratta
di uno strumento molto utile per avere una visione d’insieme e coordinata dei
temi in esso trattati, tra i quali, appunto, quello dell’uguaglianza e
soprattutto per collegare certe importanti affermazioni alle fonti da dove
derivano.
1965 – 1992 – 1997 – 2000 – 2004: mi pare che
si possa rilevare una veloce (tenendo conto dei tempi occorrenti solitamente
nelle cose di religione) evoluzione della concezione delle relazioni della
nostra fede con i temi dell’uguaglianza sociale e, conseguentemente, della
democrazia che anche su di essa di fonda.
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6
La libertà come opportunità religiosa in
democrazia
(1
ottobre 2012)
Il nuovo colosso
Non
come lo sfacciato gigante di bronzo della gloria greca,
piantato
a soggiogare la terra da un confine all’altro,
qui
sulle rive della terra d’Occidente si ergerà
una
donna potente con una torcia, la cui fiamma
racchiude
il fulmine, e il suo nome è
Madre
degli Esuli. Dal faro che ha in mano
lampeggia
il benvenuto a genti di tutto il mondo;
gli
occhi suoi dolci dominano il ponte sospeso
che
unisce due quartieri della città.
“Tenetevi pure, terre antiche, il vostro fasto
leggendario!” ella grida
con
labbra silenziose. “Datemi chi tra voi è
esausto e povero,
le vostre masse che si accalcano
nell’anelito di libertà,
i miseri
rifiuti della vostre popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli
sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò loro la
porta d’oro!”.
Emma
Lazarus, 1883 (traduzione mia)
Avvicinandosi dal mare e dal cielo alla città
statunitense di New York, risalta la gigantesca statua eretta a fino Ottocento
alla foce del fiume Hudson per celebrare l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, conosciuta come
la Statua della Libertà: raffigura
una donna coronata che innalza una torcia con il braccio destro e nell’altro
tiene un libro sul quale è incisa la data dell’indipendenza americana dal Regno
Unito, il 4 luglio 1776; ai suoi piedi vi sono catene infrante; è la
raffigurazione della Libertà che illumina il mondo. Sul suo piedistallo sono
incisi gli ultimi versi della poesia Il
nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus, che sopra ho
evidenziato in neretto (l’antico colosso greco menzionato nel primo verso della
lirica era quello, raffigurante il dio
Sole – Helios, eretto nel porto della
città di Rodi nel terzo secolo dell’era antica). Comunemente quel monumento è
ritenuto un simbolo degli Stati Uniti d’America, ed è vero, ma rappresenta
anche qualcosa di molto più profondo: infatti ricorda che la guerra di
indipendenza delle colonie nordamericane combattuta nel Settecento contro i
britannici fu una vera e propria rivoluzione, motivata non solo dalla volontà
dei coloni di comandare a casa propria, ma anche da quella di creare un mondo
nuovo, con altri principi rispetto a quelli che dominavano la monarchia europea
che pretendeva di continuare a dominarli; quel proposito che nella poesia è
espresso con il voler aprire la “porta
d’oro” a quelli che oltremare erano considerati rifiuti umani. La Libertà
simboleggiata in quella statua è quindi quella che è associata alla giustizia
sociale ed è molto di più del solo conquistare il potere di decidere che cosa
fare di sé e delle proprie cose, liberandosi in questo dal giogo altrui; non è
solo la liberazione da una lontana monarchia,
è liberazione dal giogo della
diseguaglianza e della discriminazione sociale e anelito ad un nuovo ordine
sociale, ad una nuova condizione di cittadinanza, per dare a tutti
l’opportunità della ricerca della felicità, poiché
gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti
(così è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana). La Statua
della Libertà e la dichiarazione di
indipendenza che essa celebra manifestano una caratteristica delle democrazie
moderne che spesso non è bene intesa: esse sono fondate sul desiderio della
libertà dall’ingiustizia sociale e sull’affermazione di diritti umani sottratti
all’arbitrio umano, sia esso quello di un monarca come anche quello di una
maggioranza. Essa ha quindi sostanzialmente carattere religioso perché non
dipende dall’osservazione e accettazione di come vanno le cose di solito, e
infatti di solito vanno diversamente, ma da principi proclamati, attuati e
difesi come assoluti: nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense ciò è
detto chiaramente, vi sono infatti menzionati esplicitamente Dio e altri ideali
religiosi.
Quando si dice che il cristianesimo è
all’origine di importanti valori della nostra civiltà questo è vero anche per quanto riguarda le
democrazie contemporanee, anche se non bisogna dimenticare che esse si sono
spesso imposte contro gli insegnamenti e i divieti delle autorità
ecclesiastiche e che ciò risalta particolarmente nel caso della Chiesa
cattolica. Una delle epoche più problematiche sotto questo profilo fu quella
del ventennio fascista italiano. Ma oggi siamo in un’era diversa, qui in Italia
e ce ne dobbiamo rallegrare. Possiamo parlare di democrazia e religione senza
dover superare divieti della autorità
civili e di quelle religiose. Ci può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. E’
stata una faticosa conquista, dalla quale non dobbiamo mai accettare di
recedere. Abbiamo quindi, ai tempi nostri, la possibilità, ma anche il compito
e il dovere, di approfondire il tema dell’influsso che come fedeli cattolici
possiamo esercitare per la crescita della società civile e in particolare per
la piena affermazione di quei diritti inalienabili, di quei valori, che sono all’origine delle
idealità democratiche. L’obiettivo, condivisibile anche con coloro che non
hanno le nostre convinzioni di fede, è quello di realizzare, mediante vite
buone, una società in cui sia veramente bello vivere, in libertà e giustizia.
Ciò è parte cruciale dell’impegno in Azione Cattolica.
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7
L’uguaglianza come pari dignità sociale è
alla base delle democrazie di popolo
contemporanee
(3
ottobre 2012)
Nel Compendio
della dottrina sociale della Chiesa (2004) si legge una interessante
citazione alla nota n.793, a proposito dell’amicizia
civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica
convivenza sociale:
« “Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione
francese. In fondo sono idee cristiane »
ha affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia
a Le Bourget (1º giugno 1980).
Quelle parole di un papa colpiscono tenendo
conto del carattere marcatamente anticlericale della Rivoluzione francese del
Settecento (1789-1799). E certamente esse non vollero intendere una
giustificazione delle violenze politiche di massa che quei moti espressero o
delle misure restrittive e delle espropriazioni adottate contro la Chiesa
cattolica di allora o degli altri
provvedimenti contro il clero cattolico, ma riconoscere che alcune delle
principali idealità di convivenza sociale manifestate da quei rivoluzionari di
allora corrispondevano anche a principi religiosi cristiani. Naturalmente ai
nostri tempi ci siamo abituati ad una libertà
di espressione del pensiero che nel
Settecento ci sarebbe costata cara. All’epoca non si potevano dedurre liberamente dai principi religiosi certe
conseguenze quanto a riforme sociali.
Quindi dobbiamo capire che certe cose vengono dette talvolta con il senno del poi. E, certo, giudicando con
quel senno del poi, ci possiamo dispiacere che la Chiesa cattolica abbia
espresso non di rado nei secoli passati posizioni arretrate rispetto ad altre
della sua contemporaneità, e lo riconosciamo perché poi ha appunto dichiarato pubblicamente di pentirsene. La
situazione ai nostri giorni è piuttosto cambiata. Mi riferisco ad esempio alla bioetica in cui il pensiero cattolico,
stimolato dal magistero, è all’origine di un importante e fecondo filone
speculativo che ha portato ad approfondire il tema di quando cominci l’umano
che deve essere riconosciuto nella dignità sua propria, o all’etica
dell’economia e dello sviluppo, come quella espressa nell’enciclica pontificia Caritas in veritate (2009), in cui si è presa consapevolezza
dell’esigenza che dall’interdipendenza umana planetaria discenda la necessità
di un nuovo spirito di fraternità globale.
Soffermandoci sul principio
di uguaglianza, è senz’altro vero che esso è alle fondamenta della democrazie
popolari contemporanee, per intenderci quelle basate sul suffragio universale (alle elezioni politiche votano tutti gli
adulti, maschi e femmine, senza distinzione di istruzione, reddito, condizione
sociale o di stirpe) e sui quei principi assoluti, proclamati solennemente
dalla Nazioni Unite nel 1948 nella Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, che si indicano come diritti umani. Il principio di uguaglianza è uno di essi e viene
così enunciato in quella solenne Dichiarazione,
all’art.2:
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati
nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione
politica o di altro genere, di origine
nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre
stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del
Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o
territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non
autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
Una delle principali
eccezioni al principio di uguaglianza universale è stata storicamente quella
della condizione di schiavitù, superata solo nel corso dell’Ottocento dagli
stati europei ed americani. Dai film western
sappiamo, ad esempio, che una delle motivazioni che furono alla base del
sanguinoso conflitto detto guerra di
secessione (1861-1865) nordamericana fu la questione dello schiavismo in danno dei
deportati dall’Africa. Lo schiavismo fu istituzione molto antica ed era molto
praticato anche ai tempi delle primitive comunità cristiane, che non vi videro
vero motivo di scandalo. Così, in particolare, per la gran parte della storia
della Chiesa cattolica le autorità ecclesiastiche non vi videro veramente un
problema da punto di vista religioso se praticato da popoli cristiani (al
contrario, ad esempio, di quello praticato dai predoni saraceni che comportava l’abbandono della pratica religiosa
cristiana). Per quanto ho letto, se ne cominciarono a occupare dal Cinquecento,
di fronte alle morie di massa dei nativi americani costretti in schiavitù dai
colonizzatori europei. Monarchie cattoliche come quella spagnola e portoghese
consentirono la deportazione di massa di schiavi dall’Africa e la riduzione in
schiavitù di masse di nativi americani. I cristiani europei non furono in
genere particolarmente sensibili al tema fino al Settecento, salvo che nel caso
di alcuni spiriti illuminati (anche del clero) e di alcuni filosofi. Lo
schiavismo attuato da cristiani influenzò profondamente il profilo demografico
americano, come si può constatare facilmente in particolare negli Stati Uniti
d’America, nei Caraibi e in Brasile.
L’uguaglianza tra gli esseri
umani non è del resto un dato evidente (un dato è evidente quando esso ci si impone senza che ci si debba ragionare
molto su). La scienza contemporanea ci dice che gli umani condividono tutto il
profilo genetico, tranne però una piccolissima parte che denota importanti
caratteristiche etniche, familiari e individuali. E certe comuni caratteristiche
fisiche e mentali degli umani erano già chiare ai popoli dell’antichità, come
anche però le differenze tra le persone e i popoli. E’ insomma da sempre
esperienza comune che ognuno di noi nasce e si sviluppa diverso dall’altro,
benché simile agli altri. Si tratta
di differenze di stirpe, ma anche di altre
particolarità individuali nella costituzione fisica e di caratteristiche
psichiche, come quelle relative alla struttura e all’orientamento sessuali,
alle quali si aggiungono differenze derivate dalla storia individuale e sociale
della persona. In definitiva si può dire che l’uguaglianza non è in natura, questo sicuramente è evidente, mentre certamente gli umani si assomigliano
gli uni gli altri, anche questo è evidente,
e inoltre che gli umani sono viventi sociali che hanno bisogno gli uni degli altri e quindi si sono reciprocamente
complementari e cercano di organizzare le loro società in modo da sfruttare al
meglio questa loro qualità. Nel mondo di oggi, molto complesso e molto più
abitato da esseri umani che nelle epoche passate, riteniamo generalmente che a
questo fine si debba promuovere l’uguaglianza universale tra gli esseri umani per realizzare società in cui le
opportunità di cooperazione pacifica siano potenziate al massimo. Ci figuriamo
infatti che un conflitto su scala mondiale, data la profonda interdipendenza
della società umane e la potenza degli strumenti di distruzione a disposizione,
porterebbe a una catastrofe che metterebbe addirittura in pericolo la
sopravvivenza dell’intera specie umana sulla Terra.
Faccio un esempio tratto
dalla vita quotidiana di oggi: il mio IPAD è stato ideato negli Stati Uniti
d’America, prodotto nella Repubblica popolare di Cina (lo stato che domina
nella Cina continentale) e venduto in Italia: che succederebbe se scoppiasse un
conflitto tra americani e cinesi motivato dall’annosa rivendicazione di
sovranità dei cinesi sull’isola-stato di Taiwan? Naturalmente possiamo fare un
esercizio simile di previsione anche con riferimento ad altri prodotti di cui
non potremmo fare facilmente a meno, mentre tutto sommato all’IPAD si potrebbe
rinunciare.
In che cosa quindi siamo uguali e, innanzi tutto, da dove deriviamo questa pretesa di uguaglianza?
In realtà quella
all’uguaglianza tra gli esseri umani è un’aspirazione e un obiettivo, non (ancora) una realtà, né in natura né nelle
società umane, e si fonda sull’idea che essi abbiano pari dignità, vale a dire
che a tutti loro vadano riconosciuti nella
stessa misura alcuni diritti umani
fondamentali. Questa idea, per quanto ho capito, è di origine
specificamente cristiana.
Si legge nel Compendio della dottrina sociale della
Chiesa, al n.144:
144 « Dio non fa preferenze
di persone » (At 10,34; cfr. Rm 2,11; Gal 2,6; Ef 6,9),
poiché tutti gli uomini hanno la stessa
dignità di creature a Sua immagine e somiglianza.
L'Incarnazione del Figlio di Dio manifesta
l'uguaglianza di tutte le persone quanto a dignità: « Non c'è più giudeo né
greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28; cfr. Rm 10,12; 1 Cor
12,13; Col 3,11).
Poiché sul volto di ogni
uomo risplende qualcosa della gloria di Dio, la dignità di ogni uomo davanti a
Dio sta a fondamento della dignità dell'uomo davanti agli altri uomini. Questo è, inoltre, il
fondamento ultimo della radicale uguaglianza e fraternità fra gli uomini,
indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine, cultura, classe.
Quindi: in primo luogo viene in rilievo
l’essere stati tutti creati da Dio, che ci si è manifestato come Padre, e
in secondo luogo la fraternità comune in
Cristo. E, quanto alla condizione di creature, c’è un altro elemento
importante: la convinzione di essere stati creati da Dio a sua immagine, a sua somiglianza (Genesi 1,26).
Riconoscere la pari dignità degli
umani è quindi, nella concezione cristiana, materia di un dovere religioso,
anche se nella storia cristiana sono state riconosciute lecite molte
distinzioni ulteriori, ad esempio quella fra uomo e donna, che sono state poste
alla base di vere e proprie discriminazioni.
Quello che viene espresso nella terminologia biblica, può anche essere detto
così: tutti gli esseri umani devono essere considerati uguali nei
diritti fondamentali. In un caso come nell’altro, sia che la si esprima in
termini religiosi che con altri termini, a questa realtà si crede in modo
religioso, vale a dire a prescindere da quello che si ricava dall’osservazione
delle cose come vanno di solito e, in particolare, della natura, in cui, come ho detto,
l’uguaglianza non esiste e la regola fondamentale è pesce grosso mangia pesce piccolo e sopravvive il più adatto alla
condizioni ambientali e biologiche. Insomma per uno spirito religioso
cristiano l’affermazione della pari dignità creaturale degli esseri umani e
tutto ciò che se ne fa conseguire non è un problema, mentre chi vuol far
discendere quel principio dalla semplice natura,
vale a dire dal nostro essere viventi prodotto della natura, deve affrontare un’insufficienza nel fondamento di quella
pretesa.
Gli illuminati artefici della rivoluzione
nordamericana (1776) della fine del Settecento non trovarono infatti alcun
ostacolo nel proclamare:
We hold these
truths to be self-evident, that all men are created equal, that they
are endowed by their Creator with certain unalienable
Rights, that among these are Life, Liberty and the
pursuit of Happiness.
(trad.mia:
Crediamo fermamente nell’evidenza di queste verità: che tutti gli esseri
umani sono creati uguali,
provvisti dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, e tra essi il
diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità.)
La lotta contro le discriminazioni tra gli
esseri umani nei loro diritti umani è
alla base di molte delle costituzioni delle entità politiche contemporanee, in
particolare di quelle europee e americane e di quelle che a queste ultime si
sono ispirate. L’Unione Europea è tra quelle entità. Bisogna riconoscere che
questa è una materia in cui ci sono state alcune prese di posizione divergenti
tra le autorità civili e quelle religiose. A volte l’affermazione dei diritti
umani è stata considerata antireligiosa. In campo civile si è presa ad esempio
coscienza di forme di discriminazione che la dottrina religiosa non riconosce
come tali. Segnalo solo un problema che è, come si dice, di stringente
attualità. Una di quelle questioni è venuta in rilievo nell’ultima riunione del
nostro gruppo e riguarda la disciplina giuridica delle unioni delle persone
omosessuali. Su di essa ai laici cattolici è lasciata poca autonomia, perché
rientra in quelle riguardanti i valori
non negoziabili, sui quali l’autorità ecclesiastica, con vincolo di
obbedienza canonica, chiede che si segua la sua linea. Ma comunque bisogna
ragionarci su, perché come fedeli laici dobbiamo pur sempre rendere ragione al mondo della nostra
fede e a questo fine non è sufficiente l’argomento “ci è stato ordinato di pensare e di fare così”. Si tratta del resto
di problemi che rilevano ancor più in
materia di fede per la base in fondo religiosa del diritto umanitario.
Nel campo dei diritti umani, le tematiche religiose, e in particolare quelle
cristiane, stanno avendo, un po’ inaspettatamente, una particolare rilevanza
nello sviluppo dell’organizzazione delle società civili più avanzate, in
particolare in Europa. E’ un settore in cui sono chiamati a operare innanzitutto i fedeli laici,
impegnati a spendersi in quello che nel gergo ecclesiale è definita l’animazione del temporale. E’ questo, dall’inizio, uno degli ambiti
spazio in cui l’Azione Cattolica ha deciso di lavorare prioritariamente.
Infondere nelle società civili i valori,
che sono alla base del diritto umanitario, è infatti necessariamente un compito
collettivo, da affrontare insieme,
dopo essersi preparati insieme. Così
anche è da affrontare insieme il
dialogo con altre componenti della società per individuare nelle condizioni
contemporanee altri fattori, oltre a quelli storicamente già noti, che
ostacolino la piena espansione universale della dignità degli esseri umani.
Per molti versi tuttavia in molte realtà
locali il discorso di Azione Cattolica è da riavviare o anche solo da ravvivare, perché nei decenni passati ci si è spesso concentrati su altre tematiche
e altri modi di impegno religioso e si è quindi un po’ perso il senso del
nostro impegno nella Chiesa e nella società civile. Veniamo da lontano, ma
qualche volta appariamo alla gente come un’esperienza nuova, non esattamente in
linea con le altre esperienze di collettività presenti nella vita delle
parrocchie. Ad esempio può apparire che, dove altri mettono l’accento su una
disciplina individuale, noi puntiamo molto sulla libertà delle persone nelle
nostre dinamiche associative, in particolare su quella di pensiero e di
espressione. Eppure la nostra rimane una esperienza di carattere religioso, in
cui si vuole quindi rimanere legati alla fede comune, anche se effettivamente
si punta a scoprire/riscoprire/sperimentare la nostra fede anche come strada verso la libertà, secondo
l’espressione di Paolo Giuntella che ho citato nel post del 1 ottobre scorso.
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8
Un appello per ripartire insieme
(4
ottobre 2012)
Negli ultimi giorni ho pubblicato alcuni
contenuti in cui ho parlato degli obiettivi peculiari dell’Azione Cattolica
nella società civile democratica di oggi. Può sembrare una cosa un po’ troppo
grande per una realtà parrocchiale come la nostra. E per le nostre forze in
concreto. Per certi versi noi dell’A.C. in San Clemente Papa siamo un piccolo resto, se ci paragoniamo a come era anni
fa il nostro gruppo. Non abbiamo più una nostra stanza in parrocchia, di volta
in volta ce ne assegnano una. Il nostro assistente ecclesiastico si trova a
volte a parlare a poche persone e può domandarsi se, in fondo, ne valga ancora
la pena. Avere una grande storia non potrà salvarci a lungo dall’estinzione
se il gruppo non si rivitalizzerà con
l’ingresso di nuovi soci, in particolare di soci più giovani. E’ paradossale
che questo accada in un mondo che ha tanto bisogno di ciò che la Chiesa si
propone di dare e in un Chiesa che vuole essere tanto presente nel mondo, in
particolare confrontandosi con le democrazie europee e l’Unione Europea sul
terreno dei valori. Questo è appunto
da sempre il campo specifico dell’Azione Cattolica, l’azione nella società civile per
promuovere in essa i valori religiosi.
E’ possibile che non si abbia ben chiaro,
pensando ad un impegno in Azione Cattolica, che
cosa si fa nei nostri gruppi e soprattutto quali risultati si riescano
effettivamente ad ottenere. Bene, innanzi tutto occorre distaccarsi da una
mentalità per così dire aziendalistica,
per la quale si somma nei risultati positivi solo tutto quello che si fa sotto
il marchio associativo. Noi riuniamo gente che già opera nella società
nei vari ambiti in cui si può farlo: la famiglia, il lavoro, lo sport, la cultura
e via dicendo. Non dobbiamo inventarci cose nuove da fare lì come Azione
Cattolica. Però formandoci e riflettendo in Azione Cattolica, in un gruppo che
è federato in un’organizzazione che ne condivide le idealità, gli obiettivi e
il metodo, possiamo manifestare meglio nel posto che occupiamo nella società il
nostro essere cristiani e i nostri valori, dialogando con altri sui temi e
i problemi emergenti. Per questo occorre
una preparazione, sia spirituale che culturale, e una determinazione che scaturisce
da una adesione consapevole e convinta ai valori
di fede. Non è un lavoro che troviamo
già fatto, come se, per ogni situazione, la nostra Chiesa, il magistero in
particolare, potesse fornirci una sorta di manuale operativo o di catechismo, e
poi a noi spettasse solo di attuare cose decise da altri. Forse, al di fuori
del mondo ecclesiale, si pensa che tra noi cattolici vada così, che insomma si
faccia quello che in dettaglio viene stabilito più in alto nella scala
gerarchica, dal Papa in giù. E’ il pregiudizio che, da cattolico, dovette
superare John Kennedy assumendo la presidenza degli Stati Uniti d’America. In
realtà ognuno di noi porta effettivamente la personale e diretta responsabilità
della porzione di mondo che è sotto la sua sfera di influenza e le soluzioni
vanno ideate e sperimentate di volta in volta, dialogando nella Chiesa e nella
società. Se oggi si dispera di poter cambiare le cose che non vanno a partire
dal basso è perché è un po’ svanito il senso democratico, che comunque pervade
sempre la nostra società, per il quale si è capaci di individuare e capire la
dinamica dei grandi numeri, delle masse, dietro certi cambiamenti storici. Di
convincersi che in democrazia si cambiano effettivamente le cose a partire
dagli sforzi delle persone nella loro particolare, apparentemente umile e insignificante,
storia. Una parte del lavoro che si deve
fare in Azione Cattolica consiste proprio in questo: nel comprendere meglio
quello che l’azione collettiva democratica ha fatto, sta facendo e può ancora
fare per il bene di tutti, per cambiare il mondo. Democrazia è agire in una
collettività rispettando la personalità e i valori degli altri, con la fiducia
di poter cambiare in meglio la società: l’Azione Cattolica concepisce sé stessa
anche come una palestra di democrazia (Atto
normativo Diocesano di Roma). La fiducia nelle potenzialità dell’agire in
democrazia si acquista lavorando insieme ad altri, in un gruppo aperto alla
società, partecipando ad un’azione collettiva spinta da alte idealità, quali
sono quelle religiose.
