*********************************************
48
Fede religiosa, forza di progresso
(4
gennaio 2013)
L’angelo è … il messaggero che, secondo le
immagini bibliche, collegando il cielo alla terra, annuncia a un essere umano
che la Parola divina che l’ha creato vive ancora nel suo intimo più profondo,
anche nel momento della sua disperazione. L’esteriorità è dunque necessaria a questa speranza, essa
aiuta a combattere il destino, a imporsi su di esso e a crescere. Per coloro i
quali non percepiscono angeli nella loro
esistenza quotidiana così spesso tormentata, questa esteriorità – dice il Rabbi
di Gur – proviene dalle parole della Torà. Sono esse che hanno la forza
stupefacente di rinnovare il desiderio di vita in ognuno. Questa esteriorità
talvolta prende anche la forma della voce di un’altra persona, che, proponendo
parole di vita a colui o a colei che si trova imprigionato nel labirinto delle
sue sofferenze e del suo male, non sa più trovarle. Ma in ambedue i casi, e del
resto uno non esclude l’altro, è necessario affinché quella persona le intenda
e colga il filo di chiarore che gli viene teso –attraverso parole udite da una
voce che non è la sua – che quella persona resti attenta a ciò che quelle
parole vengono a toccare in lei: quel punto di speranza non domato, quella
certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può
ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli
scacchi subiti.
[da
Caterine Chalier, Angeli e uomini,
Giuntina, 2009, pag.62]
Ai tempi nostri, e anche nell’insegnamento
catechistico, si è piuttosto cauti nel proporre una visione religiosa della
vita, pensando che poi possa risolversi, nell’interpretazione personale, in
qualche tipo di stranezza per cui mediante certe pratiche liturgiche o ad esse
somiglianti, o comunque mediante una
disciplina personale, si confidi di poter cambiare, quasi magicamente, la
realtà intorno a sé. Si preferisce parlare della santità personale come
risultato del confidare nella Parola di Dio, la quale però, nelle situazioni
concrete che si presentano, non è facile da individuare e allora poi si finisce
per consigliare di fidarsi dell’interpretazione che ne dà la Chiesa in persona
del clero o addirittura dei capi della comunità a cui si è più legati. Ecco
quindi che una parte di quelli che sono stati raggiunti dal messaggio religioso
si allontanano dalla comunità in cui l’hanno ascoltato, cercando l’autonomia e
la libertà di pratica e giudizio. Questo pregiudica l’efficacia propria
dell’azione laicale, che ha bisogno di gente per essere attuata, essendo anche
un lavoro collettivo, ma anche della possibilità di sviluppare in concreto
concezioni particolari, adatte ai vari problemi che si affrontano, facendo
quindi reagire in modo originale e autonomo fede religiosa e vita concreta,
senza però aspettative eccessive quanto a felicità qui su questa terra.
Sarebbe bello poter dire che se si ha fede si
è felici, in qualsiasi situazione ci si trovi, ma non è vero che questo accada
sempre. Anzi, per ciò che mi è stato dato di sperimentare accade piuttosto di
rado e non penso nemmeno che ci si debba sentire in colpa per questo, perché
non si è felici pur essendo parte di una collettività religiosa e avendo in
misura maggiore o minore una fede religiosa. E’ vero che invece i cambiamenti in meglio della vita delle
persone possono dipendere da azioni, individuali e collettive, a fondamento
religioso, nel senso di motivate non sulla base di come vanno di solito le
cose, quindi su un realismo materialista, ma su considerazioni paradossali,
fondate su come vorremmo che fosse il mondo, quindi su un’esigenza interiore
che ci fa essere diversi perché collegata all’idea di essere creature, non un accidente della natura,
quindi esseri dotati di una speciale dignità. E’ qualcosa che, come scritto nel
brano che ho sopra riportato, giace e opera nel nostro intimo più profondo ed è
a volte suscitato, riportato alla superficie della coscienza, dall’esterno:
qualcuno la descrive come esperienza angelica, per altri è il contatto con le
scritture sacre, per altri ancora si tratta della voce di un’altra persona o di
un’altra situazione in cui ci si trova. E’ allora che si risveglia in noi “quel punto di speranza non domato, quella
certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura, che la vita può
ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e la tenacia degli
scacchi subiti.” E che si comincia a costruire un mondo nuovo, in cui le
tante cose dolorose della realtà che viviamo e che pure è appunto la realtà siano superate e migliorate. Ad
esempio una società basata sul principio di uguaglianza intesa come pari
dignità, una cosa che in natura
semplicemente non c’è, come ricordavano gli schiavisti contro le obiezioni
degli abolizionisti. Tra gli esseri umani c’è stato sempre chi ha sfruttato e
chi è stato sfruttato, osservavano. Eppure questa realtà umana storica dello schiavismo è stata contrastata sulla
base di motivazioni in fondo religiose, quindi paradossali, almeno fin dal
Cinquecento, e dal Settecento con particolare efficacia, e ha portato
l’abolizionismo a prevalere a livello globale. E ciò anche se nella Bibbia,
composta di scritti composti in tempio piuttosto antichi, in cui lo schiavismo
era realtà giuridica accettata non c’è una parola esplicita contro di esso,
dico un appello alla rivolta contro
di esso. Eppure il movimento contro lo schiavismo, specialmente nell’Ottocento,
ebbe anche motivazioni religiose cristiane (pur avendone avute anche di
analoghe le pratiche schiavistiche degli Europei contro gli africani e i nativi
americani).
A una persona più giovane di me che ha
lasciato le consuetudini di fede respinta dal fideismo irriflessivo che le era
stato proposto, non attesterei mai che recuperando la fede sarà felice su
questa Terra, ma certamente le farei notare che su basi religiose, dunque di
ribellione contro le cose come normalmente vanno, in particolare in natura,
potrebbe capitarle di collaborare a cambiare in meglio il mondo, in particolare
nello sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo nel pensiero e nella pratica.
La nostra fede non ci impone di rassegnarci ad accettare le cose come vanno e a
ritenerle volontà di Dio, anche se si trattasse, ad esempio, di una malattia
grave o di un altro accidente “naturale”. L’altro giorno sono stato in visita
ad un centro oncologico e alle persone che ho incontrato in sala d’attesa davanti
agli ambulatori non avrei mai fatto questo discorso. Né avrei promesso che,
seguendo certi riti, Dio le avrebbe salvate. O che, comunque, anche nella
prospettiva della morte avrebbero trovato la beatitudine, la felicità. La mia
infatti non è una fede consolatoria o
di rassegnazione, ma di ribellione,
di rivolta, a partire da una realtà
affrontata senza facili illusioni. E’ vero tuttavia che, in una prospettiva
religiosa, in particolare cristiana, si può dare un senso a ciò che ci accade e
quindi si può essere portati ad agire di conseguenza: questo rafforza il
sentimento della propria dignità di fronte a una realtà sociale o naturale che
invece porta a deprimerla. Fa bene e porta a fare il bene. Non mi sentirei di
dire che accada sempre e non ne
faccio una colpa a quelli ai quali non accade. Per un malato grave, ad esempio,
la fede può essere solo un problema in più da affrontare e talvolta il problema
della teodicea, di giustificare
l’operato di Dio nel mondo, quindi il mondo come risultato di creazione, può superare effettivamente
le nostre forze. Ma di solito nella sofferenza è ancora possibile, come scrive
la Chalier, percepire un filo di chiarore,
e ciò sovente deriva da un’esperienza francamente religiosa, di voce o
situazione che risveglia una convinzione paradossale, che riguarda “parole di vita a colui o a colei che si
trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa
più trovarle”.
Il primo dovere religioso del laico è quello
di capire realisticamente ciò che sta
succedendo, per lui la fede non è quindi un fattore anestetizzante, e poi di agire per realizzare un mondo diverso (ordinare le cose temporali secondo Dio,
nel gergo teologico). In particolare è questo appello, non di rassegnazione,
che viene ai laici, e a tutti gli esseri umani di retta volontà, dal Concilio
Vaticano 2° e dai documenti del
magistero che si sono proposti di svilupparne i deliberati.
*********************************************
49
Noi, la
Chiesa e la società nella crisi
(7
gennaio 2013)
Il duro
inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di sacrificio per
i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi, per le famiglie
con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa provvidenzialità di
questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la sollecitazione a rinnovate
opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero rapporto della Chiesa con
la società italiana e col mondo che viene in primo piano. E non più solo o
tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del sistema sociale e
politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma soprattutto per la sfida
che la crisi economica, istituzionale e culturale pone al presente e al
prossimo futuro nella società e civiltà italiana.
Il
nostro paese è in incombente pericolo di precipitare in un nuovo periodo di
decadenza, secondo una triste regolarità della nostra storia. C’è già chi si
rassegna. Ed è forse proprio contro la inclinazione anche di molti cattolici
alla rassegnazione che questo convegno acquista ora la sua drammatica
attualità.
Tra le
non molte interpretazioni complessive della situazione attuale della società
italiana, che ho trovato tra i documenti di risposta pervenuti dalle diocesi,
da singole comunità e gruppi di lavoro di Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da
qualche comunità cosiddetta di base – la rassegnazione non trova però spazio.
Il
senso di gran lunga prevalente delle risposte sul tema generale del rapporto
fra la Chiesa e la società italiana, è che occorre accrescere il mutuo aiuto
tra Chiesa e mondo nello spirito della “Gaudium et spes”. E proprio la ricerca,
da parte della cattolicità italiana, di vie e modi e obiettivi specifici, per
una congiunta e non contraddittoria azione, di annuncio del Vangelo e di
impegno per la giustizia e per la partecipazione alla trasformazione del mondo,
configura lo specifico apporto della Chiesa alla società profana.
[Dall’intervento
del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al convegno ecclesiale
“Evangelizzazione e promozione
umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976 – in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice A.V.E,
1976]
Le parole che ho sopra trascritto sembrano
scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema della nostra Chiesa
che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in relazione con il
mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a trentasei anni fa. Che significa questo? Significa che un lavoro
che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto e che ora può essere
ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte nuovamente favorevoli, in
particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo nell’enciclica Caritas in veritate del papa Benedetto
16°.
Che cosa è la nostra Chiesa? Non parlo
naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue finalità sotto il
profilo teologico, della fede comune
professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di vista sociale, delle
relazioni come collettività con il mondo in cui è storicamente inserita. Questo
è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire la società arricchendola con i principi
evangelici che riguardano la vita comune.
Non vi aspettate che vi dia qui delle
risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse nelle nostre riunioni
infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito prendessero parte anche
coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla vita della parrocchia e
anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa come è ora e lo dicono
francamente, ma tuttavia nella loro interiorità apprezzano ancora, al di là di
quelle critiche anche dure, un discorso religioso.
Siamo, ad esempio, una ditta per la propaganda del
sacro? Siamo una federazione di collettività che in senso molto lato
condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che fanno vita
separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui? Siamo una
federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che vuole dare
una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla contro le
critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire un’organizzazione che ha come scopo
principale sostenere l’azione del Papa nel mondo di oggi e in particolare in
Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo di avere la ricetta giusta per
cambiare il mondo rovesciando i principi perversi su cui esso si fonda? Siamo
gruppi di oranti che pensano di ottenere il cambiamento del mondo con la
preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i vescovi e il Papa per noi? In
che cosa i preti si differenziano dagli assistenti sociali, dagli psicologi,
dagli psichiatri e dagli insegnanti delle scuole? Quale autorità riconosciamo
loro, di fatto?
In questo Anno
della fede queste domande mi sembrano importanti. Possiamo aspettarci che
la risposta ci venga dall’azione catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa siamo o come dovremmo essere? O dovremmo, come
punto di partenza, riconoscere francamente come
abbiamo voluto essere finora e capire se questo modo di essere è sufficiente in relazione ai principi che
proclamiamo e che, come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di
sé e ancora informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?
*********************************************
50
Un
processo continuo di liberazione
(8
gennaio 2013)
Se c’è, come non può non esserci nel mondo un
processo continuo di liberazione, la Chiesa, il cristiano con la Chiesa e per
la Chiesa, deve essere presente in questo processo di liberazione. In che modo?
Con la triplice azione sacramentale che è propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di liberazione e di promozione
umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano deve essere innanzi tutto
presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il cristiano nella Chiesa non
può accontentarsi di parlare di
liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo
stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno,
deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa deve portare nel mondo la
liberazione totale e integrale operata da Cristo.
[ da La
Chiesa sacramento di Cristo e segno e strumento di liberazione, relazione
tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo Enrico Bartoletti – all’epoca segretario
generale della CEI, in Enrico Bartoletti,
La Chiesa nel mondo – a cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo
scritto che ho sopra riportato rende bene il clima degli anni immediatamente
dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa cattolica, a lungo considerata
essenzialmente una forza di contenimento
sociale e personale, se non una organizzazione francamente reazionaria,
veniva concepita in modo nuovo, nel senso che come fedeli ci si assegnava compiti
nuovi, religiosamente motivati, in un mondo in cui era generale l’ansia di
elevazione di popolazioni o strati di popolazioni fino ad allora considerati
fatalmente destinati alla sofferenza e alla minorità.
Bisogna
dire che di certi temi in Italia si parlava accostandoli piuttosto da lontano,
ad esempio di quello dell’elevazione e liberazione delle popolazioni del
cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia. Ai tempi nostri, in cui strati di
popoli africani e asiatici sono migrati dalle nostre parti, i problemi si sono
fatti più concreti.
E’
necessario anche aggiungere che il disegno conciliare prevedeva un ruolo molto
più attivo dei fedeli laici in questi nuovi compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana,
dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro di preparazione di questa
parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune sue porzioni
particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello di presenza dei fedeli laici nella società in cui
vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80,
nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi,
se consideriamo chi siamo, noi
cattolici, visti nel nostro complesso e parlando francamente, dobbiamo
considerarci prevalentemente una forza di
liberazione e promozione umana, o una forza
di contenimento, o ancora una
forza di reazione, gente che quindi
vuole tornare ai tempi di prima?
*********************************************
51
Pace come promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica
sulla Chiesa Lumen gentium, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In
tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di
mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma
celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli
altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue
membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv
18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla
sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e
accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò
che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva.
Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale
sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste
portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo
carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello
stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con
tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In
virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per
uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo
di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si
compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per
ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro
fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni,
rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede
alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme
veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale;
a questa unità in vario modo appartengono
o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia
infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla
salvezza.”
Dalla Costituzione pastorale
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.4:
“E
mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua
interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene
spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono
ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né
è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta
lo scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più
importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai
diversi.
Infine,
con ogni sforzo si vuol costruire
un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il
progresso spirituale.
Immersi
in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in
grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente
con le scoperte recenti.
Per
questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e
l'angoscia, mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.
Questo
sfida l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”
Dalle relazione tenuta da mons.
Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972 Segretario generale della C.E.I.) al
seminario della Caritas italiana del
27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa
nel mondo, Editrice A.V.E., 1982, pag.123.
Ecco
allora quello che è la Chiesa o per
lo meno quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve
di continuo divenire: una comunità, una
comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello
Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare
questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto
verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere
membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli
uomini: “ogni uomo è mio fratello”.
Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan
dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda
che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di
credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi
abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo
che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di
base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero,
rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per
primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco,
Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha
abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù
nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo
secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per
lui.
Intendere la Chiesa comunità pacificante è
stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio Vaticano 2°
(1962-1965).
Bisogna considerare che sul tema della pace
non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in particolare dopo
il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso le concezioni che
oggi sono diffuse dal magistero.
Il tema della pace, nei documenti conciliari,
si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è cosa da
realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi dove
dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito principalmente
laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica per
l’instaurazione e il mantenimento della pace
tra i popoli è quello di un’autorità mondiale, universalmente
riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una sorta di polizia di pace, nel senso di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i
conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che
un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di
degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In
realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione
di un ordine pacifico, in una accordo tra
autorità costituite, con una cessione di
sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo
espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.
In realtà
un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata. L’esperienza
europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza
dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello,
secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa,
della sussidiarietà. In questo quadro
ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici,
intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse
comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.
Il lavoro di pacificazione può farsi rientrare
nell’impegno di promozione sociale,
quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo fondamentale al
laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli scritti che ho
sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo da un intervento
fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono indicate
specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come realizzare la pace
in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta considerazione del
contesto sociale umano ( lo scrutare i
segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei laici, che, nella
visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con tutti le altre
persone bene intenzionate.
Pace, in senso religioso, non è solo assenza
di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la personalità
degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente, secondo il vero bene
di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà esercitarsi l’azione
laicale.
Nei discorsi religiosi e su base biblica, si
collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà essere
realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia, realisticamente, non è
garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace nelle società umane, in cui
si manifestano sempre, ad un certo livello, delle devianze rispetto all’ordine
costituito, talvolta sulla base esclusivamente degli appetiti e degli interessi
individuali e di gruppo. Questo significa che per il mantenimento della pace occorrerà sempre
l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una
prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e,
comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con
procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone
umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie
avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di
punizione dei colpevoli.
Mons. Bartoletti metteva in guardia dal
parlare con troppa disinvoltura di amore
come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno
concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi
magicamente, dal parlare di amore.
Pacificare le società umane non è sempre
facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o
nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità
parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto
limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come
quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza
di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale e dall’Asia, l’integrazione sociale degli
stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle
realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono
essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa.
Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e
adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità
di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo
politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la
possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più
giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto
con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra
parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona.
Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero
allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della
nostra comunità. Molti sono impegnati
nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta
difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia
possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari. Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di
queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho
detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti
del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono
per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi
principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della
sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo
passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai
millenni bui delle guerre continue!
Non abbiamo la pretesa, noi del gruppo
parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite degli
altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un impegno
enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che stiamo
facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale, che
passa anche il prendersi cura degli altri
a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo,
ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
Ma, in definitiva, lo sforzo che si fa in un
gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi tutto un progresso spirituale, che, come
contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui entriamo
in contatto con essa.
*********************************************
52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione
umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica
sulla Chiesa Lumen gentium, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra è
radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli
prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i
fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo,
e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il
regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il
popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di
qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le
risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e
accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di
dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le
genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte
(cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna
e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste
tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo,
nell'unità dello Spirito di lui.
In
virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa, in modo che
il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e
per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il
popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso
interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità
sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei
loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni,
rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede
alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme
veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli
cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza
eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Da “Una Chiesa in ricerca, in servizio, in
crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana”, tenutosi
a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione
e promozione umana – atti del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:
“…se le due funzioni di servizio, proprie
della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente distinte, non sono però
separate e devono trovare la loro sintesi nella unità organica della comunione
ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il vero contributo della
evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera della Gerarchia o dei
laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve passare attraverso il
servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in Italia il primo
problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il nesso intrinseco
tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito dal convegno) è
quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.
Venerdì prossimo inizierà la settimana per
l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo tema, pensiamo alle diverse
confessioni cristiane che ancora hanno organizzazioni separate mentre, nella
visione cattolica, le si vorrebbe tutte legate a un unico pastore, al mondo in
cui esse vogliono essere sottomesse ad un unico Signore.
Tuttavia il problema dell’unità sussiste anche
all’interno della nostra stessa confessione religiosa. Esso si è fatto più
pressante nel corso degli sviluppi del Concilio Vaticano 2°, come indica il
brano della relazione del 1976 del padre Sorge che ho sopra trascritto.
Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha fatto le spese in
particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80 ha visto ridursi
molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura messo in
discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e i vescovi
e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
Ad esempio nella nostra parrocchia possiamo
facilmente constatare come l’Azione Cattolica non sia più, da tempo, la
principale articolazione del laicato. Ad essa si è sostituita l’organizzazione
del Cammino Neocatecumenale la cui
storia, la cui azione e i cui punti di vista nella Chiesa e nel mondo hanno caratteristiche piuttosto
distanti da quelle dell’Azione Cattolica.
Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è diventata nella parrocchia
un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra parrocchia e altre che hanno
subito dinamiche simili assomigliano a una confederazione di vari gruppi in
precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione tra le varie parti
che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono varie attività nella
liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione. L’unità in definitiva si
fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
Come ho cercato di riassumere nei miei
precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme organizzative che
ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per l’esigenza dei laici
cattolici di partecipare di più all’edificazione della società del loro tempo,
in particolare sfruttando le opportunità offerte dai sistemi politici
democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare anche in modo nuovo
il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio Vaticano 2° è stato
assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2° l’Azione Cattolica ha
fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi principali obiettivi.
Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una certa frizione tra i
principi religiosi e quelli secondo i quali era organizzata la società civile.