La
parrocchia è la casa di tutti e tutti possono trovarvi la loro casa, il tipo di
impegno adatto a loro. L’Azione Cattolica è una stanza di quella casa di tutti,
anch’essa quindi è di tutti e per tutti. E
tuttavia il lavoro in un gruppo di Azione Cattolica può non venire incontro
alle esigenze di tutti, perché in primo luogo esso non è volto tanto ad operare
per coloro che ne fanno parte, a risanarli e sorreggerli nella loro psicologia
e nella loro fede, ma per gli altri che non
ne fanno parte, la società intorno, e poi perché non è centrato tanto su
ciò che si fa nel gruppo ma su ciò
che si deve fare fuori di esso, non
però come specifica collettività religiosa, come ditta ecclesiale, ma come parti della società civile. E l’azione che
si cerca di svolgere nella società è innanzi tutto diretta alla promozione di valori, la specifica forma di apostolato che compete ai laici, non
tanto a suscitare nuove adesioni al gruppo, all’espansione della nostra
particolare realtà associativa. La particolarità della nostra esperienza
associativa sta proprio nell’apertura
alla società civile, non in un modo particolare di vivere la nostra fede inteso
come spiritualità e disciplina individuale o di gruppo, dal momento che esso
non differisce da quello comune della parrocchia. Mi pare di aver capito quindi
che per associarsi in Azione Cattolica occorra: 1)aver già maturato una fede
salda; 2)avere già una formazione catechistica di base; 3) avere un interesse
alla vita della Chiesa, in particolare alla la missione che in essa e fuori di
essa specificamente compete ai laici;
4)avere interesse ad approfondire i temi proposti ai laici dal magistero, per
quella specifica missione dei laici; 5) avere interesse per le dinamiche
sociali contemporanee ed essere inseriti nella vita della società civile, negli
ambiti propri dei laici (famiglia, lavoro, cultura, sport ecc.), in posizioni
in cui si può concretamente influire su di essa. Per tutto ciò che non è di
interesse specifico di un gruppo di Azione Cattolica la parrocchia offre altre
forme di impegno sociale (ad esempio: catechesi per le varie età della vita,
azione caritativa, socialità per il tempo libero, sostegno alla fede e via
dicendo): l’associazione in Azione Cattolica non è
esclusiva e non è totalitaria.
Voglio concludere osservando
questo: per quanto riguarda le fasce d’età 30/50 anni il nostro gruppo deve
ripartire in pratica dall’inizio, si tratta di ripensarlo da capo. Ad esempio,
partecipare ad una riunione con inizio alle ore 17:00 può essere difficile per
persone di quell’età (io ho 55 anni e trovo difficoltà; la mia prole a
quell’ora è quasi sempre impegnata all’università). Ma si possono escogitare
alternative.
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9
Le ragioni di un lavoro insieme
(5 ottobre
2012)
Nei giorni scorsi ho scritto sull’esperienza
associativa in gruppo di Azione Cattolica. E certo ci si possono immaginare dei
risultati. Ma non vorrei dare per scontato che si abbia chiaro perché, in
definitiva, ci si debba unire per ottenerli. Qual è il movente interiore per
fare questo? Non posso vivere la mia fede nell’interiorità nella relazione che
ho saputo costruire con il soprannaturale, secondo la mia personale concezione?
Anche così poi posso manifestare con la mia vita la fede nell’ambiente in cui
vivo e opero.
Da universitario ho partecipato alle settimane
di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli universitari cattolici –
svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre monastero di monaci di una
congregazione appartenente alla famiglia benedettina. Lì c’erano alcuni monaci
che conducevano vita eremitica da decenni, vivevano da soli nelle loro casette
in cima a un monte e si ritrovavano insieme di quando in quando di giorno e
nella notte solo per la vita liturgica. Erano persone di fede, indubbiamente, e
vivevano la loro religiosità in quel modo. Bisogna dire però che si sentivano e
volevano essere in unione spirituale con la Chiesa e l’intera umanità. Il loro
isolamento era quindi solo esteriore.
La fede cristiana in realtà ci spinge gli uni
verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente negli scritti del Nuovo
Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho utilizzato nelle vacanze
per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8) ho
trovato questa citazione da un’opera di San Basilio, una preghiera:
…noi tutti che partecipiamo all’unico pane e
all’unico calice, unisci fra noi nella comunione dell’unico Spirito Santo”.
Essa richiama le parole di S. Paolo nella
prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):
Vi è un solo pane e quindi formiamo un solo
corpo, anche se siamo molti, perché tutti insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess. Elle Di Ci / Alleanza
Biblica interconfes. 1976).
In parrocchia, prima della Comunione,
recitiamo una preghiera formulata su quelle parole:
Poiché
c’è un solo pane per noi tutti, uno solo è il corpo formato da noi che partecipiamo al pane unico.
Insomma, mi pare di aver capito che questa
spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e non sia qualcosa di
accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che per temperamento non
sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito arricchito dalle
esperienze di fede vissute con gli altri.
In un libro dello psicoterapeuta Bruno
Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa osservazione che ho sentito
convalidare la mia esperienza di vita:
La vita interiore, e con essa la
personalità, non si sviluppa allo scopo di ottenere una sempre maggiore ricchezza
di sensazioni e di esperienze interne, ma sostanzialmente per un’altra ragione:
per entrare in rapporto con il mondo esterno nella speranza di poter agire su
di esso. Se la personalità non arriva a questo, non vi è alcuna ragione di
sviluppare le strutture interne. Esattamente come il linguaggio si sviluppa
solo se desideriamo comunicare con qualcuno o comprendere quello che egli ci
dice, così la personalità si struttura solo se desideriamo fare qualcosa a
un’altra persona o con essa o per essa.
[da
Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti
editore spa, 1976, pag.64].
Gli studi scientifici di Bettelheim, in
particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente ritenuti superati da
più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza umana, prima di
recluso in un campo di concentramento
nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini autistici, rimane
importante e, per molti aspetti della
vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro
di noi e ciò che si muove e che
facciamo fuori di noi c’è un continuo
e vitale rimando.
Ma, come ho osservato prima, non è detto che
questo movimento verso gli altri si debba esprimere necessariamente
nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una fraternità. Esso può
manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in qualche modo debba
essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità eremitiche di cui ho
detto.
Molte volte una fede religiosa è produttiva e
non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana stimola poi alla
generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere qualcosa in sé che
può essere non scambiato ma dato gratuitamente ad altri.
A volte si concepisce, un po’
superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni spirituali, uno “ci
entra” (nella Chiesa intesa come popolo)
o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio)
e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di scambio: vado a Messa e
deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che gira al tempo
dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.
Ecco, riunendoci insieme potremmo ad esempio
riflettere se quell’impressione sia corretta e completa. Non credete che ci sia
ancora qualcosa da imparare?
Anticipo la mia opinione. Nell’esperienza
religiosa siamo tutti noi, gente di fede, dispensatori, perché è come se quello che ci arriva poi rifluisca
intorno e verso gli altri, al modo di un irraggiamento. Quindi nella Chiesa non si va solo per ricevere, ma
anche per dare, per portare qualcosa, che è importante per gli altri e li
conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe dire meglio. Chi vuole può
approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia può farlo. Ci sono i
sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo anche una biblioteca
piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18). Ne può discutere
anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto dal prezioso
apporto dell’assistente ecclesiastico.
Nell’Azione Cattolica, che è un’associazione
che si propone di diffondere e
promuovere valori cristiani nella
società civile, è importante l’esperienza di vita degli aderenti. E’ questo il
materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si aderisce infatti per ricevere
dall’alto le soluzioni ai vari problemi e direttive su che cosa fare fuori, o
peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che è male, come se ci fossero
“istruzioni” precise per ogni situazione, ma per riflettere insieme, alla luce
della comune esperienza civile e religiosa,
su ciò che accade e per illuminare vie praticabili, che poi ognuno
proverà a percorrere lì dove concretamente opera, tornando a riferire ciò che
gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia che ho trascritto in uno
dei passati post, padre David Turoldo
scrisse:
Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
Effettivamente il futuro è nostra
particolare e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di
esploratori.
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10
Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa
(7
ottobre 2012)
10.1. Non sono di quelli che, educati nella fede cattolica, poi l’hanno
abbandonata o addirittura rinnegata e vi si sono riavvicinati da adulti o,
comunque, crescendo. Con questo non voglio dire di essere stato una persona
esemplare secondo le esigenze etiche della mia religione. Del resto nessuno si
è mai aspettato nulla di simile da me, anche se sempre mi è stato additato
l’obiettivo della santità. Fin da molto piccolo mi è stato detto che il male
nella vita c’è e che ne sarei stato responsabile anch’io, per cui mi è stato
insegnato a individuarlo, a pentirmene e
a cercare sempre, pervicacemente, di cambiare.
E’ ciò che ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella
Chiesa come essi me la presentavano, convinta, sulla parola del suo primo
maestro, che il male nel mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui
io ero stato artefice. Così la mia vita di fede in religione è stata improntata
a una certa serenità. E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la
mia esperienza religiosa di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di
mezz’età. Se riprendo in mano il libretto del catechismo della mia Prima
Comunione, che feci in quarta elementare qui nella nostra parrocchia di San
Clemente Papa, e lo leggo oggi da cinquantenne
posso concludere serenamente con un amen,
condivido ancora tutto quello che c’è scritto. Mi è sempre venuto naturale essere una persona
di fede, non vi ho trovato alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare
particolari sforzi. In questo penso che la mia vita si differenzi un po’ da
altre di cui ho saputo. Ci sono persone che sono molto più meritevoli di me
sotto questo profilo, per aver dovuto faticare e soffrire molto per giungere
dove io sono sempre tranquillamente rimasto. Quello che ho detto vale anche per
la mia esperienza di Chiesa. L’ho considerata sempre la mia casa, la mia
famiglia, dovunque sono stato. Anche nei periodi della mia vita in cui l’ho
frequentata di meno, essa rimaneva dentro di me, perché non ho mai avuto il
dubbio di non farne più parte. Sono stato scout, fucino, aderente ai Laureati
Cattolici – MEIC e all’Azione Cattolica (della quale FUCI e MEIC un tempo
facevano parte), ho partecipato a diversi gruppi di ispirazione religiosa,
parrocchiali e non, e mi è sempre parso di muovermi da una stanza
all’altra delle medesima casa. Ricordo che una volta, da scout (facevo le
medie), condussi la mia squadriglia a Sulmona, secondo la missione che avevo
ricevuto durante un campo estivo sui monti d’Abruzzo, e chiesi ospitalità al
parroco di una chiesa vicina al centro: lui ci fece dormire, con i nostri
sacchi a pelo, nel museo della parrocchia, che conteneva tante cose preziose;
mi diede la chiave e mi disse che sarebbe ripassato il giorno dopo. Io mi
meravigliai di quella fiducia, concessa a ragazzini che non aveva mai visto
prima, e, riflettendoci su nel corso di quella notte, conclusi che lo aveva
fatto perché noi lì eravamo di casa, eravamo infatti Chiesa, e le nostre divise
da scout glielo avevano confermato, è come se lo avessimo scritto in fronte,
come si legge nell’Apocalisse dei giusti.
Il lavoro che si fa nella società come Azione
Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi confrontarsi sulle nostre
esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della fede comune su di essa.
Ricordo ancora quando, da bambino, il parroco
mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa” (edificio) e “Chiesa” (gente).
Con il Battesimo ero entrato a far parte della
Chiesa ed era per questo che venivo in
chiesa. Ne rimasi molto colpito e per un certo tempo lo andai ripetendo in
giro, ai miei coetanei. Poi, crescendo, ho scoperto che il discorso sulla
Chiesa è molto, molto più complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via
della Conciliazione, notai un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie”
(le concezioni sulla Chiesa), lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e
scoprii che in giro, sia nella nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane,
c’erano tante idee di Chiesa. A parte questo, ci sono le varie esperienze
individuali e collettive che uno fa della Chiesa durante la propria vita, che
influiscono sul modo di condursi fuori
della Chiesa.
Se, ad esempio, una persona pensa di trovarsi
in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi eroici difensori, un po’
come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo presidio di secessionisti
nordamericani tentò invano di resistere all’attacco dell’esercito messicano
mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà portata a diffidare di
tutto ciò che gli viene dall’esterno
e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando solo quello che gli viene di dentro, dal proprio gruppo, dal
proprio ambiente abituale, costruendo
in tal modo una sorta di città di Dio
opposta alla città del diavolo,
quella di fuori. Ci si muove un po’
in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla
città di Dio) di S. Agostino di Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta
in un tempo in cui l’ordinamento dell’Impero romano era travolto dalle
invasioni di popolazioni del nord Europa.
Sulla dottrina della fede in merito alla
Chiesa ci sono diversi testi fondamentali del magistero mediante i quali ci si
può informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), che potete
leggere sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Avverto che, trattandosi di un documento normativo, esso è scritto nel
linguaggio e con il metodo della teologia, che potrebbe essere un po’ ostico ai
non iniziati.
Della
Chiesa si tratta anche, in termini più accessibili, nel Catechismo della Chiesa
cattolica (Parte prima, Sezione seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a
975). Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM
Se ne
tratta in modo più semplice nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica
(Parte prima, Sezione seconda, capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate
sul WEB all’indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html
Leggendo le prime due opere, potrete
constatare che nella nostra Chiesa,
quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la storia
bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da cui si
ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai da zero
e si cerca di tenere tutto insieme.
Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di
meno, ma ci sono.
Storicamente l’Azione Cattolica ha ritenuto di
potersi confrontare positivamente con la società in cui la Chiesa italiana
vive: il suo moto fondamentale è stato quindi, ed è ancora, quello
dell’apertura, non dell’opposizione, e questo naturalmente non significa
accettare tutto ciò che gira nel mondo di
fuori, ma pensare che certe idee sulla società che hanno un fondamento
religioso possono (ancora) essere diffuse utilizzando il metodo e i principi
della democrazia, sui quali l’ordinamento della nostra società si basa, e che
ciò che si agita nel mondo abbia anche un significato religioso. Viene in
Azione Cattolica chi non pensa di essere nella condizione di Fort Alamo.
L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo periodo di pace, dopo la serie
storica interminabile dei conflitti armati tra i suoi popoli, e mira ancora alla pace si fonda su idee
cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di ricordarcelo. Spinti dal magistero, in Azione Cattolica
cerchiamo di agire di conseguenza.
10.2 Costruire nella società per narrare il
fondamento della nostra speranza
Continuo le mie riflessioni sulla base del
libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E.,
2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo ragionevolmente confidare del
tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre
nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa
sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni
indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di
prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in
noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non
solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le
opportunità pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva
il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo
dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò
che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi,
ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia
verso il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire
“sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a
processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso,
tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori
esterni a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto
numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad
esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E
spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile,
quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene su
è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi
compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo
Dossetti, più che argomentato, quindi
compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento,
secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la vita,
perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La
speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi
scoraggiare dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei
successi, che pure sa essere sempre
minacciati e caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto
promesso alla fine della storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così
Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione
Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a
svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e
convinzioni. In quest’ottica il profano,
ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una
valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di
rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.
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11
Noi cattolici: cittadini o stranieri nella
società in cui viviamo?
(8
ottobre 2012)
L’Azione Cattolica non avrebbe senso in una
società in cui non fosse consentita, in qualche forma, la partecipazione della
gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più buio della sua storia,
quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò un’altra cosa. Nel 1931
le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che costituivano il braccio
operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la presa di distanza dei
cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione della legislazione
discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa può essere
considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono diverse eccezioni
(ad esempio la FUCI e Movimento Laureati
di Azione Cattolica), una delle
organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime fascista, il quale
con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un accomodamento con i vertici
ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani furono effettivamente,
nella grande maggioranza, fascisti.
Riprendo a questo punto alcune delle riflessioni
esposte nel libretto di Giuseppe
Dossetti Eucaristia e città, A.V.E.
editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento pubblico di Dossetti del
1987).
Nella Bibbia c’è un certa diffidenza per le
città e per gli ordinamenti politici, specialmente quelli che riunivano molti
popoli diversi. La concezione ebraica di città era molto distante da quella
greca, che impronta gli ordinamenti politici democratici contemporanei. Nella
prima la città era essenzialmente un insediamento chiuso, protetto da alte mura, in funzione difensiva. Per i greci
era principalmente il luogo in cui si svolgeva la cittadinanza comune, la
partecipazione al governo, quindi la politica
(dal termine greco pòlis, che
significa città). Per certi versi la
città, nella concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di
violenza e di presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero
vita travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si
mostrò infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto
(ne abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione
lo spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai
centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata
nella prospettiva evangelica. Il regno a cui tendono i discepoli cristiani non è di
questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano
addirittura come stranieri. Sono
infatti portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti
sociali e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a
loro è dovuto (a Cesare quel che è di
Cesare), ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre
obbedire. Loro compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il
perdono dei peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità
cristiane, un ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta
qualche affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne concepito
come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra
del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse 17,6 e
18,2).
Scrive Dossetti, nell’opera citata
(pag.45-46):
Per il regno di Dio e per
la città di Dio va ancora fatta una
precisazione a scanso di equivoci.
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non
si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non
è un bene comune, architettonicamente
sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi senza di noi. Il
pensare che noi possiamo attirarcelo e appropriarcelo
è “stoltezza umana, presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.
All’uomo compete solo la fedeltà alla Parola,
l’annunzio di essa, la pazienza longanime che
non spegne lo Spirito credendo di accelerarne le operazioni, la ferma fede che
il grano del Regno “cresce da solo” (in
greco: automàte) (Vangelo secondo Marco 4,26- 29).
Anche perché il Regno verrà,
per un decreto del Padre in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato
alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).
E allora sarà non
il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in “ictu oculi”
(Prima lettera ai Corinzi 15,52).
Un
famoso passo della Lettera a Diogneto,
scritto cristiano che si fa risalire al 2° o 3° secolo della nostra era, è
questo:
[I cristiani] Abitano ciascuno
la propria patria, ma come residenti stranieri; a tutto partecipano attivamente come cittadini e a tutto
assistono passivamente come stranieri; ogni
terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera.
[… ]
Passano la vita sulla
terra, ma sono cittadini del cielo.
Obbediscono alle
leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.
Insomma, concluderei che in religione non
siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle nostre
costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non sarà
dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo che
riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere seguito da
un regresso.
Ma
direi anche di più. Nella Bibbia c’è sicuramente il fondamento del concetto di dignità dell’uomo dal quale oggi
ricaviamo la convinzione giuridica e politica in certi diritti umani inalienabili, che sono la base delle
democrazie contemporanee, ma la
democrazia non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun
problema nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha
avuto alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi,
nel passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso
naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata
elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che
volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si
dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in
queste che sono delle specie di note
operative per la nostra situazione concreta di oggi quel discorso non serve.
Io sto
prendendo coscienza di questo: la situazione in cui ci troviamo nell’Europa
democratica di oggi non ha precedenti storici, è qualcosa di totalmente
inedito. E bisogna dire che questa realtà veramente nuova è stata costruita con
l’apporto fondamentale del pensiero di cristiani sulla democrazia e della loro
azione politica, di governo delle società.
Noi, ad
esempio, diamo per scontato che questo lunghissimo periodo di pace, che in
Europa si protrae ormai dal 1945, rientri nella normalità. Ma non è così. Tanto
che, quando frequentai le elementari, nella scuola di piazza Capri, il nostro
maestro era solito dirci che dopo qualche anno saremmo diventati uomini,
saremmo andati in guerra, e più o meno la metà di noi vi sarebbe morta. Le
cose, diceva, erano sempre andate così, una guerra più o meno ogni quindici o
vent’anni (e allora si era negli anni ’63-’67). Poi non andò così. L’ultima
grande frontiera, edificata tra Est e Ovest Europa dopo la Seconda guerra
mondiale, è caduta nel 1991, senza la catastrofe che per tanto tempo si era
temuta.
Aver
realizzato, in democrazia, una potenza di pace sugli antichi, immensi, campi di
battaglia ha un significato per la nostra vita in religione?
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12
Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo
vinto il premio Nobel.
(13
ottobre 2012)
Non mi pare che finora abbia fatto molta
impressione il premio Nobel per la pace dato all’Unione Europea, vale a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La nuova Europa è infatti
innanzi tutto una realtà di popolo, e
di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è fondata, più che su un
sistema di relazioni intergovernative per lasciare libero passo all’economia
(questa fu sostanzialmente la caratteristica della Comunità Economica Europea),
sulla proclamazione di un sistema di
diritti umani fondamentali (è una delle caratteristiche fondamentali della
nuova organizzazione creata dal Trattato
di Lisbona del 2007, entrato in vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono
stati ideati dai vertici dell’organizzazione europea, ma, prima di essere
formulati in un testo normativo, in quella Carta
dei diritti fondamentale la quale con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è divenuta legge
europea, hanno corrisposto a un’esigenza forte posta dai popoli ora federati
nell’Unione Europea. Su di essa si è fondata la duratura pace continentale e il
processo straordinario di inclusione di nazioni che per millenni si erano
combattute che ha convinto la celebre istituzione svedese a riconoscerne il
merito non a questa o a quella
personalità, ma a tutti noi. “Bravi!”, ci hanno detto, “avete fatto una cosa grande”. E noi? Noi siamo rimasti perplessi, come è
scritto che rimarranno i giusti, quando, alla fine dei tempi e presentatisi per
il giudizio su ciò che sono stati e su ciò che hanno fatto, verrà loro indicata
la porta del Regno beato. Che abbiamo
fatto per meritarci questo apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…
Ad esempio noi cattolici siamo divenuti più
tolleranti verso le altre confessioni cristiane e verso le altre religioni che
sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta di un impegno attuato solo
dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica molto diffusa tra le nostre
genti, forse anche al di là di una chiara consapevolezza delle questioni
implicate. In certi casi, come nei rapporti con l’ebraismo, a rapporti di aspra
conflittualità è subentrata una franca amicizia. E’ uno sviluppo veramente
importante, tenendo conto che la tremenda storia europea è stata duramente
travagliata da guerre e altre stragi a fondamento religioso, in particolare
nello scorso millennio. Abbiamo costruito in tal modo una civiltà fortemente
inclusiva, in cui questo e quello possono trovare la loro patria
indipendentemente dal loro rapporto con il soprannaturale, e infatti il moto
fondamentale che riguarda l’Unione Europea è un afflusso di popoli dall’esterno
verso l’interno, un moto centripeto, tanto che addirittura gli eredi di un
nemico storico come l’Impero Ottomano turco bussano alle nostre porte
nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede islamica; è qualcosa che
richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel brano in cui si
profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno verso una
Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino e umano,
vale a dire di certi principi supremi e realtà
di vita. Questa cosa non c’è mai
stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza. Dispiace che non
sia una cosa cattolica? Oh, ma è
anche una cosa cattolica.