Una delle ragioni del decremento della partecipazione all’Azione Cattolica può
essere vista nel venir meno dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta
solo dell’emergere del fenomeno della secolarizzazione, per cui certe
convinzioni religiose hanno avuto meno forza nella società e vengono riservate
fondamentalmente ai momenti rituali e cerimoniali della società, ma proprio del
fatto che la società civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a
principi democratici, tra i quali quello della libertà religiosa, sembra
richiedere di meno un attivismo dei fedeli laici, che allora possono, come
dire, concentrarsi sugli aspetti più prettamente spirituali della fede. Ad un
certo punto si è sentita di meno
l’esigenza dell’unità di pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe
richieste e indicazioni che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno
trovato altri modi di essere proposte nella sede civile e in quella politica.
Ecco quindi che l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico
italiano ha potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune.
Questo ha fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di
contenere, vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel
suo complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un
punto di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose
cambiano quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella
società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società,
sul modo in cui vivere una buona vita cristiana e poi, principalmente, sul problema
degli alleati che si vogliono avere per fare
progredire la società, vale a
dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del
passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e
della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente con le ideologie liberali, fasciste o socialiste che esprimevano un’azione di
forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che
si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si
individuava una cultura della mediazione,
impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come portatrici varie organizzazioni, tra le quali
il Cammino Neocatecumenale. In genere
si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa
abbia scelto il metodo della presenza.
Oggi si è ormai perso il senso di questo
diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno
imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa
ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora
ci sono quelli per i quali i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa
effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i
principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la
pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle
relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal
magistero.
Certamente siamo chiamati all’unità e ad
un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione.
Innanzi tutto siamo chiamati a parlare delle nostre scelte con gli altri con i
quali ci sentiamo di dover essere in comunione.
Mancano però di solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta
nel proprio gruppo separato.
Ma non
è detto che poi, parlando, discutendo, si arrivi effettivamente a
deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di laicità che ci vengono
consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio in questo senso:
arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise. Bisogna riconoscere
però che il metodo democratico, che si è ampiamente affermato nelle società
civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato nella nostra Chiesa, che,
del resto, protesta orgogliosamente la propria a-democraticità. Insomma, la
piena comunione ecclesiale è ancora di là da venire, mi pare.
Uno dei luoghi in cui essa potrebbe
manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la quale appunto
non ha le caratterizzazioni forti di altri gruppi e pratica il metodo
democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a
convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il
proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni
ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità
parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
Se però guardiamo alla nostra realtà di gruppo
vediamo che quel traguardo è molto lontano dall’essere realizzato. In realtà è
in forse la nostra sopravvivenza associativa, se non riusciremo ad attrarre
forze nuove nel nostro lavoro. Eppure esso sarebbe ancora importante nella
Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia
è ancora un problema. C’è ancora un contributo che potremmo dare alla
crescita dell’insieme e, purtroppo, non ci sono altre organizzazioni che si
occupano di fare il lavoro al quale storicamente l’Azione Cattolica si è
impegnata, che possiamo sintetizzare efficacemente nell’idea
dell’evangelizzazione come promozione umana e della promozione umana come
evangelizzazione.
*********************************************
53
Scrutare i segni dei tempi
(15
gennaio 2013)
Dalla
Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965):
Pertanto il santo Concilio,
proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui
di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al
fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale
vocazione.
Nessuna ambizione terrena
spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello
Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a
rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e
non ad essere servito.
LA
CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO CONTEMPORANEO
4.
Speranze e angosce.
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche. Bisogna
infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono
delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della
sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente
si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e
dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi
giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e
d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i
cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione
reca con sé non lievi difficoltà.
L’Azione Cattolica è particolarmente impegnata
non solo ad attuare i deliberati del
Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne
tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei
laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già
si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo
nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare
ciò che si debba fare nel dopo Concilio.
Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha
nostalgia della Chiesa-di-prima,
anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in
particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al
mondo in cui i cristiani vivono, a ciò
che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in
particolare la seconda questione.
Riassumendo molto, le posizioni che
prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle piuttosto fiduciose
nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo in vari campi, in
particolare in quelli della scienza e della tecnica e della politica. Si aveva
la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano producendosi e si
capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli aspetti religiosi
della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi in un tempo di
crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui risultati di questo
processo. Nel brano della Gaudium et spes
che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi
di crescenza con riferimento ad esso. Si volle quindi aprire gli occhi e il cuore a quello che accadeva nel mondo, per
capirne le opportunità religiose di bene. Si usò a questo proposito
l’espressione evangelica scrutare i segni
dei tempi, parlandone come di un dovere
permanente per la Chiesa: anch’essa
la troviamo nel brano che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che,
storicamente, questa può essere considerata una novità rispetto alle posizioni
precedenti del magistero. E giunse in un
tempo in cui ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce
per le visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si
faceva propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta
guerra fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi
politici dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che
tuttavia non esplodeva in una conflitto
guerreggiato, in una nuova guerra
mondiale, per il timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi
effetti distruttivi di una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari.
Tuttavia bisogna ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era
anche nel tempo in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace
mondiale. Anche l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne
considerata da alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come
un segno provvidenziale. Dovettero però
passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello
mondiale divenissero infine realtà.
Fino al Settecento la Chiesa cattolica fu piuttosto integrata con il mondo in cui
viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente al modo in cui lo
erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i suoi capi o,
comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero, religiosi.
Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del popolo dei fedeli
generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i suoi signori delle
nazioni.
A partire dal Settecento la situazione mutò
rapidamente. Non furono tanto e non solo i fondamenti ideali del pensiero
religioso ad essere messi in questione, ma il potere temporale della Chiesa,
vale a dire la sua capacità di influenza sul mondo in cui viveva. Di fronte a
queste contestazioni, che poi vennero cristallizzandosi nei movimenti liberali
e socialisti, la Chiesa reagì con un moto di opposizione e di contrasto in
quasi tutto il mondo in cui la sua azione era consentita, con l’eccezione degli
Stati Uniti d’America per la particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di
quella entità statale, che aveva mantenuto saldi legami con fondamenti
religiosi cristiani. Questo modo di proporsi al mondo culminò in due momenti:
l’elencazione legislativa degli errori del tempo, contenuta nel documento
denominato Sillabo, allegato
all’enciclica Quanta Cura, promulgata
nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata
nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il
divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno
d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con
provvedimento della Penitenzieria
Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un
precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con
l’enciclica Graves de communi, promulgata
dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una
politica democratica cristiana.
Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose
anche la conclusione, nel 1929, dei Patti
Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia,
quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze
reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i
movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La
situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale,
sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione
del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici
cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione
nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato viene chiarito il senso
dell’espressione scrutare i segni dei
tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il
mondo in si vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso
drammatico.
La Chiesa nei secoli precedenti si era considerata e
dichiarata maestra di umanità, come ancora ritiene di essere.
Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia dalla propria
tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è proposta di avere
una visione più realistica del mondo fuori dello spazio liturgico, per capirlo
meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica competenza dei laici, i
quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del magistero. Possiamo notare, in
particolare, come questa concezione abbia molto influito sull’elaborazione
della dottrina sociale della Chiesa, in particolare dall’enciclica Populorum progressio, promulgata dal
papa Paolo 6° nel 1967.
La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei
deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori
artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi
anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea,
vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in
questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev
(1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo
delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo
religioso fortemente pessimistica sul
mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti
che idealmente agiscono come piccolo
resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti
negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del
cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta
ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità
di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un
cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri
aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la
tendenza si è di nuovo invertita.
Non che nella Chiesa cattolica non possano
avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno
sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa.
La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento
fortemente pluralistico, in cui da sempre
sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella
condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che
specificamente vengono denominati dogmi di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico
della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia
chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi
non solo con la modalità della testimonianza
di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire
articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere
condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione
culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che
comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della
pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
Capire il mondo è fatica, non nascondiamocelo.
Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una religiosità familiare che
richiama quella della loro infanzia, centrata prevalentemente sulle liturgie
parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma, devo dire, i più anziani del
nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano invece lo spirito indomito laicale
della loro gioventù e in questo a volte
sorprendono i più giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
Bisogna riconoscere che nell’opera di
comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è
ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a
diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro
gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come
spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro,
nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario,
ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso,
non c’è mai stato nel
*********************************************
54
Fede cristiana:
speranza credibile e onesta o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre
per Aldo Moro (13 maggio 1978 – San Giovanni in Laterano)
Ed ora le
nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra
rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il
“De profundis”, il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la
tragedia presente soffoca la nostra voce.
Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare il nostro lamento, se non
ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra
supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio,
innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito
immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per
lui, per lui.
Signore, ascoltaci!
Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non
sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora
intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in
questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il
programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita
sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà.
Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!
Signore, ascoltaci!
E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla
virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e
mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la
medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della
sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo
esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e
spirituale della diletta Nazione italiana!
Signore, ascoltaci!
Interrompo gli interventi sui temi del Concilio Vaticano 2° per
proporre una riflessione sulla base del dibattito che si è articolato nella riunione di martedì
scorso del nostro gruppo.
La fede religiosa ci salva dalla
sofferenza dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto
angosciati da ciò che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni
momenti della loro vita. Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6°
recitò nel corso della messa funebre per Aldo Moro, il presidente della
Democrazia Cristiana, suo amico personale, ucciso quattro giorni prima da
un’organizzazione terrorista di impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un
lungo sequestro di persona.
Una delle accuse più tremende rivolte
alla nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode,
che prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali
invece che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o
rinunciando a farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli
oppressori e aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto
di vista storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella
nostra spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.
Noi, da credenti, non ci
facciamo illusioni sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella
vita degli esseri umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla
via della fede, simile alla grossa pietra
rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata
dal papa Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa può essere uno dei modi per reagire alle
avversità, in alcuni casi essa può addirittura essere di impaccio sulla strada
della resistenza e allora ce se ne libera. Ma, di solito, quello che in certe
condizioni personali difficili si rifiuta non è la vera fede, ma una sua
approssimazione insufficiente, il fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare
le difficoltà che anche da credenti ben formati si incontrano in certe
condizioni di contrasto e di dolore. La nostra infatti è una fede religiosa
paradossale, che quindi non trova
definitive conferme nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se
la magnifica complessità della natura suggerisce l’idea di un disegno intelligente che si spera essere
anche amorevole, visto che l’amore
nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e l’incessante lotta di
questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo, per prevalere a spese
di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte. Per quanto poi ci si
ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che le cose, in
conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità interiore profonda
che noi troviamo il fondamento della nostra speranza religiosa, alla quale, per
quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va, sentiamo di non poter
rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle cose, quindi non
chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che tutto è bene.
Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore Bernanos usò nel
romanzo Diario di un curato di campagna (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con
tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita
umana, la nostra vita, merita di essere
vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo
meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che
è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che
sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine.
Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato
che tutti riescano ad arrivarci con facilità:
ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione
religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a
concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°: Non è
vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà.
*********************************************
55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19
gennaio 2013)
Dal decreto Apostolicam
Actuositatem (traduzione dal latino: L'attività
apostolica) sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
L'opera
di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini,
però abbraccia pure il rinnovamento di
tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della Chiesa non mira
soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare e perfezionare l'ordine temporale con lo
spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato
nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi
ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino,
che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una
creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del
tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il
laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli
uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.
In queste poche righe del decreto conciliare Apostolicam Actuositatem, del Concilio
Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi molto importanti e anche molto
controversi nella storia della nostra confessione religiosa.
Innanzi tutto, iniziamo a tradurre i termini
che vengono utilizzati nel documento, i quali, a loro volta, sono una
traduzione dal testo originale scritto in latino ecclesiastico moderno.
Che cosa è l'ordine
temporale? E' il mondo in cui viviamo, l'ambiente naturale e sociale.
Lo si distingue dall'ordine spirituale
che, nella terminologia teologica, è
quello della fede, in cui il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in
particolare, interagisce e dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due
ordini da sempre sono stati considerati distinti
per i cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo
secolo della nostra era, però anche legati.
Il cristianesimo nasce nella Palestina del
primo secolo, in un popolo di cultura e religione ebraica ma sotto occupazione
militare e politica romana. La situazione politica del tempo non era
tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui bisognava organizzare
una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di distinzione
origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema
dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per
la guerra ai romani, all'opposizione dura,
si deliberò di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio". Cesare era
l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo
appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire
ai doveri specificamente religiosi.
Nei primi secoli, quelli dell'opposizione e
della persecuzione, il modo della distinzione
prevalse. Poi il cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si
integrò nell'ordine politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a
porsi il problema del legame, vale a
dire dell'influenza dei principi religiosi, oggi diremmo dei valori, sull'ordinamento politico e
civile della società. Non è che, prima di allora, le società dominate
dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare l'errore di
considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante dei secoli
dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano, chiamiamo i pagani fossero atei. Tutto al
contrario, i pagani dell'ellenismo e
della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si spiegherebbe perché costruirono tutti quei
grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto
è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi
molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in
particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti
pensare al titolo di pontefice che si
dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
La dialettica, che ebbe storicamente anche
evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli imperatori, e i monarchi,
politici in genere, che si succedettero in Europa nelle nazioni divenute
cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione
e legame. Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere
delle monarchie assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di
proprietà ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia
politica autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che
l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione
religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas,
che significa papà), si era
instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come
succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie,
aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali
(un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano,
a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono
problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi.
L'accusa di papismo cattolico
ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati
Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy.
Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535),
importante ministro e consigliere del re
Enrico 8°.
Nella visione antica del legame tra temporale e spirituale,
pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare
un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era
considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di
idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come
gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,
con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo
costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento
politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di
confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad
arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano
emarginati.
Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale,
vale a dire della società civile, significò in genere, nelle nazioni europee
soggette a monarchie assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione. I primi a farla, in senso
moderno, furono i coloni britannici del Nord America, nel 1776. La Chiesa
cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia ufficiale tomistica c'erano
principi anche per decidere quando rivoltarsi a un sovrano ingiusto. Ma in
particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni
democratiche come quelle che portarono alla deposizione delle dinastie
regnanti con le quali aveva concluso accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo
talvolta ricevuti in Vaticano con onori particolari gli eredi di antiche
dinastie regnanti ormai senza più alcun potere.
L'assimilazione alle monarchie assolute iniziò
però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un certo momento in poi,
diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad esempio, cominciarono a
sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui, secondo un'antica tradizione,
dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che
reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in una sorta di turbante
dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in quello politico, re dei re.
E' chiaro che la prospettiva è molto diversa
nel brano della Apostolicam Actuositatem
che ho sopra citato. Qui l'idea di rinnovamento delle società civili è
addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo.
Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni di popolo. Ma anche
l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella di un tempo: essi
vengo denominati città degli uomini, espressione cara a Giuseppe Lazzati e
che richiama l'idea contemporanea di sovranità
popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in cui, con riferimento
all'idea di rinnovamento delle
società civili, sono tramontati i monarchi
e sono sorti i popoli.
La pace tra cielo e terra non è poi più
affidata ad un accordo condominiale
tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in
passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli
ordini di sovrani: la coscienza.
*********************************************
56
Democrazia,
difficile virtù
In religione si ha di solito difficoltà a pensare alla democrazia come
ad una virtù. In un certo senso la si subisce e perciò, quando se ne parla, si
cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue degenerazioni e, in definitiva,
si suggerisce di rimettersi al giudizio della gerarchia del clero,
un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura antidemocratica. E, infatti, si ripete abbastanza spesso che le
nostre collettività non sono delle
democrazie (ed in effetti così come sono organizzate non lo sono) e non si capisce che questo non
è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro problema, perché, appunto, la
democrazia è una virtù.
Considerando che tra il 1944 e il
1991 la democrazia è entrata anche nella dottrina sociale della Chiesa, nel
senso che la si considera una condotta politica virtuosa, dopo che, fin dagli
esordi dei processi democratici moderni, a fine Settecento, la si era
sostanzialmente assimilata all’eresia e condannata, bisognerebbe insegnare la
democrazia nella nostre collettività di fede, e soprattutto praticarla.
Democrazia non è solo la regola per cui la decisione comune è quella
maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di coscienza e di parola,
rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da un dibattito franco,
aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso i governati,
temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un particolare impegno a
quella che Ghandi (Mahatma - “grande
anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto
dire sempre la verità, perché noi non possediamo la verità e sempre la dobbiamo cercare come a
tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In
religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le
persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere
impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili
con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali
fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire gli altri secondo un certo nostro modello
promettendo la felicità.
Bisognerebbe fare scuola di democrazia a partire dai bambini della prima
iniziazione religiosa, quando scoprono l’amicizia. La democrazia ha molto a che
fare con l’amicizia, perché presuppone la condivisione di valori forti ancor
prima che inizino i processi decisionali. Questi valori sono appunto quelli
implicati nell’amicizia tra gli esseri umani, il riconoscersi reciprocamente
bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione relazionale che ci fa crescere,
come ci è stato spiegato nel primo incontro del ciclo Immìschiati sulla dottrina
sociale della Chiesa, per cui non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per
questo che la democrazia, prima di studiarla sui libri, occorre viverla e innanzi tutto scoprirla nelle relazioni
con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto,
imparare a non diffidarne.
*********************************************
57
Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°
I documenti del Concilio Vaticano
2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione religiosa e contengono
importanti disposizioni in materia di liturgia e di dottrina sociale. Le novità
più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni, quelle in materia di
liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente innovata.
Nell’Ottocento, quella che
consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà ne è storicamente l’ultima
propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni democratici che si venivano
manifestando in Europa, animati da spirito di libertà e di giustizia sociale.
Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in polemica, fin
dall’enciclica Le novità del papa Pecci del 1891, con il
liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora sopita, tanto che è
stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del ciclo Immischiati,
nella nostra parrocchia.
Durante il Concilio Vaticano 2° si
corresse il tiro. La libertà di coscienza del liberalismo e l’impegno per la
giustizia sociale del socialismo divennero virtù anche in senso religioso.
Nello stesso tempo si cercò di
avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più ampiamente l’uso delle
lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato un grosso ostacolo alla
formazione religiosa dei fedeli mediante la partecipazione alle azioni
liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà del papa Montini l’uso della
lingua nazionale divenne poi la forma normale delle liturgie con la
partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti monastici o della Curia
Vaticana e di altri ambienti particolari.
Per quanto riguarda il rito della
Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella Costituzione Il Sacro
Concilio:
48. Perciò
la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti
spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti
e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e
attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo
del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non
soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se
stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati
nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in
tutti.
La partecipazione attiva alla
liturgia era collegata all’impegno per la giustizia che si ritenne di
promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per infondervi i
principi religiosi, per ordinarla secondo Dio, come
venne scritto nella Costituzione Luce per le genti
n.31 Per
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose
temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici dovevano essere adeguatamente
preparati e la liturgia era un’occasione molto importante per farlo.
Il nuovo ruolo dei laici di fede
nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega perché negli anni
successivi venne accettata anche la democrazia come virtù politica e religiosa
insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle affermazioni teoriche, con
l’enciclica Il Centenario del papa Wojtyla, ma ancora in
corso nei suoi sviluppi pratici.
Nell’incontro Immìschiati sulla
persona è stato detto che la dottrina sociale non è una terza via tra
liberalismo e socialismo ed è vero. In realtà si tratta di una mediazione
culturale della nostra fede che recepisce, ibridandoli, principi liberali e
principi socialisti. Ne costituisce una sintesi, costruita per rendere
compatibili le loro principali istanze con la nostra fede religiosa. In
un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno sia libero di fare di sé
stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare, perché noi non siamo dei,
ma solo creature fragili. E’ questa è sicuramente la realtà.
Nell’Ottocento la via democratica
era ancora molto di là da venire in religione.
Il nazionalismo del Regno d’Italia
privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia centrale ed essi la presero
molto male.
Il Regno d’Italia era retto da un
sistema politico che integrava conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo e
liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però che di quest’ultimo poteva fare
a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere del contenzioso con il Papato si
presentava come uno stato democratico, anche se l’elettorato era piuttosto
selezionato, tra i soli uomini di un determinato censo o con un livello minimo
di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto sta che il Papato, nella
polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un movimento del popolo
minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un arrogante e presuntuoso ceto
politico irreligioso, tuttavia era ancora custode delle buone e antiche
tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente appartenenti ai ceti
colti, che cercavano una via per vivere attivamente le istituzioni
democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine Ottocento del
movimento politico della democrazia cristiana, e anche l’ideatore
del nome e del concetto di tale politica, e cercò di mantenere le
masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato, per utilizzarle come
strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato tolto con la guerra
del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di avere mantenuto
una sovranità sugli italiani. La prima dottrina sociale della
Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date da un sovrano, il Papa,
al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione all’elaborazione di quei
principi sociali, sebbene le encicliche sociali non siano mai state il frutto
di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre un lavoro collettivo, a
più mani, perché i Papi hanno una formazione prevalentemente teologica,
anche se, ad esempio, persone come Montini e Wojtyla si intendevano pure di
filosofia. La repressione dei ceti colti dei laici di fede determinò che la
religione apparisse cosa da incolti. In più, i fedeli erano indotti a non
partecipare alle elezioni politiche e così si trovavano nella stessa condizione
degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi a causa della loro condizione di
ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi del Novecento, che si cominciò,
faticosamente, a cercare di andare in altra direzione, dando una formazione ai
fedeli laici, ed anche alle donne dal primo dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata
per essere un più docile strumento alla politica papale in Italia rispetto alla
rissosa Opera dei Congressi, indotta a sciogliersi d’autorità nel momento di
più acceso scontro tra intransigenti (contrari alla
partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,
divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle
organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato
con il regime fascista, che consentì di chiudere la questione
romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione
della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file
dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo
la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre).
L’ideologia di questi politici democratici cristiani fu
modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla.
Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo
inserirono nella loro nuova dottrina sociale.
Ecco ad esempio che cosa si
legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da parte loro,
riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa;
si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro
degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di
azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria
iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le
iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino
e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti
tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in
questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità,
ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate
all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono
giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali;
e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore
efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Sia nella liturgia che nelle cose
sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo Concilio fu quello di
promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la dottrina sociale non
furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di tutti richiede di
fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto indietro.
Da un lato la gerarchia del clero
diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto dell’apostasia e
bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo è il tremendo
verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi di vita
buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che cercano di
imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con la forza
del numero o della loro veemenza.
In particolare si ha sempre
difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e religioso dei nostri
tempi.
Le cose si sono molto complicate
nella società italiana di oggi. Per molti italiani è impossibile tornare a
una fede religiosa che non è mai stata quella della loro tradizione, perché
provengono dall’ortodossia orientale e da altre confessioni cristiane,
dall’islamismo, dall’induismo, dal buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il
maggior livello di istruzione della gente, raggiunto per merito del sistema
scolastico pubblico, ha comportato che su molte questioni di
coscienza non si sia più disposti all’obbedienza acritica.
Nessuno in genere, neanche le donne che in passato sono state le fedeli
più docili, è più disposto adabitare ambienti
sociali in cui gli è vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre
certe umiliazioni non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora
talvolta colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i
fedeli considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
Così, ad esempio, si è
insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi liturgici, come la
Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e infarcita della
simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione di tutti e la
comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si pongono tanti
problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
La partecipazione attiva nella
società del nostro tempo richiede la democrazia, e innanzi tutto il rispetto
degli altri, perché ci troviamo a vivere in un contesto sempre più
pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto diversi punti di vista,
è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai tempi nostri, può sapere
tutto di tutto, salvo che in settori superspecialistici, ma per questo sempre
più limitati. Come scrisse Pierre Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note
di catechismo per ignoranti colti, Mondadori, non più in commercio) al più
riusciamo ad essere ignoranti colti. Insieme ci sforziamo di
superare i nostri limiti individuali. La sapienza degli altri ci arricchisce e
viceversa. Confrontando le conoscenze e le opinioni, le correggiamo. E’
questo che si fa nel dialogo: ci si mette in relazione gli uni con gli altri,
chiarendosi. Questo è l’inizio della democrazia.
*********************************************
58
Convincersi della democrazia
Ho imparato la democrazia in FUCI,
tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del
secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati due grandi esponenti
del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in fondatori della nostra
nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i principali artefici di varie
fasi di rinnovamento della democrazia italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio
Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione Cattolica, ucciso nel 1980.
Divenne evidente il carattere antidemocratico dei moti insurrezionali
dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste: la democrazia
italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo, lentamente,
nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire quelli che
vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di Roberto
Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A quei tempi
egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.
Di fronte al pericolo, si
ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni negli altri,
questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di duri conflitti
sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici, ma non avrebbe
avuto successo senza questa nuova situazione nella società italiana.
La FUCI storicamente è stato
l’ambiente sociale della nostra fede che più si è dedicato, fin dalle
origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine Ottocento, qui a
Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri, prete e
attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era ancora
vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una
generica azione sociale.
Quello degli universitari è un
mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in cui si studia
all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il bisogno degli
altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può stare in
manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola libreria
domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari, e più lo
si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più limitati
della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una persona di
cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati in altri
settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro. Bisogna, in
questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i risultati della
propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico, e anche per
capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più si capisce
quanto non si sa. Sapere di non sapere venne considerato da un
antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è anche il sapere, il
rendersi conto, di ciò che non si sa, quindi uscire dal
generico e individuare bene i propri limiti, per capire che cosa occorre, quale
collaborazione cerare, per andare avanti. E' in quel momento che si comincia a
ricercare chi possa aiutare a superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre
alla ricerca (Ricerca è la rivista dei fucini). Nel momento
in cui si capisce di avere bisogno degli altri per superare i propri
limiti nasce anche la democrazia. Infatti per interagire con gli altri occorre
creare il contesto giusto, praticare un certo metodo.
Non si può praticare la democrazia
quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è convinti che gli altri non
solo non servono, ma costituiscono anche un pericolo, o comunque un fastidio,
perché tendono a mettere in dubbio certe sicurezze. Allora si cerca di imporre
agli altri la propria visione, così come avviene certe volte nelle riunioni
condominiali, e si finisce per litigare inutilmente: la cosa comune poi ne
risente, si deteriora, perché non c’è accordo su come farne la manutenzione.
L’incapacità di democrazia degrada la società, che richiede un lavoro comune
per sostenersi, e innanzi tutto un impegno, di molti. Fino al Settecento la
democrazia veniva considerata in religione, ma sulla base di un antico pensiero
greco, una forma di disordine e di allontanamento dalla verità. La democrazia,
come oggi la intendiamo, nel senso di potere di tutti, ha invece
bisogno di ordine, di chiarezza, e anche di fiducia reciproca e
di rispetto.
All’origine della democrazia c’è
l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la democrazia come una forma
di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno dell’aiuto degli altri ed
essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene di tutti, irraggiungibile
senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare ma anche essere
rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici. Questo
collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a
collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che
definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al
termine del greco antico agàpe, vale a dire a un lieto
convito in cui ce n’è per tutti.
Se la democrazia è una forma di
amicizia, si capisce come non si possa praticarla veramente per via telematica.
Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare esperienza concreta gli uni degli
altri. In questo incontro ci si svela e si possono avere sorprese piacevoli e
spiacevoli, ma comunque in genere si hanno sorprese. Finché gli altri rimangono
una linea di caratteri sul video servono a poco. D’altra parte conoscerli
veramente è impegnativo, in tutti i sensi: richiede uno sforzo, una pazienza
nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica, un tempo da trascorrere insieme.
E’ così che però si costruisce la società, si creano legami duraturi.
Se lo stare insieme dipende solo
dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale, politico, religioso e
via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo con il punto di
riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco perché l’ingenuo
attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a poco sia per
formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.
Certe volte ci si incontra, in
religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli altri le parole
d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve? Si rimane
estranei come prima, con in più molto risentimento.
Un universitario per la prima
volta nella sua vita viene posto di fronte alla realtà così com’è veramente, ed
essa è complessa. Tutte le semplificazioni degli studi precedenti si rivelano
ciò che sono, vale a dire, appunto, semplificazioni, una base di partenza.
Scopre che ci sono molte interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte,
anche perché è in movimento, evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche
parte, ed evolve anch’essa. Questo è vero anche per tutte le verità, comprese
quelle ritenute fondamentali, della nostra fede. E’ per questo che si scrive
tanto di teologia. Se tutto fosse così semplice come talvolta viene presentato,
non servirebbe.
Il primo passo per affrontare il
pensiero sociale della nostra fede è il convincersi della democrazia, perché
questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla dottrina sociale nel
corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per influire nelle società
pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi i grandi principi
ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è possibile dominare
culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso,
un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la
democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività
religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in
circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così,
perché la democrazia è per tutti, ed è solo così che è
veramente efficace.
*********************************************
59
Democrazia
dei cristiani, democrazia di tutti
(30-3-16)
[dal libro: Pietro Scoppola, La
democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico nell’Italia unita -
intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, 2005, €10,00, disponibile in
commercio]
Domanda: Ma ci sarà un ruolo
significativo per i cattolici nella vita politica italiana di domani?
SCOPPOLA: Certamente, anche se sarà
diverso da quello che svolsero in passato, al momento dell’Unità d’Italia nel
1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e mortificati proprio
perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43, quando assunsero la
responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato verso la libertà e lo
sviluppo.
Il loro futuro sarà di sostenere
la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di una profonda ispirazione
etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri credenti, alla migliore
tradizione laica e alle tradizioni popolari delle sinistre europee, ma ancora
una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.
La Democrazia cristiana è stato il
partito dei cattolici italiani, l’espressione più riuscita della loro maggiore
età politica, lo strumento del loro enorme potere e insieme della loro crisi,
come sempre accade nella storia umana.
Ma oggi il problema è la
democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico italiano si
misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la Democrazia
Cristiana per un proprio partito esclusivo, e di lavorare piuttosto per
la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).
*******************************************************
Quand’è che si entra veramente in
società? Un primo momento importante è quando si trova un lavoro stabile.
L’altro è quando si forma un famiglia coniugale, basata su un rapporto
d’amore coniugale, più stabile perché si pensa anche a dei figli. In genere, ai
tempi nostri, ci si arriva intorno ai trent’anni.
E quand’è che si hanno le prime
esperienze veramente sociali, al di fuori della famiglia, nella società
generale, che di solito coincidono con la scoperta dell’amore sessuale,
la base della famiglia coniugale? Per me è accaduto al terzo anno delle
superiori, a sedici anni.
I trentenni di oggi hanno compiuto
sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da cui ho tratto la citazione sopra
trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un testo da universitari. I
trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le mani appena pubblicato.
Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, finito
dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario della metà del primo
decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale esperienza, anche se era
citata in un capitolo o due dei libri di storia per le superiori.
Un trentenne di oggi, allora,
potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto tra le mani quel testo di
Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i cattolici abbiano vissuto
sotto il dominio dei laici, intesi come gli irreligiosi, i non credenti. Invece
i cattolici, dal 1946, hanno dominato la politica italiana, ininterrottamente
sino ad oggi, prima con lo strumento di un partito e poi, dalla metà degli anni
’90, mediante un’azione di pressione politica attuata direttamente dalla Conferenza
Episcopale Italiana per il tramite di gruppi di pressione transpartitici.
Di solito si ricordano le leggi
sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria della gravidanza (1978) come
casi di sconfitta delle posizioni politiche dei cattolici. Sono stati gli unici
due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia della Repubblica democratica. E in
realtà non si trattava di una sconfitta dei cattolici, perché si
trattò di leggi ampiamente condivise dai cattolici, come dimostrarono i
successivi referendum promossi su di esse, ma di una sconfitta della politica
della gerarchia cattolica.
Un terzo caso simile potrebbe
darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle persone omosessuali e
sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione. L’azione di interdizione
politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora impedito l’approvazione di
qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo vaglio di costituzionalità,
che aveva travolto la legge sulla fecondazione assistita del 2004, pesantemente
condizionata dall’azione politica della gerarchia cattolica. Anche nel caso
delle unioni civili omossessuali e delle unioni di fatto i sondaggi evidenziano
un ampio consenso della maggioranza degli italiani, cattolici compresi. Se la
legge fosse approvata, e non è ancora sicuro che lo sia, e si andasse ad un
referendum, probabilmente sarebbe democraticamente confermata dalle urne.
Tutto il resto della politica
italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito con il contributo
determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro volontà, ispirata
in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare a
quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si attenuò molto
l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata dalla fine
dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del pensiero laicale
in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia e la sociologia.
L’idea di trovarsi in uno
stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa. Ecco perché Scoppola
parlò del partito dei cattolici come lo «strumento del
loro enorme potere».
Il potere dei cattolici italiani
raggiunse il suo massimo livello nel regime democratico post-fascista. Fu
sorretto da un’ideologia originale, riconducibile al pensiero di politici
come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, che colmava
le grandi lacune della dottrina sociale in materia di democrazia. Quest’ultima
fu accettata pienamente dalla gerarchia cattolica solo con l’enciclica Il
Centenario, del 1991, del papa Wojtyla. Ma nei testi della
dottrina sociale la democrazia non viene trattata in dettaglio. La si presenta
genericamente come una forma di potere del popolo che richiede partecipazione.
Ma come si debba partecipare non è precisato. In genere si è molto attenti a
fissarne dei limiti nei confronti della gerarchia del clero e in materia di
trasformazioni sociali. La gerarchia, in genere, diffida del popolo; e
spesso non comprende bene la vita della gente, i suoi problemi, le sue
aspirazioni. Vive in un universo autoreferenziale. E poi sente il pensiero
democratico come un pericolo per il suo stesso potere, perché essa non è
organizzata democraticamente e addirittura se ne vanta, non vuole esserlo (ma
le spiegazioni che dà in merito non sono molto convincenti). Questo spiega
anche perché il tirocinio democratico non rientra in genere tra le esperienze
che vengono proposte ai fedeli nelle collettività di base. Lo si pratica, ad
esempio, nei circoli intellettuali della FUCI e del MEIC, due movimenti
scaturiti dall’Azione Cattolica che in questo si sono particolarmente
specializzati.
In realtà la democrazia, come ai
tempi nostri la intendiamo, è una forma di governo delle società umane molto
particolare, perché è strettamente legata alla giustizia, la comprende al suo
interno. Nelle altre forme di potere essa può essere al più un orientamento
morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno: in quei casi la legge suprema del
potere è il potere stesso, il mantenimento del potere, e di fronte ad essa la
giustizia recede. Viene praticata se e nella misura in cui serve al
mantenimento del potere, alla creazione di un consenso sociale, al mantenimento
della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti, invece, vive della
giustizia, perché non si può governare tutti senza
essere giusti, senza riconoscere a tutti la
medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della
felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non
democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di
giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere
umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere
giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale,
oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo
non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa.
Questo crea qualche problema alla dottrina sociale, intesa
come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della
democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una
conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei
nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia.
Questo rende ancora difficile, talvolta, spiegare teologicamente come
una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella
collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e
il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste
difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa,
fondata su democrazia e giustizia sociale.
Io che ho fatto il liceo ai
tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, o
il partito cristiano come lo definì un altro fine
intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a capire
come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da
esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi
dovrebbe forse ripartire da capo.
Innanzi tutto occorre fare
realisticamente i conti con la storia. Respingere certe interessate
falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i cattolici
vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti sotto il
regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è stata
costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel mondo
cattolico, ed è innanzi tutto crisi del pensiero democratico espresso
dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una
particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica. Tutto
questo è necessario in
politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte,
in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo
può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei
Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i
testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale
<www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno
sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,
il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del
papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015, del
papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi,
per poi approfondire ulteriormente. In questo tempo di sviluppo della
dottrina sociale, le novità dei tempi hanno inciso
moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi
come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa
realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina
sociale che è rimasta, appunto, una dottrina,
vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale
pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana.
Questa realtà normativa è poco adatta al pensiero
sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e
sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.
Non so quanti sarebbero disposti,
ad esempio, a condividere questa affermazione, riportata nel Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, n. 227, riprendendo pronunce del papa
Wojtyla:
“Le unioni di fatto, il cui
numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa concezione della
libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del tutto privatistica
del matrimonio e della famiglia”.
Questa sentenza non corrisponde a
ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche inutilmente insultante verso chi
ha realizzato unioni coniugali non formalizzate in un matrimonio, religioso o
civile, ma comunque stabili e feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia a
quelle unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è
uscita da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale.
E' stato scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste
sociali.
Alla democrazia è essenziale un
pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente, vale a dire nel
libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non si possono fare
progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi in
politica lascia, allora, un po’ il tempo che trova, come si dice.
O si vorrebbe che la gente,
imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse ad essere il braccio
secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in politica, secondo il
progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo l’esperienza di politica
democratica della Democrazia Cristiana volle superare.
Come persone di fede non possediamo la
verità, ogni soluzione giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni
devono essere ricercate nel confronto democratico, in quella che Scoppola
definiva la democrazia di tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava
come di Omnicrazia, che significa la stessa cosa, e la vedeva attuata
attraverso Centri di orientamento, in cui capire e scegliere nel
confronto e dialogo democratici.
*********************************************
60
Nella grande politica
(6-6-16)
Incollo di seguito il testo di un
discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a magistrati convocati a
Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle scienze. In esso ha
ripreso il tema della necessità di immischiarsi nella
politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della
necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra
natura.
I primi commentatori delle parole
di Bergoglio hanno notato il riferimento alla "grande" politica più
che quello alla libertà dei giudici. Entrambi però sono importanti e connessi e
rappresentano delle novità nell'ideologia proposta negli ultimi anni alle
collettività di fede che riconoscono l'autorità religiosa del vescovo di Roma.
Più o meno dal Sesto secolo della
nostra era la Chiesa cattolica come complesso di istituzioni è stata uno dei
più importanti attori politici europei; questo in particolare a partire dal
secondo millennio, da quando si è costituita come un impero religioso ad
ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in politica", e in
quella "grande". Dove sta la novità?
La novità sta nel fatto che nelle
parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo ne ha rifiutati i
segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia romana dei
pontefici.
Ci sono i popoli e ci sono delle
esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze da lenire, ci sono delle
vittime a cui dedicare "grande attenzione". C'è un ordine sociale da
cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che viene evocato come una
"buona onda", "dall'alto in basso e viceversa, dalla periferia
al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità e dai popoli e
dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli dirigenziali", dove quei
"viceversa" sono molto importanti, perché in passato non se ne faceva
conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in basso e dal centro alla periferia.
In quest'ottica sembra quasi che
dal giudice si pretenda molto di più di quello che egli è autorizzato a fare,
anche negli ordinamenti di tipo democratico: qualcosa che pare una rivoluzione
sociale, da fare agendo insieme, in comunità, per "aprire brecce, vie
nuove di giustizia". E' perché Bergoglio, prendendo lo spunto dall’udienza
a quei magistrati, sembra aver considerato il giudice come un modello di
cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti a
farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando
i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,
avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato"
che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della
società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la
Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più
potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non
hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare un
nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a
qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi
essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione
dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre. Può liberare forze
potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più
importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o
semi-liquido.
Venendo veramente da un altro
mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a cavallo tra gli anni
Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica per la riforma
sociale, presentata come dovere religioso: " Prendere sul serio
la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale
- significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la
realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per
cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione,
dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento "L'80°
Anniversario"].
"Giustizia, libertà, azione
collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione se ne riprende a
parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento. Un capo
religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna
riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse
sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare,
tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per
l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma
anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi.
“La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho
sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà
della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini”
tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto
dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma
impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla
luce della fede che rende esigente l’impegno politico come
valore anche religioso.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
INTERVENTO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]
Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016
Buonasera.
Vi saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra
collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, di cui la
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è capace.
Se mi
rallegro di tale contributo e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione
del nobile servizio che potete offrire all’umanità, approfondendo sia la
conoscenza di questo fenomeno così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo
globalizzato e le sue forme estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida,
cercando di migliorare le condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più
bisognosi. Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale
l’adagio dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in
politica; la Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo
VI — la politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la
Chiesa è anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano
le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali
sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in
cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra
specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel
corso degli ultimi anni non sono mancate importanti attività della Pontificia
Accademia delle Scienze Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente,
del Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che
ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e
donne di oggi e, in particolare, attività volte a sradicare la tratta e il
traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione,
il traffico di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha
detto il mio predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in
diverse occasioni, questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono
essere riconosciuti come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e
plasmati nelle leggi nazionali e internazionali.
L’incontro con i
leader religiosi delle principali religioni che oggi
influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli
amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo,
il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di
perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo
particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei
giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che
l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di
considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione
illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere
radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare
una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo
divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del
passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua
incidenza.
Ora,
ispirata dagli stessi aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici
ministeri di tutto il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello
sradicamento della tratta, del traffico di persone e della criminalità
organizzata. Siete venuti qui in rappresentanza dei vostri colleghi con il
lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di tali flagelli e,
di conseguenza, di rendere manifesta la vostra insostituibile missione dinanzi
alle nuove sfide che ci pone la globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo
alla crescente richiesta della società e nel rispetto delle leggi nazionali e
internazionali. Farsi carico della propria vocazione significa anche sentirsi e
proclamarsi liberi. Giudici e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle
pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi
dalle “strutture di peccato” di cui parla il mio predecessore san Giovanni
Paolo II, in particolare della “struttura di peccato”, liberi dal crimine
organizzato. So che subite pressioni, subite minacce in tutto questo; e so
anche che oggi essere giudici, essere pubblici ministeri, significa rischiare
la pelle, e ciò merita un riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono
continuare a essere liberi nell’esercizio della propria funzione giuridica.
Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina
corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no?
La giustizia con gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la
bocca.
Fortunatamente,
per l’attuazione di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano,
cioè liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che
l’Accademia realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare
sull’importante e decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore
consapevolezza di ciò, una forte consapevolezza. Sono lieto che i
rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i
nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e integrale, in particolare il numero
8.7, che recita: «Adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro
forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri
umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro
infantile, inclusi il reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi
entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui
la Risoluzione. Si può ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un
imperativo morale per tutti i Paesi membri dell’ONU.
Perciò
occorre generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci
l’intera società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e
viceversa, dai leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica
fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come
hanno già fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici
prendano piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria
responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone
pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che
agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della
promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della
felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria,
potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo
alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere
sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si
riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va
recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la
figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato
prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa
tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché
lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo
processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà
interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza,
che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti,
accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di
liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a
trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non
è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una
società di popolo.
L’Accademia,
convocando i giudici, aspira solo a collaborare in base alle proprie
possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle
nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono
mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno
collaborato attivamente con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice.
Gli ambasciatori che non hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati
le mani o che hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla
prossima riunione.
Chiedo
ai giudici di realizzare la propria vocazione e missione essenziale: stabilire
la giustizia senza la quale non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale,
e neanche pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo
odierno è la corruzione a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo,
debilita la democrazia partecipativa e l’attività della giustizia. A voi
giudici spetta fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare
giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò
e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela
delle corruzioni.
Quando
diciamo “fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si debba
cercare il castigo di per sé, ma che, quando si comminano pene, queste siano
date per la rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa dare loro
una speranza di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza
speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà luogo alla speranza è una
tortura, non è una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente la
posizione della Chiesa contro la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo
che nella concezione della teologia medievale e post-medievale la pena di morte
conteneva la speranza: «li affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è
più così. Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento... La speranza del
reinserimento nella società: “neppure l’omicida perde la sua dignità personale
e Dio stesso se ne fa garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae,
n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in
fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini
contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale
soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più
passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella
trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più
intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a
ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da
pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del
lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.
I
giudici sono chiamati oggi più che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni
delle vittime. Sono loro le prime a dover essere riabilitate e reintegrate
nella società, e per loro si devono perseguire in una lotta senza quartiere
trafficanti e carniferos, i carnefici. Non vale il vecchio adagio:
«Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le vittime possono cambiare e di
fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei buoni giudici, delle persone
che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non poche di queste
persone sono uomini e donne avvocati e politici, scrittori brillanti o hanno
incarichi di successo per servire in modo valido il bene comune. Sappiamo
quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di parlare del suo essere
vittima come di un passato che ha superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto
o, per meglio dire, una persona con qualità di vita, con dignità recuperata e
libertà assunta. Riguardo a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare
un’esperienza empirica. Mi piace, quando vado in una città, visitare il
carcere. Ne ho visitati diversi. È curioso, senza voler offendere nessuno, ma
la mia impressione generale è stata che le carceri in cui il direttore è una
donna vanno meglio di quelle in cui il direttore è un uomo. Questo non è
femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo al tema del reinserimento, un
olfatto speciale, un tatto speciale che, senza perdere energie, per ricollocare
queste persone, per reinserirle. Alcuni lo attribuiscono alla radice della
maternità. Ma è curioso, lo dico come esperienza personale, vale la pena
rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta percentuale di carceri dirette da
donne, molte donne, giovani, rispettate e che sanno trattare con i detenuti.
Un’altra mia esperienza personale è che alle udienze del mercoledì non è raro
che partecipi un gruppo di detenuti — di una o l’altra prigione — portati dal
direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono tutti gesti di reinserimento.
Voi
siete chiamati a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che
insistentemente chiede giustizia (Lc 18, 1-8) alle vittime di oggi,
tutte alimentano un anelito di giustizia, come speranza che l’ingiustizia che
attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.
A
volte può essere di giovamento applicare, secondo modalità proprie di ciascun
paese, di ogni continente, di ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di
recuperare i beni criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti,
per offrirli alla società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime.
La riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre
realmente possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla
comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la
sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una
crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se
c’è una cosa che attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo del
giudizio divino con cui tutti saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo
(cap. 25), è il tema della giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di
giustizia, beati quelli che soffrono per la giustizia, beati quelli che
piangono, beati i miti, beati gli operatori di pace, benedetti dal Padre mio
quelli che trattano il più bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me
stesso». Essi o esse — e qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici —
avranno la ricompensa più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e
saranno figli di Dio, vedranno Dio, e gioiranno eternamente insieme al Padre.
In
tale spirito oso chiedere ai giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici
di continuare la loro opera e realizzare, nei limiti delle loro possibilità e
con l’aiuto della grazia, le felici iniziative che onorano il loro servizio alle
persone e al bene comune. Grazie!
*********************************************
61
Il partito del Papa
Con l’enciclica Laudato
si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha diffuso un progetto integrato di
riforma della società contemporanea, un vero e proprio manifesto politico. Esso
deve essere discusso democraticamente, ma proprio per la fonte da cui proviene
è difficile farlo in religione, e al di fuori dei contesti religiosi non lo si
fa perché non interessa. Infatti il partito del Papa non
ha seguito in Italia. Il nostro è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato
dominato da un artito cristiano ed è stato impressionante
constatare che nelle ultime elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti
che le animavano si è richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha
affrontato il tema di Roma come città della fede, e questo nonostante il
Giubileo in corso. Nessuno si è richiamato ai temi politici della Laudato
si’, che probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e
anche laddove è conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto
specificamente politico. Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura
pontificia, si sia considerato distrattamente un documento in cui invece ogni
parola è importante perché segna un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove
opportunità. Si dà uno sguardo ai titoli, si legge qualche brano scelto
traendolo dai commentatori, e poi si aspetta il prossimo documento, che
infatti è venuto con l’esortazione Letizia dell’amore.
Fare politica
ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si
sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene
sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come
una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita,
sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Achille Ratti - Pio
11°, il Papa dei Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai
dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono
riuscito a trovare uno stralcio sul WEB:
“I
giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna
politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono
a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande politica,
quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis,
della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a
cui devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi
comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto
più vasto e importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso
è il lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli
interessi di tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più
vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire
null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.
È con questo intendimento che i
cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i
suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere
un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per
natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune,
sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.”
In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli
che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi.
Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in
religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena
responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica di
Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:
“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E
forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto
incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per
gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o
piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti
erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e
venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta
pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti,
siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere
un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo
tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che
crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”
Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo
Anniversario[della prima enciclica sociale Le novità, del
1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:
"Significato dell’azione politica
46 […]È vero che sotto il
termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere chiarite;
ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che
internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.
Questo,
in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del
corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso
agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui, delle famiglie e
dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio di tutti,
le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell'uomo, ivi
compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della sua competenza,
che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e interviene sempre
nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene comune, di cui ha
la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d'azione e le
responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi concorrono
alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni intervento
in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già di
distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il
potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per
considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di
tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la
politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale -
significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà
concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di
realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La
politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni
problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua
sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente,
tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur
riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani,
sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere
una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a
un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva
della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e
disinteressato agli uomini."
Che cosa c’è di diverso tra il
pensiero del Sarto e quello del Montini sulla politica? C’è la democrazia, che
significa anche considerare la politica non come inevitabile sviluppo di interessi
particolari, ma come servizio efficiente e
disinteressato per realizzare insieme il bene della
città, della nazione, dell'umanità. E c’è la mediazione,
che significa concepire la politica come ricerca insieme
ad altri, in un clima di pluralismo.
Esercitare il potere in modo
insieme democratico e conforme allo spirito evangelico non è innato nei
fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio. Negli anni
’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in cui in
Italia fiorirono tante scuole di politica. Ma poi
emerse il pluralismo della politica e si lasciò perdere. Si
riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni bui dell’intransigentismo ottocentesco,
quelli della polemica durissima con il liberalismo democratico, che ancora
risalta moltissimo nelle parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è
persa una tradizione di impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea
solo sui libri. Quindi poi la rinnovata esortazione all’impegno politico
democratico di Bergoglio cade nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto
agli orientamenti politici della Laudato sì,
la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni francamente
di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su migranti ed
emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a scapito di
qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare più
tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e
di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per
preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali
e dell’edilizia intensiva.
Ad essere cittadini di una
democrazia avanzata si impara e se la politica democratica ha un valore anche
religioso si tratta di un lavoro che deve essere impostato anche negli ambienti
di fede, come una parrocchia. Si inizia con un tirocinio, con fare esperienza
di democrazia negli affari minuti, nella gestione di un gruppo, di un servizio,
rifuggendo e contrastando il cesarismo dei capi. Poi ci
si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che costa fatica,
perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo tempo, tutte
le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in disuso, a
cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di legittimazione
democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare quando si
svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle stesse
persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno ben
chiaro a che titolo vi partecipino.
*********************************************
62
Fede e politica: una
relazione essenziale
[da: Ludwig Hertling, Storia
della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad opera del
cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag, Berlin,
1967)]
La nuova serie di papi sotto
l’influenza degli imperatori
Ottone I (1°) [912-973, duca di
Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 962] e suo
figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore
del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto, erano intervenuti
nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza ottenere veri
risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo Ottone [Ottone
III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania, imperatore del Sacro
Romano Impero dal 996], il quale personalmente non possedeva la qualità
dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma deve avergli giovato
il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno alla corona imperiale
per merito di suo padre e di suo nonno.
Gregorio V e Silvestro II
Quando nell’anno 996 morì Giovanni
XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio verso Roma. I romani lo
pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III contava allora 16 anni, era
profondamente religioso, essendo stato educato dai migliori maestri del
tempo, ed inoltre era un idealista entusiasta che sognava gli splendori
dell’antico Impero romano. Egli designò come papa il suo cappellano di corte,
che era anche un suo parente, Brunone. Questi, a sua volta molto giovane,
perché contava solo 24 anni, in fatto di idealismo non la cedeva
all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio V (5°),
ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai promettente. Dopo
di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro Gerberto. Gerberto, un
francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era molto ammirato per la
sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha fatto un mago. Non
meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro II (2°),
era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un lungo tempo la
Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro
istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente cristiana
e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli ungari con
la metropoli di Gran, A colui che era stato fino allora il duca degli
ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.
Il nuovo predominio dei signori di
Tuscolo
Dopo la morte prematura dell’imperatore
Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente un conflitto tra i conti di
Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V avevano tentato di
suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un antipapa. Ma il nuovo
imperatore Enrico II (2°) fece accettare ai romani il legittimo
pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della famiglia di
Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due città vinsero i
saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani. Nel 1020 il
papa si recò in Germania e consacrò il duomo di Bamberga, fatto erigere
da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in Pavia, in cui il
celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero promulgati fin d’allora
decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli ordini sacri in cambio
di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia si vennero un po’ alla
volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal sistema delle chiese di
proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della Chiesa dai signori
feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta delle investiture.
I conti di Tuscolo tornarono a
essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il fratello di Benedetto VIII,
Alberico, governava la città col titolo di console. Dopo la morte di Benedetto
VIII, un terzo fratello divenne papa col nome di Giovanni XIX (19°).
Questi incoronò imperatore Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re
Rodolfo III (3°) di Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al
resto, egli non si occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°)
di Bisanzio gli profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al
patriarca di Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi
precedenti gli avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma
dovette rinunciarvi a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i
monaci cluniacensi (federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di
Cluny, in Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di
Tuscolo, che voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei
suoi membri, impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto.
Il ragazzo, che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato
dopo poco tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse,
dal momento che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra
volta, egli ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete
di San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole
pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal
partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro
III (3°).
Intervento di Enrico III (3°)
Giovanni Graziano aveva agito con
le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver ora accettato egli stesso
l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°), come egli si
chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli ecclesiastici più
rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma poiché uno dei
principali punti del programma di riforma si riferiva alla simonia, e cioè al
commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno un’imperfezione che
il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo scopo di farlo
abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua abdicazione e
ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro III. In questo
ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere d’aiuto. Enrico
III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia. Egli tenne un
sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto IX, che già
aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo papa, furono
definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare volontariamente
il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma, l’imperatore lo
prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane chierico romano,
Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo storico di grande
importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.
L’imperatore sembrava l’unica
personalità in grado di ristabilire l’ordine, tanto che tutti furono d’accordo
che fosse lui stesso a nominare i papi seguenti. I suoi due primi papi, Clemente
II (2°), precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II,
vescovo di Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo
tempo dopo la loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di
Toul. Il nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione
regolare da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa
città, prese con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di
Gregorio VI, s’era fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e
i suoi successori, finché non venne eletto papa egli stesso [con il
nome di Gregorio 7°].
[…]
Alessandro II [papa
eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e senza l’ingerenza
dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero luogo il
giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di arcidiacono, il
popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I cardinali si ritirarono
immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo secondo le regole
precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò il giorno
dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico IV. A
ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato
nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).
Gregorio VII appartiene a
quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché suscitino le
reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio appropriato
sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del medioevo,
morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è cattolico e
papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un barbaro. E
fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute spavento al
mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone la festa ogni
anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali Gregorio VII è
il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che Gregorio VII fece
un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier Damiani lo
chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò significare
l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni altro. Come
già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura, mobilissimo,
infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile vitalità. Lo zelo
lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio. Ogni cosa era per
lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a sant’Ignazio di Lojola.
*******************************************************
Quando da ragazzo lessi le pagine
che ho sopra trascritto, da un libro di studio di mia madre, rimasi
meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling di argomentare,
contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in cui mi ero
formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio seguente e
quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi racconti
sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra fede
e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende dal
suo attivismo, è un progetto suo.
Nel 2013 è stato eletto papa
un vescovo, un religioso dello stesso ordine di Hertling, che ha assunto
un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era mai stato prima un papa di
nome Francesco. E’ andato a vivere in un albergo nella cittadella
vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha rifiutato le insegne
della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un nuovo corso politico, con
il suoi documenti La gioia del Vangelo, del 2013,
e Laudato si’, del 2015. Un po’ come avvenne intorno
all’anno Mille. All’epoca il moto di cambiamento fu sostenuto dai monaci della
federazione di Cluny, oggi dal movimento conciliare.
Quanto è importante la politica
nella fede?
Una tesi che si potrebbe tentare
di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto, tanto studio per farlo) è
che è tutto, da un punto di vista storico e sociologico,
naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine soprannaturale.
Adottando il lessico di
Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’ superficiale come è quello di
un ignorante colto come io sono, uno che non è uno specialista di certi temi e
che pure per rendere ragione della propria fede deve tentare di ragionare su di
essi, come se dal Quarto secolo della nostra era la penetrazione dello
spazio umano ad opera del cristianesimo sia avvenuta per la
massima parte per via politica. Una politica che nel primo millennio fu dominata
dai sovrani civili, gli imperatori romani e poi da quelli che
si considerarono loro successori, e che nel secondo millennio, da Gregorio
VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai sovrani religiosi
romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti come un impero
religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta di condominio su
un popolo di sudditi. Questa era dei papi-imperatori sta volgendo al
termine in questi anni ed è questa l’epoca in cui noi fedeli siamo finiti in
mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo nascere nella Roma dominata dai
signori di Tuscolo, che espressero sovrani religiosi definiti da alcuni
storici, spregiativamente, pornocrati.
Se, da un punto di
vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione della
fede, è evidente che chi propone l’apoliticità della fede non
fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte durissime non
nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben vedere, su
temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società del nostro
tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare il pastore chi
a questo ruolo è designato in quanto membro del clero? E poi: come combattere
la povertà? Come evitare che l’industria rovini l’ambiente in cui viviamo? Chi
e in base a che criteri deve fare le parti della ricchezza che si produce? Una
fede religiosa che non affronti questi temi diventa inutile. E
la nostra fede non lo è mai stata storicamente e non lo
è. Infatti di questi temi si discute oggi, in religione.
La politica contemporanea si fa
con metodo e secondo principi democratici, che significa partecipazione
di tutti al governo, elevazione di tutti alla
sovranità. Questo implica un tirocinio, una formazione che non può
limitarsi allo studio dell’imponente letteratura dei papi. La politica
democratica richiede una partecipazione anche alla elaborazione dei principi e,
vista la stretta connessione tra fede e politica, per cui la nostra mi appare
essere stata sempre (questo mi sembra il suo vero tratto distintivo rispetto ai
tanti culti misterici che le furono coevi nel primi tre secoli
della nostra era) una fede politica, ciò finirà (come del resto è
già accaduto con lo sviluppo del movimento di idee che sfociò negli scorsi anni
Sessanta nell’ultimo Concilio ecumenico) per riflettersi anche sul modo
di pensare la fede. E’ stato osservato, ad esempio, che
alcuni dei più importanti movimenti scaturiti nel
post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica
teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in
genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la
proposta politica del nostro vescovo e padre universale
Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la
prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la
discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio
solo degli specialisti.
Possiamo considerare, sotto
l’aspetto politico, i papi Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo
2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto 16°, gli ultimi sovrani
dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da quelli del primo millennio.
E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il papa che ci è venuto dal
Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata dai sovrani medievali alla
cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato, il capostipite di una
nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un processo che coinvolgerà
anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo. Un ritorno al passato è
impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il nostro mondo è la Terra
intera e non il piccolo universo umano in cui pensavano di essere signori del
mondo i papi intorno all'anno Mille.
*********************************************
63
La vita di fede come
esperienza civile
La fede può essere alla base di
un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato che fosse possibile.
Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una storia analoga si è
vissuta in Germania. In altre regioni europee la fede è stata integrata
nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad esempio, alla
Spagna e alla Polonia. In Italia al centro di tutto ci sono stati dei
valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici. Tutto ciò
è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo punto,
però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.
Di tutto ciò si sono avuti
riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato. Ho ricordato i
fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con quell’epoca,
appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose. In passato, e
molto a lungo, si è pensato che oltre a catechismo e famiglia ci fosse
poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli di storia, in cui
la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.
Negli ultimi vent’anni c’è stato
anche un problema di formazione del clero. Sono venuti a collaborare molti
sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di quella storia di esperienza
civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non conoscendola non
l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte eccezioni
naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica, molto
centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio. Quando
ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha fatto
impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li ricordo
sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi visitatori
laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza: certo, eravamo
meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo in qualche
modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro erano
destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime comunioni, a
cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata a stare in
chiesa. Ma non è proprio questo il nostro popolo? Quando lo si idealizza nei
bei documenti del nostro supremo magistero, popolo qui,
popolo lì … tutto va bene, ma quando il popolo esce dalla
carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona impressione. E’ perché
manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in cui ognuno sia
ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di
eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la
liturgia serve appunto anche asuscitare un popolo diverso,
per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno
a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro da una certa
storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e
soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli ambienti
con questi nugoli di incenso.
Si è puntato molto al perfezionamento interiore,
cercandolo di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi
pare abbiano vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di alcuni ordini
religiosi, le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno
l’amicizia della fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per
le donne. Ma la vita di fede non sta solo in questo.
Agli albori del cattolicesimo
democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò Fava Ghisilieri, in Riflessioni
politico-morali raccolte da un solitario ad uso della gioventù libera
d’Italia [citato in Vittorio E. Giuntella, La religione amica
della democrazia - i cattolici democratici del Triennio Rivoluzionario
(1976-1799)]:
“Quand’è che l’uomo può dirsi
un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti de’ suoi
fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola dolce a
se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi della morale?
Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata, più stabile
della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle interpretazioni in
spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il più dolce, e il
più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual altro è mai, se
non quello della Carità? E non è forse nel sistema repubblicano, che più si
cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più opportuna di questa a un tal
uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci tutti come fratelli. Le
dissensioni civili, che son tanto nemiche della Libertà, non trovano forse
ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei dinanzi al Giudice supremo
persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che lacerano l’altrui fama, non
che degli odi covati a lungo nel seno?”
Ad uno spirito religioso può
non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da parte in un mondo
tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per diventare tutto fantasia,
sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che siamo stati mandati nel
mondo? Da giovane non avrei sopportato questa prospettiva, che per altro non mi
fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci adatto. Però ci sono pochi posti
in cui vivere un’esperienza civile animata dalla fede. Uno deve fare da sé.
Certe cose non te le spiegano in parrocchia e nemmeno altrove. Viene tra noi
uno come don Ciotti e sembra un marziano, una persona da un altro mondo. Eppure
intorno a lui ci sono tante persone di fede che condividono la sua esperienza
civile.