Due giorni fa, con una fiaccolata, qui a Roma
abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano 2°. In quella occasione, avanzando in processione
verso piazza San Pietro ci siamo manifestati come Chiesa che vuole essere luce delle genti, secondo l’insegnamento
di uno dei documenti conciliari fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: luce delle genti). Ebbene, convinciamoci
che negli anni passati lo siamo veramente stati, tutti noi. Il papa Giovanni Paolo 2° volle invitarci a rifletterci
su durante il Grande Giubileo dell’Anno
2000. Considerate come siamo cambiati in meglio, noi Chiesa, da quando su
certe cose andavamo molto per le spicce, come si suole dire. Ho cinquantacinque
anni e non sono un nativo conciliare,
vale a dire che ho avuto modo di vivere la Chiesa di prima, anche se da molto
piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio. E comunque ci si può informare sui
libri di storia. Ai nativi
conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente nella nuova era,
coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima sembrano un po’ strani. Non è così? Ma ci sarà modo di
approfondire di più in questo che è stato proclamato, innanzi tutto come
obiettivo del nostro impegno, Anno della
fede.
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13
Insieme per agire da gente di fede
(14
ottobre 2012)
Qualche anno fa partecipai a una riunione del
mio gruppo del MEIC – Movimento
ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella universitaria dell’Università La
Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò dei vari modi di pensare una
dimensione comunitaria della vita di fede e di interventi nella storia
dell’umanità motivati religiosamente e osservò che spesso si erano scelte delle
vie che poi avevano costretto a dire molti “si,
però…”, vale a dire a cercare di giustificare in qualche modo quelle che,
con il senno del poi, venivano
individuate come insufficienze in base all’etica religiosa proclamata. Ad
esempio, la cristianità medievale, in cui indubbiamente affondano alcune di
quelle che possiamo considerare come radici
delle società europee di oggi e che talvolta viene considerata un modello
ancora attuale per la sua forte integrazione culturale del cristianesimo,
produsse anche l’Inquisizione e le Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi abbiamo preso le distanze
dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò detto, siamo portati
ad aggiungere si però … l’idea di una società
civile fortemente ispirata alla religione in fondo ci piace e cose simili.
Non ci si poteva pensare un po’ meglio, prima,
per non dover poi essere costretti a
pentirsi? E’ un problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire
nella società in cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di
determinare collettivamente scelte ispirate a certi valori che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe
meglio non agire affatto e limitarsi solo ad attendere con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal
disegno provvidenziale, mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda
edificandoci nelle nostre comunità religiose con salmi, inni e canti
spirituali, secondo le espressioni di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1
Lettera ai Tessalonicesi 5,11)? Tenuto conto di quante sono le cose di cui
abbiamo sentito il bisogno di chiedere collettivamente perdono, da quando ci
siamo consentiti un simile esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.
Riprendo a questo punto a seguire, in queste
riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E., collana Le Tessere e il Mosaico, 2011, euro 8,00, pagine 131, con prefazione
di Giorgio Campanini.
Il mondo nuovo che religiosamente attendiamo
non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi la responsabilità. I nostri
progetti non possono e non devono estendersi fino ad esso. Né possiamo
immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una società da noi
edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti (pag.45-46):
Il Regno, giunge a noi, senza
di noi.
[…]
,,,il Regno verrà, per un
decreto del Pare in un momento imprevedibile “che il Padre ha riservato alla
sua potestà” (Atti degli apostoli 1, 6-7).
E allora sarà non il
coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, in ictu
oculi [trad.:in un batter d’occhio
– greco: en ripè oftalmù] ” (1
Lettera ai Corinzi 15,52).
Quest’ordine di idee è un bel sollievo.
Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati colpevoli di non aver
saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe approssimazioni, il Regno, la
società perfetta che non ha bisogno di lampade o di sole, “perché il Signore Dio li illuminerà”, secondo l’emozionante
profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3, e anche di non aver asciugato ogni lacrima dagli occhi dei sofferenti,
e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il lutto, il pianto e il
dolore. Fatemi sapere se condividete
questo discorso.
Ciò posto, se guardiamo all’Unione Europea di oggi, per la quale
inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio
Vaticano 2°, nella quale abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo
stati Luce delle genti, ce ne
compiacciamo, pur pentendoci del male che in esse non siamo riusciti ad evitare
e sentendoci pur sempre impegnati a migliorarci, perché non solo ad esse
apparteniamo, ma anche esse ci appartengono, nel senso che sono un nostro modo
di essere e quindi riflettono coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e
noi, lo sappiamo, non possiamo dirci perfetti,
anche se in qualche modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo e addirittura ci sforziamo, di corrispondere
al disegno che religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in
definitiva, quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non
sono tati accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi
che lo volevamo fare e l’abbiamo fatto.
Sono effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo
e vediamo in esse cose buone ma anche
cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e
zizzania, di Città secondo Dio e di Città
secondo l’avversario di Dio che non è in
fondo in nostro potere sciogliere del tutto.
Ha un significato, per la nostra fede, l’aver
agito e costruito? Dossetti ritiene di poter concludere di sì. Per amore infatti abbiamo agito. Scrive
(pag.103-104):
Tutto nella via del cristiano
agito dallo Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente
sulla contrapposizione fra “contemplazione” e
“azione” […] “contemplazione” per il senso originario [che aveva
nell’antica filosofica greca, in particolare in Plotino (3° sec.) – nota mia]
,,, non [è] propriamente un concetto cristiano e [continua] a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della
spiritualità cristiana.
In senso propriamente cristiano
tutto è azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il
concetto abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.
Azione è l’Eucaristia: prima di
tutto azione di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la
celebra, del cristiano che vi partecipa.
Ogni preghiera, se fatta come
deve essere fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.
La lettura, e ancor più la
“ruminatio” della Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.
La malattia che riduce immobile
in un letto, accettata nella fede, è
azione […].
La concentrazione dell’anima nel suo oggetto
più proprio […] è azione”.
Per Dossetti, si agisce come
risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è una carità verticale, appunto dall’alto, che è “generante e condizionante rispetto ad ogni
altro amore, sia pure il più santo e benefico” (pag.117).
“L’amore rivolto ai fratelli
ne sarà un segno necessario e precipuo: ma derivato…”.
Dossetti segnala l’esistenza di un paradosso della carità eucaristica,
dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento
religioso:
“L’altissima risposta d’amore trinitario sarà
tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà e
saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà
silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel
grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può
pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che se
ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria
dell’Onnipotente” [Libro
della Sapienza 7,25].
Insomma: si agisce, si agisce insieme e si agisce per amore, ma amore di una specie particolare, che è risposta
ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così, non si fa conto del
risultato, che poi si è convinti che verrà in
un battito di ciglia a tempo debito e non per opera nostra: lo scopo
dell’azione è infatti solo quello di diffondere nella società un “effluvio puro della gloria dell’Onnipotente”
(Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997). Questo equivale, detto in
termini profani, a infondere nella società intorno a noi dei valori. Tutto ciò definisce bene il
compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si prepara,
si ragiona, si fa pratica e, infine, ci
si organizza e si va in prima linea,
dove per quei valori si lotta, e
addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario,
nel senso che in esso sono avversati quei valori.
Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di
altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace,
con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione
Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli
specificamente mariani, segno
dell’anelito a valori anche
specificamente nostri, di quelle radici
cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il
richiamo alla corona di dodici stelle della donna
vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene,
l’Unione Europea di oggi ci appare
veramente un segno grandioso, anche
in senso specificamente religioso.
Ho parlato di amore e questo termine, con il quale traduciamo tutti i termini del greco neotestamentario con i
quali specificamente si descrivono le relazioni tra i fedeli e tra essi e il
mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri umani e il fondamento
soprannaturale, suona equivoco, e anche
un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel greco del Nuovo Testamento (per
quello che ho letto – ma la mia in merito è solo erudizione di liceale, neanche
tanto studioso; non sono uno specialista) si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di
quando si sta insieme per fare un bel pranzo; il secondo si riferisce
all’amicizia, a un rapporto di reciproca simpatia e di preferenza, il terzo
richiama l’idea di quando si partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario del greco del Nuovo Testamento
non viene riportato il termine èros,
che pure rientra nei significati della nostra parola italiana amore, e definisce la passione sessuale,
quella che trascina emotivamente dalle viscere e acceca. Penso quindi che questa metafora non sia
stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente nell’Antico, mentre
anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di molto più complesso, perché
è insieme èros (come base emotiva della
predilezione per una persona fisica), agàpe,
filìa e coinonìa, oltre a patto ed alleanza.
Poiché la qualità e la direzione del nostro agire
dipende molto dalle ragioni e del modo del nostro stare insieme, è
interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe sapere a quali conclusioni siete giunti, cari
lettori; come vi regolate nelle vostre vite.
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14
Costruire nella società per narrare il
fondamento della nostra speranza
(12
ottobre 2012)
Continuo le mie riflessioni sulla base del
libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrica A.V.E.,
2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo ragionevolmente confidare del
tutto sull’opera nostra, in particolare sugli effetti che possiamo produrre
nella società. La storia ci insegna che il progredire dei tempi non significa
sempre un miglioramento, un progresso duraturo: è possibile che si torni
indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci viene consigliato di
prendere le cose in questo modo. Il fondamento della nostra speranza non sta in
noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non
solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le
opportunità pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In
definitiva il nostro atteggiamento fondamentale di fede nei riguardi delle cose
del mondo dovrebbe essere più che altro quello di una pervicace e fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò
che accade e che ci circonda sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi,
ma siamo convinti che non siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso
il suo compimento. Di questo possiamo aver una conferma per così dire
“sperimentale”: tutte le potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a
processi evolutivi simili a quelli degli organismi singoli. Nel complesso,
tirate le somme, si scopre di aver vissuto molto condizionati da fattori
esterni a noi, la nostra sfera di influenza, anche come collettività piuttosto
numerose, rimane sempre piuttosto limitata. E’ la sensazione che si ha, ad
esempio, durante la crisi economica globale che è attualmente in corso. E
spiegare con precisione il corso delle cose è sempre piuttosto difficile,
quando si ragiona in termini di moltitudini umane. Poi però, quando ci si bene
su è possibile che si riesca a produrre una interpretazione degli eventi
compatibile con l’idea di un disegno provvidenziale. Quest’ultimo, secondo
Dossetti, più che argomentato, quindi
compreso con precisione, va piuttosto narrato e testimoniato. Questo
atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen Moltmann, citato da
Dossetti,
[…] rende buona la vita,
perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La
speranza religiosa vive nell’attesa dei tempi ultimi e non si lascia quindi
scoraggiare dagli insuccessi che si vivono nella propria contemporaneità. E nei
successi, che pure sa essere sempre
minacciati e caduchi, si rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto
promesso alla fine della storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così
Moltmann, citato da Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione
Cattolica: la caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a
svolgerlo collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e
convinzioni. In quest’ottica il profano,
ciò che si muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una
valenza religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di
rintracciare e capire quelli che sono stati definiti i segni dei tempi.
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15
Noi: popolo di Dio
(15
ottobre 2012)
Nella riunione di martedì 16 ottobre 2012 ci è
stata presentata la costituzione dogmatica Lumen
gentium, del Concilio Vaticano 2°. Si tratta di un atto normativo, di una
legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha bisogno di leggi? Come ogni società di
esseri umani, sì. Ma quella costituzione conciliare è molto più di una legge.
E’ l’indicazione di una strada da prendere. Con autorità siamo stati chiamati a
percorrerla, tutti noi che siamo stati persuasi dalla fede cristiana e quindi
confidiamo in Gesù, il Cristo,
affidandoci a lui qui nella vita
terrena e oltre, sperando in quella eterna. Noi siamo convinti di costituire un
popolo, il nuovo (rispetto all’antico
popolo israelitico) popolo di Dio,
non fuso in unità sulla base di
discendenza etnica (secondo la carne),
ma mediante la nostra fede (nello
Spirito).
Riconosciamo nostro capo Cristo, che riteniamo
regni glorioso in cielo, quindi al di sopra di tutto: il suo è un nome al di sopra di ogni altro nome.
Il nuovo popolo:
Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio [noi ci chiamiamo anche così],nel
cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un Tempio [Lumen Gentium, cap.2°, n.9],
Nella
fede siamo stati come rigenerati
dall’alto: La nostra legge suprema è ora di
amare come lo stesso Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel
Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium,
cap.3°,n.9]. Siamo così popolo costituito per una comunione di vita, di carità e di verità [Lumen Gentium,
cap.2°, n.9].
Riteniamo che ci sia stato affidato un
compito, in particolare di essere stati inviati
a tutte le genti del mondo, come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen
Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a
tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].
Bene, ma
che cosa c’è di nuovo in questo
rispetto alla fede della Tradizione, dei secoli precedenti? Ci ragioneremo su,
in questo Anno della fede. Chi ha
fatto esperienza ravvicinata della Chiesa prima
del Concilio Vaticano 2° sa bene che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma,
nella nostra Chiesa, quando si cambia si cerca comunque di tenere tutto insieme, in particolare di collegarsi sempre alle
esperienze delle origini, dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i
documenti ufficiali. Così, leggendoli
superficialmente, si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando
si parla del Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si
presenta come una sorta di svolta rivoluzionaria,
che non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo
vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?
Vi
voglio però indicare un segno.
Pensateci su. In parrocchia, davanti all’altare qualche volta ho visto esposta
una grande menorah, il candelabro a
sette braccia che è uno dei simboli dell’ebraismo.
Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto
caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici
e forse scomunicati, vale a dire
tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa
del tutto lecita e, anzi, ci edifica.
Insomma, da sempre abbiamo saputo di essere
stati inviati alle genti, ma dopo il
Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con esse, come
collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli del passato.
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16
Essere popolo unito da una fede religiosa
(16
ottobre 2012)
Uno dei
temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) ha riscoperto nella dottrina
della tradizione potenzialità meno sviluppate nella storia bimillenaria della
Chiesa è quello dell’essere tutti i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da
una missione. E, in questo parlare di popolo,
hanno influito non poco concezioni moderne della politica, intesa come organizzazione della convivenza civile, così
come quando in passato si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad
altre concezioni in merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in
quanto tale è anche opera nostra e
risente delle nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da
ultimo è sempre stato ben presente nell’idea che, riflettendosi
sistematicamente sopra, si aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da
secoli, quando iniziò il Concilio Vaticano 2°, nella ideologia ecclesiale, vale a dire in quella visione semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita
la gente in una collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si confidava
molto negli effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme realtà umana
e soprannaturale e corpo sociale sottomesso ai Pastori (il Papa – padre universale e vicario di Cristo, capo invisibile: viene dal
greco pàpas che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos,
che significa sorvegliante), si
pensava che essa potesse sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo
e nei vari luoghi in cui viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio
che c’era in un certo momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre
una società perfetta. Ma vi è di più.
Una conseguenza che si traeva da quest’ordine di idee era che la Chiesa,
attraverso i propri Pastori, potesse,
non solo insegnare con autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a
tutte le altre organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva.
Fin da quando, nel quarto secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire,
dalla clandestinità e cominciò ad influire con le proprie idee sulle società
politiche in cui era immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con
i capi civili, i quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla
Chiesa come essa doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di
compiti e di materie da trattare tra le organizzazioni politiche civile e
l’organizzazione della Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La
troviamo attuata per la prima volta nella storia dell’umanità dopo la
rivoluzione nordamericana, nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti
d’America (“nessuna professione di fede
religiosa sarà mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una
carica pubblica degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione
federale), benché i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione di indipendenza forti idealità religiose cristiane.
Nella storia dell’umanità dalla fine del
Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un mutamento delle organizzazioni
politiche da modelli monarchici, in cui il potere supremo era attribuito a una
persona fisica o ad essa e a suoi stretti parenti, a modelli più partecipati da
altri strati della società civile. Questo moto è all’origine delle democrazie
di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza
– intesa come pari dignità sociale – dei cittadini. In qualche modo esso si è
espresso anche nella concezione di Chiesa che è stata proclamata con autorità
durante il Concilio Vaticano 2°, anche se esso non ha avuto esiti propriamente
rivoluzionari, né nelle intenzioni, né nella volontà espressa, né soprattutto
nella pratica ecclesiale postconciliare.
Bisogna però osservare che ciò è dipeso anche dal fatto che la Chiesa ha
rinunciato ad una sovranità politica su società civili, come quello che
storicamente era stato attuato nello Stato pontificio, nell’Italia centrale,
con capitale Roma. Sotto questo profilo ebbero effetti propriamente
rivoluzionari la Repubblica romana napoleonica
(1798), quella di Mazzini (1949)
e la conquista e soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che
l’ordinamento politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle
occasioni sovvertito, nel primo caso il
Papa regnante fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e
nel terzo dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.
Possiamo misurare la rapida evoluzione di
certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce autorevoli, datate 1882
la prima e 1965 la seconda:
“[…]Presso i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e
costanti nella religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà
della Chiesa, di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da
tutte le pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in
forza dei quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini
religiosi; confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le
unioni contratte fuori del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica
dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa
guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa
oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è
stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale,
cadde necessariamente nel potere di altri.
E Roma, la più augusta città
del mondo cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e
si vede profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio
dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad
accogliere i rappresentanti e i capi della setta più ostile alla religione
cattolica, i quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È
abbastanza palese il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono
con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio
che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al
Papato, sfidandolo nella sua stessa sede. Non è certamente da dubitare che
la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia
certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e
distruggere, se fosse possibile, la religione.[…]
[Dall’enciclica Etsi nos, del papa Leone 13°, del 1882.]
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html
“76. La comunità politica e la Chiesa
È di grande importanza,
soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei
rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli,
individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati
dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della
Chiesa in comunione con i loro pastori.
La Chiesa che, in ragione del
suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la
comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della
persona umana.
La comunità politica e la
Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini.
Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più
efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo
modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo. L'uomo infatti non è
limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva
integralmente la sua vocazione eterna.
Quanto alla Chiesa, fondata nell'amore del Redentore, essa contribuisce ad
estendere il raggio d'azione della giustizia e dell'amore all'interno di
ciascuna nazione e tra le nazioni. Predicando la verità evangelica e
illuminando tutti i settori dell'attività umana con la sua dottrina e con la
testimonianza resa dai cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica
e la responsabilità dei cittadini.
Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo
inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell'esercizio
del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso
manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti
quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i
mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri
della città terrestre.
Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, superano
questo mondo, sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti
temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa
non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi,
essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove
constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua
testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni. “
[Dalla costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo – Concilio Vaticano 2°- 1965]
In sostanza il fattore unificante della Chiesa
intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio
ecumenico, più nella fede e nella missione
comune, vale a dire di tutti, che
nell’essere soggetti alla sovranità
del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della
Chiesa, è stato posto l’accento sulla
sua finalità di servizio della vocazione
personale e sociale delle persone umane.
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17
Unire le genti per una vita buona
(17
ottobre 2012)
La prima e fondamentale esperienza di una
relazione con un’altra persona è quella che si fa da molto piccoli e qualcuno,
di solito la madre, si prende cura di noi. E’ una cosa che ho letto, ma che
corrisponde anche a quello che è successo a me. Da bambini piccoli non si
potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro. Quel rapporto tra un
adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto profondamente in noi.
Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in particolare
approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra la parola mamma. L’ho sentita pronunciare da
diversi morenti. In qualche modo quel legame
tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne sentiamo
l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune
tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta
La Pietà, posta nella basilica di San
Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che
pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di
viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra
cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso.
Ci attraversa e, riflettendosi
in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento
religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno
verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione,
di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre
per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente da ogni condizione
esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122].
Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una
parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione
filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo delusi.
Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé stesse
come (utilizzo un termine di Dossetti) micro
modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente impegnate nel
realizzare una comunità di vita amorevole.
E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito di istruire i nuovi
arrivati alle costumanze di un ordine o di una congregazione di vita religiosa,
si sentivano in dovere di disilludere subito in merito i giovani. Del resto
nelle disposizioni date da alcuni fondatori di collettività di frati e monaci
ci sono esplicite disposizioni che riguardavano questo aspetto. Non si entra in
una vita come quella per ottenere
soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.
Più le dimensioni di un agglomerato di persone
che per varie ragioni devono vivere vicine crescono, più i problemi aumentano.
Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur come individui sociali, siamo
infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.
Considerate ad esempio la situazione che si
crea quando in piazza S. Pietro il Papa si affaccia, all’Angelus della
domenica, e si rivolge alle migliaia di persone convenute ad ascoltarlo,
dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto di una relazione profonda. Ciascuno/a ha un posto per lui
nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un cervello elettronico
che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a costruire eseguirebbe
probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni singolo individuo nella
piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca di dati. Un essere umano
non funziona così. Guarda in basso e vede una
folla indistinta. Il Papa per la folla è un fattore di unità. Ma il Papa, essere
umano, non è in grado biologicamente
di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore.
Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti
alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande
folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia
accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece
in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di
enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e
l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane Papa, e via dicendo, tanto che io, pur
avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora bene e mi ci commuovo.
Ora, la Chiesa cattolica ha preso sempre molto
sul serio l’impegno a radunare i figli di
Dio dispersi, per estendere il
suo popolo, mantenendolo però uno e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per farne una comunione di vita, di
carità e di verità (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e 13, del Concilio Vaticano 2° - passi
riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si passa da
una comunità delle origini di poche decine di discepoli a una di diverse
centinaia di milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in crescita)
occorre porre molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi due millenni
il principale di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito dai Papi, nei
quali si concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra tuttora,
nonostante qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa, non
essendo mai stata concepita altra
autorità che, all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare
quella del Papa (altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo
profilo i Papi ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia
che, nel primo millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa
inoltre, come persona fisica, a volte con l’aggiunta di una certa
idealizzazione, che in alcuni casi confinò con una sorta di mitizzazione della
sua persona (ne era espressione il fasto che in certe epoche la
circondava), poteva agevolmente
conquistare i cuori dei fedeli.
Fin dai primi secoli sono stati importanti, al
fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati anche fonte di divisione)
anche quelle definizioni sintetiche dei principali argomenti di fede che sono
detti simboli, due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo
degli Apostoli che recitiamo insieme nella liturgia della Messa. Queste
solenni e autorevoli definizioni sono state raccolte in un libro, il
H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion
symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum [Raccolta di simboli, delle definizioni e
delle dichiarazioni in materia di fede e morale], molto utilizzato in
teologia.
186. Fin dalle origini la Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la
propria fede in formule brevi e normative per tutti. Ma molto presto la Chiesa
ha anche voluto riunire l’essenziale della sua fede in compendi organici e
articolati, destinati in particolare ai candidati del Battesimo.
Il simbolo della fede non fu
composto secondo le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti
salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa
della fede. E come il seme della senape racchiude in un granellino molti rami,
così questo compendio della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà
contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
187.Tali sintesi della fede vengono chiamate “professioni di fede”,
perché riassumono tutta la fede professata dai cristiani. Vengono chiamate
“Credo” a motivo di quella che normalmente ne è la prima parola: “Io credo”.
Sono anche dette “Simboli della fede”.
188.La parola greca “Sy’mbolon” indicava la metà di un oggetto
spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come segno di riconoscimento. Le parti
venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno
di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a
significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la
raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso
costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.
[dal Catechismo
della Chiesa Cattolica 1992-1997]
I Simboli
della fede, alcuni dei quali per la loro
origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la
comprensione legando affermazioni che
riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il
legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un
gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le
persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può
facilmente tenere nel proprio cuore.