Da dove ripartire?
Direi dai più giovani perché in
genere hanno più tempo per la formazione: è il loro lavoro. Il tempo degli
adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane poco per qualcos’altro.
Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in cui presentiamo la
religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il nucleo di spinta
di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante rigenerazione, è
costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano: occorre che
sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne diffidino, che
arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro le fosche
visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri ultimi sovrani
religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società in
disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è
solo questo intorno a noi.
*********************************************
64
Condominio o repubblica
C’è una bella differenza tra un
condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono decisioni
seguendo il metodo democratico.
In un condominio ci si finisce
perché si compra un appartamento e si diventa proprietari anche di parti
comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci si serve anche di altre
cose, però per queste si è obbligati a
farlo insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio
o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro
bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e,
soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle
decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose e non le vogliono
cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.
Una repubblica nasce quando ci si
sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare una società migliore, in cui
si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia abbandonato alla propria
sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose molto meno. Ci si cerca
perché si vive bene insieme. Al centro di una repubblica ci sono dei valori:
questo significa una certa concezione di società. E poi la fedeltà a quei
valori. Si è disposti a dare molto, anche la vita, per realizzarli. Uno
di essi, molto importante, è l’eguaglianza in dignità, che significa
rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo richiede di essere
sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra. Per
diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la
giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e
innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni,
i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide
che vinca la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad
ognuno dei diritti fondamentali che nessuna maggioranza
può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò
per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni
persona è sacra, nel senso che ha diritti intangibili.
Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un
qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non è
qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come
vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente,
che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per
cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima in
cui non c’era e che avrà un dopo in cui non ci sarà più.
Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si
ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo?
In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe,
che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno
venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che
però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe
anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale. Nessuno
escluso.
Alcuni dicono che bisogna
cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il mondo. E seguono vie di
perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro sforzo di perfezione rimangono
poi soli con sé stessi. Gli esseri umani non sono fatti per
essere così. Questi cammini allora dove portano? Ci si perfeziona,
se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe,
crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà
limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale,
a tutto quello che c’è intorno.
Anche in una parrocchia, come in
ogni specie di società, si fa la scelta di essere condominio o repubblica. Dipende
da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro per
noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la
si condivide al modo dell’ascensore in un condominio,
con l’essere umano si entra in relazione.
La nostra Cena rituale, con le
povere cose che condividiamo, alle quali però diamo un valore infinito
perché ci mettono in relazione benevolente e universale, non è
forse la celebrazione dell’agàpe religiosa? Farne una realtà condominiale sembra
impossibile, eppure è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente
per il fastidio che certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare
una realtà universale, in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno
sia sacro… Ma non è meglio essere in meno a condividere, in
modo che ce ne sia di più per quelli che ci sono? Questa è
fondamentalmente la ragione politica della crisi della nostra nuova Europa
comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto delle cose e
non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione, quella per cui nell’agàpe l’inventario contabile di
ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza
universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne
avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità,
stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La
nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano
da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori
della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per
rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito repubblicano.
Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci
portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata:
ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in
spirito repubblicano e non condominiale.
*********************************************
65
Fedi omicide
Ci sono nel mondo di
oggi persone che manifestano le loro convinzioni religiose uccidendo e
uccidendosi. Il principale loro bersaglio sono quelli della loro stessa fede: è
tra essi che fanno il maggior numero di morti. L’Europa c’entra perché è la sua
cultura che è criticata: infatti vengono colpiti quelli che vivono all’europea.
Parlando di questioni culturali, bisogna dire
che condividiamo con altre fedi monocratiche un importante patrimonio culturale
e che in quest’ultimo c’è anche l’antico comando di sterminio degli infedeli e
degli apostati, quelli che hanno rinnegato la propria fede di
prima. Leggiamo pagine tremende in merito negli scritti sacri originati
dall’antico ebraismo. Ma anche parti di quelli formatisi nelle nostre prime
collettività di fede sono stati interpretati in quel senso nel corso della
storia.
Di fatto le nazioni che abbracciarono la nostra
religione si resero responsabili di orrende stragi per ragioni religiose, che
nelle Americhe divennero addirittura genocidio. In Europa ebbero motivazioni
religiose i pogrom, le periodiche persecuzioni antiebraiche, attuati
in Polonia e Russia.
Strumentalizzarono la nostra fede i razzismi
nordamericani e sudafricani. L’organizzazione razzista nordamericana Ku-Klux-Klan
celebrava i suoi delitti con croci infuocate.
La particolarità della religiosità omicidiaria
contemporanea è l’autoannientamento degli stessi omicidi, in un quadro di martirio
religioso, di testimonianza di fede nella prospettiva di una ricompensa
soprannaturale, in un aldilà. E’ qualcosa di diverso dal cercare la morte in
battaglia. Infatti, di solito, sono colpiti degli inermi e la morte
dell’omicida non è solo una eventualità, ma una sicurezza, come nel caso di
quelli che si fanno esplodere in ambienti affollati. L’autoannientamento ha
ragioni politiche e serve a potenziare l’effetto terroristico di queste azioni
stragiste, ma anche a ostacolare le indagini, eliminando la possibilità di
dichiarazioni dei colpevoli.
La fede, e in particolare una fede basata sulla
cultura biblica, può essere stragista? Poiché di fatto lo è stata, attraverso i
secoli, dobbiamo riconoscere che lo può essere. Perché, in genere, non lo è
più? Perché c’è stata una conquista culturale derivata dai processi democratici
originati in Europa e nel Nord America, per cui si è riusciti a far convivere
pacificamente religioni esclusiviste, le quali quindi in linea di
principio escludono la possibilità di altre fedi. Questi sviluppi hanno
coinvolto entrambe le due maggiori fedi monocratiche del mondo, ma anche, e da
tempi molto più antichi, l’ebraismo. Quest’ultimo, dopo la distruzione della
propria entità politica nel Vicino Oriente e la diffusione in Europa e in altre
parti del mondo, si è trovato a dover convivere con popoli di altri fedi, e ha
sviluppato una corrispondente religiosità.
Quello che emerge dalle stragi di questi anni,
commesse con moventi religiosi, è che con la teologia si può convincere la
gente di tutto, veramente di tutto. E che quindi la teologia ha molte e serie
controindicazioni. Naturalmente serve gente che, per qualche sua ragione, non è
più disposta ad esercitare qullo spirito critico che è la base della convivenza
civile.
In Europa non si uccide più per moventi
religiosi tratti dalla nostra fede, ma ancora si discrimina. Ci si convince, ad
esempio, che la donna è inferiore all’uomo e che ha un destino servile. O che
certe famiglie non sono vere famiglie e non vanno riconosciute come tali.
Bergoglio qualche giorno fa ha detto che dobbiamo chiedere perdono agli
omosessuali, e qualche ragione evidentemente c’è. Si tratta di discriminazioni
su basi teologiche che la teologia non riesce ancora a superare. L’ultima
grande persecuzione motivata da ragioni religiose della nostra fede è stata
quella contro i modernisti, attuata all’inizio del secolo scorso dal papa
Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu molto dolorosa. Colpì animi buoni e di grande
valore. Qui la teologia è molto cambiata.
Nel mondo contemporaneo, in cui vive un numero
di gente enormemente superiore che nel passato e in cui ci siamo intensamente
legati gli uni con gli altri nei processi economici, è indispensabile che le
religioni convivano pacificamente. Esse sono necessarie per conservare
l’umanità del nostro vivere, ma a condizione che nessuna pretenda
l’esclusività. Altrimenti diventano disumane e fanno vivere male. Uccidono. La
soluzione è di promuovere di generazione in generazione quel processo culturale
per cui in concreto esse possono convivere. Significa accentuare i processi
democratici, secondo i quali la persona umana ha diritti fondamentali
intangibili, che ruotano intorno al diritto alla vita. E’ l’antico
comandamento Non uccidere! che in democrazia viene preso molto sul
serio, tanto che, ad esempio, nella nostra nuova Europa non c’è più la pena di
morte. E poi costruire e sostenere, nella gente, con un’adeguata
formazione e anche in sede religiosa, la capacità critica, per cui, ad esempio,
si riesca a distinguere in eventi come quelli del Bangladesh i loro veri
moventi, al di là della paccottiglia ideologica religiosa che li riveste. E’
quello che facciamo nella nostra fede accostando il tema storico delle
Crociate.
Gli assassini vogliono farci odiare gli uni gli
altri, è stato osservato da più parti in questi giorni: la giusta reazione
quindi non è quella di odiare, perché sarebbe fare quello che quelli vogliono
da noi, ma di attuare e intensificare forme di convivenza pacifica tra genti di
fedi diverse. Nel mondo di oggi è possibile e in genere accade: gli odiatori
religiosi sono sparute minoranza, ormai, per nostra buona sorte.
*********************************************
66
Le religioni e il tribunale della coscienza e della ragione
(16 luglio 2016)
Solo da quale decennio la nostra religione ha aderito
alla cultura della pace universale, e ora ci sembra assurdo che potesse essere
altrimenti. Ma non lo è.
Storicamente la nostra religione è stata
mortifera quanto, e, al tempo della sua diffusione mondiale, addirittura molto
più delle altre religioni coeve. Condivide un importante patrimonio culturale
con le altre principali religioni monoteistiche e in esso vi è il germe della
violenza stragista. L’ebraismo della nostra era lo ha superato, al tempo della
sua dispersione tra le genti, e ha costituito un buon esempio di come farlo.
Noi ci abbiamo messo molto più tempo, essenzialmente perché la nostra
fede è diventata e rimasta a lungo strumento di potere, e potere e
violenza sono strettamente legati.
I grandi principi umanitari che costituiscono il
nerbo dell’etica sociale e politica dell’Occidente contemporaneo furono
proclamati, a fine Settecento, nel corso di due rivoluzioni, quella nord americana
e quella francese, che espressero una notevole violenza, in particolare la
seconda. Eppure quei principi condussero alla cultura dei diritti fondamentali
della persona e al rifiuto della violenza pubblica, compresa la pena di morte,
della nostra nuova Europa. Occorse però il bagno di sangue della Seconda guerra
mondiale per produrre questo risultato. Con la laicizzazione delle istituzioni
pubbliche le religioni cessarono, in Occidente, di costituire fattore di ordine
pubblico e furono liberate dalla loro violenza. Nella nostra religione, i
teologi ci spiegarono come fare per vivere la fede in modo molto diverso dal
passato e, innanzi tutto, che si poteva, e anzi si doveva farlo. E’ il processo
che venne denominato purificazione della memoria. E’ pur vero,
però, che, anche ai nostri tempi, dobbiamo riconoscere, come scriveva
Aldo Capitini, che solo ieri eravamo violenti.
Sarebbe bello constatare che il rifiuto della
violenza si sia prodotto storicamente per virtù propria della nostra
religione, ma purtroppo non avvenne così. Gli strumenti della violenza ci
dovettero essere strappati dalle mani, dagli stati liberali, e non di rado ne
esprimiamo anche una certa nostalgia.
Ci stupisce la violenza collettiva a sfondo
religioso espressa nel Vicino Oriente e la pretesa di altre religioni
monoteistiche di monopolizzare le religioni dei popoli, di ridurre tutte le
altre fedi a culti tollerati (nel migliore dei casi) o di
annientarle (nei casi limite): ma questa è stata anche la nostra cultura fino
all’altro ieri e ciò fin dalle origini. Ci vantiamo di essere stati, nei tempi
antichi, distruttori di idoli, ma in realtà questo significa essere stati
persecutori religiosi. La distruzione stragista del soprannaturale altrui fu
eclatante nella colonizzazione europea della Americhe.
La violenza per sottomettere le donna e quella
contro gli omosessuali fanno parte della nostra cultura religiosa, delle nostre
radici bibliche, e infatti ciclicamente si manifestano ancora tra noi.
Chi oggi prenderebbe alla lettera il comando
biblico di sterminare gli infedeli? Eppure a lungo lo si è fatto, ad esempio
nella distruzione delle culture native americane e nelle guerre di religione
europee.
Sulla via del contrasto della violenza bellica
ebbe i suoi guai il nostro Lorenzo Milani, nella sua polemica contro i
cappellani militari italiani che avevano trattato da vili gli obiettori di
coscienza. Si era, appunto, nell’altro ieri della nostra
storia religiosa.
Per gran parte dei due millenni della nostra
storia religiosa si è stati convinti che in guerra un qualche dio fosse con
noi, nel mentre facevamo a pezzi gli altri. Lo stesso che avrebbe dato una
ricompensa eterna, in un qualche suo paradiso, ai morti sul campo di battaglia.
Questo fu appunto lo spirito penitenziale con cui si
affrontarono storicamente le “crociate”.
Si insegna, in religione, che la nostra è un
fede che ci porta oltre la morte: sicuramente la nostra religione è stata
utilizzata per contenere la paura della morte, specialmente in battaglia.
L’etica del milite europeo è stata, molto a lungo, anche religiosa.
Oggi ci definiscono “crociati”, ma è solo perché
non ci conoscono bene. La nostra buona battaglia religiosa non
è più quella della guerra. Abbiamo imparato la lezione di uno come Immanuel
Kant che consigliava la pace perpetua e invitava a vergognarsi
della vittorie belliche. E allora c’è una vecchia religione
che abbiamo abbandonato e una nuova religione alla quale
e nella quale ci siamo aperti. Nella violenza con pretesti religiosi di questi
giorni vediamo allora noi stessi come eravamo solo l’altro
ieri.
Ad un certo punto abbiamo portato la nostra
religione davanti al tribunale della coscienza e della ragione e ci siamo
ritrovati noi stessi sul banco degli imputati: la religione era solo lo
specchio di noi stessi, di come volevamo essere.
In un’umanità di otto miliardi di persone,
strettamente interconnessa, per cui quasi tutti gli oggetti di nostro uso
quotidiano vengono prodotti dall’altra parte del globo, è ancora
ammissibile poter sostenere lo sterminio degli infedeli, e tante altre
cose della vecchia religione? Ad esempio tutto il
sessismo che troviamo nelle nostre scritture, per cui un certo pluralismo in
questo campo provocherebbe l’ira soprannaturale, lo sterminio, la pioggia di
fuoco e simili. Non è, questa concezione, una bruttura solo degli altri,
è anche nostra. E’ solo l’altro ieri che una donna non poteva
entrare in chiesa senza coprirsi il capo.
Questo portare la religione, e noi stessi,
davanti al tribunale della coscienza e della ragione è il secolarismo.
Benedetto secolarismo se ci ha portato la pace, se ha tolto la violenza alle
religioni, quella che di questi tempi ci si scaglia addosso provenendo da un
medioevo che si manifesta in mezzo a noi e dall’altra parte del nostro piccolo
mare! Ricordiamo che anche noi fummo così, solo l’altro ieri.
*********************************************
67
La
Nazione
Nella
Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in tre punti, e
in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale maiuscola. È
scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la
"Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della
"Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l' "unità
nazionale" (art.87).
Che cosa è la "Nazione"? La
Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione, perché
esse non possono essere fattori di particolare connotazione della Repubblica:
lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in campo culturale,
si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che significa anche
una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in particolare sotto
il profilo politico, e solidarietà civile.
La storia della nostra costruzione nazionale è stata
particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche resistenze
politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato, nell'Ottocento.
Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu osservato. Da un certo
punto di vista, l'Italia unita, politicamente organizzata intorno alla
monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna con una propria storia
particolare, una propria lingua e una propria cultura. L'Italiano era solo
lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente francese e piemontese.
La gran parte della gente era analfabeta e quindi confinata nelle culture
particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci riferisce alla Nazione,
si intende una realtà che si è venuta costruendo nell'arco di circa un secolo tra
Ottocento e Novecento, in particolare sulla base dell'ideologia politica di
Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che volle vivere insieme, per non
essere "calpesti e derisi", e lo eravamo perché non eravamo popolo,
perché eravamo divisi, proprio come si canta nell'inno nazionale. L'unità
culturale italiana fu conseguita però, veramente, solo nel secondo dopoguerra,
in particolare per le vie dell'istruzione pubblica di massa e di radio e
televisione. È a partire da questa epoca che veramente la Nazione si manifestò.
Ed è significativo l'abbandono dei progetti secessionistici che ebbero corso
negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai popoli ma tra i popoli italiani
ebbero un limitato seguito.
*********************************************
68
Degrado
della politica ed eclisse del Parlamento
(3-11
agosto 2016)
68.1. Nel
corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento come
un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel
decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La
ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era
manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente
dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono
platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa
sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano
preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per
appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta
degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato
di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti
molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta
si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento
proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio
beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in
cui venivano spese risorse pubbliche.
Ma la corruzione pubblica non fu l'unica ragione
del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione del sistema
sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella contemporanea
metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le istanze critiche
verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più forte partito
comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un potente stimolo,
nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di partiti politici
forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in particolare di
contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza dell'opposizione comunista,
con la sua ideologia fortemente centrata sui temi della giustizia sociale e sulla
riforma dello stato nel senso della piena attuazione dei valori e principi
costituzionali, con la sua critica politica irriducibile, colta, perseverante,
avevano indotto i partiti che ai comunisti si opponevano a tener conto di
coloro che nella società stavano peggio e a una più attenta selezione del ceto
politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli affari di stato. Il partito
originato dalla riforma di quello comunista non ebbe lo stesso effetto, perché
si comincio a pensare che il capitalismo di tipo statunitense e la società da
esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse addirittura di una
" fine della storia". In Italia l'idea di sviluppo sostituì quella di
giustizia sociale, che era stata alla base delle ideologie dei partiti
popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le basi sociali dei
vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo corso tesero a
ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la formazione
politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche formazioni sociali
a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo ideologico della
dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università religiose.
Che c'entrano i partiti con il Parlamento? La
loro occupazione del Parlamento non è all'origine del progressivo minor credito
dell'istituzione tra la gente?
In realtà, nel sistema istituzionale disegnato
nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, approvata
dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori svolti dalla
metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era fondamentale per
realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico in cui le masse
avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il popolo che i costituenti
vollero elevare alla sovranità non era composto da individui atomizzati, ma da
collettività politiche organizzate nei partiti, attraverso i quali i cittadini
avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare la politica nazionale (come è
scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano stati infatti i partiti
politici a organizzare la guerra di Resistenza contro l'ultimo fascismo, dal
settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e ideologiche della politica
democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere la guida dello
stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche le basi
culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e
proposte in seno ai partiti.
Il faticoso processo di elevazione del popolo
alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso nei partiti di
popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di popolo, che si
proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo democratico fu una
conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata dal fatto che la
democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era stata un fatto
elitario, essenzialmente espressione di una borghesia illuminata, in una
situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del 10% della
popolazione.
Il primo grande partito politico di massa
italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza, la Chiesa
cattolica e fu inizialmente
antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale.
L’accettazione dell’ideologia democratica da parte della Chiesa cattolica,
nella vita civile e, cautamente, anche nelle organizzazioni laicali, maturò tra
il 1941 e il 1991.
68.2. La crisi dei partiti politici italiani ha portato ad un degrado della politica.
L'affermazione della democrazia di popolo fu
storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei partiti di massa
e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi democratici.
Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che determinò
la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al popolo
collegata in maniera vitale.
Il primo partito politico italiano popolare, di
massa, può essere considerato, sotto certi aspetti, la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come
realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti
dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa
particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica ha
cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto precocemente,
fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a cui è
intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente, dal
Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente
politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più
feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento,
agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli
solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per
accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si
strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa configurazione
è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur dopo le molte
riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo (1962-1965). Ha
cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in concomitanza con
la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano e più
precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento, quando la
gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo piccolo
regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri sovrani
europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del laicato di
fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per sostenere
le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle loro mani
la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di movimento di
massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito politico di
massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera dei Congressi,
fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del Regno pontificio,
la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo molti riferimenti
ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a favore delle masse.
L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci, Leone 13°, diffusa nel 1891, fu il suo manifesto
ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando
loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il via libera
all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione sociale.
Altri partiti di massa furono il Partito
socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia mazziniana,
fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse il divieto
per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale nell'attività
parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don Luigi Sturzo
e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati il Partito
Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati
all'esperienza socialista, in quanto il primo originò per scissione dai
socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi
esponenti del socialismo italiano, il suo "Duce", vale a dire
il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942,
sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani
intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in
particolare nella FUCI (gli universitari cattolici), nel Movimento
Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia
Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali
esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista
fondarono il Movimento Sociale Italiano, partito che ebbe un seguito
popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito
cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi
della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo
storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un
Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale
basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista,
un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il
conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
Ecco dunque descritti i principali attori dei
processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del secolo
scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul
Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni
Novanta.
68.3. La
politica italiana è entrata in crisi negli scorsi anni '70.
Nel secondo dopoguerra si era prodotto in
Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione
economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro.
Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a
favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del
partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della
Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche
movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le
tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un
improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi
per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni
colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i
partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di
provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine
d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di
società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti
di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro
politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito
Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più
autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece
degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in
termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si
produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una
conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo
bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di
governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che
forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le
comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva
nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso
della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a
costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era
quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di
formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di
consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso
politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato
preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso"
elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza
parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti
i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati
dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita
dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in
un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa
non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione
che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le
realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
Negli
anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici
e politici, il Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si
attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva
attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il
sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i
partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e
capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i
suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano,
per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.
Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere,
traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale
dell'opposizione comunista e di dare comunque voce a quella "missina"
( come venivano chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo
rispondere alle attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il
ruolo di Camera "alta" che gli era stato proprio di dalla sua
istituzione nel Regno Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora
invecchiata come l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno
quarantenni aveva garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci
si aspetta dagli anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici,
nello scegliere i candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli.
La presenza, come membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e
quella dei cittadini nominati da questi ultimi per avere "illustrato la
Patria" aveva rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi
degli anni '90, il Senato non apparì assolutamente come una istituzione
inutile, come è stata presentata dai fautori della riforma costituzionale
respinta nel 2016 mediante un referendum popolare, anche se i costituzionalisti, fin dai tempi
della Costituente, consigliavano di specializzarne le funzioni in modo che non
fosse un puro e semplice "doppione" della Camera dei deputati. In
effetti il Senato non lo fu mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si
manifestò la politica come ora la viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata
"Seconda Repubblica", che è quella in cui caddero tutte le
preclusioni di un tempo all'accesso al governo di certe forze politiche e, nel
medesimo tempo quella in cui la politica parlamentare, paradossalmente, iniziò ad essere considerata una perdita di
tempo.
*********************************************
69
La sfida della pace
(21 febbraio 2016)
L’idea di una pacifica convivenza tra i popoli a
livello mondiale è recente e origina nelle culture più fortemente improntate
dalla nostra fede religiosa, dal secondo dopoguerra. Fondamentale fu
l’esperienza storica dei totalitarismi politici e ideologici europei dal primo
dopoguerra, diffusisi in popoli di antica civiltà religiosa. La fede religiosa
non sembrò aver costituito un ostacolo insuperabile alle divisioni e ai
conflitti, anzi il più delle volte vi fu coinvolta. Un esempio spettacolare di
ciò si ebbe durante il regime mussoliniano, in Italia, con il quale la nostra
gerarchia religiosa, ma non tutta la gente di fede, accettò di conciliarsi.
Lo stradone in stile cimiteriale che celebra quell’evento, e che fu realizzato
distruggendo un antico quartiere popolare e deportandone gli abitanti, ne è
ancor oggi l’immagine: la larga via che all’epoca fu aperta portava al regime
mussoliniano e la Conciliazione con il papato fu senz’altro uno dei
maggiori successi politici e ideologici del fascismo italiano. Con il senno del
poi dobbiamo riconoscere che può dirsi l’opposto per il papato, anche se la
sistemazione politica che fu data all’epoca vige tutt’oggi. La nuova via della
pace ha avuto anche il senso di una conversione in
senso religioso.
La novità delle concezioni contemporanee sulla
pace diffuse in Occidente è che esse non prevedono l’assimilazione dei popoli
in un’unica fede o in un’unica ideologia, ma si propongono la convivenza delle
diversità. Questo è stato il punto debole della nostra bimillenaria esperienza
di fede.
Se leggiamo storie delle nostre collettività
religiose risalenti ancora alla metà degli anni Sessanta le troviamo viziate da
un’incredibile faziosità, secondo la sensibilità contemporanea naturalmente.
Quelle cattoliche sono in genere veramente ossessionate dal tentativo,
realisticamente piuttosto difficile, di far risalire l’organizzazione del
papato imperiale del secondo millennio ai primi secoli della
vita delle nostre collettività religiose.
Studiando i libri di storia religiosa si capisce
perché la materia in essi trattata non è utilizzata, in genere, nella
formazione religiosa comune, quella rivolta a tutti e non alla particolare
cerchia degli specialisti o dei preti e religiosi. Innanzi tutto è piena di
polemiche durissime delle quali oggi è arduo capire l’importanza per la vita di
fede. E’ poi esprime una violenza ideologica e verbale, ma anche fisica che è
intollerabile con la mentalità di oggi.
A partire dal Quinto secolo i gerarchi
religiosi latini si separarono da quelli di cultura greca, derivati dalle
nostre più antiche collettività religiose, su questioni attinenti alla persona
del Fondatore che vennero presentate in modi oggi (ma anche all’epoca)
accessibili solo agli specialisti. Che riflesso potevano aver avuto sulla vita
della gente comune? Davvero i popoli che aderirono alle concezioni
ritenute errate dai gerarchi romani erano cattivi? Durante diverbi
tra gerarchi religiosi su quelle questioni, nel 449 a Efeso, una città di
civiltà greca sulle coste mediterranee dell’attuale Turchia, il vescovo di
Costantinopoli Flaviano fu picchiato e morì poco dopo.
Ai tempi nostri l’argomentare dei teologi,
almeno quando si rivolgono alla gente comune, è diverso. Si ragiona
sull’esperienza comune per poi spiegarne il senso religioso. Ha maggiore
importanza l’antropologia, la questione di come viene considerato l’essere
umano nelle sistemazioni ideologiche che vengono proposte. Questo modo di
procedere ha portato a un riavvicinamento con culture religiose della nostra
stessa fede dalle quali ci si era separati. Questo è avvenuto con le
collettività religiose che si sono riorganizzate sulla base dei principi
religiosi proposti da Lutero, Calvino e altri riformatori religiosi del secondo
millennio. Con i greci, i popoli di cultura ellenistica dai quali
ci si è separati molto prima, c’è la difficoltà che le loro antiche
collettività in Oriente sono in gran parte finite sommerse, sovrastate,
dall’altra grande fede monoteistica diffusa in quelle regioni a partire dal
Settimo secolo. Si cerca allora di riconciliarsi con
i loro eredi, con l’ortodossia dell’Europa orientale e si scopre che non
ci dividono da essa questioni di fede veramente fondamentali, ma essenzialmente
l’assetto istituzionale imperiale del papato romano che fu dato nel basso
medioevo. Ma è soprattutto la pacifica coesistenza nelle stesse nostre città
con quelli delle altre confessioni a fare la differenza dal passato. Si scopre
che si può vivere insieme, conoscendosi si finisce per stimarsi, e allora tutti
gli arzigogoli teologici si appianano. In Italia molte chiese ortodosse hanno
sede in chiese concesse dai vescovi cattolici perché non più utilizzate.
Anticamente la gente comune rimaneva a fare da
spettatrice a certi azzuffamenti teologici e gerarchici. Era un po’, ma non
sempre, nello stato di gregge. Nel secondo millennio è stato
diverso. Le spiritualità nuove prorompevano dalla gente comune e i capi
religiosi faticavano a venirne a capo. La scoperta, in Occidente nel
Quattrocento, della stampa tipografica mise la cultura religiosa alla portata
delle masse. Stiamo vivendo una rivoluzione analoga con il WEB, il trattamento
telematico delle informazioni consentito dalla rete internet e dalla sua
interfaccia sugli schermi dei nostri computer, organizzata in modo da essere
accessibile anche ai bimbi più piccoli. Questa possibilità di renderci conto
dei problemi ci responsabilizza molto. Siamo spinti ad uscire dallo stato di
gregge e abbiamo gli strumenti per farlo. In un certo senso la nostra nuova
Europa si fonda su questa nuova realtà. Le divisioni che oggi la minacciano
interpellano i suoi popoli. Essi hanno imparato a convivere e a conoscersi. E’
più difficile rinchiudersi nell’egoismo del passato e fondare partiti del Noi
soli. Anche i capi politici nazionalisti, che spingono per la chiusura
della frontiere, paradossalmente creano internazionali politiche. E’
lo stesso anche per le questioni in materia di fede. Certe forme di
spiritualità non soddisfano più e, soprattutto, non servono più.
Parlare di pace, come oggi la intendiamo, è
facile e anche bello, realizzare la pace è molto più difficile, anche in
religione. La vita nelle parrocchie lo dimostra. A volte la coesistenza tra le
loro componenti è piuttosto precaria. A volte si ricade nei vizi delle origini,
nella brutta abitudine di lanciarsi anatemi, vale a dire scomuniche, senza
avere nemmeno, tra l’altro, il potere giuridico. E questo anche se la gente
della nostra fede, dal secondo dopoguerra, ha mostrato molti modi perfare
pace e l’Europa contemporanea, pur con tutti i suoi attuali problemi,
ne è la dimostrazione.
Joseph Ratzinger qualche anno fa diffuse
un’enciclica la Carità nella Verità (2009) in cui
affrontò sostanzialmente la questione se venga prima la carità,
il fare il bene agli altri, o la verità,
il dire cose coerenti con il patrimonio di fede,
entrando in una inedita polemica con il suo predecessore Giovanni Battista
Montini, il quale nell’enciclica Lo sviluppo dei popoli (1967)
aveva lanciato un forte appello a tutte le persone di buona volontà a fare il
bene, affermando che lo sviluppo è il nuovo nome della pace,
anche in senso religioso.
Certe questioni noi laici di fede possiamo
tranquillamente lasciarle ai teologi di professione, come lo stesso Ratzinger è
stato per gran parte della sua vita.
La mia opinione è che ci si debba
concentrare, noi che non siamo teologi, sulla faccenda del fare
il bene, e innanzi tutto nel volersi bene, nel fare
pace come oggi lo si intende, comprendendo in quell’azione anche
lo sviluppo dei popoli e delle singole persone, per poi
cercare il senso religioso del bene che ci è riuscito di fare, quindi non
ragionando sulle sole intenzioni ma sui risultati ottenuti.
Nella questioni di fede, infatti, è vero che, come si dice, tra
il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
*********************************************
70
Impegno civile come attività religiosa
(3 gennaio 2015)
Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo
culturale dei nostri tempi, ha affermato in “Tristi tropici”, che in tutta la
storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché si è dovuto
risolvere il problema diversità altrui: una è stata la strategia
“antropoemica”, l’altra la strategia “antropofagica”.
La prima consisteva nel “vomitare”, nello sputar
fuori gli altri, considerati come esseri incurabilmente estranei e alieni, nel
vietare il contatto fisico, il dialogo, i rapporti sociali e qualsiasi tipo
di«commercium» [=relazione
di mutuo scambio], commensalità o«connubium» (=alleanza
basata su una relazione affettiva profonda).Varianti estreme di questa
strategia “emica” sono oggi, come sempre, l’incarcerazione, la deportazione e
la soppressione fisica. Sue forme aggiornate, “raffinate” (modernizzate) sono
la separazione spaziale, i ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.
La seconda strategia consiste in una cosiddetta
“disalienazione” delle sostanze estranee: nell’«ingerire», «divorare» i
corpi e gli spiriti estranei in modo da renderli , attraverso il
metabolismo, identici e non più distinguibili dal corpo che li ingerisce. Tale
strategia assunse una parimenti varia gamma di forme, dal cannibalismo
all’assimilazione forzata: crociate culturali, guerre dichiarate ai costumi,
calendari, culti, dialetti e altri «pregiudizi»
e «superstizioni» locali. Se la prima categoria mirava all’esilio e alla
distruzione degli “altri”, la seconda puntava all’annullamento o distruzione
della loro “diversità”.
[da: Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza,
2011 (opera edita per la prima volta in Gran Bretagna nel 2000]
Sono nato, sono cresciuto e mi sono formato in
un ambiente religioso che dava molto importanza all’impegno civile, inteso come
il partecipare alla collettività politica per costruire la città
dell’uomo(espressione risalente a Giuseppe Lazzati, 1909-1986), vale a dire
una società benevola verso tutti gli esseri umani. In una società pluralistica
come quella in cui siamo immersi l’impegno civile richiede di essere democratico,
vale a dire aperto al dialogo e alla collaborazione con chi su molte cose la
pensa diversamente ma è unito a noi dalla comune umanità.
A volte però,
in religione, si ritiene che il metodo del dialogo sia inutile e anche
controproducente, perché potrebbe portare a contaminazione. Per reagire alla
diversità altrui, vengono impiegate entrambe le tecniche sunteggiate da
Lévi-Strauss: l’esclusione e l’assimilazione.
Da un lato si costruiscono frontiere ideologiche
strettamente presidiate e isolate dal contesto sociale intorno. All’interno,
salvo che nel ruolo di semplice consumatore di servizi
religiosi, è ammesso solo chi accetta la conformità di pensiero, o, almeno, si
impegna a non contestarla, per amore di pace, come si dice. D’altro lato, chi è
ammesso all’interno viene esortato a farsi digerire, assimilare,
divenendo parte di una collettività di uguali,
in cui è abolita ogni diversità (e quindi la necessità di un vero e franco
dialogo), e in cui questa uguaglianza è realizzata mediante la pratica
dell’obbedienza verso dei formatori, in cui ogni
pensiero critico non viene accolto tanto bene.
Si tratta di
ideologia piuttosto lontana da quella indicata come preferibile nei documenti
del Concilio Vaticano 2°.
In realtà
essa, benché la si voglia riferire alle origini, in realtà proiettando non
del tutto a proposito sul passato nostre attuali concezioni, diverge
marcatamente dai costumi delle nostre collettività religiose di tutti i tempi,
in cui l’impegno civile ha avuto una parte fondamentale: altrimenti non
parleremmo oggi di radici religiose dell’Europa. Essa ha infatti
origine storica piuttosto recente e precisamente in epoca fascista. Fu allora
che, a seguito del compromesso raggiunto all’epoca dai nostri capi religiosi
con il regime fascista, la religione si impegnò a non occuparsi
di politica (in realtà, così facendo, dando un formidabile appoggio al
regime fascista), quindi delle cose della città dell’uomo. Era
scritto nel Concordato che fu stipulato nel 1929 e che fu in
parte superato con l’avvento della Costituzione repubblicana entrata in vigore
del 1948 e, definitivamente, con gli Accordi di revisione di quel Concordato,
stipulati nel 1984.
Bisogna che sia più chiaro che,
nonostante tutte le metafore sociali che utilizziamo a fini propedeutici, per
rendere in termini semplici un’idea di cose molto difficili da capire,
noi partecipiamo a una collettività,
ne siamo anche responsabili; possiamo riconoscere anche di essere
generati alla fede in una collettività,
ma assolutamente non da una collettività: infatti,
come è scritto, noi dobbiamo rinascere dall’alto. Quindi poi nessuno può sentirsi obbligato a
farsi digerire o generare o rigenerare da una
certa collettività, per quanto poi possa decidere liberamente di farlo.
Il metodo di assimilare persone
in una collettività di fede che si vieta l’impegno civile, inteso come relazioni
con chi la pensa diversamente, porta alla progressiva emarginazione delle
persone di fede. Alla situazione, per intenderci che si sviluppò nell’Ottocento
nel conflitto tra il nostro nazionalismo e le pretese politiche del Papato ad
un suo regno intorno a Roma. Sentiamo gli altri come estranei e da loro siamo
sentiti estranei. Per farceli amici chiediamo troppo, chiediamo loro di farsi
digerire; loro non ci stanno e noi li vomitiamo.
L’impegno civile nella nostra Repubblica, come è
configurato nella vigente Costituzione, si basa su una concezione personalistica che
è stata ideata in ambito cattolico negli anni ’30, sulla base di un filone di
pensiero che risale al Medioevo e che ha basi scritturistiche. Tale concezione
si basa sul rispetto della dignità della persona umana, sia come
singola sia nelle formazioni sociali a cui partecipa.
Questo significa che non è ammesso che una formazione sociale possa digerire una
persona. Ma, a ben vedere, questo principio digestivo è
estraneo anche all’ideologia insegnata dai nostri capi religiosi. Infatti la
nostra fede si basa su una conversione intesa come processo di
metamorfosi personale e libera. In particolare, nei nostri scritti sacri non ci
viene mai presentato il nostro Maestro impegnato in attività propriamente digestive.
La mia formazione religiosa ha compreso anche
insegnamenti su come partecipare a una collettività di fede da laico. Essa è
stata condotta nello spirito del Concilio Vaticano 2°, i cui principi vennero
entusiasticamente accolti nell’ambiente religioso della mia famiglia. Il laico
deve partecipare a una collettività di fede mantenendo integra la sua dignità
di persona umana e rispettando la dignità personale degli altri fedeli. Si
tratta di cosa di cui occorre fare tirocinio.
L’impegno civile è appunto quel tipo di
relazioni con gli altri che ci permette di collaborare con chi la pensa in modo
diverso da noi per costruire qualcosa di comune, in religione o altrove. Esso,
nella nostra fede, ha avuto sempre una forte valenza religiosa, della
quale non sempre, però, si è mantenuta consapevolezza.
*********************************************
71
Spunti
per un dialogo politico su democrazia di popolo e fede cristiana.
(29-1-15)
71.1. Note di metodo
Questa conversazione si propone di stimolare un franco
dibattito politico tra persone di fede.
Non proporrò contenuti eruditi. Farò invece
riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla storia delle nostre collettività
permeate dal pensiero religioso.
Perché il dialogo sia veramente libero non farò
riferimento esplicito ad alcun documento di autorità religiose, né menzionerò
queste ultime. Presenterò in forma anonima il pensiero sociale che storicamente
espressero. Esso potrà così essere analizzato e criticato senza alcuna
remora.
Inizierò definendo che cosa intendo per
politica.
Proseguirò tratteggiando alcuni tratti
caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di popolo.
Richiamerò la storia del pensiero politico
espresso nella nostra fede religiosa, con particolare riferimento all’Italia.
Infine analizzerò i problemi che oggi in Italia si
presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla democrazia di
popolo.
La mia formazione è giuridica, ma di pratico del
diritto, non di teorico. Ho ricevuto una formazione politica dal lungo contatto
con mio zio Achille, persona di fede, professore di sociologia e politico.
71.2.
La politica
Definisco politica l’attività di governo delle società
umane. Un’attività di questo tipo si riscontra anche in collettività poco
numerose e primitive. E’ stata ritenuta una caratteristica degli esseri umani
come viventi sociali.
Lo studio delle collettività primitive ci può
dare un’idea dello sviluppo delle attività propriamente politiche. Una delle
linee di costituzione di un’autorità politica può individuarsi, nelle
collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del potere monocratico di un
maschio dominante su collettività di parenti o servitori. Nella nostra cultura
l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a quella di paternità e ciò per un
retaggio storico molto risalente nel tempo e radicato nelle diverse culture che
si sono incontrate, scontrate e ibridate intorno al bacino del Mediterraneo.
Le nostre concezioni sulla politica impiegano
tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie dell’antica Grecia. Solo
dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi sociologica per capire i
problemi politici. Una particolare chiave interpretativa della politica è
stata proposta dal marxismo a partire dalla medesima epoca: essa è particolarmente
caratterizzata dall’analisi storica dell’evoluzione delle società umane.
Sociologia e marxismo convergono nell’individuare all’origine del potere
politico le dinamiche sociali delle popolazioni umane. In quest’ottica tutta la
storia della politica è stata reinterpretata utilizzando le acquisizioni di
queste discipline. Per capire la politica e per prevederne gli sviluppi si
ritiene necessario capire le società in cui essa si manifesta.
71.3. La democrazia di popolo
Definisco democrazia un regime politico in cui
l’autorità è legata in misura più o meno intensa alla volontà collettiva dei
governati, sia nella scelta di chi la esercita sia nei suoi metodi, finalità
generali e obiettivi concreti. Non consiste solo nel metodo maggioritario per
adottare decisioni collettive. Si fonda anche su un sistema ampio di diritti di
libertà, per consentire la partecipazione al dibattito politico e ai processi
decisionali collettivi. In democrazia è essenziale la possibilità di un dialogo
fra soggetti liberi. Anche nel definire concettualmente i caratteri della
democrazia si è soliti fare riferimento a modelli realizzati e teorizzati
nell’antica Grecia. Tuttavia la democrazia come ai tempi nostri la si intende è
un’esperienza sociale che non è mai esistita prima del secondo dopoguerra. E
non è mai stata neppure teorizzata prima degli scorsi anni Venti. Il nostro
mondo è veramente un nuovo mondo. La chiamo democrazia
di popolo per distinguerla dalle precedenti esperienze storiche.
Il suo archetipo è il regime politico emerso a
fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è stata espressa anche
mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede. Quell’esperienza, anche se in
genere non se ne ha consapevolezza, non è stata solo una secessione dal dominio
di una monarchia europea, ma è stata propriamente una rivoluzione. Ha infatti
instaurato un nuovo modello di società, fondato su un’ideologia
egualitaria su basi religiose, secondo la quale tutti gli essere umani sono
stati creati uguali e con diritti inviolabili.