Non va infine dimenticata l’importanza che
storicamente ha avuto, come fattore unificante, la liturgia, anch’essa regolata spesso da leggi della Chiesa, quindi con autorità.
Ora, per capire l’importanza che il Concilio
Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica, bisogna comprendere questo: esso
ha in qualche modo inciso su tutti e tre quei tradizionali fattori unificanti e ciò anche se, da un punto di vista
teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti conciliari,
di stabilire una continuità tra l’aggiornamento
realizzato e la precedente Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una
cesura non c’è e non si avverte nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I
capi della Chiesa ebbero l’impressione, nel dopo concilio di un marcato sbandamento del corpo ecclesiale e se ne preoccuparono. La
biografia dell’attuale Papa ce ne parla.
Nel corso di quella grande assemblea mondiali
dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al Papa, ci fu però la riscoperta
di un ulteriore fattore unificante
che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto sempre
consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della Chiesa
non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche volte
aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.
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18
Un popolo nuovo
(19
ottobre 2012)
E’ possibile che alcuni dei lettori che
entrano in questo blog non abitino
nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va sotto il
nome di Valli, perché le sue strade
portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con gli
altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto lontano,
oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di Ardigò
che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò del mondo,
emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora
uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare
una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed
essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A
pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia
infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici
e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è
poi solo una potenzialità, perché una
sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente
in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un
cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che
da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo
possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari
lettori, che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa
di una piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia
di San Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa
quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11
ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza associativa
e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a proporsi nella società che la circonda e
convocare in tal nuovi amici che
condividano i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati,
per cui argomenti più generali vengono condensati e sistemati sulla base dei
problemi che sono emersi nell’attività del gruppo.
Roma è, a confronto con le maggiori metropoli
del mondo, una piccola città, che, tutto sommato, conserva ancora una
dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di Firenze e i
fiorentini se ne sono risentiti. Ma non
è una cosa negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si vive meglio
che in altre agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere l’idea, invito a
portare l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo del Brasile, che
conta una trentina di milioni di abitanti. Il nostro quartiere, poi, è,
all’interno della città di Roma, una zona periferica del nord est senza
particolari problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla riva destra
dell’Aniene, uno dei principali affluenti del fiume Tevere, non molto distante
dalla confluenza tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne abitata da molti
dipendenti pubblici, dello Stato, in particolare del Ministero del Tesoro e di
quello delle Finanze, ma anche da militari,
e da dipendenti di altri enti pubblici, poi da una popolazione più
varia. I romani de Roma, quelli che discendono da famiglie insediate a Roma
da molte generazioni, non prevalgono: i primi abitanti del quartiere arrivarono
da varie parti d’Italia, dal Nord e dal Sud, ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed
erano piuttosto giovani. Poi la popolazione si è fatta più anziana e solo negli
ultimi anni sono cominciate ad arrivare famiglie con bimbi piccoli. Si è aggiunta
anche un’emigrazione dal continente indiano, dalla Cina e dalla Romania. Nuovi
poveri hanno ripreso ad abitare in rifugi precari nelle vicinanze del fiume,
dove nel primo e secondo dopoguerra e fino agli scorsi anni ’70 c’erano i baraccati, gli sfollati per la guerra
mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal Meridione.
Il nostro gruppo di Azione Cattolica è
composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie che per prime si
insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica dalla metà degli scorsi
anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere difficoltà ad attirarne di
nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò che è successo. I fattori
negativi si sono succeduti e sommati. Complessivamente si può dire che la fede
religiosa, come fattore sociale aggregante, ha perduto forza e questo,
paradossalmente, proprio in anni in cui alcune convinzioni tratte
dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano poste alla base dello
straordinario processo di unificazione continentale europea, una cosa mai accaduta nella storia
dell’umanità, e determinavano il
convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione
politica per inclusione e non per
conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo
spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare
che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo
attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e
dell’Italia si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto
catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella
persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale
pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della
Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del
nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in momenti cruciali. Si è infatti trattato
innanzi tutto di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i
popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da
questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare
ancora insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il
Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori
nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.
Si osserva qualche volta che il Concilio
Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi. Effettivamente,
considerando quell’evento complessivamente, può essere osservato che i capi
ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una certa fiducia nella
gente comune, in particolare in noi laici.
E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati. Scrutarono, come
scrissero, i segni dei tempi e vi videro straordinarie opportunità,
determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in genere succube
dei propri capi politici, si era mostrata in grado di influenzare positivamente
il corso della storia.
I documenti conciliari furono scritti da
teologi cattolici. Il particolare metodo seguito dalla teologia cattolica comporta
che il nuovo in genere non venga proposto come trascinato dal futuro e verso di esso in
rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e spinto
verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla
tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza
soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare
cambiamenti molto significativi.
Ad un certo momento diventò centrale, nei
discorsi conciliari, l’idea di popolo
animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato come nuovo (benché iniziato quasi duemila
anni prima e animato da una missione analoga
di salvezza) rispetto a quello antico costituito dall’Israele storico, senza che però il nuovo privasse di senso l’antico, data
l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del cristianesimo
nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano generalmente problemi,
ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e di molto grossi, e questo sulla base di una teologia
molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della Chiesa, dalla quale
si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo) conseguenze molto gravi
dall’idea di un nuovo che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale di nuovo popolo (in senso
prevalentemente storico e religioso) al
quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il
cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto ad assomigliare abbastanza, per come veniva
caratterizzato, a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale:
nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in
italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo
l’attributo nuovo - manifestatosi
solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva
riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi
prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto
storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda
si faceva riferimento a un tipo di
società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata
storicamente nelle Nazioni Unite e in
altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in
particolare dall’affermazione dell’universalità
di certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i
cristiani, per quegli ideali umanitari
non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si
proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere
coloro che consideravano l’antico. In
questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo del popolo
di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo,
venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.
Ecco
quindi un compito che si può individuare per noi cattolici europei che viviamo
in una relativamente tranquilla periferia della
Roma di oggi: contribuire a consolidare come nuovo popolo (in senso religioso) il popolo nuovo (in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri
i quali, anche se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe
nostre idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come
dire: consolidare nella società di oggi certi valori che hanno base religiosa, come non cessano di
ricordarci i nostri vescovi.
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19
Micro-Macro e la ricerca della felicità
(20
ottobre 2012)
Riprendo
la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 129, euro 8,00,
formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione di Giorgio Campanini e un
pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione alla precedente edizione
del 1997 (si tratta del testo di un intervento che Dossetti, ormai prete e
monaco dopo essere stato molti anni prima professore universitario e politico,
fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso eucaristico della diocesi di
Bologna):
Come la Chiesa riunita
dell’assemblea eucaristica è l’epifania [=manifestazione.
Nota mia] anticipata del Regno, così la
Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania della “polis” [=città in senso
politico, come organizzazione sociale. Nota mia] salvata: “politicità” tutta “sui generis” [=in un senso
particolare, suo proprio. Nota mia], che
non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno
di appetibile, ma unicamente per quello che sono “in mysterio” [nel mistero
della loro realtà che rileva per fede religiosa. Nota mia] (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè
incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più
intimo, più invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso.
Nota mia], creando e divulgando ovunque –
nel seno di ogni società grande o
piccola, soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni
sociologi laici ora raccomandano – un’atmosfera
di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di
amore-oblativo [=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli
altri, con spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e
mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine
121 e 122].
Queste
parole di Dossetti ricordano quelle che troviamo nella costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°,
al capitolo 2°, n. 19:
[…] il popolo messianico, pur non
comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come
un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte
di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui
assunto ad essere strumento di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e
sale della terra (si confronti Mt
5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Essere inviati
collettivamente al mondo per essere strumenti
di redenzione, vale a dire per influire
su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza
religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e
che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento
individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente
perché rifiuta di dominare gli altri
e si propone di incontrarli nel loro
intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di
relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto
un tipo di felicità, una società in
cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga
incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune
(notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore
tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).
Ora,
naturalmente quest’ordine di idee presenta già qualche problema se lo si
applica a piccoli gruppi, i quali pure vogliano impegnarsi effettivamente a
realizzare quel tipo di comunità a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà
sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di
milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli
illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si limitarono prudentemente a riconoscere il
diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come
collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro
nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere
stati ad essa inviati), è
particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo
individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono
ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana
che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la
comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive, interagisce con quanto altri sono, fanno,
sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono, e può produrre determinazioni comuni su ciò
che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è
di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad
esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere
comunque vitali quelle dimensione
sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a
partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno,
orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso,
significa non incontrare l’uomo dall’esterno
e in superficie, ma nel suo “sé” più
intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi tenere insieme
macro e micro. Questo
lavoro di cui ho parlato è il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.
Per
oggi concludo osservando, nella linea di Dossetti, che in tutto questo agire
collettivo ben ispirato si è indubbiamente esposti a una tentazione piuttosto
forte, che è quella di ritenere che l’opera del nostro ingegno, le costruzioni
sociali che riusciamo storicamente a realizzare, corrispondano ad un certo
punto a un modello di perfezione sotto il profilo propriamente religioso, si
tratti di famiglia naturale, di
comunità religiosa, di organizzazione di
una città, di uno stato nazionale, di un ordinamento pubblico sovranazionale e,
al limite, di un ordinamento globale di tutti i popoli della Terra, come nelle
intenzioni vorrebbe essere l’organizzazione delle Nazioni Unite. Questa identificazione tra soprannaturale e
naturale, espressa storicamente dal motto Dio
è con noi, non la possiamo però legittimamente mai affermare, perché ci è
stato detto che il Regno beato non è di
questo mondo, con tutto ciò che da questo consegue. Nella visione di
Dossetti, per quanto (giustamente) ci si dedichi a costruire comunità amorevoli e materne, ogni espressione
della socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e in essa
elementi positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre mescolati a
elementi negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti storicamente ad attuare e
quello che definiamo come “il Regno”. E ciò si avverte con più forza a
misura che le collettività organizzate diventano più grandi, aggregando
moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le dimensioni dell’umanità intera, e
a misura in cui esse incidono maggiormente nelle vite delle persone. Dossetti
precisa:
Il regno di Dio è Regno dei
cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e
neppure si prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo,
che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Rimane
pertanto questo paradosso, che, inviati verso gli altri per migliorare sulla base dei nostri principi di fede le
società in cui insieme ad essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle
società degli estranei, degli stranieri,
dal punto di vista religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione.
C’è sempre infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati
ottenuti e questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle
specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera
nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo
nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere
di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da
poco nell’ottica della nostra completa integrazione
civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto
alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il
nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e
quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità
costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di
loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre
obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro
omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.
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20
Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli
(21
ottobre 2012)
Sintetizzo le riflessioni che ho svolto nei
giorni scorsi su uno dei temi ancora caldissimi
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), nel senso che in quella grande assemblea
fu intuito e sviluppato concettualmente, ma ancora la sua realizzazione è, come
dire, in corso d’opera, e si tratta di
un lavoro in cui l’Azione Cattolica è particolarmente impegnata.
Prima di cominciare richiamo alla vostra
memoria questo che segue, di cui mi sono occupato in interventi precedenti:
a)dalla fine del Settecento e in particolare dalla metà del secolo scorso, si è
prodotta nel mondo una evoluzione politica delle istituzioni supreme per
la quale si è passati da forme di governo caratterizzate dall’accentramento del
potere in poche persone, dalle quali poi il potere veniva delegato in un scala
gerarchica discendente, ad altre che consentivano una più larga partecipazione
delle genti; b) questi sviluppi erano basati sull’idea di uguaglianza intesa come pari dignità sociale; c) la pari dignità
sociale è fondata sull’affermazione di diritti
fondamentali che devono essere riconosciuti a moltitudini di esseri umani;
d) il riconoscimento di questi diritti fondamentali è alla base del metodo democratico, quello che rende
possibile la partecipazione di masse al potere supremo e che quindi non
consiste solo nella regola secondo la quale vince la maggioranza; e) dopo il
secondo conflitto mondiale il movimento per il riconoscimento universale dei diritti umani fondamentali di tutti gli
esseri umani ha avuto il suo massimo sviluppo, producendo, ad esempio con a Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo delle Nazioni Unite,
una serie di dichiarazioni in cui quei diritti fondamentali non vennero più
legati a una condizione di cittadinanza
politica particolare (essere cittadini italiani o di un altro stato), ma
alla sola condizione di esseri umani;
f) nel mondo globalizzato (che
significa unificato dal farsi più deboli le frontiere politiche che lo dividevano)
di oggi il sistema dei diritti umani fondamentali sta avendo la sua massima
estensione ed è alla base dell’idea di cittadinanza
universale, realizzata la quale non vi sarebbero più nel mondo apolidi, genti private di una qualche
possibilità di influire sui destini comuni; g) l’idea dell’esistenza di diritti umani fondamentali ha fondamento
religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano, perché, in fondo, non può argomentarsi per altra via
l’idea della pari dignità degli esseri
umani, che per i cristiani dipende dall’essere stati tutti gli esseri umani
creati uguali sotto quel profilo della dignità,
da un unico Padre.
Questi sviluppi democratici dell’ordine mondiale trovarono eco nella gerarchia
cattolica a partire dal radiomessaggio natalizio
del 1944 del papa Pio 12° (la
Seconda Guerra Mondiale era ancora in corso in una sua fase particolarmente
cruenta):
Il problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto
più importante —, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel
cocente ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema
di governo, che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte
dalla guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione
— dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse
mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri
pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della
guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi
è forse da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
Poiché
ha rinunciato ad esercitare un potere politico diretto, salvo che su una specie
di simulacro di stato nel quartiere Vaticano in Roma, e ritiene di avere la
missione di custodire inalterati alti ideali che riguardano il senso
dell’universo, il destino degli esseri umani e la morale, la gerarchia della
Chiesa cattolica, intesa come il papa e i
vescovi, non ha voluto, sulla scia del movimento democratico globale, democratizzare anche la Chiesa cattolica, nel senso di sottoporre certe decisioni
supreme, ma anche molte di minore spessore,
al consenso della maggioranza.
Paradossalmente quindi la Chiesa, pur consigliando la democrazia al suo
esterno, rimane una potenza non
democratica, essendo tutto il potere canonico (sull’organizzazione
ecclesiale) concentrato nel Papa romano e nella sua piccola corte (la Curia
vaticana) e solo parzialmente decentrato ad altri vescovi. Tuttavia gli
sviluppi contemporanei dell’idea di pari
dignità degli esseri umani, che del resto ha fondamento religioso, non sono
stati del tutto senza conseguenze nella Chiesa. Ciò si rileva particolarmente nei
documenti del Concilio Vaticano 2°, che per altro, secondo il metodo della
teologia cattolica, la quale si sforza di tenere
sempre insieme vecchio e nuovo,
passato, presente e futuro, l’umanità antica e quella nuova, i morti e i vivi e
i popoli di tutta la Terra, secondo il comandamento
di unità ricevuto, sono formulati in modo da evidenziare particolarmente la continuità piuttosto che la novità.
Un
passo centrale lo si ritrova nel capitolo 4°, n. 32, della Costituzione
dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa, dove è affermata la vera uguaglianza riguardo alla dignità e
all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo. Questo
il brano:
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina istituzione,
organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che in uno-
stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le stessa funzione,
così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano
membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).
Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto
da lui: « un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri per la loro
rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la
vocazione alla perfezione; non c'è che una sola salvezza, una sola speranza e
una carità senza divisioni. Nessuna
ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o
nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è né Giudeo né
Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi
siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per
la stessa via, tutti però sono chiamati
alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che introduce nella
giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo
siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri,
tuttavia vige fra tutti una vera
uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli
nell'edificare il corpo di Cristo.
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Che cosa comporta, per noi laici, questa pari dignità nella Chiesa?
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21
Città di Dio, città dell’uomo, città del
diavolo
(22
ottobre 2012)
Il peccato che è nell’uomo decaduto
si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più vaste e complesse:
queste ultime possono assicurare agli uomini vantaggi sensibili in varie
direzioni, ma tendono a porsi come grandi concentrazioni di potere (le
megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto consentire
uno sfrenamento più incontenibile delle peggiori passioni umane: l’ambizione
prevaricatrice, l’avidità di illimitati guadagni, il lusso spettacolare, la
lussuria sempre più cupida di ogni perversione, l’adulterazione
industrializzata della verità, lo spargimento ingiusto di sangue ecc. Sicché
non si può parlare di un’ambivalenza delle forme sociali e del potere, come
fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente deve riconoscere un loro
inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio più grave di tutti è la
guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a livello planetario.
[da Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]
Dossetti pronunciò le parole sopra riportate
dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e l’esperienza biblica,
dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si era nel 1987, in un
mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in particolare, non si era
ancora nell’era della globalizzazione,
della interconnessione planetaria delle economie e delle società umane. L’umanità era dominata da due grandi sistemi
politici sovranazionali, quello centrato sugli Stati Uniti d’America e quello
che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e seguiva due gruppi di sistemi
economici, piuttosto articolati al loro interno, quelli di tipo capitalista e
quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse di perversione sociale
venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli schieramenti, che
concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno il rovescio
dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli universi sociali
contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti della civiltà umana in cui si trovava, poteva fare
riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno
del bene, a un modello positivo.
Ai tempi nostri quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta
da potenze umane omogenee ed è diventata così più significativa la critica
globale alle società umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo
Dossetti: il male appare come universalmente connaturato con l’esperienza delle
società umane e da esse ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una
semplice ambivalenza tra male e bene,
ma un inquinamento profondo che ora
si manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E
tuttavia, paradossalmente, il rischio di
guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle
parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei
tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un
tempo in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche opera umana. La pace ha anche
una valenza religiosa e quindi si è spinti a ragionarci su anche sotto questa
prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare le esigenze di impegno nel mondo nuovo in cui ci troviamo a vivere
con il pessimismo biblico sulle
organizzazioni sociali umane.
Bisogna allora evidenziare un importante problema che noi, gente di
fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre persone al di fuori della cerchia
di chi condivide le nostre convinzioni religiose, le cose del nostro mondo: i
principi ai quali vogliamo riferirci per orientare le nostre condotte
individuali e collettive sono tratti da un’antica sapienza che si è formata in
un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo. Non si tratta di una
differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad esempio, il mondo è più
popolato; le armi oggi sono più potenti e via dicendo), si tratta di una novità profonda, strutturale e piuttosto
recente. Non dobbiamo però pensare che si tratti di un processo anche irreversibile. I tempi nuovi in cui ci troviamo dipendono da una certa
organizzazione sociale molto complessa e quindi anche particolarmente fragile,
nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni fa uno scrittore italiano
scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli, della
crisi di un’organizzazione sociale umana moderna molto articolata e complicata.
Un nuovo medioevo, in senso negativo,
una regressione catastrofica, è
quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo prefigurare le
condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche su scala
globale ne possono essere considerate in qualche modo delle avvisaglie. Oggi più che in qualsiasi altra precedente
epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre società, una
sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e dall’interazione
solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per
preservarla dai pericoli e dal male che
sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge
verso la Città di Dio e quella che
invece tenta verso la Città del diavolo,
compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per
la costruzione della Città dell’uomo,
espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba
impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in
concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e
cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di
mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello
di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non
poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una
specie di carestia biblica che
coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico
soprannaturale. Siamo spinti a scuoterci da una certa passività nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane a cui ho accennato e dal concepirci sempre
come stranieri in ogni patria
terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella
della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato
che questi sforzi collettivi possono avere successo. Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca:
per ogni problema se ne possono infatti
pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono
dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è
strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno
un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani.
Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo
realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa,
che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è
più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità
di una dottrina con quelle pretese
formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a
un contesto teologico, di coerenza teologica.
Mi piacerebbe, a questo punto, concludere
anticipandovi la soluzione delle
soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in modo
rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo
apparente e che vi è ancora una via semplice
per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo,
perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre
concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga
collettivamente in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba
aspettare.
Voglio precisare che la novità della
situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su scala globale,
mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città, quartieri,
condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena
affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede,
caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra
nella nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in
essa, nella nostra vita feriale, e
può, ad esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che
chiede il riconoscimento di una cittadinanza
universale sulla base di quella nuova
organizzazione globale delle cose umane di cui dicevo. In questioni come queste anche
noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si
tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle
democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre
scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel
continente europeo.
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22
Quale impegno nell’Anno della Fede? Andare avanti!
(24
ottobre 2012)
Nella riunione di ieri del nostro gruppo ci
siamo interrogati su quale debba essere il nostro atteggiamento in questo Anno della Fede, indetto dal papa
Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta
Fidei (trad. porta della fede) dell’11 ottobre 2011 e aperto lo scorso 11 ottobre, cinquantesimo
anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Potete trovare il documento all’indirizzo WEB:
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html
Leggendo le parole del Papa possiamo
individuare questi presupposti e
obiettivi dell’iniziativa:
·
entrare nella Chiesa significa impegnarsi in
un cammino che dura tutta la vita. La fede cristiana è come una porta che, attraverso il Battesimo, ce lo fa iniziare;
·
bisogna riscoprire questo cammino nella fede, perché la
fede ai tempi nostri non è più un presupposto ovvio;
·
dobbiamo ritrovare
il gusto di nutrirci del cibo che rimane
per la vita eterna, vale a dire della Parola
di Dio trasmessa dalla Chiesa e del Pane
di vita, per continuare a credere in Gesù, il Cristo;
·
attraverso la propria testimonianza di vita i
cristiani sono poi chiamati a far
risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato;
·
l’Anno
della Fede in questa prospettiva è un
impegno a una rinnovata e autentica conversione al Signore, unico Salvatore del
mondo;
·
in questo spirito è anche necessario un più convinto impegno ecclesiale a
favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e
ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede; esso scaturisce da una fede rafforzata;
·
il
percorso comune nell’Anno della Fede
deve portarci a capire in modo più profondo non solo i contenuti della fede ma anche il senso del credere, l’atto con cui
decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin
nel suo intimo;
·
la
professione di fede comporta anche assumersi
la responsabilità sociale di ciò che si crede: non è un fatto privato e implica anche una testimonianza ed un
impegno pubblici; essa quindi è un
atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto
della fede;
·
per la conoscenza sistematica dei contenuti
della fede cristiana tutti
possono trovare nel Catechismo della
Chiesa cattolica (1993; 1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;
·
non dobbiamo temere di argomentare
razionalmente la fede, anche in quest’epoca in cui molti ritengono che certezze
razionali possano conseguirsi solo nell’ambito del pensiero scientifico e
tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la scienza non vi sia
conflitto, in quanto entrambe, anche se
per vie diverse, tendono alla verità;
·
sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della
nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e
peccato;
·
In
questo tempo siamo invitati a tenere
fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a
compimento; in lui, morto e risorto
per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato
questi duemila anni della nostra storia di salvezza”;
·
nell’Anno della fede dobbiamo vedere anche
un’occasione per intensificare la nostra testimonianza
della carità; la fede senza la carità
non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia
costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una
permette all’altra di attuare il suo cammino;
·
nell’Anno della Fede siamo inviati a
scuoterci da una certa pigrizia nel
conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa comune; in particolare ciò
riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di gioventù: “Giunto ormai al termine della sua vita,
l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’ (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di
quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15).
Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.
·
nella
fede siamo ricolmi di gioia perché, pur vivendo anche l’esperienza della
sofferenza “noi crediamo con ferma
certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura
fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del
maligno (cfr Lc 11,20) e la
Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno
della riconciliazione definitiva con il Padre”.
Ora,
uno dei modi di intendere gli impegni proposti nell’Anno della Fede è
quello di presentarli come un cammino di
ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro, riconoscendo il male che c’è in noi e che da
noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico
Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma
esso presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora
bella e suggestiva fino a che
corrisponda a come la Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare,
questa idea del ritorno nella lettera
apostolica citata non c’è (c’è quella
di conversione, che è un’altra cosa:
è cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra
testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la
citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge (versione
CEI 2008):
Appena arrivati, riunirono la
Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto capire per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della
fede.
Quel
passo si riferisce al ritorno di Paolo e di altri suoi compagni da una missione
in città del mondo pagano del loro tempo.
Per
quanto indubbiamente nella vita delle persone ci possano essere momenti in cui
esse si allontanano dalla Chiesa e
poi le si avvicinano nuovamente, in
un movimento effettivamente di ritorno,
e quindi ci sono anche dei gruppi per così dire specializzati nel favorire questa decisione di rientro (anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi
impegnata in questo), nella lettera apostolica citata non è questo ad essere centrale. Piuttosto il Papa appare preoccupato
di una certa pigrizia e distrazione
di noi fedeli nel rispondere alle
esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e
teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo
dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra
fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato, a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali,
culturali e politiche di esso
che della sua origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per come io credo di aver compreso l’invito che ci
è stato rivolto, deve così servire a scuoterci
da questa pigrizia e a porci nuovamente in cammino secondo
l’orientamento che ci viene dalla comune fede
religiosa: appunto un cammino nella fede.
Come battezzati infatti, a prescindere
da quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre
piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne
può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.
Questo dobbiamo sempre ribadire con
la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente
purtroppo è sempre presente di quando
in quando.
Per come la vedo io, noi, piccolo gregge dell’Azione
Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno
della Fede, non dobbiamo prendere la strada per andare da qualche parte indietro, ma siamo spinti proprio dalla nostra fede in avanti.
La
lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli impegni per l’Anno della Fede, quello di “ripercorrere la storia della nostra fede, la
quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.
“Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno
offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza
della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente
opera di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va
incontro.”
In
questo ci indica anche quell’impegno di purificazione
della memoria, che significa comprendere ciò che nel nostro passato
ecclesiale non andava nella direzione giusta e distaccarsene per il futuro
(senza con questo volere anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone
che di quel passato furono artefici),
sulla quale la nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni
Paolo 2° in occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
La
concomitanza tra l’apertura dell’Anno
della Fede e il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento della nostra Chiesa, pur
nella fede della Tradizione, rende chiaro che non è al passato che ci viene
chiesto di guardare, in particolare a modi organizzativi che si riferiscono ad
epoche che non sono più.
Ciò che
del passato ci viene richiesto di riscoprire
è la fede della Tradizione, la fede
di sempre, che è fede in colui che riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri,
oggi e domani: egli vive e trae a sé tutto.
Certo,
cari amici, ieri contandoci e considerando le nostre forze reali, dico noi del
nostro gruppo in San Clemente papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il
quale siamo spinti in questo Anno della
Fede non superi di molto le nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci,
perché, e questa è una delle cose che possiamo riscoprire in questo Anno
della Fede, noi non siamo soli: siamo parte di un lavoro collettivo molto
più grande e poi confidiamo, nella fede, in colui che può dare successo a tutte
le nostre opere.
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23
E
pluribus unum: quale fondamento per l’unità?
(25
ottobre 2012)
Sullo stemma degli Stati Uniti d’America
compare il motto latino E pluribus unum,
che significa da molti, uno. Fu
proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams, Jefferson e
Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si riferisce alla
volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di unirsi in una
dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata sulla
convinzione della pari dignità umana, per essere stati gli esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili
e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità. Perché mi riferisco spesso alla nascita degli
Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle
democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità
politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano.
Essa mostra quindi che ideali cristiani e
ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto.
Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era
tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato
un altro motto: Ribellarsi al tiranno è
obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico
nell’ideologia cristiana e fosse stato in particolare affermato, su basi bibliche, nell’ordine
concettuale di S.Tommaso D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne
approvato ufficialmente con l’enciclica Aeterni
patris del Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come è intesa oggi (con l’affermazione del diritto
politico di resistenza al tiranno che violi quei diritti umani fondamentali
inalienabili) venne accettata dalla Chiesa cattolica come regime politico
preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio natalizio del papa Pio 12°).
Anche lo stato dal quale i rivoluzionari
nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di diversi popoli
(Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso però il fattore di unità era la sudditanza a una
dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di precise accuse
storiche esplicitate nella Dichiarazione
di indipendenza del 1776, venne
vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità
politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con
la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto
come tirannico.
La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di quelle fortemente critiche anche nella Chiesa cattolica, in particolare da
quando, nel quarto secolo della nostra era, essa divenne rilevante per l’unità
politica dei popoli unificati nell’impero romano e successivamente anche per quella dei nuovi stati sorti dalla
dissoluzione, nell’Europa Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole
riferire anche a questo. In questa materia ha inciso
potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.
Il punto di partenza del nuovo ordine
concettuale è la pari dignità delle
persone che formano il popolo di Dio.
...comune è la dignità dei
membri per la loro rigenerazione in
Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla
perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna
ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa riguardo alla stirpe o
nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché “non c’è né Giudeo né
Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete
uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).
[…]
… vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e
all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Questa pari dignità conduce a rispettare la varietà nella Chiesa che raduna quel
popolo
La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta con
mirabile varietà.
[…]
Così nella diversità stessa, tutti danno testimonianza della mirabile
unità nel corpo di Cristo.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Il fattore di unità è di ordine spirituale:
… infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore,
il quale per tutta la Chiesa e per tutti
e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell’insegnamento
degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle
preghiere (cfr At, 2,42).
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
La
realizzazione dell’unità è impegno comune di tutti i fedeli:
…le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la
Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono con uno scambio
mutuo universale verso la pienezza dell’unità.
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del Concilio
Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
Ad essa
siamo spinti dalla legge dell’amore
cristiano:
Questo popolo messianico ha per capo Cristo […] Ha per condizione la
dignità e la libertà dei figli di Dio, nel core dei quali dimora lo Spirito
Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).
[Dalla costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]
Per
capire a che tipo di amore ci riferisca quando si parla della legge cristiana dell’amore è opportuno
leggere il testo greco del brano del Vangelo di Giovanni citato nella
costituzione dogmatica: “Entolèn cainèn
dìdomi umìn, ina agapàte allèlus,
cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.” (trad.:Vi
do un comandamento nuovo che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato
[egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo
brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del
sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.
Riassumendo: secondo le concezioni conciliari,
l’unità non significa necessariamente uniformità
e trova fondamento dal basso, in una
comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come
quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].
Ora,
non è che queste idee siano veramente nuove, perché erano tra quelle fondamentali
fin dalle origini. La loro portata innovativa sta nel fatto che esse sono stata
proclamate nel Concilio Vaticano 2° dopo che per quasi due millenni i fattori
di unità nella Chiesa cattolica erano stati visti principalmente nella sudditanza sacrale ad un unico Pastore
terreno e nella stretta uniformità ideologica e liturgica (ad esempio nell’uso
universale del latino liturgico).
Dove
voglio andare a parare con tutto questo? Cerco di dirlo nel modo meno
“traumatico” possibile.
Il
fatto che l’Anno della Fede che è
appena iniziato sia stato così
esplicitamente collegato al Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto
iniziare nel giorno del cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel
concilio, rende ben chiaro che non si
vuole da noi il ritorno alla preponderanza degli antichi fattori di unità.
Quell’era della nostra confessione religiosa è finita. Dobbiamo resistere
alla tentazione di “ritornare” nel senso
di incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale
faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su
principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della
Chiesa, della quale nella lettera
apostolica Porta Fidei di indizione
dell’Anno della Fede siamo chiamati a
prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto
collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso
del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
[…]
Un
Rappresentante della Curia Romana:
Preghiamo
perché ciascuno di noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera
in silenzio.
II
Santo Padre:
Signore,
Dio di tutti gli uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison; Kyrie, eleison.
[Dalla
liturgia della Giornata del perdono,
celebrata il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]
Come risulta
chiaramente dalla lettera apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno della Fede noi fedeli approfondiamo un cammino comune nella fede,
aiutandoci gli uni gli altri in unione
spirituale pur nella legittima
varietà di stili di vita individuali
e comunitari, anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in
cui viviamo, per influire in tal modo su di essa con rinnovata sapienza e consapevolezza infondendo valori cristiani, cercando di promuovere,
secondo il comando ricevuto, l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare
un’unità discriminatoria, separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente
fedeli”, coloro che su alcune cose legittimamente la pensano diversamente da
altri, nel presupposto che questi ultimi siano monopolisti della retta
dottrina, della retta liturgia, dei retti principi di vita comunitaria.
Questo significherebbe in un certo senso tornare al nostro tremendo passato,
equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.
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24
Gioia e timore alla base dell’impegno religioso nella società
(27
ottobre 2012)
Leggo in Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie
meditazioni religiose:
[…] nella … nuova economia l’amore –motivo
fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina il santo timore filiale
che, con soggezione totale e trepidante adorazione della maestà di Dio, deve
permanere a ogni livello della vita spirituale.
Perciò,
anche restando nel Nuovo Testamento, vediamo che c’è un timore di Dio che e
inculcato assiduamente dagli apostoli (la stessa Lettera ai Romani 11,10; la
Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato
da Gesù stesso come necessario (Mt 10,28),
[…]
Certo l’Eucaristia, se davvero vissuta nella
fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia sensibile.
Deve
esser una gioia non adolescenziale, ma da adulto, che non presuppone … di
saltare il timore, ma che nasce proprio da un timore virile e consapevole:
stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo eterno di Dio”.
Questo
discorso che Dossetti riferiva specificamente all’Eucaristia può essere
esteso all’atteggiamento che complessivamente la persona religiosa può avere
nei confronti del tempo e della società in cui si trova a vivere. Il timore
deriva dalla consapevolezza della grandezza degli ideali professati e dalla
conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della stessa fonte e, in
particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano basati solo sulle
proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso, sia tratto da una
forza irresistibile, non spinto da noi, verso un suo beato compimento. In altre circostanze,
al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva
dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla
considerazione dell’insufficienza delle proprie forze e conseguentemente la gioia, se anche c’è,
finisce per essere piuttosto precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia
nell’oggi e anzi addirittura solo
nell’ora corrente. Quella che
scaturisce dal timore religioso è invece gioia per il passato, per il presente
e per il futuro, quindi si basa su
una valutazione complessivamente positiva e fiduciosa della storia. Si fonda su
una considerazione realistica delle cose come vanno, e questa è come si dice
nel lessico attuale la sua laicità,
perché la fede non è solo immaginazione e sentimento, ma anche su una
spiritualità intima e quindi profonda che cambia molto l’atteggiamento che si
ha verso ciò che ci circonda e che, in tanti modi, ci determina, ci interroga,
ci sollecita e, a volte, ci atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di
fronte ad ogni difficoltà della vita, sia
essa di quelle proprie personali o di quelle di realtà vicine come la
famiglia o l’ambiente umano abituale, come anche su scala maggiore, di quelle
che riguardano la propria città, regione, nazione o, al limite, l’intera
umanità, innanzi tutto si raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare il
suo legame con il fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti indica
come di devozione filiale, quindi in
una familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento di stupore
e trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa sorprendentemente animato da amore viscerale, materno, ma anche virile,
paterno, nei confronti di noi umani. Il passo successivo è quello della comprensione del mondo intorno a sé e
poi dell’azione in esso, nel
tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel
proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire
e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica,
Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di
quel fondamento religioso, nell’impegno laicale
nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte,
innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle
istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come
cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione
sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi
dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente
responsabilità globale in ciò in cui di fatto si influisce su di essa
o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio
si definisce come cattolicità attiva,
che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti
della nostra confessione religiosa (ad esempio per procurarle privilegi ed
esenzioni) o di militi o messi di una
potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio
l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.
Questo programma, che ho esposto brevemente,
non è facile da attuare e, innanzi tutto, richiede che si impari a collaborare
con gli altri. L’impegno religioso, come ci
è stato ricordato nella lettera apostolica Porta Fidei (2011) con cui è stato indetto l’Anno della Fede iniziato l’11 ottobre scorso, non è un fatto privato. Ecco che in questo può essere interessante
l’impegno in Azione Cattolica. Esso è appunto un impegno, quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del
tutto scontati e in cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una base di partenza negli esercizi di laicità che si faranno,
vale a dire nello sforzo di comprensione
realistica del mondo in cui si vive alla luce di una spiritualità
religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di Azione Cattolica
ricette di vita, personale o
comunitaria, già pronte e ammaestramenti globali su ciò che si deve fare o si deve pensare in ogni
occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui
sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione
Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di
azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui
viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta i
propri doni in un mutuo scambio che accresce
gli altri, in uno sforzo comune per
promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più
vicine fino a quella globale.
“[…] la Chiesa cattolica efficacemente e
senza soste tende a ricapitolare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in
Cristo capo, nell’unità dello Spirito con lui.
[,,,] In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i
propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le
singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo
comune verso la pienezza nell’unità”
[dalla
Costituzione dogmatica Lumen Gentium,
n.13, del Concilio Vaticano 2°]
Ora è
chiaro, riprendendo il discorso da cui sono partito, che l’universalità di questo impegno comune, la sua cattolicità, la sua effettiva apertura
a tutte le genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal
suo fondamento religioso e quindi da
quel timore di cui si diceva, il quale, in particolare,
deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare
una soluzione, un modello, un’esperienza, un cammino, una ideologia, una concezione
filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione
particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto
caratterizzata, appunto, da devozione
filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente
attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo
possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e
soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità. Questo, ben lungi dallo
scoraggiare e umiliare, è anche la base
della creatività religiosa nella società e quindi dell’efficacia
della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi e determinarsi con sapienza di conseguenza,
rinnovandosi incessantemente.
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25
Fare memoria di un’alleanza
(30
ottobre 2012)
“…nell’episodio del roveto ardente (Es 3,2-6)
sul monte Horeb, l’angelo del’Eterno (malakh Adonai) che appare a Mosè ‘in una
fiamma di fuoco’ nel mezzo del roveto che non si consuma gli dice molto
esplicitamente: ‘io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di
Isacco e il Dio di Giacobbe’. La visione dell’angelo è dunque una teofania.
[…] L’Invisibile si presenta di nuovo,
sotto la forma di un angelo, per vivificare in Mosé … quella alleanza ‘per le
generazioni’ (ledorotam) (Gn 17,9).
[…]
Quella
teofania rende visibile all’anima l’alleanza immemoriale tra Dio e la Sua
creazione, alleanza che abitualmente l’anima non percepisce fintanto che guarda
il mondo e le creature che vi si trovano attraverso una morsa di paura e di
collera, di anticipazione avida e invidiosa, o fintanto che si rassegna alla
protezione tragica della rinuncia e sprezza il desiderio”,
[da:
Chaterine Chalier, Angeli e uomini,
Giuntina, 2009, euro 16, pag.19, 20 e 26]
L’altro giorno discutevo di come, per quello
che so, la nostra parrocchia perde la gran parte dei giovani adolescenti e
ventenni iniziati nel catechismo alla vita religiosa e non li recupera più. E,
in effetti, viene il momento in cui, nello sforzo di approfondire i temi della
nostra fede e di ottenere un maggiore impegno, viene detto chiaramente loro,
più o meno esplicitamente, che sono sbagliati, che la loro vita è tutta da
rifare, che devono essere ricostruiti dalle basi, perché hanno toccato il
fondo, in particolare perché vogliono fare l’amore e questo è, per loro che non
sono sposati, peccato mortale. E’
chiaro che a questo punto loro scappano, perché, secondo natura, il loro
mestiere, in quell’epoca della loro vita,
è proprio fare l’amore. Non tollerano di sentirsi in questo come in libertà vigilata e di vivere con rimorso ogni soddisfazione sotto questo
profilo, dovendo immediatamente pentirsene.
Non è più come quando il prete diceva loro di “non toccarsi” e questo poteva essere accettato in un’ottica umana e
religiosa insieme, perché si sentiva che quelle consuetudini, pur nella loro
banalità, sarebbero state superate crescendo e che, anzi, crescere consisteva
proprio nel superarle. Quando poi si cresce, e di solito ad un certo punto si
trova un equilibrio nelle cose dell’amore, il problema si ripresenta sotto un
altro aspetto, perché, quando si riprende in considerazione una prospettiva di
fede, che in molti casi è la fede della propria tradizione familiare, quella
dei “propri padri”, si trova un
ostacolo nella pretesa etica religiosa di non porre ostacoli alla procreazione
e quindi di affrontare l’amore con una fiducia che, ad un animo ragionevole,
può apparire come un gioco d’azzardo, in cui però si punta tutta la propria
vita. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà che sorgono nel caso di crisi
e di fallimento dei matrimoni e di ricostituzione di nuovi rapporti coniugali.
Non sono problemi di oggi, ma di sempre, fin dalle origini, millenni fa, tanto
che si ritrovano nella Bibbia, ma un tempo ci si faceva meno caso, un po’
perché dai laici si tollerava una maggiore ipocrisia, specialmente dai maschi,
e poi perché per la maggior parte delle persone il tirare a campare, in un mondo tutto sommato molto più difficile di
quello dei nostri tempi, sovrastava tutto (con i problemi economici, le guerre,
le malattie inguaribili, la violenza sociale che c’erano). Una certa ideologia
repressiva nei confronti delle donne era poi vista come necessaria al
mantenimento dell’unità delle famiglie e, come contropartita, si era poi più
comprensivi verso di loro, viste come la parte debole e sottomessa di rapporti
personali dominati inevitabilmente dal capriccio degli uomini. Nella nostra
epoca invece, e specialmente dopo il Concilio Vaticano 2°, si pretende dai
laici un’adesione molto più consapevole e coerente in tutti gli aspetti della
vita e questo in un tempo in cui i modelli sessuali e familiari sono in veloce
evoluzione e in cui il successo sessuale viene visto, anche in tarda età, come
manifestazione di affermazione sociale in una società dominata dal consumismo e
dall’esteriorità.
Cari lettori, non sono un sacerdote. A ognuno
la sua parte. Non ho assunto il difficile impegno di risolvervi quei problemi o
anche solo di aiutarvi in questo dandovi
una direzione spirituale. E, lo dico francamente, non ho in tasca la soluzione
per tutti, non saprei proprio come fare. Se poi volete conoscere la posizione
del magistero, vi rimando al Catechismo
della Chiesa cattolica. Nella mia esperienza di solito si riesce ad un
certo punto a pacificarsi sotto quei profili ma si tratta di accomodamenti
sempre piuttosto precari che vanno rivisti di quando in quando, e in questo la
pratica sacramentale della penitenza qualche volta può aiutare. E’ più che
altro un esercizio di sapienza umana,
non facile, all’esito del quale, se le cose vanno bene e fintanto che vanno
così, ci si compiace anche da un punto di vista religioso. Ognuno in questo
deve essere piuttosto creativo, non deve aspettarsi che gli altri, anche
autorevoli, abbiano modelli di stili di vita adatti alla sua propria condizione
particolare. Lo sviluppo di una spiritualità adulta, matura, con l’aiuto del
sacerdote, è fondamentale in una prospettiva religiosa. Penso in definitiva che
un laico come me, nel relazionarsi con gli altri intorno a lui, dovrebbe
lasciare certi temi alla coscienza delle persone, nel rispetto della loro
dignità umana.
In Azione Cattolica, specialmente in quest’Anno della Fede in cui cerchiamo di
approfondire le ragioni della nostra appartenenza religiosa, sentiamo di avere
molto bisogno di persone di fede più
giovani d’età, che però si tengono ancora lontane. Non possiamo assicurare loro
che in parrocchia non troveranno problemi sulle questioni delle relazioni
sessuali, perché questo è un aspetto della vita delle persone umane che
interroga gli spiriti religiosi e quindi ci si discute su. Accade anche in
altre religioni. Quello che possiamo garantire è che in Azione Cattolica sarà
sempre rispettata la loro dignità umana e che non si tenterà di imporre loro da parte nostra, sotto
sanzione di esclusione, un certo stile di vita. Come ci è stato ricordato nel
Sinodo dei vescovi che si è concluso domenica scorsa, la Chiesa è la casa di tutti i battezzati, anche di coloro che, pur
sentendosi persone di fede, per tanti motivi non riescono a vivere in tutto
secondo le prescrizioni della morale religiosa corrente. Su certe cose si
ragiona, per cercare insieme soluzioni che poi ognuno proverà ad applicare
nella propria vita, se crede. E possiamo anche dire che l’impegno in Azione
Cattolica non è principalmente diretto a dare orientamenti sessuali. Esso ha
invece maggiormente a che fare con l’idea di cercare di radunare le persone
umane in un popolo nuovo, unito intorno a certi grandi ideali, che per noi
assumono anche una prospettiva religiosa. In questo viviamo un’epoca propizia,
perché nell’Europa di oggi viene data molta importanza a questo sforzo, tanto
che si è prodotto un imponente moto centripeto di genti verso il nostro
continente. Di recente noi europei abbiamo avuto il Nobel per i tanti decenni
di pace che si è riusciti ad ottenere da noi e la pace è un tema che ha una
forte valenza religiosa. L’aspetto peculiare dell’esperienza religiosa è che
essa non cerca di federare le genti
sulla base di compromessi di interessi o di uno scambio di equivalenti, come
accade nei contratti commerciali, ma a partire da un’interiorità che per noi,
comprendendo per molti aspetti realtà soprannaturali, assume il connotato di
una spiritualità. Accade, ad un certo punto, in molte vite che, nel mondo di
tutti i giorni, si colga, nella propria interiorità ma non solo emotivamente
perché c’entra anche la ragione, un senso dello stare insieme dell’umanità che va oltre quello che ordinariamente guida
le nostre azioni e che spesso ci lascia insoddisfatti. E’, in un certo senso,
l’esperienza di Mosè sull’Horeb evocata nel libro della Chalier. Una
interpretazione di quell’episodio è che le fiamme del roveto fossero immagine
di fiamme interiori. Mosè era fuggito dall’Egitto dopo aver ucciso un
sorvegliante che vessava gli ebrei, asserviti dalla violenza del popolo in cui
si erano rifugiati. Nella paura per la propria sopravvivenza, che lo aveva
determinato alla fuga, aveva represso il desiderio di tornare per attuare la liberazione di coloro che
erano schiavi. E’ a partire dalla sua interiorità che si attua un suo
cambiamento di vita. Egli si sente in esilio nella terra di Madian, il luogo
del suo rifugio, così come l’Egitto del faraone era terra di esilio per il suo
popolo, e ora anche per lui. Egli
vorrebbe agire in favore della sua gente, ma è bloccato dalla paura. La forza
di determinarsi secondo il suo profondo desiderio, vincendo quel timore per la
propria vita, gli viene dalla memoria dell’antica alleanza, che non era un
patto tra potenze terrene, ma con l’Eterno, del quale egli, ad un certo punto,
riesce nuovamente a sentire la voce che chiama all’azione, quindi ad alzarsi e andare.