Crediamo in queste verità che sono evidenti di per sé
stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, dotati dal loro Creatore di
certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita, alla Libertà e
alla ricerca della Felicità. Per assicurare questi diritti sono costituiti
i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri dal consenso
dei governati.[Dichiarazione
d’Indipendenza delle Tredici Colonie, costituitesi in Stati
Uniti d’America, 4 luglio 1776].
E’ proprio da questa ideologia, più che da
quella espressa dopo pochi anni dopo dalla Francia rivoluzionaria, che derivano
le democrazie di popolo contemporanee. E ciò innanzi tutto per il fatto che la
democrazia statunitense ha avuto una durata molto più lunga di quella espressa
dalla rivoluzione francese, che fu veramente effimera. Essa ha potuto quindi
costituire un modello duraturo sul quale si sono innestati gli sviluppi
successivi. Poi per il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello fu preso
come riferimento per riorganizzare i regimi politici europei. Il più importante
e duraturo contributo della rivoluzione francese alle democrazie di popolo
contemporanee è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789, la base dello stato di diritto:
ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà
generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere; gli esseri
umani nascono liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.
L’uguaglianza nell’ottica di quelle rivoluzioni è
un’uguaglianza in dignità. Essa è affermata religiosamente, vale a
dire in modo pregiudiziale e assoluto, a prescindere da qualsiasi
riscontro effettivo nella realtà (uso il termine religioso in
questo particolare senso, come lo intendeva il filosofo Aldo Capitini).
L’altro fattore da cui sono scaturite le
democrazie di popolo contemporanee è stato l’apporto del socialismo,
dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come uno strumento
per rendere effettiva l’uguaglianza in dignità mediante
la giustizia sociale. Tra i diritti inviolabili vengono inclusi anche
alcuni diritti sociali, ad esempio quello alla libertà dal
bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme costituiscono
presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di libertà
proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.
In merito si ricorda come archetipo la
costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui trascrivo una norma
significativa.
Art.151. L’ordinamento della vita economica deve corrispondere
alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti
un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà
economica dei singoli.
Altro archetipo è considerato la costituzione
sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano previsti il
diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella vecchiaia e nella
malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione, all’uguaglianza in
dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle costituzioni rivoluzionari
settecentesche che ho sopra ricordato. Trascrivo due articoli
particolarmente significativi.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti
uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale,
culturale e socio-politica. […]
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS
indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita
economica, statale, culturale e socio-politica, è legge irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei diritti
e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o indiretti ai
cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale
appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o
nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
Dalla storia sappiamo che nell’Unione Sovietica
questi diritti rimasero in gran parte solo nelle costituzioni, non divennero
mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo nuovo che rimase però
sempre a livello ideale.
Le previsioni costituzionali relative ai
diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato furono
presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra
Costituente, nel 1947, i cui lavori precedettero quelli per la redazione
della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite,
approvata nel 1948. Da quest’ultima scaturì la concezione contemporanea della
democrazia a livello planetario, come regime politico universale destinato a
realizzare una reale eguaglianza in dignità degli esseri umani, a
prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare,
mediante l’effettività dei diritti fondamentali e inviolabili, in particolare
di quelli sociali, a livello universale. Riporto un articolo particolarmente
significativo della Costituzione italiana vigente:
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.
È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il secondo comma è
stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della concezione
politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU, risalta dal
fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e linguistiche,
rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per gli
italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero
elementi cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di
quella Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una
teologia politica.
L’ultimo fattore
decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il suffragio
universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.
Una democrazia di
popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su un’idea di
uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare mediante riforme
sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo delle democrazie di
popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le cause di infelicità e
di discriminazione.
71.4. Il pensiero politico
espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare riferimento alla
situazione italiana.
Di solito non si ha
sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto svilupparono un
pensiero politico su basi di fede. In caso contrario l’ideologia politica
basata sulla fede cristiana non avrebbe potuto sostituire, nel giro di quattro
secoli quella basata sull’antica religione politeistica. In particolare non se
fa menzione nella formazione religiosa di primo e secondo livello. Si passa dai
cristiani perseguitati dal potere imperiale romano agli imperatori cristiani.
Un indizio della
precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo possiamo trovare
nella Lettera a Diogneto, che si fa risalire alla fine del secondo
secolo:
[I cristiani] abitano
ciascuno la propria patria, ma come stranieri residente; a tutto
partecipano attivamente come cittadini, a tutto assistono passivamente come
stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra
straniera. [V,5].
Conquistato lo stato
romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di ritenere
che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca dovesse
svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget Bozzo
considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo, teologo e
storico Eusebio di Cesarea (265-340). La dimostrazione di quanto essa si
fosse radicata è che tutti i concili ecumenici del primo millennio, dal primo
di Nicea (325) al settimo di Costantinopoli (879), furono convocati da
imperatori. L’ideologia del monarca come capo civile e religioso del popolo
cristiano fu fondata sulle narrazioni veterotestamentarie adattate ad una
situazione storica molto diversa e rimase latente in Europa fino all’avvento
della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento. Sempre su base
veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela ideologia che affermava
una supremazia politica del potere religioso su quello civile. Il popolo
cristiano, in Occidente, finì per avere due padri che
pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una vera
e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le invasioni dal
Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana in Occidente:
un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La storia che
seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere religioso
occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già venuti a
contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come modello di
potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in quella
politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse l’emergere
del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle origini
(Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come imperatore
religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto dominio
longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia centrale.
Questo dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo, nella quale
il papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la struttura feudale
nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano propriamente
politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri del
popolo, su due imperatori politico/religiosi, fu
rafforzata dalle necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In
Oriente rimase invece l’organizzazione politico religiosa del passato
imperniata sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in
Oriente, in posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del
papato avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili
collegamenti neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come
espressione della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria
(teologia del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai
costumi delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse
l’idea che il mantenimento della pace politica e religiosa fosse
fondamentalmente un problema criminale, da affrontare irrogando pene efferate. Pace a
quell’epoca era una delle denominazione del diritto criminale. Da ciò
l’istituzione di polizie politiche di natura politica-religiosa la cui
manifestazione più eclatante fu l’Inquisizione cattolica. Ne può essere
considerata un’estensione la guerra di crociata, in particolare
quella condotta nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti religiosi
albigesi. In un’ottica di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la politica
venne vista come un problema di fedeltà ad un capo politico/religioso; in
Occidente anche come quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi
emersi dal primo millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali
assoluti. Nel secondo millennio cominciarono a manifestarsi idealità di
giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse dovettero però venire a
patti con i padri politico-religiosi, con le gerarchie
assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti
poteri propriamente politici, o vedersi da essi duramente represse come
espressioni criminali. Esperienze di tipo di tipo tendenzialmente democratico
furono organizzate nell’Europa occidentale fin dagli inizi del secondo
millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei sovrani, ma, a parte il
caso dell’importante influsso del calvinismo politico, la prima
espressione di una teologia politica su base democratica, e quello delle
rivoluzioni parlamentari inglesi del Seicento,
prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo religioso romano,
l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori supremi delle società,
ciò che definiamo giustizia sociale, ebbe difficoltà ad essere
integrata nelle concezioni di fede. Del resto, nelle Scritture quel tipo di
democrazia semplicemente non c’è, per il contesto storico in cui esse si
formarono, e di ciò ha risentito la teologia su di esse costruita. C’è però
un’idea che è risultata al centro delle ideologie democratiche contemporanee:
l’uguaglianza in dignità. La possiamo trovare sintetizzata in questo
passo della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è né schiavo
né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).
I processi storici e
sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee furono avviati,
sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento, anticipati sul
piano ideologico dal pensiero liberale e illuminista. Ma fu l’Ottocento
il secolo del loro crogiolo. In Italia il confronto con le collettività di fede
fu particolarmente drammatico per i prevalere di fortissime tendenze
reazionarie, appoggiate da efficienti organizzazioni di polizia ideologica. In
origine non anti-religiosi, i moti rivoluzionari espressi nel Risorgimento
italiano, divennero anticlericali per le difficoltà incontrate nel processo di
unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni clericali. Il motto del
mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione tra tendenze democratiche
e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente repressa. La storia delle
collettività di fede italiane dalla metà dell’Ottocento può essere interpretata
come un faticoso processo di integrazione tra idee religiose, idee di giustizia
sociale e idee di democrazia politica, con uno scontro durissimo su base
ideologica tra diverse componenti sociali religiose, che lasciò importanti
tracce, oltre che nella storia nazionale, anche nelle biografie dei più
importanti personaggi di fede di quel periodo, ad esempio in quelle di Romolo
Murri, il fondatore del movimento democratico-cristiano, e di Giuseppe
Toniolo. Fino alla metà degli anni Quaranta prevalsero tendenze reazionarie,
con conseguenze tragiche sul piano politico. Il ritardo dell’integrazione
democratica dei cattolici spianò infatti la strada al fascismo storico. Si riteneva,
da molti, che, al di fuori di un’organizzazione paternalistica, fortemente
accentrata, la fede religiosa si sarebbe corrotta. La democrazia era vista,
secondo un filone dell’antico pensiero greco, come fonte di disordine culturale
e sociale. Il crollo del fascismo storico e il ruolo dei cattolico-democratici
nella lotta antifascista e nell’organizzazione della nuova Repubblica aprirono
un nuovo corso. L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente
elaborata in circoli ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi
Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante
negli anni Sessanta, ma l’idea che il regime democratico fosse quello
preferibile risale, nella teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia
non ancora conclusa, in particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza
clericale in politica è stata fortissima.
71.5. Problemi che oggi in
Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla
democrazia di popolo.
L’idea che in religione
non si debba parlare di politica è un portato del fascismo storico e in
particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole, concluso tra la
nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il fascismo chiuse
la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad ogni forma di
teologia politica.
La scelta
religiosa che fu fatta in alcuni ambienti di fede negli anni scorsi
anni Sessanta, sulla scia dei risultati dell’assemblea di saggi della nostra
confessione religiosa svoltasi all’inizio di quel decennio, fu cosa
profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica di partito, aprendola al
pluralismo e proponendosi una formazione e un tirocinio collettivi in merito.
In quell’epoca, infatti, sulla base di un pensiero teologico avviato nel
secondo dopoguerra, i problemi politici vennero concepiti anche come problemi
religiosi, quindi in un’ottica di fede. Fu infatti scritto:
Le gioie e le speranze, le
tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non
trovi eco nel loro cuore. [1965].
E anche:
Noi scongiuriamo per primi
tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove, i
laici devono assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell’ordine
temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in
modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro,
attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o
direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità
di vita. Sono necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde:
essi devono impegnarsi risolutamente a infonder loro il soffio dello spirito
evangelico. [1967].
Divenne quindi
centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto difficile nelle nostre
collettività di fede, ciò che venne efficacemente sintetizzato, in queste
righe:
“La Chiesa […] con il II Concilio ha mutato
profondamente il suo rapporto con la società e l’umanità. Dalla difesa del
proprio campo di missione spirituale nel temporale (obiettivo della nuova
cristianità elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare
all’apertura evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas
hominum, sul fondamento della sola, comune, natura
umana.
[…]
E’ nella comunità di Chiesa locale che l’unità
nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni politiche e sociale debbano
convivere se non integrarsi nella tensione talora, mai nella dialettica
profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi fa crescere la funzione
di guida e di autorità dottrinale e pastorale della gerarchia come la
partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale dei laici, nella
Chiesa e nella
storia. […]
Sotto questo profilo, tutta l’innovazione della
Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi in quel paragrafo 4
della Octogesima Adveniens di Paolo VI che così fatica a trovare (ma il
convegno ecclesiale del novembre ’76 [Evangelizzazione e promozione
umana] ne è un luminoso esempio) applicazione e sviluppi pastorali. […]
La comunità di Chiesa locale, guidata dal Vescovo, [deve essere] assunta anche
come luogo di confronti tra credenti, pure tra credenti con scelte politiche
diverse, per cercare insieme le vie essenziali di impegno di tutta la Chiesa
locale alla necessaria trasformazione della società in cui la comunità di
Chiesa opera, per l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille
Ardigò, “Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla
società civile”, 1978]
In quest’ottica, in religione si
dovrebbe parlare di politica. Una importante manifestazione del
nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica, fu il convegno
ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, svoltosi a Roma nel
1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta portarono, dagli anni ’80
al prevalere di orientamenti paternalistici, in quello che, nel campo
fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno, nonostante il
recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica, quindi, non fu
all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi pare sia stato
l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un referendum su tema
sensibile per la fede, nel 2005. E anche la dura repressione
delle teologie di liberazione di origine latino-americana. Oggi siamo
autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo democratico
nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano mancare risorse
sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio, si attendono
ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto, invece di
suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come protagonisti
i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali democratici.
71.6. Da quanto ho esposto, emerge la necessità di fare
tirocinio di democrazia anche nelle nostre collettività di fede, in particolare
nella formazione permanente dei laici di fede, impegnati con primaria
responsabilità nel compito collettivo di infondere valori nella
società civile in cui sono immersi, alla quale partecipano con poteri sovrani.
E’ passato ormai mezzo secolo da quando si
prese consapevolezza di questo, ma ancora quel tipo di tirocinio è piuttosto
ostico negli ambienti religiosi. Lo si vede con sospetto, come fonte di
disordine. Ma è proprio per affrontare in modo ordinato il metodo democratico
che esso occorre.
Storicamente le genti di fede sono state
ammaestrate ad obbedire e, in particolare, ad obbedire tacendo. “Obbedir
tacendo” fu un motto dell’Arma dei Carabinieri ed esso ha un senso preciso
negli ambienti militari: significa abnegazione nello sforzo di contribuire a un
risultato comune che richiede compattezza e coordinazione. Si ricorda che anche
il Garibaldi, rivoluzionario repubblicano risorgimentale, obbedì alle
autorità militari sabaude in diverse occasioni, in particolare con un famoso
telegramma spedito durante la Terza guerra d’indipendenza, la cui immagine ho
incollato qui sopra, e poi al termine della stupefacente conquista delle
regioni del regno borbonico dell’Italia meridionale. Ma la sua obbedienza non
fu solo una questione militare: fu prima di tutto frutto di una valutazione
realistica delle prospettive dell’unificazione nazionale e dello sviluppo di
uno stato degli italiani che sostituisse il precedente pluralismo regionale,
creando innanzi tutto un popolo capace di autogoverno, nelle forme democratiche
all’epoca vigenti e concretamente possibili, alle quali egli stesso
partecipò vivacemente nel dibattito politico.
Democrazia significa autogoverno del popolo:
essa richiede la capacità culturale di elevarsi alla sovranità. Nel momento in
cui si è deciso, anche in religione, tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta
del secolo scorso, che non solo le persone di fede debbano sentire il dovere
religioso di partecipare all’autogoverno della società in cui sono immerse, ma
anche che i regimi democratici sono quelli preferibili per il governo delle
società, è chiaro che, accanto al tradizionale tema della disciplina,
dell’obbedienza, deve farsi strada quello del tirocinio all’autogoverno, ad
essere sovrani nella società e ad esserlo collettivamente, secondo il metodo
democratico incentrato sul dialogo. Non c’è altro modo, infatti, per influire
efficacemente nello sviluppo di società democratiche. In quest’ottica, “la
politica è la più alta forma di carità”, come insegnava il beato Giovanni
Battista Montini. E, non dimentichiamolo, fu san Karol Wojtyla a
insegnarci, con la sua lettera del 1991 in occasione dei cento anni dalla
lettera del suo predecessore che aveva inaugurato il magistero sociale,
che la democrazia è il regime preferibile, anche in un’ottica di fede.
Nella prospettiva democratica, come sosteneva
Lorenzo Milani, l’obbedienza non è più una virtù, se significa sottrarsi
al compito della sovranità collettiva.
La base del tirocinio democratico è la coscienza
storica. Essa mi pare carente nella formazione religiosa di primo e secondo
livello e anche in quella degli adulti e, in particolare, qui da noi. Questo
significa che, poi, il rapporto della nostra gente di fede con la democrazia
sarà piuttosto problematico. In ogni questione si andrà ansiosamente alla
ricerca di una sorta di padre a cui sottomettersi, secondo un
costume bimillenario in religione. Ma la scelta del padre, in mancanza di
sufficiente memoria storica, avverrà con criteri superficiali, sulla base di
apparenze di autorità, di forme luccicanti, di sicumere esibite, di conformismo
collettivo o di puro legalismo.
In religione ci troviamo a dover convivere con
molti padri i quali pretendono obbedienza paternalistica.
La democrazia però consiste in un certo senso proprio nel sindacare questa
autorità paternalistica e, nella mentalità democratica, si vorrebbe riscoprire,
nell’esercizio dell’autorità, il valore di una certa saggezza. I padri ce li
troviamo davanti per ragioni per così dire di natura, saggi
invece si diventa e si deve essere riconosciuti.
71.7.
In
genere nelle nostra collettività di fede non sappiamo parlare efficacemente di
libertà. Mettiamo subito le mani avanti, presentando tutti i guasti che la
libertà produrrebbe. Questo ci impedisce di lasciarci coinvolgere nel pensiero
democratico, che è centrato sull’idea di libertà. Non di rado si finisce per
dire che l’unica vera libertà è nell’obbedienza a ciò che ordinano i nostri
capi religiosi, anche se ciò viene presentato come obbedienza alla volontà
divina. Purtroppo la storia ci insegna che questa soluzione non è stata sempre
soddisfacente. E’ in questo senso che Lorenzo Milani scrisse che l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.
All’inizio ho incollato un’immagine della Statua
della libertà, a New York. Ho ricordato che sul suo piedistallo sono incisi
gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa
americana Emma Lazarus:
“Datemi chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che si accalcano nell’anelito di
libertà,
i miseri rifiuti della vostre popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli
sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò loro la porta d’oro!”.
Questa lirica rende bene, con forte impatto
emotivo, il senso dell’azione di liberazione che è propria della democrazia e
dell’idea democratica di libertà, presenti con molta forza nel pensiero che
ispirò la rivoluzione americana del 1776, con esplicite radici di fede. E
spiega perché, anche da cristiani, noi ci dobbiamo innamorare della libertà.
In democrazia libertà significa libertà
di essere giusti. La giustizia sociale è al centro dell’idea
democratica di libertà. Democrazia significa pensare, tutti insieme, con metodo
basato sul dialogo, un mondo nuovo, in cui essere liberi di essere giusti. E’
questa la politica democratica. Che richiede di elevarsi dalla soggezione
all’ingiustizia alla libertà di essere giusti. Il disegno preciso di questo
mondo nuovo non c'è nelle nostre scritture sacre, che risalgono a tempi
antichi, in cui l'idea di una democrazia di tutti non era
stata ancora prodotta, anche se, in ambiente ellenistico, a cui però l'ebraismo
delle origini cristiane era in genere ostile, la cultura possedeva varie
teorizzazioni sulla democrazia. Nelle scritture sacre possiamo trovare principi
di giustizia sociale e, innanzi tutto, l'idea di pari dignità degli esseri
umani, creati uguali, ma non la democrazia di tutti come
noi oggi la intendiamo. Ciò non significa che democrazia e fede non possano
essere conciliate. La rivoluzione statunitense di fine Settecento dimostra
proprio il contrario.
Libertà di essere giusti. Ma che cos’è questa
giustizia?
Riporto di seguito alcune righe che ci scrissi
anni fa, prendendo spunto da una Giornata della memoria.
“Abbiamo molto sbagliato quando abbiamo fatto una
politica cinica, cattiva, violenta. Questa è la politica dei despoti. Dobbiamo
fare una politica che innanzi tutto rispetti gli infiniti mondi vitali, mio zio
Achille ci scrisse un libro su, che sorreggono la nostra vita. Non escludere
nessuno, non disprezzare nessuno. Ancora con Capitini: interessarsi sommamente
a tutti, sperare che la realtà di tutti arrivi a tutti gli esclusi per
guarirli; scoprire che c'è sempre una non violenza più autentica e che
"ieri eravamo violenti". Capitini definiva questo come lavoro
"religioso" perché ci mette in rapporto con una realtà sommamente
amata e rispettata, una ricerca "sacra" perché comprende chi soffre e
sta peggio di noi. Sulla via della più alta sovranità incontriamo l'esigenza
della più alta giustizia.
Io faccio parte di una genia di malvagi
persecutori. Noi cristiani siamo stati ciechi per millenni. Seguaci di maestri
ebrei, del fariseo Paolo di Tarso, abbiamo perseguitato l'ebraismo, disprezzato
le sue sante tradizioni, i suoi riti, le sue consuetudini; abbiamo infierito in
modo inaudito su quel mondo vitale sul quale nondimeno continuavamo a invocare
benedizioni: "Gerusalemme siano rinforzate le tue porte e i tuoi bastioni,
scorra in te latte e miele, siano salvate le tue madri, crescano forti i tuoi
figli...". Questa la situazione in cui mi sono ritrovato, da cristiano.