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26
Azione Cattolica: insieme per promuovere la
pace universale
(1
novembre 2012)
Siccome il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr Gv 18,36), la Chiesa,
cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene
temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le
ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di
buono e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva.
[…]
Tutti
gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che
prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo
appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in
Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio
chiama alla salvezza
[Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
Nei mesi
di mese di settembre e ottobre scorso,
scrivendo diverse riflessioni sulla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, mi sono limitato a
riferirmi ai soli numeri 9 e 13 di quel
documento, inseriti nel capitolo 2°. Questo può dare un’idea della vastità
delle questioni affrontate in quella grande assemblea, che segnò un punto di
passaggio importante nella storia ecclesiale, dando inizio a un gran fermento e
a sviluppi ancora in corso. Prenderne sufficiente consapevolezza non è lavoro
breve né facile, dato il linguaggio teologico con cui sono scritti i testi dei
documenti che furono allora approvati e diffusi nel mondo. E tuttavia bisogna tener conto del monito di
quel Concilio, rivolto a noi fedeli cattolici (Lumen Gentium, n.14), della necessità di corrispondere con il
pensiero, con le parole e con le opere all’azione soprannaturale per la quale,
non per nostri meriti, siamo stati pienamente incorporati nella nostra Chiesa,
e questo sotto pena di essere giudicati
più severamente degli altri nel caso di diserzione.
Il santo Concilio si rivolge quindi prima di
tutto ai fedeli cattolici.
[…]
Si ricordino bene tutti i
figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro
meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono
col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente
giudicati.
In quell’elenco di doveri del fedele, prima
viene il pensiero, vale a dire l’ascoltare
e il comprendere, ma anche l’ideare
e progettare per il presente e il
futuro, propri e delle collettività delle quali si è partecipi. Poi viene l’interloquire
con gli altri e l’operare: nella visione conciliare
questa parte deve farsi collaborando con tutte le persone bene intenzionate,
anche al di fuori del nostro contesto religioso (“sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine
tutti gli uomini senza eccezione”, brano della Lumen Gentium citato all’inizio).
Questo impegno ideale e sociale rientra in quelli in cui l’Azione Cattolica si
sente da sempre particolarmente coinvolta.
Per quanto l’Azione Cattolica com’è oggi sia
stata istituita e regolata dall’autorità ecclesiale, quindi dai papi e dai
vescovi, sia pure con l’importante partecipazione degli associati nelle forme
statutarie, essa storicamente nacque, visse e tuttora vive per iniziativa e
impulso della società dei fedeli laici, mossi in particolare dall’esigenza di
pensare e di attuare, sulla base delle idealità religiose, modi nuovi per influire come collettività sulle
società dei tempi in cui le persone di fede si trovano inserite e specialmente
su quelle con organizzazione democratica. Essa può considerarsi espressione di
quel grande movimento di popolo che dalla fine del Settecento si è espresso in
varie forme per una più larga partecipazione delle genti alla determinazione
dei destini dell’umanità, quindi per il passaggio delle persone dalla semplice
condizione di sudditi all’altrui potere alla condizione di cittadinanza
democratica. Per altro il coinvolgimento popolare venne visto all’inizio in funzione essenzialmente difensiva di un ordine sociale nel quale la
Chiesa era storicamente bene inserita,
con privilegi, esenzioni e uno spazio riconosciuto di autorità e di libertà,
quindi, per semplificare, contro i fermenti liberali e socialisti che si
andavano largamente diffondendo a partire dall’Ottocento. Questa impostazione si andò rafforzando dopo
la rivoluzione sovietica attuata nei domini dell’Impero russo. Diciamo che a
lungo l’esperienza democratica venne considerata con un certo sospetto dall’autorità gerarchica della
Chiesa. Questa posizione mutò dopo l’esperienza storica dei fascismi europei e
la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Fu allora che i capi della nostra
Chiesa cominciarono a chiedersi se la democrazia sarebbe potuta essere un
valido ostacolo a quei disastri. Come ho spesso ricordato, questo punto di
svolta si manifestò nel radio messaggio natalizio del papa Pio 12° del 1944:
Il problema della democrazia
[…] Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati
più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e
confusa, ma ormai incoercibile — che, se
non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei
poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso
della guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
La pace universale ha sicuramente una valenza
religiosa, come è ricordato nel passo della Lumen
gentium che ho citato all’inizio.
Nel mondo di oggi, ed è la prima volta che accade, si pensa concretamente di
poterla attuare con una diversa organizzazione globale dell’umanità, sfruttando
le opportunità che derivano da quattro
fattori: assetto democratico
delle istituzioni, miglioramento
generalizzato delle condizioni di vita determinato anche da una più equa
distribuzione delle risorse consentita in ordinamenti democratici, miglioramento diffuso dell’istruzione
ricercato anche per l’esigenza di consentire la più larga partecipazione alla
vita sociale democratica, effettività di
un sistema universale di diritti umani, sul quale i sistemi politici
democratici di fondano. Anche la Chiesa dei nostri tempi crede in queste
potenzialità:
57. Il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che rendere più efficace
l'opera della carità nel sociale e costituisce la cornice più appropriata per
incentivare la collaborazione fraterna
tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per
la giustizia e la pace dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et
spes i Padri conciliari
affermavano: « Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere
che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo
centro e a suo vertice ». Per i credenti, il mondo non è frutto del caso né
della necessità, ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i
credenti hanno di unire i loro sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona
volontà di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo
corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto
lo sguardo del Creatore.
[Dall’enciclica Caritas
in veritate – Amore nella verità
(2009), del papa Benedetto 16°]
Non
bisogna fraintendere pensando che la straordinaria opportunità storica che ci
si è aperta sia una manifestazione dell’avvento del Regno beato che
religiosamente stiamo attendendo. Sappiamo che quel Regno non è di questo
mondo. Questo significa che esso non può in alcun modo confondersi con alcuna
delle nostre realizzazioni, anche con le più grandi. A volta si è tentati di
farlo. E’ accaduto, ad esempio, nel ’91, con la fine dell’Unione Sovietica,
organizzazione politica imperiale che in tutta la sua storia ha costituito un
ostacolo micidiale per le Chiese cristiane. Ma si è visto che quello che ne è
uscito è il consueto insieme di grano e
zizzania, di bene e di male, che troviamo da sempre in ogni società umana e
in ogni persona. Ricordo ciò che sostenne Dossetti un suo celebre intervento
pubblico del 1987, pubblicato nel libretto Eucaristia
e città, Editrice A.V.E., 2011 (pagine 45 e 46):
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e
neppure si prepara o si affretta per
sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un
bene comune, architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre
per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi, senza di
noi [… ] per un decreto del Padre, in un momento imprevedibile “che il Padre ha
riservato alla sua potestà (At 1,6-7).
E allora sarà non il
coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, “in ictu oculi” [trad. mia “in
un batter d’occhio”] (1Cor 15,52).
Sentiamo però nostro dovere religioso di scrutare i segni dei tempi e di
interpretarli alla luce del Vangelo (espressione che si trova
nell’enciclica pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes – La gioia e la speranza – n.4)
per scoprire in concreto quale sia il
nostro dovere oggi, per noi che siamo stati mandati nel mondo per radunare
le sue genti come in un’unica famiglia
umana (encicl.Caritas in veritate, n.53)
in una comunione di vita, di carità e di
verità (cost. Lumen gentium, n.9).
Come
non cessano di rammentarci il papa e i nostri vescovi, il sistema dei diritti
umani fondamentali sul quale si basano le democrazie contemporanee ha
fondamento religioso e, in particolare, fondamento religioso cristiano. Su che
base, altrimenti, può essere riconosciuto che esseri umani tanto diversi per
etnie, culture, religioni, lingue, condizioni sociali, ricchezze e altre importanti differenziazioni, quali
sono gli abitanti della Terra, hanno uguale
dignità e quindi sono titolari di
quei diritti umani fondamentali? Fondamento religioso significa soprannaturale,
vale a dire a prescindere da quello che si osserva in natura. La derivazione
cristiana del fondamento sta nel fatto che l’ordine soprannaturale al quale fa
riferimento è caratterizzato da amore
oblativo e viscerale, al modo dei genitori –padre/madre- per i loro figli, e
tuttavia universale, per tutti, oltre ogni differenziazione e
ogni divisione. Ebbene, quel fondamento religioso di principi di civiltà
che si sta cercando di attuare globalmente ci indica con chiarezza una via
importante di impegno cristiano (non l’unica). Perché, come ci è stato
ricordato due domeniche fa da un sacerdote missionario, i cristiani, cattolici
e di altre Chiese, sono una minoranza sulla Terra, circa il 15% dell’intera
popolazione umana. E’ veramente impressionante quindi che, nonostante ciò e
nonostante le stragi, vessazioni, oppressioni perpetrate nei secoli passati da nazioni sedicenti cristiane, certi valori
della nostra fede improntino ancora così profondamente la nostra civiltà a
livello globale. In questo si può senz’altro vedere la manifestazione del
disegno provvidenziale, senza però nascondersi che la realizzazione storica di quei valori è seriamente minacciata. Essa
è infatti opera umana e, come tale, suscettibile di degrado e di estinzione. La
storia dell’umanità non è infatti necessariamente una storia di progresso, come
dimostra il medioevo europeo, e,
senza un valido impegno di sufficienti forze umane che amano quei valori
e sono disposte a rischiare anche la propria vita nella lotta per essi, può prendere un altro corso. L’ideologia dei
diritti umani fondamentali regge infatti
le democrazie contemporanee e queste ultime rendono credibile la prospettiva di
una pace universale, per il tramite di una giustizia sociale che mantenga in
concreto, estenda o ristabilisca l’uguale
dignità degli esseri umani. L’Azione cattolica è schierata per la pace e la
giustizia universale e intende lavorare con particolare impegno in questo
campo. La nostra Chiesa, con il Concilio Vaticano 2°, ha rimosso ogni ostacolo
che, per incrostazioni storiche, poteva ostacolare al suo interno la riscoperta
e l’attuazione di tutte le potenzialità dell’antica dottrina della paternità
divina universale. Ad esempio la grave storica inimicizia verso le persone di
altre religioni, innanzi tutto gli ebrei e i cristiani di altre confessioni, e i non credenti. Ecco come si esprime la costituzione
pastorale Gaudium et spes:
Il rispetto e l'amore deve estendersi pure a
coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche
e persino religiose, poiché con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei
loro modi di vedere, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un dialogo.
Certamente tale amore e amabilità non devono
in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi è l'amore
stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la
verità che salva. Ma occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed
errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da
false o insufficienti nozioni religiose.
Solo Dio è giudice e scrutatore dei cuori;
perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza interiore di chiunque. La dottrina
del Cristo esige che noi perdoniamo anche le ingiurie e il precetto dell'amore si estende a tutti i
nemici; questo è il comandamento della nuova legge: «Udiste che fu detto:
amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri
nemici e fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per i vostri
persecutori e calunniatori » (Mt5,43).
[Gaudium
et Spes, n.28]
La Chiesa, poi, pur respingendo in maniera assoluta l'ateismo, tuttavia
riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non credenti, devono
contribuire alla giusta costruzione di questo mondo, entro il quale si trovano
a vivere insieme: ciò, sicuramente, non può avvenire senza un leale e prudente
dialogo. Essa pertanto deplora la discriminazione tra credenti e non credenti
che alcune autorità civili ingiustamente introducono, a danno dei diritti
fondamentali della persona umana. [Gaudium et spes n.21]
Passando a trattare della nostra microscopica, sotto un certo profilo,
realtà di gruppo di Azione Cattolica in San Clemente papa, può sembrare che
l’impegno del quale ho trattato sia manifestamente sproporzionato alle nostra
forze. E’ un’impressione sbagliata: infatti l’apocalittica battaglia che decide
le sorti dell’umanità del nostro tempo passa anche per quella piccola parte del
mondo in cui abbiamo voce, nelle nostre famiglie, nel nostro quartiere, nei
nostri luoghi di lavoro. Partecipare al
nostro lavoro comune in Azione Cattolica è uno dei modi in cui ci si può preparare
per fare la nostra parte nella direzione che in religione ci è indicata. Come
ho detto si tratta infatti di esprimere una sapienza
umana, una creativa e sapida integrazione di conoscenze profane e di
spiritualità per ideare e realizzare opere che, in quanto riguardanti il mondo
fuori dello spazio liturgico, spettano principalmente a noi fedeli laici. Ma da soli in questo si va poco lontano. Le
prospettive umane individuali sono infatti sempre limitate. Queste cose fanno
affrontate insieme, per arricchirsi
dei punti di vista, della cultura, della fede, delle strategie altrui e anche
per farsi coraggio a vicenda nelle difficoltà e negli insuccessi. E’ così che i
cristiani hanno fatto sin dalle origini.
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27
Un nuovo modello globale di organizzazione e
convivenza dell’umanità. Il modello della famiglia
umana.
(2 novembre 2012)
Per molti versi l’umanità contemporanea si
viene organizzando sulla base di
principi religiosi cristiani. Religiosi
perché non basati sull’osservazione di come va la natura, quindi nel senso di soprannaturali. Cristiani perché improntati all’idea di pari dignità di ogni persona umana e ad una solidarietà compassionevole verso chi sta peggio. Questo può
sembrare paradossale nel momento in cui le Chiese cristiane registrano una
crisi grave delle adesioni nelle società umane più avanzate, quelle da cui
scaturiscano i modelli organizzativi su grande scala. in realtà non è la
visione religiosa delle cose che ha perduto credito popolare, ma il fondamento mitologico dell’autorità religiosa, per
cui c’è chi si presenta come autorizzato ad imporre agli altri stili di vita
parlando per conto del mondo soprannaturale. Questo equivale a dire che ai
tempi nostri ha meno forza nelle grandi religioni storiche dell’umanità l’uniformità intesa come sudditanza ad una
autorità sacrale. Di questo
fenomeno, da non confondere con la secolarizzazione,
vale a dire con l’indifferenza verso il soprannaturale, si è presa coscienza ai
tempi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
e si è cercato di rimediarvi recuperando, e in un certo senso strutturando
innovativamente per renderla praticabile nella contemporaneità, la concezione
religiosa dell’umanità come popolo di Dio,
basata su un’uniformità fondata su
principi condivisi. In questo contesto l’autorità perde una certa
connotazione di arbitrarietà che era
venuta storicamente ad assumere e si propone come servizio alla verità, per promuovere quel nuovo tipo di uniformità.
Si tratta di un’esperienza che tutti noi fedeli di oggi, se ci pensiamo bene,
abbiamo vissuto nella nostra esperienza di Chiesa, anche in quella
parrocchiale.
Un
modello alternativo di organizzazione globale dell’umanità è quello
basato sul riconoscimento delle differenze tra le stirpi e le società umane e
la competizione tra di esse perché emergano le migliori e, in particolare, una
umanità migliore, nel senso di fisicamente, spiritualmente e intellettualmente
più performante e società più potenti e ricche. In questa prospettiva non tutte
le persone umane hanno pari dignità. Questo modello ha improntato di sé la
colonizzazione europea dell’Africa e delle Americhe. Esso quindi storicamente
ha convissuto con il cristianesimo, che pure è fondato su principi opposti. Il
punto di conciliazione tra le due opposte visioni della vita è stato il
concepire la colonizzazione come evangelizzazione. Il contrasto tra
di esse è emerso con forza quando, all’inizio della colonizzazione delle
Americhe, nel Cinquecento, ci si è resi conto che la colonizzazione stava portando allo sterminio degli amerindi, dei nativi
americani. Analoghi scrupoli sono emersi molto più tardi riguardo allo
schiavismo contro le popolazioni nere dell’Africa.
Il modello basato sulla diversa dignità delle
vite umane e sulla competizione tra stirpi e società umane si ritrova nella
concezione politica nazionalsocialista tedesca tra le due guerre mondiali. Su
di essa venne costruita anche una mistica religiosa, per giustificare la
pretesa di prevalenza del tipo umano ariano-germanico.
Concezioni basate su idee in qualche modo
analoghe si rinvengono in alcune dottrine economiche correnti anche oggi, ma
senza connotati religiosi espliciti. Ci si rifà ad estensioni del modello di
evoluzione delle stirpi umane basato sulla sopravvivenza del più adatto
proposto da Charles Darwin (1808-1882): queste ideologie sono chiamate neodarwiniane.
Dopo la catastrofe della Seconda guerra
mondiale (1939-1945) prevalse l’ideologia della pari dignità umana e della solidarietà
mondiale per la pace e lo sviluppo. Essa si rinviene nei documenti del Concilio Vaticano 2°. Ci troviamo quindi
a vivere una straordinaria opportunità per il cristianesimo, in un mondo in cui
i
principi religiosi cristiani sono divenuti legge globale dell’umanità.
Naturalmente ciò è avvenuto senza che la nostra religione in sé, quindi con
quella che al di fuori delle Chiese cristiane può essere considerata la sua mitologia e con la sua organizzazione gerarchica sacrale, sia
stata nuovamente imposta in qualche modo alle società umane del nostro tempo. Questo
può essere spiegato in vari modi. Innanzi tutto l’esperienza storica europea
aveva dimostrato che il confessionalismo religioso era stato fonte di
sanguinose divisioni. Poi, in un mondo
in cui prendeva piede l’idea di una unità e di una pace fondata su una
solidarietà sorretta da principi diffusi
tra la gente, le autorità religiose non avevano sufficiente consenso popolare.
E, infine, l’idea di una imposizione alle
coscienze contrastava con la comune
dignità umana sulla quale si voleva costruire un futuro finalmente
pacificato, pacifico e pacificante. Può sembrare pericoloso l’aver affidato
grande idealità a fondamento religioso alle masse, ma, almeno da noi in Europa,
questa si è rivelata una buona scelta, visti i sessantasette anni di pace che
abbiamo costruito insieme, una cosa mai
vista nella storia dell’umanità e per la quale ci hanno dato il premio
Nobel.
Poiché
stiamo vivendo qualcosa di veramente nuovo, c’è il problema di pensare e
attuare forme di organizzazioni dell’umanità che rendano stabile il nuovo
modello. E’ il lavoro che è in corso da
molte parti e, in particolare, da noi in Europa, verso la quale si è prodotto
un gigantesco movimento centripeto che addirittura ha coinvolto un nostro
storico nemico come la Turchia, erede dell’Impero Ottomano.
La più recente dottrina sociale della Chiesa,
diciamo dal 1944 in avanti, si è spesa molto nello sforzo di suggerire nuovi
modelli di convivenza umana in linea con i nuovi principi diretti al
mantenimento della pace mondiale e allo sviluppo globale di tutti i
popoli. Uno dei più recenti e importanti
contributi è l’enciclica Caritas in
veritate (2009) del papa Benedetto 16°. In essa è proposto il modello dell’umanità intera come famiglia. Si veda ad esempio,al n.7 di quel documento:
Quando la carità lo anima, l'impegno
per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto
secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in
quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara
l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla
carità, contribuisce all'edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la
storia della famiglia umana. In una
società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non
possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle
Nazioni, così da dare forma di unità e
di pace alla città dell'uomo,
e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza
barriere di Dio.
Questo modello che possiamo dire della famiglia umana, piuttosto
evocativo, presenta alcuni aspetti critici.
Esso si presenta fin dalle origini della dottrina sociale della Chiesa, sebbene
con minore forza dei tempi più recenti:
Dal passato possiamo prudentemente prevedere
l'avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia
si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella
Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel
fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia.
[Enciclica Rerum
novarum (1981) del papa Leone 13°]
Nella Costituzione Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2°:
Per questo il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero
della Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli
della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli
uomini. A tutti vuol esporre come esso intende la presenza e l'azione della
Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo che esso ha presente è perciò quello
degli uomini, ossia l'intera famiglia
umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il
mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi
dell'uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo che i cristiani
credono creato e conservato in esistenza dall'amore del Creatore: esso è
caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo, con la croce e la
risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l'ha liberato e destinato,
secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento.
Un
primo problema sta in questo: il modello
dell’umanità come famiglia richiama l’esperienza della famiglia come forma
di società naturale basata sulla propensione sessuale delle persone, su
finalità di procreazione e di cura della
prole e su una gerarchia parentale
che regola la solidarietà familiare. Ora,
le società umane più vaste come le nazioni o le unioni sovranazionali si basano
su altri principi. In particolare in esse si fanno più labili le relazioni
profonde tra gli individui, per cui esse richiedono una organizzazione politica che è costruita,
non presupposta. Inoltre la solidarietà sulla quale si fonda il
loro ordinamento pacifico non scaturisce,
se non ideologicamente, da un legame di
stirpe. Infine la difficoltà più seria di tutte: la famiglia naturale non è una società democratica e si ritiene, nel nuovo ordine di idee oggi prevalente,
che la democrazia sia indispensabile per il mantenimento della pace universale.
Il problema si propone con estrema forza quando si passa a ragionare dell’intera umanità, fatta di circa otto
miliardi di individui.
E c’è dell’altro.
La nuova organizzazione che si vuole costruire
a livello mondiale deve essere stabile, quindi destinata a durare per diverse
generazioni. La famiglia come piccola società naturale basata sulla propensione
sessuale è destinata fondamentalmente ad esaurirsi in non più di due generazioni.
Delle precedenti si ha labile memoria, salvo che, per ragioni di casta o di
dinastia, ci si incaponisca a mantenerla. Di solito solo due generazioni sono
tra di loro contemporanee, raro che lo siano i trisnonni.
Le
famiglie, inoltre, non sempre sono società
pacifiche e fondate sulla uguale dignità dei propri membri. Non si dice
forse “fratelli, coltelli”? Nella mia esperienza di pratico del diritto, certe
controversie ereditarie tra parenti sono acerrime e incomponibili.
Infine: i modelli familiari sono in rapida
evoluzione. Di fatto nelle società umane contemporanee più progredite si viene
affermando un modello di famiglia
parentale di durata limitata, in molti casi con un solo genitore, e, con l’affermarsi sociale delle famiglie basate
su propensione omosessuale e il diffondersi della poligamia, si viene creando
nel mondo in cui viviamo una pluralità di
tipi di famiglia. Quindi la forza
evocativa dell’analogia tra la famiglia parentale e la convivenza dell’intera
umanità viene scemando. Non do
qui una valutazione etica del fenomeno, ed è chiaro che secondo la nostra
morale religiosa esso è visto come negativo: sto solo descrivendolo.
In una prospettiva religiosa, il modello
dell’umanità come famiglia presenta un pregio per la nostra gerarchia ecclesiale.
Esso consiste in questo: essa intende esprimere una autorità paterna (“papa”, ad esempio, deriva da
un termine greco che significa “padre”); in un’ottica di analogia familistica
essa può quindi presentarsi come fondata
su basi naturali, a prescindere da un
consenso della base. Esso però ha anche un altro pregio, per tutti noi, che lo
rende tutto sommato effettivamente appropriato, pur bisognevole di
precisazioni: richiama l’idea di solidarietà incondizionata e oblativa, fino al
rischio della propria vita, nella buona e nella cattiva sorte, qualcosa di più
della semplice amicizia.
Ho parlato di modelli universali, ma si tratta di cose che vanno costruite
sperimentalmente anche a partire da scale molto più piccole, addirittura
microscopiche, come ad esempio può essere considerato, a confronto con l’intera
umanità, il nostro gruppo parrocchiale di Azione Cattolica. Come viviamo la nostra appartenenza? Parlando con diversi soci ho avvertito in loro la nostalgia di tempi in
cui le relazioni associative erano più
forti. E, d’altra parte, relazioni più forti significano anche condizionamenti più forti e, crescendo,
si diventa sempre un po’ intolleranti verso cose simili. Vale la pena di
ragionarci su?
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28
Realtà
invisibili
(3
novembre 2012)
Fondamentale carattere della scienza moderna è
la capacità di varcare i confini del visibile.
Nessuno
ha mai visto un fotone [particella
di energia luminosa]. Nessuno vedrà mai
un sequenza cistronica [parte dell’RNA messaggero, una molecola che svolge
funzioni nella costruzione delle cellule organiche]. Tali entità sono reali, ma ricostruite da una laboriosa indaffarata
convivenza tra prove sperimentali e attività ipotetiche della mente. Essi sono
invisibili disvelati agli occhi dell’intelletto […]. Nella sociologia ci
troviamo in una situazione terribilmente arretrata. Siamo ancora timorosi nel
compiere il salto verso l’invisibile,
già compiuto da duemila anni nella matematica e da oltre cento anni nella
fisica”.
[passo
tratto da un articolo di Giorgio Prodi, Lineamenti di una sociologia degli
invisibili, citato nel libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e Città, Editrice A.V.E., 2011, a pag.66]
Può accadere che noi persone di fede si sia
presi in giro o, comunque, sottogamba perché ci occupiamo anche di realtà
invisibili. Ci sono uomini di cultura che considerano la Bibbia e molte altre
storie che circolano in religione come delle fiabe. Altri, pur con meno
scienza, fanno loro eco e ci accusano di credulità. Ma, nella mia esperienza,
l’atteggiamento dei più non è di questo tipo. Di solito infatti la gente crede
nel soprannaturale, in genere perché trova più facile spiegare in quel modo ciò
che le accade. Ma trova difficoltà nel credere in un dio amorevole, benevolo.
Pare più rispondente alla realtà di tutti i giorni l’esistenza di geni, demoni
o folletti, e simili, che possono essere favorevoli o avversi, secondo il loro
capriccio. Questa può essere considerata una religiosità di tipo naturalistico,
che risale ai primordi della vita sociale umana, quando si riteneva che ogni
manifestazione del mondo intorno agli esseri umani fosse mossa da un dio. Essa
poi si sviluppò nel politeismo dell’antica religione latina e greca, che
precedette il successo del cristianesimo in Europa, nel Vicino Oriente e nel
Nord Africa e fu da esso combattuta ed estirpata, almeno nelle sue
manifestazioni pubbliche e nelle istituzioni. Nell’antica Preneste, l’attuale
Palestrina, nei dintorni di Roma, venne
edificato un grande santuario alla dea Fortuna
primigenia, molto venerata dagli antichi romani. In certi accaniti
giocatori alle lotterie e simili, che vediamo anche nel nostro quartiere,
potremmo in un certo senso riconoscere dei seguaci di quell’antico culto. Come
spiegare altrimenti tanta passione in
giochi in cui le probabilità matematiche di vincita sono tanto basse?
Certamente senza un legame con l’invisibile la
nostra non sarebbe una religione. Secondo la nostra fede, tutto ciò che esiste
è stato creato da una divinità che
ama noi esseri umani con amore di padre/madre e questo nonostante le nostre
imperfezioni e, in particolare, la nostra cattiveria. Questa convinzione trova
molte smentite nella realtà naturale. E’ quindi una fede soprannaturale, che ci porta a
rettificare abbastanza ciò che si osserva nella natura intorno a noi e in noi. Lì dove la vita appare ad un certo
punto finire, noi, ad esempio, siamo convinti di una vita eterna. L’esistenza degli esseri viventi appare dominata dalla
violenza. Gli animali si mangiano gli uni gli altri e anche noi ci nutriamo di
altri viventi. Le terre emerse si spostano generando terremoti. Oceani appaiono
e scompaiono. Le stesse stelle collidono o esplodono. Noi però siamo convinti,
per fede, che tutto ciò avrà, alla fine dei tempi, un compimento beato. Il
mondo in cui viviamo sparirà, certo, ma sarà sostituito da un mondo diverso,
preparato per noi e promesso. Esso non sarà però opera nostra, ma
dell’amorevole potenza creatrice dalla quale deriviamo. Dossetti nel discorso
da cui è scaturito quel libretto che ho sopra citato, invita a non metterla
troppo semplice parlando di questo con gli altri, come se tutto fosse ovvio,
chiaro, scontato. La fede, che in genere da bambini si acquisisce con una certa
facilità, confidando nei propri genitori e nelle persone da loro accreditate,
crescendo è messa alla prova. La religione serve appunto a custodirla e a
rafforzarla.
Come ho osservato in altre occasioni,
l’aspetto che va costantemente e sapientemente curato, come quando, da bambini,
si difende pazientemente un castello di sabbia costruito sulla riva del mare,
che l’acqua tende costantemente a sciogliere avanzando verso la terraferma, non
è tanto la convinzione che Dio c’è.
Spesso i “non credenti” partono da questo, parlando con le persone di fede, e
trovano poca soddisfazione. Certo, noi portiamo argomenti razionali a sostegno
dell’esistenza del nostro Dio, ma egli rimane pur sempre invisibile. Chi può negarlo? E’ la stessa Bibbia che a dircelo
chiaramente.
Scrive Dossetti, nel libretto sopra
citato, a proposito dell’Eucaristia:
Il
mistero cultuale rende oggettivamente presente l’evento del sacrificio di
Cristo, ma contemporaneamente lo vela: debbo trapassare il velo e questo mi è
possibile solo nella fede, che mi fa andare oltre le apparenze sensibili e oltre
il tempo […]
Nella mia esperienza di fede, ad un certo
punto, viene una voce che noi siamo capaci di udire; viene dalla storia umana
tramite la Chiesa, che l’ha fedelmente custodita nei secoli, e reca buone
notizie. Ci parla infatti di un creatore amorevole e suscita in noi, nel nostro
animo, nella nostra interiorità, una risposta, perché appunto quella voce è ciò
che si attendeva da sempre di ascoltare. E’ stato notato che noi, nell’evo
presente, non vediamo, ma possiamo udire. Detto in termini esplicitamente
religiosi, questo denota l’importanza che attribuiamo a ciò che sinteticamente
definiamo la Parola, vale a dire a
quello che religiosamente ascoltiamo e che ci narra delle realtà invisibili che
sorreggono le nostre vite. Nell’esperienza religiosa è questo che è centrale, come spesso ci
ricorda anche il nostro assistente ecclesiastico nelle nostre riunioni:
ascoltare e comprendere la Parola.
Questa relazione che abbiamo con il
soprannaturale ci cambia e ci arricchisce nello spirito, ma non ci aggiusta le
cose nel mondo in cui viviamo, che
continua ad andare come deve andare in base alle sue dinamiche naturali. La
nostra fede infatti non ha nulla a che fare con la magia. Non portiamo un dio
dalla nostra parte negli affari che abbiamo in corso in società e riguardo ai
problemi che abbiamo con la natura, innanzi tutto con i nostri corpi, che
infatti ad un certo punto ci danno qualche dispiacere, e sempre di più
invecchiando. Attendiamo invece un beato compimento che è completamente nelle
mani di colui nel quale religiosamente confidiamo e al di là di ogni nostra
immaginazione. Non tentiamo di portare un dio sulle nostre vie, ma cerchiamo la
nostra strada verso colui che ci chiama, ci trae a sé e ci attende alla fine
della storia dell’universo.
In conclusione: quando ci mettiamo a
immaginare nuove organizzazioni sociali, anche al fine di corrispondere a quella benevolenza soprannaturale che ci
sovrasta e ci colma, non dobbiamo dimenticare che il punto di partenza, sia
come individui che nei nostri gruppi, è nella realizzazione di una
spiritualità, lavoro questo non facile perché non si tratta solo di tirar fuori
cose da noi stessi, in particolare dalla nostra immaginazione e dalla nostra
emotività, ma di inserirci in una
tradizione molto antica dalla quale la Parola
è scaturita per noi. Per questo è stata istituita la Chiesa della quale
siamo parte viva, essa stessa realtà visibile e invisibile, punto di contatto e
di mediazione tra il visibile e l’invisibile.
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29
A occhi aperti
(5
novembre 2012)
“Condizione di qualunque progetto da parte di
gruppi cristiani
[…]
Occorre … che siano adempiute molto più di quanto non sia stato finora
tre condizioni precise:
-che questo progetto sia non solo
nominalmente, dire per una “pia fraus” [trad.: per una bugia a buon fine], ideato e perseguito anche praticamente, in modo totalmente distinto
dalla comunità di fede;
-che esso abbia una sua genialità creativa
(cioè non sia solo una rimasticatura di dottrina e progetti altrove nati) e
abbia una sua validità storica, risponda cioè ad un momento reale della storia,
interpretato non solo con scienza (cioè con l’intelligenza), ma anche con
sapienza (cioè con l’intuizione);
-e che infine esso nasca da un senso di
giustizia disinteressata e soprattutto di carità genuina verso i compartecipi
sociali, specialmente verso le categorie evangeliche privilegiate (i poveri,
gli umili, i piccoli).”
[da:
Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città,
Editrice A.V.E., 2011, euro 8,00, pag.57]
Nel momento in cui a noi laici viene
richiesto di influire sulla società del nostro tempo per promuovere certi valori che hanno un fondamento
religioso, dobbiamo chiederci come farlo. Infatti i cristiani storicamente
hanno a lungo improntato della loro fede le civiltà in cui si trovavano a
vivere, in Europa almeno fin dal quarto secolo della nostra era, ma non tutti i
modi in cui lo hanno fatto sono oggi praticabili, sia da un punto di vista
oggettivo, delle forze in campo, sia da un punto di vista etico. Oggi, ad
esempio, non ci affideremmo in questo a un imperatore cristiano o anche solo a una dinastia monarchica cattolica. E non accetteremmo di imporre
alla gente la fede cristiana sotto pena di
sanzioni criminali. Né lanceremmo una crociata contro popolazioni di
scismatici. Si tratta di forme di intervento dei cristiani nelle società del
loro tempo che sono state storicamente attuate. Ai tempi nostri in genere la si
pensa diversamente. Ma non è solo questione del senso comune, dell’opinione
corrente, ma è proprio la nostra Chiesa che si è data leggi diverse, che le
vietano quelle vie. Sono regole che troviamo nei documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), i
quali, come ho ricordato varie volte in precedenza, non sono solo testi
edificanti e istruttivi, ma leggi. Per alcuni di essi lo rivela il nome stesso
che è stato dato loro: costituzioni,
decreti. Ma anche quelli che sono stati denominati dichiarazioni hanno la stessa natura. E si tratta di leggi che,
promanando dal Papa in unione con un Concilio ecumenico, hanno una particolare
forza. Queste leggi, nonostante che nella loro stesura si sia avuta particolare
cura nell’evidenziare la continuità con il pensiero precedente dei capi della
nostra Chiesa, con le idee dei più autorevoli scrittori religiosi dei primi
secoli, con le liturgie praticate fin da tempi molto antichi e,
naturalmente, con le Scritture sacre,
divergono molto, quanto alle indicazioni operative, concrete, con quelle che
ebbero vigore in altre epoche della nostra confessione religiosa. La fede è
rimasta sostanzialmente la medesima, ma il modo di vivere dei cristiani nella
storia è molto cambiato. Per altro, a mio parere, il Concilio Vaticano 2° non ha inventato
nulla di ciò che di nuovo si è prodotto. Nelle intenzioni del papa Giovanni
23°, il quale lo indisse, esso aveva come scopo principale un aggiornamento delle leggi della Chiesa a
una realtà che già i fedeli stavano
vivendo e praticando. Il risultato fu però qualcosa di più: quelle leggi furono
concepite in modo da imprimere un movimento
in avanti nel corpo ecclesiale, rendendo possibili ulteriori sviluppi delle
dinamiche in atto, che infatti si produssero. Il magistero e l’azione di
governo del papa Giovanni Paolo 2° ne sono stati straordinarie manifestazioni.
Ma ancora più rilevante, anche se forse meno evidenziata nelle grandi fonti
informative del nostro tempo, è stata la spinta che si è creata nella masse dei
fedeli. C’è stata, nella nostra Chiesa, un profondo mutamento della religiosità
popolare, del quale di solito si sottolineano gli aspetti negativi, ma che ne
ha avuti anche di positivi.
Vorrei evitare, in queste mie brevi note
quotidiane, di ripetere cose che potete leggere, scritte meglio, con più
scienza, in altri testi, ai quali rimando. Ragiono partendo dalla mia personale
esperienza, tenendo presenti le esigenze di lavoro del nostro gruppo di A.C. .
Quello che penso di poter dire è questo. A partire dalla metà del secolo scorso
il ruolo delle masse cattoliche, in particolare dei laici, è diventato più importante nella nostra Chiesa. Si
richiede alla nostra gente un impegno nella società che prima non era preteso e
veniva addirittura visto con sospetto. Lo si vuole informato e consapevole. Ma
non è solo questo: lo si vuole creativo.
Infatti l’assunto che i capi ecclesiali avessero il segreto della migliore
organizzazione delle società civili si è rivelato fallace. E quando il beato
Toniolo (1845-1918) scriveva che la salvezza sarebbe venuta da una società di santi, non da diplomatici, dotti o eroi, non si riferiva innanzi tutto alla gerarchia
ecclesiale. Questi nuovi compiti che, come laici, siamo chiamati ad assumere
comportano che si decida anche come lavorare insieme, con piena responsabilità.
Non si tratta più infatti di attuare
nel concreto decisioni di massima prese ai vertici.
In qualche modo, quella che stiamo vivendo è
un’era veramente nuova.
Si è presa, ad esempio, maggiore
consapevolezza della rilevanza religiosa delle realtà profane, di ciò che accade fuori degli spazi liturgici. In passato
si era giunti a una sorta di compromessi tra le autorità religiose e quelle
civili, che condividevano le popolazioni a loro soggette. Certe questioni, come
ad esempio le guerre, rimanevano fuori del campo del religioso. Popolazioni cristiane potevano essere arruolate le une
contro le altre, i sacerdoti e i vescovi di ciascuna di esse invocavano il
favore divino e prestavano l’assistenza spirituale ai combattenti e alle loro
famiglie, e non si pensava che qualcuno potesse lecitamente, anche da un punto
di vista religioso, sollevare una obiezione di coscienza in tutto questo. Una
volta che, invece, si decida di intervenire, animati da spirito religioso,
bisogna decidere come farlo tenendo conto che su certe scelte ci si può
dividere, ma che, come Chiesa, bisogna rispettare il comandamento dell’unità
del credenti, ma direi di più, dell’intero genere umano.
Anticipando quello che mi pare di avere
capito, bisogna considerare che sulle questioni sulle quali la gente di fede
ritiene ora di aver voce in capitolo anche sulla base di moventi religiosi si
deve discutere anche in chiesa. Sarebbe strano che non lo si
facesse, che cioè ognuno su argomenti di tale rilevanza fosse lasciato solo nel
capire e nel decidere. Anche perché
nessuno, da solo, può veramente pretendere di poter ideare o scegliere la
soluzione migliore. L’intelligenza dei fatti collettivi richiede una sapienza collettiva. Ma poi l’attuazione
delle scelte deve essere demandata alla responsabilità di ciascuno, non della
Chiesa, che ha rinunciato a questo tipo di potere dal momento che è espressione
embrionale di una realtà che non è di
questo mondo, e ognuno poi agirà insieme ad altri che compongono i vari
corpi sociali implicati nelle decisioni, in modo laico, inteso come non esplicitamente religioso, in modo da
poter coalizzare il massimo consenso possibile. Pensare di attuare esigenze di
fede con lo strumento di corpi sociali civili riproporrebbe infatti la modalità
desueta e impraticabile dell’impero
cristiano. Mentre rivestire di abiti
religiosi certe soluzioni storiche, certe forme organizzative, certi modi di
trasformare la società e la natura intorno ad essa, contrasterebbe con la
libertà di coscienza.
L’Azione Cattolica, nel suo percorso
formativo, ci consiglia esercizi di
laicità, vale a dire di provare in concreto, nei nostri gruppi, a prendere
in esame le nostre relazioni di fedeli cristiani con i corpi sociali nei quali
siamo inseriti e di capire come si possa fare per esprimere nell’azione civile
le nostre idee a fondamento religioso. Questa è una parte importante del lavoro
in Azione Cattolica e che differenzia molto i nostri gruppi da quelli molto più
centrati, ad esempio, su esperienze di spiritualità religiosa o di preghiera.
In questo Anno della Fede possiamo
però sentirci chiamati a qualcosa di più. Ne parla la lettera apostolica di
indizione. Sappiamo abbastanza della storia della nostra Chiesa, dei problemi
che ha dovuto affrontare, delle soluzioni che di volta in volta sono state
attuate? Questa è una parte importante dell’attività alla quale siamo stati sollecitati.
Non si tratta, quindi, solo di conoscere meglio il catechismo, fosse anche un’opera piuttosto estesa come il Catechismo della Chiesa cattolica, il
quale pure è sicuramente un utile punto di riferimento. Bisogna aprire gli occhi sul mondo intorno a
noi. Se non lo conosciamo bene, non possiamo influire su di esso. E a volte a
chi ci circonda può sembrare che la nostra esperienza religiosa abbia la realtà
di un sogno, tanto è distaccata dalle
dinamiche umane concrete. Eppure in certe storie bibliche è proprio da certi sogni che scaturiscono importanti
decisioni nell’animo della persona di fede. Come in ogni cosa, quando si tratta
di religione, si tratta di tenere tutto
insieme, prospettive religiose e prospettive profane, il cielo e la terra,
pur nella consapevolezza della loro diversità. E’ quello che Giuseppe Lazzati
(1909-1986) definiva unità dei distinti.
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30
La città dell’uomo
(7
novembre 2012)
“… il concilio ha fatto quello che, nella
storia della chiesa, fino ad allora non era stato fatto: ha espresso
chiaramente quale sia la vocazione del fedele laico, precisando non tanto il
fine (la santità a cui tendere, di cui è piena, in dottrina e in fatto, la
storia della chiesa), quanto la via attraverso la quale tendervi e giungervi.
Il fine
è espresso nelle parole “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il
regno di Dio” [ Lumen gentium, n. 31]. La via da percorrere è indicata, con
altrettanta chiarezza: “trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”[Lumen Gentium n.31]
[da:
Giuseppe Lazzati, La città dell’uomo –
Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo, Editrice
A.V.E., 1984, pag.50]
“Col nome di laici si intendono qui tutti i
fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso
sancito nella Chiesa, i fedeli cioè che, dopo essere stati incorporati a Cristo
col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi
dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte
compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo
cristiano.
[…]
Per la
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti
e singoli i doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni di vita
familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio
chiamati a contribuire, quasi all’interno e a modo di fermento, alla
santificazione del mondo mediante
l’esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito
evangelico, e in questo modo, a manifestare Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della
loro stessa vita e col fulgore della loro fede, speranza e carità. A loro quindi
particolarmente spetta di illuminare e
ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati,
in modo che siano sempre fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al
Creatore e Redentore.”
[Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium,
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
cap.4° n. 31, lett.a) e b)]
Le parole della costituzione dogmatica sulla
Chiesa Lumen Gentium, del Concilio Vaticano 2°, che ho sopra
citato sono uno dei punti fondamentali dei vari ragionamenti e delle decisioni
di quella grande assemblea di vescovi che si riunì tra il 1962 e il 1965. Una
novità assoluta nella legislazione nostra Chiesa, come rilevò Giuseppe Lazzati
(1909-1986) nel libro che ho menzionato (purtroppo non più in commercio). Non
certo del tutto una novità nell’esperienza storica dei cristiani. Bisogna dire
però che, a mio parere, solo con i moti europei e nordamericani di fine Settecento la questione di un ruolo
più attivo in religione della gente comune, di coloro che quindi non erano capi
religiosi riconosciuti, si pose in modo
nuovo, rendendo possibili gli sviluppi che, nella Chiesa cattolica, hanno
portato alla situazione dei tempi nostri, che manifesta ancora potenzialità non
sfruttate. I problemi che in merito sono sorti e che ancora sorgono sono
analoghi a quelli che si sono prodotti nell’evoluzione politica democratica
delle società contemporanee. Questo manifesta con una certa evidenza che si
tratta di movimenti della stessa natura, pur in ambiti diversi. Nel passaggio
dalla posizione di sudditi, solo soggetti a un potere altrui, a quella di
cittadini, partecipi delle decisioni più importanti che riguardano le
collettività, c’è chi si sente disorientato, impreparato, deluso dai risultati
ottenuti, sfiduciato nelle prospettive, e allora guarda con una certa nostalgia
al passato, per altro piuttosto idealizzato, quindi abbastanza distante dalla
realtà storica. Infatti nella via verso la cittadinanza compiuta si incontrano
le masse, grandi collettività, composte di persone che si vuole con la medesima
dignità, di gente che reclama di poter dire la propria e di essere ascoltata.
Non sempre è un bello spettacolo. Decidere insieme, ascoltando le ragioni di
tutti e poi però accettando di seguire il volere di una maggioranza,
soprattutto subordinando il bene proprio personale a quello dell’intera
collettività, è difficile, a volte sfiancante. E’ problematico in particolare
avere una visione sufficientemente affidabile delle cose, perché questo
significa perdere tempo e fare uno
sforzo per informarsi, cercando di raggiungere un punto di vista realistico,
anche ascoltando chi ne sa di più. Chi ne sa di più deve da parte sua avere la
pazienza di comunicare con gli altri, anche se ignoranti di certe cose, e di
dialogare con loro, anche quando pongono obiezioni palesemente infondate. La
tentazione che c’è sempre è quella di tagliare corto e, da un lato, di seguire la gente che pare più
decisa nell’imporre la propria volontà e, dall’altro, di forzare la mano imponendosi sugli altri sovrastandoli e
tacitandoli in qualche modo.
Come c’entra tutto questo nell’esperienza di
un piccolo gruppo parrocchiale di laici come il nostro? C’entra perché il
lavoro per elevarsi, collettivamente, a quella nuova dignità laicale che è
espressa nelle parole della Lumen gentium
è ciò che maggiormente caratterizza l’Azione Cattolica dei tempi nostri. Come
si spiega questo? Si tratta di cosa che deriva da una realtà sociale di impegno
di fede che ha preceduto i
deliberati conciliari e di cui l’Azione Cattolica e le organizzazioni che
storicamente la precedettero furono protagoniste. Le decisioni del concilio
vennero infatti viste come un
aggiornamento. Ma aggiornamento di che e verso che cosa? Ad essere aggiornata è stata la legislazione della nostra Chiesa; essa
fu aggiornata per riconoscere la bontà di
un’esperienza laicale che già esisteva, dall’Ottocento. Questo significa
ammettere che i padri conciliari non furono veramente degli innovatori, ma, appunto degli aggiornatori, e che l’innovazione si era già prodotta e attendeva solo di essere riconosciuta.
Tornerò sulle questioni della nuova concezione
dell’impegno laicale formulata nel corso del concilio, ma, per rendere meglio
l’idea del cambiamento e della sua origine, voglio riferirmi alla questione,
molto grave, dell’antigiudaismo cristiano, una realtà molto antica e pervasiva.