Ora che abbiamo finalmente iniziato a convertirci, noi cristiani, ora capiamo l'infinito
amore che c'è dietro ogni gesto religioso dell'ebraismo, dietro ogni sua
tradizione e preghiera, dietro ogni rito, e ci strazia l'orrore di quello che è
stato fatto per tanto tempo. Il passato non può essere cambiato. Ma almeno per
il presente e per il futuro, nei quali si può essere diversi, vorrei mostrare
di aver imparato la lezione che ho ricevuto dalla storia e agire diversamente.
"Teshuvà", pentimento e conversione. E invitare i miei compagni a
fare altrettanto, quando insieme pensiamo a un mondo nuovo.
Prima di compiere qualsiasi violenza, prima di
cancellare sbrigativamente qualcuno dalla storia, prima di disprezzare
qualsiasi consuetudine o idea delle quali magari non capiamo subito il senso,
pensiamo bene se questa sia veramente la giustizia che ci serve per elevare
"tutti" ad essere re. Tutti i giorni mi pare che non manchino
occasioni per esercitare questa "pazienza", che significa apertura a
tutti, aspirazione alla giustizia somma, lì dove misericordia e verità finalmente
si incontrano e si baciano, come è scritto.”
Una persona che rappresenta bene questi ideali
democratici è il pastore battista statunitense nero Martin Luther King
(1929-1968), il più noto esponente del movimento statunitense dei diritti
civili degli anni Sessanta. Egli, seguace dell’ideologia non violenta
teorizzata dall’indiano Ghandi, fu un disobbediente per amore di giustizia:
questa fu la libertà che si prese.
71.8 L’esperienza del costituirsi
di una collettività è vissuta spesso secondo due modalità: quella del ritrovare
un padre e quella del trovare una persona da amare. Nelle nostre scritture
sacre esse sono entrambe presenti, ma di solito la seconda è più difficile da
vivere, e innanzi tutto da accettare, nelle nostre collettività di fede,
secondo i modi religiosi che ci siamo costruiti. Questo accade fondamentalmente
perché la nostra ideologia religiosa è prodotta da un ceto di maschi celibi che
ambiscono al ruolo di padri e tendono a organizzare collettività
paternalistiche.
Nel tirocinio della democrazia occorre
riscoprire e rivivere quell’altra modalità, dell’amore.
L’esperienza dello stato nascente è stata
paragonata all’innamoramento, all’esperienza emotiva dell’innamoramento. E c’è
molta emotività amorevole nell’esperienza della democrazia. Innanzi tutto ci si
innamora dell’anelito di libertà, quindi della libertà, non vivendola più come
peccato e fonte di disobbedienza. In democrazia, libertà significa libertà di
pensare e costruire un mondo nuovo, in cui tutti vengano liberati dal bisogno,
dall’ignoranza, dalla malattia, dalle discriminazioni su basi sociali ed
economiche, dalla solitudine. E di farlo come lavoro collettivo, in cui sono
coinvolte le moltitudini. Democrazia significa anche trovare e, innanzi tutto,
accettare, moltissimi amici. Uscire da una condizione di schiavitù, di
servaggio, esistenziale per entrare in una condizione amicale. “Vi ho
chiamato amici”: riflettere a fondo sul senso di questo detto evangelico
(Gv 15,15) può essere molto utile in un ragionamento sulla democrazia e le sue
finalità. Esso è inserito in un brano che tratta dall’agàpe, la
forma di benevolenza sociale che è caratteristica delle nostre concezioni di
fede e che ha il senso di accogliere gli altri in una piacevole convito. Gli
amici non ce li troviamo imposti per natura, come i fratelli, ma ce li
scegliamo. Le democrazie contemporanee si propongono di realizzare un’amicizia
universale, di scegliersi come amica l'intera
umanità, secondo una particolare concezione di pace che
ha fatto breccia anche nel pensiero religioso, il quale finalmente è
giunto a riconoscervi le radici di fede.
In democrazia si sogna innanzi tutto di essere
liberi di avere tanti amici, di farsi tanti amici, di farsi amiche popolazioni
di tutta la terra, senza discriminazioni. Un lavoro molto bello e
appassionante, di cui ci si può e ci si deve innamorare. In democrazia ci si
innamora di questa libertà: le catene che vengono simbolicamente infrante sono
quelle della divisione e del pregiudizio verso gli altri.
*********************************************
*********************************************
72
A
compagni di fede spietati
(agosto 2019)
72.0.
Premessa e contesto storico. Nel giugno 2019 il Governo italiano approvò un decreto legge, convertito
in legge nel successivo agosto, che consentiva al Ministro dell’Interno, di
concerto con i Ministri della Difesa e
delle infrastrutture e dei Trasporti di vietare alle navi che avevano
effettuato soccorsi in mare nel caso vi fossero motivi di ordine e sicurezza
pubblica o nel caso di violazione alle leggi sull’ immigrazione e della
disciplina internazionale sulla disciplina del soccorso in mare. Era attuazione
della politica dei porti chiusi (alle persone migranti
irregolari soccorse in mare e alle navi che avevano eseguito il soccorso). Di
seguito riporto le nuove norme.
Art. 1
Misure a tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e in
materia
di immigrazione
1. All'articolo 11 del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286,
dopo il comma 1-bis e' inserito il seguente:
«1-ter. Il Ministro dell'interno,
Autorita' nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell'articolo 1
della legge 1° aprile
1981, n.121, nell'esercizio delle
funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali
dell'Italia, può limitare o vietare
l'ingresso, il transito o la sosta di
navi nel mare territoriale, salvo
che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale,
per motivi di
ordine e sicurezza pubblica
ovvero quando si concretizzano le condizioni
di cui all'articolo 19,paragrafo 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione
vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto
del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, resa esecutiva dalla legge 2 dicembre
1994, n.
689. Il provvedimento
è adottato di concerto con il Ministro
della difesa e con il
Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti, secondo le
rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei
ministri.».
Art. 2
Inottemperanza a limitazioni
o divieti in
materia di ordine, sicurezza pubblica e immigrazione
1. All'articolo 12 del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo
il comma 6 sono inseriti i seguenti :
«6-bis. Salvo che si tratti di naviglio
militare o di
navi in servizio governativo non
commerciale, il comandante della
nave è tenuto ad osservare la
normativa internazionale e i
divieti e le limitazioni eventualmente disposti ai
sensi dell'articolo 11, comma1-ter.
In caso di violazione del
divieto di ingresso, transito
o sosta in acque territoriali italiane, salve le sanzioni penali quando il
fatto costituisce reato, si applica al comandante della
nave la sanzione amministrativa
del pagamento di una somma da euro 150.000
a euro 1.000.000. La responsabilità solidale di
cui all'articolo 6 della legge 24 novembre 1981, n. 689, si
estende all'armatore della
nave. E' sempre disposta
la confisca della
nave utilizzata per commettere la violazione, procedendosi
immediatamente a sequestro cautelare. A seguito di
provvedimento definitivo di confisca,
sono imputabili all'armatore e al proprietario della nave
gli oneri di custodia
delle imbarcazioni sottoposte
a sequestro cautelare.
All'irrogazione delle sanzioni, accertate
dagli organi addetti
al controllo, provvede il
prefetto territorialmente competente.
Siosservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.
6-ter. Le navi sequestrate ai
sensi del comma
6-bis possono essere affidate dal
prefetto in custodia agli organi di polizia, alle Capitanerie di
porto o alla
Marina militare ovvero
ad altre amministrazioni dello
Stato che ne facciano richiesta per l'impiego in attivita' istituzionali. Gli
oneri relativi alla gestione dei beni sono posti a carico dell'amministrazione
che ne ha l'uso, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
6-quater. Quando il provvedimento che dispone
la confisca diviene inoppugnabile, la nave e' acquisita
al patrimonio dello Stato e, a richiesta,
assegnata all'amministrazione che ne
ha avuto l'uso
ai sensi del comma 6-ter. La nave per la quale non sia stata presentata istanza di affidamento o
che non sia
richiesta in assegnazione dall'amministrazione che ne ha
avuto l'uso ai sensi del comma 6-ter e', a richiesta, assegnata
a pubbliche amministrazioni per
fini istituzionali ovvero venduta, anche per parti
separate. Gli oneri relativi alla
gestione delle navi
sono posti a
carico delle amministrazioni
assegnatarie. Le navi non utilmente
impiegabili e rimaste invendute
nei due anni dal primo tentativo di vendita
sono destinate alla
distruzione. Si applicano
le disposizioni dell'articolo 301-bis, comma 3,
del testo unico delle
disposizioni legislative in materia doganale, di cui al
decreto del Presidente
della Repubblica 23
gennaio 1973, n. 43».
A seguito dell’entrata in vigore delle disposizioni che
ho citato, si iniziò a vietare l’attracco in porti italiani alle navi, civili
italiane e straniere ma anche a navi della Guardia costiera italiana che
avevano effettuato soccorsi i mare di stranieri diretti verso le nostre con
imbarcazioni precarie e sovraffollate, nel verosimile intento di sbarcare in
Italia irregolarmente dal punto di vista della normativa sull’immigrazione,
vale a dire senza passaporto o altro documento valido all’ingresso in Italia e
il visto dell’autorità consolare dove richiesto. Le navi con la gente soccorsa
rimanevano a lungo al largo delle nostre coste, con i passeggeri in condizioni
sempre più disagevoli. Contemporaneamente fu attuata una politica per riservare
alla Guarda costiera libica, sostenuta e addestrata dall’Italia, i soccorsi i
mare in una vasta area di mare internazionale denominata S.A.R. (area di sorveglianza - Search e soccorso - Rescue) al largo delle acque
territoriali libiche, non impegnando in tale attività la missione
internazionale e nazionale, con navi, sommergibili, droni, aviazione, reparti
in Libia, istituita per il sostegno del governo della Libia occidentale,
riconosciuto dall’Italia e dall’ONU ma non dall’analoga entità insediata nella
Libia orientale. La Libia era in condizioni di guerra civile tra tali due
entità governativa. I soccorritori privati osservavano che la Libia non era un porto
sicuro ai sensi della convenzione sul soccorso in mare, per quella
condizioni di guerra civile. Inoltre, la gente soccorsa veniva catturata e
internata, in condizioni pessime, in campi di detenzione in Libia, in genere
senza prospettiva di altra soluzione in tempi brevi.
I vescovi italiani richiesero
pressantemente, in nome del Vangelo, di
non porre ostacoli al soccorso in mare e
di consentire alle navi dei soccorritori di sbarcare la gente soccorsa, salvo
poi eventualmente ripartire l’onere
dell’accoglienza, per chi risultasse averne diritto, con altre nazioni europee
in base ad accordi internazionali, o disporne ed eseguirne il ripatrio, in
condizioni di sicurezza e con un programma di assistenza, dopo le cure
sanitarie indispensabili (spesso le persone soccorse avevano subito sevizie,
torture e altre abusi in Libia e comunque erano state internate in condizioni
misere e igienicamente proibitive), per quelli che non ne avessero diritto.
Da una ricerca statistica diffusa da
IPSOS risultava che il 51% dei fedeli cattolici italiani, senza distinzione tra
praticanti e non praticanti, non erano d’accordo con ciò che richiedevano i vescovi italiani ed erano invece d’accordo
con la politica dei porti chiusi. Quale può essere stata la ragione? Per i più
verosimilmente è stata quella di sempre quando ci si manifesta spietati anche
senza essere personalmente cattivi: la paura, questa volta però anche indotta e fomentata mediante
l’influenza di potenti reti sociali di massa guidate con l’utilizzo di
tecnologie di intelligenza artificiale le quali, consentendo una accurata
personalizzazione del messaggio che genera paura, lo rendono più credibile.
E’ un problema antico. Ricordo
l’accorato appello di Karol Wojtyla, papa a lungo regnante come Giovanni Paolo
2° e poi santo riconosciuto, quando svolse l’omelia nella Messa di
inaugurazione del pontificato, il 22 ottobre 1978:
Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere
Cristo e di accettare la sua potestà!
Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo
e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera!
Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a
Cristo!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli
Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di
civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo
lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso
della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in
disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con
fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita,
sì! di vita eterna.
72.1. Motivazione alla fede
Una fede religiosa, la nostra,
c'è. Ha una sua realtà sociale che si manifesta anche in certe istituzioni. La
parrocchia è quella che ci è più prossima. Nasce appunto per questo: per farci
prossima la fede religiosa. Celebra riti, programma un'attività formativa. Per
la scarsità delle forze ci si concentra sull'essenziale: quella di base per i
più piccoli, quella di secondo livello in preparazione all'ingresso nella
società degli adulti, quella in vista del matrimonio. Questa formazione rientra
nell'idea di catechismo, perchè consiste anche nell'esposizione ordinata di
contenuti, che riguardano il Cielo, gli esseri umani e gli altri viventi in
rapporto al Cielo, la storia sacra, l'etica individuale e collettiva, i riti
individuali e collettivi e inoltre le varie funzioni che si svolgono nelle
collettività religiose, materia che comprende anche di sapere chi e in che
misura esercita l'autorità. Il tempo, però, è poco e l'interesse, al quale agli
inizi fa da stampella l'autorità dei genitori, tende in genere a calare quando
si cresce. Questo lavoro di istruzione ed educazione religiosa viene
completato, di solito, in chi si fa diacono o prete o in chi chiede di essere
ammesso in un ordine religioso, per farsi monaca o monaco, suora o frate.
L'altra gente spesso non ne sa a sufficienza e, non seguendo un
programma di formazione permanente, tende anche a scordare ciò che ha imparato.
Questo sta creando gravi problemi di questi tempi, nei quali si vanno
diffondendo correnti ideologiche esplicitamente contrarie ai fondamenti della
nostra fede. Non vi è una sufficiente resistenza culturale e pratica in coloro
che hanno conservato un orientamento religioso, che sono tuttora la grande
maggioranza di quelli che vivono in Italia.
È un'esperienza che si è vissuta
nel confronto con il liberalismo, con i comunismi atei, con i fascismi europei,
e con i capitalismi liberistici. Il liberalismo criticò l'oscurantismo
clericale e il suo dispotismo. I comunismi atei criticarono la fede religiosa
come frutto di un inganno delle classi dominanti in danno di quelle sottomesse,
che comprendevano la maggioranza della gente. I fascismi vollero inglobare la
fede religiosa nella loro ideologia nazionalista, basata sull'idea che ci si
dovesse compattare per predare gli altri popoli, considerati come inferiori. I
capitalismi liberistici criticano la pretese religiose di porre limiti ai
risultati dello scontro tra le forze economiche e al disequilibrio degli
scambi: ritengono che un affare sia condotto al meglio se c'è una parte che
prevale, considerano fonte di inefficienza la pretesa di equità perché pensano
che i deboli debbano essere eliminati dal mercato, e questo anche se si tratta
della vita delle persone non di merci o imprese.
Di fronte agli aspetti ateistici
di quelle ideolologie si ebbe una resistenza popolare efficace. Dal liberalismo
si imparó di nuovo il rispetto della persona umana, che del resto ha antichi
fondamenti religiosi, e il rispetto delle scienze e, in genere, della cultura;
dal socialismo si imparó di nuovo l'antica etica religiosa della condivisione.
Dal capitalismo si imparó l'etica dell'iniziativa privata e del rispetto di
essa, ponendo tuttavia dei limiti inderogabili allo sfruttamento degli esseri
umani e della natura. Del fascismo non ci fu nulla da salvare perché l'etica
della predazione è radicalmente irreligiosa. E tuttavia la religiosità di
alcune nazioni cattoliche rimase impregnata di fascismo, in particolare in
Italia dove si ebbe una commistione tra ideologia fascista mussoliniana e parti
dell'etica religiosa, dopo il Concordato Lateranense del 1929.
I tempi che stiamo vivendo vedono
il manifestarsi di neo-fascismi capitalistici. Dei fascismi storici hanno il
programma di repressione del dissenso e la volontà di predare. Del capitalismo
hanno il mirare all'arrichimento personale, mentre i fascismi europei storici
proponevano una mistica del sacrificio personale per la gloria delle nazioni di
riferimento. Da un punto di vista religioso essi sono gravemente peccaminosi,
perché negano uno dei principi fondamentali della nostra fede: quello della
fratellanza universale. Senza di esso, semplicemente la nostra fede non c'è
più. Si tratta quindi di ideologie atee.
Tuttavia ci si è accorti che la
(scarsa) formazione religiosa della gente non consente a molti di avvedersene e
ciò contro i chiarissimi moniti dei pastori, anzitutto del Papa. Nella prima
parte della mia vita sono vissuto in epoche in cui i Papi venivano duramente criticati,
e anche vilipesi, ma mai, assolutamente mai, ignorati. L'attuale Papa deve
invece far l'esperienza di essere ignorato. Anche dai suoi fedeli e su punti
fondamentali della dottrina, in cui ha senz'altro il diritto canonico di essere
obbedito. Ma questo, tutto sommato, è il meno. Si ignora addirittura il
Fondamento santo e la sua Via, che in una prospettiva religiosa è l'unica che
porti alla vera salvezza, che è anzitutto quella salvezza dal pericolo di
tornare come le antiche belve nostre progenitrici. Ci si illude di
potersi salvare per altra via e, a questo punto, la religione non è più
espressione di fede, ma più che altro un bel cerimoniale, dall'inizio alla
fine.
Che fare?
Alcuni propongono di predicare con
le parole dei Vangeli così come sono, senza alcuna mediazione, confidando che
esse possano (ancora) essere intese dalla nostra gente, così come le si legge.
Secondo la mia esperienza ci si illude che funzionino. Non funzionano.
Del resto, nei due millenni della
nostra storia religiosa esse hanno dovuto sempre essere spiegate, vale a dire
mediate. Era così anche quando ancora non erano state scritte, come dimostra
l'episodio evangelico dei discepoli di Emmaus. E non le si può nemmeno spiegare
semplificando molto come si fa con i bambini, e si faceva con gli incolti
quando in società non contavano nulla. In un'ambiente di democrazia popolare
come (ancora) è l'Italia, anche gli incolti votano, e così hanno nelle loro
mani le sorti della nazione, compresa la loro. Che succederà se decideranno ignorando
che si è tutti fratelli e che ci si salva tutti insieme o si perisce, perché le
società mondiali sono diventate talmente interconnesse da non rendere possibile
altra salvezza che quella?
L'affermazione sociale della
nostra fede religiosa, dalle origini nell'antica Siria all'epoca inglobata
nell'Impero greco-romano il quale,
sviluppatosi a Roma, si cristianizzò in Grecia, attorno alla corte di
Costantinopoli, fu difficoltosa e contrastata, durò circa quattro secoli, e fu
caratterizzata da aneliti rivoluzionari quanto al modo di esercitare il potere
politico. Essi furono all'origine di ricorrenti azioni di repressione. Il
politico cristiano lo si voleva molto diverso dai politici dissoluti di quelle
epoche. Lo si voleva sottomesso all'etica della fraternità universale. Che
dipendeva dall'idea di una comune figliolanza universale. Dall'avere,tutti, un
Padre comune. Gli imperatori romani consideravano se stessi
"padri" dei molti popoli caduti nel loro dominio. Ma tendevano
a considerarsi misura del giusto e dell'ingiusto. Quelli tra loro che chiesero
onori divin non era perché si considerassero onnipotenti,creatori del Cielo e
della Terra, (non erano dei folli), ma solo persone eccezionali: nell'antico
politeismo non vi erano dei onnipotenti. In virtù di questa loro
"eccezionale umanità" ritenevano di poter legiferare senza
altro limite che se stessi. Ma, secondo la nostra fede, nessun potere è
legittimo se rifiuta l'etica della fraternità universale: il che significa
porre limiti ad ogni potere che si esercita da esseri umani, benché
eccezionali, su altri esseri umani. Questa l'obiezione fondamentale della
dottrina etica secondo la nostra fede verso ogni potente della Terra. In
ambiente democratico essa riguarda anche tutti coloro che, a vario livello,
sono partecipi di dinamiche di potere. "Ricordati" è il suo monito
"che tu non sei un dio", "la vita dei tuoi fratelli non è nelle
tue mani". Chi si sente rimproverare così forse lo considera ingiusto,
perché pensa di essere lui in pericolo, non gli altri che subiscono le
conseguenze di certe politiche alle quali egli dá l'assenso, e di non avere
altra via d'uscita. Alla fine spesso ci sono quelli che finiscono per uscirsene
con qualcosa di simile al tremendo "sono forse io il guardiano di mio
fratello?" biblico.E non sono nemmeno capaci di rendersi conto di aver
così deliberato la propria condanna morale e storica,
Sentiamo ancora la necessità dì
fraternità universale? Crediamo ancora che in essa sia la vera salvezza, quella
individuale come quella collettiva? Si tratta, ancor prima
dell'evangelizzazione esplicita, di contribuire a ricostituire le motivazioni
alla base della decisione personale per la fede. È cosa che o si fa insieme, in
ambiente comunitario, innanzi tutto rimettendo insieme quel tipo di società di
base, o non riesce.