Chi oggi, tra i fedeli cattolici,
sottoscriverebbe queste parole:
“Niente è più miserabile … di questo popolo che non ha mancato
occasione per rinunciare alla propria salvezza, sono bestie selvagge … come gli
animali, anzi più feroci di loro … il profeta espresse la insania della loro
libidine con una parola che si riferisce agli animali”
scritte a proposito degli ebrei?
Sono
citate nel libro di Gianna Gardenal, L’Antigiudaismo
nella letteratura cristiana antica e medievale, Morcelliana, 2001, a pagine
56 e 57, e attribuite a S. Giovanni Crisostomo (344-407), il quale le scrisse
in due delle sue otto omelie contro i
giudei.
L’antigiudaismo cristiano, ancora piuttosto marcato nel corso del Novecento,
fu ripudiato dalle genti cristiane dopo la tragica esperienza della
persecuzione e dello sterminio degli
ebrei perpetrati dai regimi nazisti e fascisti europei, prima di esserlo dalla
legislazione della nostra Chiesa. Anche in questo caso i deliberati del
concilio furono un aggiornamento, un
tenersi al passo con i tempi in ciò che
essi avevano prodotto di buono.
Per
quanto riguarda il nuovo impegno laicale dei cattolici nella società, in
particolare dalle società rette da regimi democratici, in cui la gente aveva
più voce e possibilità di influire sulle scelte supreme, esso iniziò a
manifestarsi nel corso dell’Ottocento, molto vivacemente, e non venne sempre
assecondato dai capi religiosi. Si tratta di una storia che presentò anche
aspetti dolorosi, in particolare in Italia, dove la frattura con
l’organizzazione civile del nuovo stato unitario, retto su basi democratiche,
fu estremamente netta, a causa della cosiddetta questione romana, che riguardava le rivendicazioni territoriali dei
papi sul territorio del Regno d’Italia, in particolare sulla città di Roma. In
generale i papi furono, almeno fino al 1944, piuttosto sospettosi sull’impegno
sociale autonomo dei laici cattolici e, di solito, ammisero un’attività sociale
del laicato solo come attuazione puntuale di deliberati pontifici,
principalmente in funzione difensiva del papato e delle organizzazioni del
clero e dei religiosi.
Il
fatto che i capi della nostra Chiesa siano venuti a sancire dopo certi cambiamenti che si erano già
prodotti nel loro popolo non deve però stupire. Essi infatti hanno formazione
prevalentemente teologica e ogni
teologia, anche quando appare innovativa rispetto ad una precedente, non innova veramente, perché ragiona
sempre sulla fede della Chiesa, quindi su qualcosa che già c’è. La fede è sicuramente creativa,
di questo abbiamo sicura esperienza, non così la teologia. Innovare non è il
suo mestiere. Essa però può dare veste
teologica a un’innovazione, chiarendo, ad esempio, che certi principi, come
la comune dignità degli esseri umani,
sono presenti nella fede delle origini, quindi nel cosiddetto deposito di fede, pur se come
potenzialità storicamente poco o per nulla sfruttate e, innanzi tutto, capite.
Per
oggi mi fermo qui. Vorrei invitarvi a tenere a mente e a riflettere su queste
parole della Lumen Gentium: “Per la
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio.”. Vi tornerò sopra, riassumendo quello che in merito mi è stato
insegnato in tanti anni di formazione alla fede. Vi prego di ragionarci su
anche voi e, in particolare, di correggere o integrare quello che su
quell’argomento scriverò. In particolare terrò conto dell’insegnamento di
Giuseppe Lazzati, dichiarato Servo di Dio,
il primo grado nel processo di proclamazione di uno dei santi ufficiali
della Chiesa, e del beato Giuseppe Toniolo, la cui esperienza ho potuto
conoscere fin da ragazzo attraverso ciò che ne scrisse in un libro un mio zio
professore. Invoco religiosamente la loro intercessione in questa mia opera di
divulgatore parrocchiale che faccio da ignorante
colto, da persona quindi che si è un po’ familiarizzata con certi concetti,
ma senza essere veramente esperta sulla maggior parte di essi, in particolare
nella materia teologica. La mia formazione specialistica è giuridica.
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Una lunga storia
(8
novembre 2012)
Nei miei precedenti interventi su cose della
nostra fede comune c’erano molti richiami a fatti storici. Si tratta di un modo
di procedere che non è molto diffuso, in particolare nella fase
dell’iniziazione religiosa. E’ una cosa che si può constatare, ad esempio, nel Catechismo della Chiesa cattolica,
un’opera destinata al grande pubblico su scala mondiale, e che pure ha avuto una
evoluzione storica dalla prima edizione, nel 1993, alla seconda, nel 1997, in
particolare sul tema della pena di morte. In quel testo non emerge con
chiarezza, anche se se ne parla, che la
Chiesa, nella sua componente “terrestre”, “nel secolo” come si suole dire, ha
avuto una storia, quindi diverse manifestazioni le quali hanno riguardato
anche concezioni molto importanti. Del resto si tratta di uno scritto su base
teologica e la teologia, in particolare quella cattolica, tende a lavorare per
stabilire una continuità con le origini, in primo luogo
perché quella continuità accredita la verità
della religione, per il legame molto stretto che nel cristianesimo si vuole
mantenere con il primo maestro, e poi perché essa è in linea con l’idea che la
Chiesa abbia anche una componente soprannaturale in virtù della quale è sempre la stessa in ognuna delle sue
varie espressioni compresenti sulla Terra e succedutesi nella storia. Questo
qualche volta porta a mettere in secondo piano l’evoluzione storica che c’è
stata anche nelle nostre collettività religiose e, comunque, a presentarla
fondamentalmente solo come una serie di progressi
verso una maggiore e migliore comprensione del messaggio di fede nei quali il
passato è comunque tutto contenuto nei tempi successivi, ponendo così in
risalto il dispiegarsi di un disegno soprannaturale coerente che regge le cose
umane. Questa visione è utile per dare il senso complessivo
dell’interpretazione della storia umana come noi la proponiamo in religione.
Può creare qualche problema se però, nel compito che è proprio dei fedeli
laici, vale a dire quello di trattare le
cose temporali e di ordinarle secondo Dio, secondo l’espressione utilizzata
nella costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
quindi, in termini correnti, di
realizzare un’organizzazione delle società umane più in linea con i nostri
ideali religiosi, noi trascuriamo certi dettagli della storia e certi
meccanismi delle cose umane e, in particolare, che il nostro presente per certi
versi ha significato il ripudio di
una parte del passato ed è fatto anche di questo. Bisogna infatti rendersi
conto che noi non costruiamo sul nulla, ma ci inseriamo in dinamiche
preesistenti e utilizziamo il materiale e le persone che ci sono. Giuseppe
Lazzati definì questo lavoro costruire la
città dell’uomo.
Egli scrisse nel libro La città dell’uomo – Costruire da cristiani la città dell’uomo a misura
d’uomo, Editrice A.V.E, 1984, pag.19:
Tenendo presente l’immagine del “costruire” che guida la nostra
riflessione, è immediato il riferimento all’architetto o all’ingegnere; al
progettista, insomma, che, per prima cosa, vuol rendersi conto del terreno sul
quale costruire l’edificio che gli è commissionato […] E’ questa l’immagine di quell’indispensabile coscienza
di un passato di cui non [si] può fare a meno […]
Il ricordato architetto
elaborerà poi il progetto dell’edificio commissionato tenendo conto dei
materiali che ha a disposizione e pensando le strutture rispondenti alle
esigenza che, in quel momento e per un certo periodo di tempo, possono
soddisfare meglio coloro che nell’edificio porranno la loro abitazione, i loro
uffici, la loro industria.
Bisogna ragionare molto su
questo sapiente costruire nel mondo che ci compete come laici e
che è quell’attività che nella Lumen
Gentium viene definita, con linguaggio teologico, ordinare le cose temporali secondo Dio. Qualche volta noi tendiamo
a concepirci più che costruttori come
dei restauratori di un edificio che
c’era già e che nel tempo ha subito danni. Interroghiamoci: questa idea è
affidabile, realistica?
Io vi
propongo questa riflessione: ci sono nel mondo in cui oggi viviamo tante cose
che non c’erano nel passato. Questo non ha influenza sul nostro lavoro di costruttori di mondi? Tutto ciò che di
nuovo si è prodotto è male?
Queste
differenze con il passato non riguardano solo gli oggetti, i materiali e gli
strumenti, ma anche le persone, le idee e le organizzazioni sociali. Ad
esempio, considerate come è mutato, dai tempi delle prime comunità cristiane,
il ruolo delle donne nelle società occidentali. Quella che nella Palestina di
due millenni fa era in un certo qual senso la regola, vale a dire la
discriminazione sociale nei loro confronti, oggi
è considerata come un illecito, perché vietata dalla nostra Costituzione e
da altre leggi nazionali, dalla Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea (entrata in vigore il 1-12-09) e
dalla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (1955).
Poiché la nostra azione nel
mondo in cui viviamo ha anche un significato religioso e la nostra fede
religiosa ha una sua importanza nel lavoro che svolgiamo nella società civile,
in particolare come cittadini di una democrazia, anche la storia rientra nel
campo dei nostri interessi specificamente religiosi. Questo significa che, pur
attendendo la manifestazione piena di ciò che nella fede religiosa crediamo, il
nostro atteggiamento nella storia non può essere solo quello dell’attesa.
Parafrasando un simpatica espressione in romanesco che una volta pronunciò in
una udienza pubblica il papa Giovanni Paolo 2°, dobbiamo darci da fare. Questo darsi da fare richiede appunto di prendere coscienza di ciò che si muove intorno a
noi e delle dinamiche storiche delle società in cui viviamo, perché non sia
sconsiderato, improvvisato, superficiale e quindi vano o addirittura
controproducente. Il Concilio Vaticano 2° ha usato per
rendere questa idea un’espressione che molti sicuramente conoscono: scrutare
i segni dei tempi:
È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo
e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di
tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione
dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la
cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità
universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo:
continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo,
il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e
non a condannare, a servire e non ad essere servito.
[…]
Per
svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di
interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna
generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso
della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti
conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
[dalla costituzione pastorale Gaudium et spes]
Ieri ho richiamato la vostra
attenzione sull’espressione trattare le cose temporali per ordinarle
secondo Dio (nella costituzione
Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°), che, secondo
l’interpretazione di Giuseppe Lazzati, significa costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo; oggi
faccio la stessa cosa con scrutare i segni dei tempi (nella costituzione Gaudium et spes), che significa vivere, da cristiani, ad occhi aperti nel
mondo, consapevoli della sua storia e di ciò che in esso si agita. Penso
che, addirittura, trattandosi di cose che riguardano la nostra religione,
potremmo provare a costruirci sopra una preghiera da mandare a memoria. E
dovremmo riflettere su come fare, nel nostro lavoro associativo, nelle
occasioni che abbiamo di riunirci, per dare uno spazio a questi aspetti.
Ad esempio, nella riunione del
martedì abbiamo uno spazio di meditazione biblica, utilizzando le letture della
Messa della domenica seguente, un altro spazio di riflessione e discussione su
temi ecclesiali: potremmo forse dedicare almeno qualche minuto a quell’esercizio di laicità che consiste nel
prendere coscienza del corso della storia che stiamo vivendo a partire dalla
nostra concreta esperienza, dalle nostre vite. In questo costituisce senz’altro
una ricchezza avere un gruppo nutrito di anziani tra noi, che possono riferirci
del passato non sulla base di quello che hanno letto, ma di quello che hanno
vissuto. E’ una cosa che abbiamo iniziato a fare prima dell’estate. Ricordate
quando Maria Cretella ci ha narrato della sua esperienza di giovane di Azione
Cattolica in tempo di guerra, con gli aerei che, nei tempi di plenilunio, venivano
a bombardare, partendo dalla base britannica di Malta, la ferrovia che passava
vicino al suo paese? Non abbiamo allora apprezzato meglio, a partire da quella
storia così coinvolgente, il lungo periodo di pace che, dalla fine di quella
guerra, abbiamo vissuto in Europa?
Poiché si tratta di un’opera
religiosa, anche se si tratta di
recuperare ricordi di una storia molto concreta che si è vissuta nel mondo
profano, vale a dire di quello che c’è fuori delle nostre chiese, la possiamo
affrontare senza certi assilli che guastano le cose quando le si affronta, ad
esempio, negli studi, con l’ansia degli esami, o in politica, con la premura di
sovrastare gli avversari. Si procederà anche in questo con il ritmo lento e
attento di una preghiera, cercando di far
reagire i fatti di cui facciamo memoria con la nostra fede. Certe volte,
quando si prega intensamente, pare che il tempo si dilati e che quindi basti a
dire tutto ciò che si agita in noi. Allo stesso modo, con il ritmo della
preghiera, dobbiamo ricapitolare la nostra storia e il mondo in cui viviamo,
curando molto i dettagli, senza fretta, nello sforzo di non dimenticare nulla e
nessuno, nell’anelito religioso di venire incontro a tutti. Possiamo agire così
nel presupposto di fede che il beato compimento della storia, in cui
confidiamo, non sarà opera nostra, ma verrà dall’alto. A noi compete solo
assecondare questo movimento, non perché esso dipenda da noi, ma semplicemente
per continuare a farne parte, per assentirvi (questo effettivamente dipende da
noi), in quello che potremmo riassumere con la parola amen.
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Sentirsi responsabili di tutto
(10
novembre 2012)
“Il questa solitudine, che ciascuno ‘regala’ a
se stesso, si perde i senso del ‘con-essere’ … e la comunità è fratturata sotto
un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole …. sino alla
riduzione al singolo individuo.
[…]
C’è da chiedersi, a questo punto, se tali
degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero occidentale, come
sostiene Lévinas [Emmanuel
Lévinas, 1905-1995, filosofo francese]. A
suo parere, possono essere evitate non con il semplice richiamo all’altruismo e
alla solidarietà; ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè
ritornando alla impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio
questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel
momento fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge,
hanno detto: ‘Faremo e udremo (Es
24,7)’.
Cioè
essi scelsero un’adesione al bene, precedente alla scelta tra bene e male.
Realizzarono così un’idea ‘pratica’ anteriore all’adesione volontaria: l’atto
con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e
via della vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del ‘senso’,
l’evento fondante l’instaurarsi di una ‘responsabilità irrecusabile’”.
[Dal
discorso Una sentinella nella notte, pronunciato da Giuseppe Dossetti nel 1994
nell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati. Ora in Armando Oberti
(a cura), Lazzati, un cristiano nella
città dell’uomo, Editrice A.V.E., 1996, pag.27]
Una delle caratteristiche dell’esperienza
religiosa cristiana è che essa non nasce da una contrattazione con un dio, per
assicurarsene i favori nelle cose della vita. Non ha quindi molta importanza
sapere che cosa si guadagnerà in concreto avendo fede e che cosa di preciso si
dovrà fare per avere un certo risultato. E, in definitiva, rimangono in secondo
piano anche le stesse questioni dell’esistenza di una controparte soprannaturale, quindi l’argomento “un dio c’è”, e dei prodigi che il
soprannaturale produce nella storia. Questo è paradossale agli occhi dei non
credenti, i quali invece attribuiscono molta rilevanza a tutte quelle cose e,
pensando di scuotere le convinzioni religiose, fanno notare che il
soprannaturale è invisibile, che non si manifesta nel mondo dal momento che le
cose vanno sempre come devono naturalisticamente andare e che tutte le nostre
storie religiose hanno la consistenza di fiabe, per altro neppure costruite in
modo tanto coerente. Non sono questioni che lasciano indifferente la persona di
fede, certamente la fanno soffrire; è scritto ad esempio nei salmi, che sono
parte della Bibbia: i nostri nemici
ridono di noi (Sal 80,7), le lacrime
sono il mio pane giorno e notte / mentre mi dicono sempre: “Dov’è il tuo Dio?”
(Sal 42,4). Ma, in definitiva, l’animo religioso sente di non poter rinunciare
a una certa visione della vita, per una questione che riguarda la giustizia e
che apre il cuore: corro sulla via dei
tuoi comandi / perché hai allargato il mio cuore (Sal 119, 32). Non accetta
la violenza che vede intorno a sé e non sopporta di fuggirne la responsabilità
rispondendo a quella voce interiore che ode in sé con un “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Gen 4,9). Come
argomentato da Dossetti, sulla linea di Lévinas, la nostra adesione religiosa
al bene precede qualsiasi contrattazione, qualsiasi ragionamento di
convenienza, è assoluta, non dipende in alcun modo dal corso naturale delle
cose (infatti diciamo che ha origine soprannaturale) e per questo non è
smentita dalle sconfitte, nasce da un sentimento molto forte di giustizia che
origina nello stare con gli altri e che è piuttosto duro reprimere.
Quest’ultimo ha a che fare con la felicità umana. Lo avvertiamo in noi, ma
capiamo che non ha fondamento in noi: infatti siamo cresciuti imparando a
conoscerlo, è oggetto di un insegnamento, che il più delle volte abbiamo
ricevuto fin da molto piccoli. E’ un comando interiore, ma non è costrizione:
esso infatti dà gioia e ha storicamente avuto intense espressioni sociali,
tanto da improntare di sé l’Europa fin dal tempi molto antichi. E’ a questo che
ci si riferisce quando si parla di radici
cristiane dell’Europa.
Ci sono altre forme di religiosità? Certamente
sì. Quindi pensare al fenomeno religioso come un qualcosa di unitario, perché “si crede in un dio” è errato. Ciascuna
religione ha un suo specifico, in particolare quelle che hanno avuto una lunga
storia. Ma non è solo questo. Anche all’interno delle singole confessioni, di
ciascuna collettività religiosa esistono molte varianti ammesse. Accade anche
nella Chiesa cattolica, la cui principale caratteristica, nonostante
un’opinione corrente, non è l’uniformità.
Nell’Italia di oggi, oltre alla storica
presenza di Chiese cristiane riformate si è aggiunta, per l’immigrazione,
quella di confessioni dell’ortodossia dell’Europa orientale. Con gli altri
cristiani i cattolici condividono, in misura maggiore o minore, quasi tutto di
ciò che nella nostra concezione religiosa è essenziale.
C’è poi l’ebraismo italiano, una presenza che
è coeva con la diffusione del cristianesimo nella penisola. Dopo oltre
millecinquecento anni di discriminazioni e vere e proprie persecuzioni subite
dagli ebrei da parte dei cristiani, il cui inizio si fa risalire al quarto
secolo della nostra era in concomitanza
con l’affermarsi del
cristianesimo nelle istituzioni dell’impero romano, a partire dal Concilio Vaticano 2° si sono dischiusi ai cattolici i tesori del
pensiero ebraico, che sempre più spesso vengono menzionati dai nostri teologi e
che sono stati divulgati in ambienti più vasti da autori come il Levinas, sopra
citato da Dossetti.
Sempre per via dell’immigrazione, dall’Asia e
dall’Africa, stanno affermandosi anche da noi fedi islamiche, le quali sono
piuttosto distanti dal cristianesimo, pur condividendone alcune storie
religiose.
Ma il
panorama della religiosità in Italia non si esaurisce qui: conviviamo, ad
esempio, con genti che praticano l’induismo, il buddismo e il sikhismo.
Infine, nella nostra Italia sono abbastanza
diffuse credenze di tipo magico, in cui si pensa di poter ottenere vantaggi
soprannaturali nelle cose della vita mediante certe pratiche, in particolare
certi riti. Fedi di questo tipo hanno preceduto e accompagnato il cristianesimo
e quest’ultimo in genere le ha contrastate, anche piuttosto duramente.
Ai tempi nostri appare anche possibile in
concreto un’esistenza umana priva di esplicite convinzioni religiose,
dell’adesione a una confessione istituzionalmente costituita. Su Il Venerdì di Repubblica di questa settimana, Andrea Tarquini,
nell’articolo I senza Dio, riferisce
del fatto che, come scritto dal giornalista polacco Mariusz Szczygiel nel libro
Fatti il tuo paradiso (Nottetempo
editore), solo il 14 % degli abitanti
della Repubblica Ceca si definisce credente
nei sondaggi, questo nonostante che
in quella nazione la vita sociale sia
improntata a forti valori etici. Ma, in definitiva, quel dato non
sorprende perché è tutto sommato in linea con i dati sulla pratica religiosa
nell’Europa del nord, che per altro registra anche valori ancora più bassi.
L’Italia di oggi, con il suo circa 30% di praticanti,
di persone che vanno a Messa la domenica, costituisce in questo una eccezione
(ma la percentuale di coloro che si definiscono genericamente credenti e che mantengono un riferimento
al cristianesimo come religione è molto più alta, superando la maggioranza
assoluta della popolazione).
Dopo il Concilio
Vaticano 2° e a seguito dei principi in esso affermati, possiamo vivere da
cattolici con più serenità l’attuale pluralismo in materia religiosa e
instaurare e mantenere rapporti amichevoli con fedeli di altre religioni e con
persone non religiose. Non è stato sempre cosi, siamone consapevoli.
In particolare, l’iniziativa dell’Anno della Fede, che stiamo vivendo
nella nostra Chiesa, non è stata pensata per contrastare quel pluralismo o per
conseguire una maggiore uniformità nella nostra confessione religiosa. Non c’è
questo nella lettera apostolica di indizione Porta Fidei dell’11 ottobre 2011.
In questo Anno
della Fede siamo stati invece invitati a riflettere, acquisendone maggiore
e più precisa consapevolezza, su ciò che specificamente caratterizza la nostra
esperienza religiosa. Abbiamo infatti la convinzione che il cristianesimo abbia
ancora qualcosa da dire e da fare nel mondo di oggi, che quindi sia
possibile e necessaria una nuova evangelizzazione, a partire
innanzi tutto da una rinnovato impegno pubblico nel quale la professione
religiosa sia concepita e vissuta come un
atto personale ed insieme comunitario.
Poiché è venuto ad avere meno credito nella
società, per il pluralismo di cui dicevo, l’affidamento sacrale nelle autorità
religiose cattoliche, che pure mantengono un ruolo importante come punto di
riferimento etico, e nella dottrina da esse insegnata, sta divenendo più
importante l’azione svolta dai fedeli laici nella società per promuovere valori
in linea con la nostra fede religiosa. Essa è stata finora piuttosto efficace,
consentendo una certa pervasività delle idee religiose nella società,
nonostante la diminuzione delle vocazioni sacerdotali e di quelle religiose. E
lo è stato perché non si è limitata alla mera propaganda religiosa e al proselitismo,
ma ha agito in concreto per
quell’azione di costruzione della città
dell’uomo, di cui parlava Giuseppe Lazzati nei brani che ho citato nei
giorni scorsi. Ognuno ha sicuramente in mente esempi di quello che dico. Questo si è fatto in tempi che, per vari
motivi, non sono stati molto favorevoli allo sviluppo dell’azione propriamente
laicale, tanto che il laicato italiano è stato definito il brutto anatroccolo (in Fulvio De Giorgi, Il brutto anatroccolo, Paoline Editoriale Libri, Saggistica
paoline, 2008, euro 16).
L’Azione Cattolica è da sempre
particolarmente impegnata nel miglioramento della presenza dei laici cattolici
nella società del loro tempo, non tanto con il metodo della contrapposizione,
del fare blocco sociale o del costituire
piccole isole di salvati, ma con quello del farsi evangelicamente lievito o
sale per metaforicamente fare crescere
e rendere sapidi in umanità. Una delle ragioni che possono spingere a un
impegno in un gruppo di Azione Cattolica è quella di voler vivere in questo
modo l’impegno di responsabilità religiosa di cui ci si sente partecipi.
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