L’etica
nella ricchezza
L’idea di ricchezza è relativa. Ricchi,
rispetto a chi?
Nelle società umane c’è sempre qualcuno che è
più ricco. Rispetto ai più ricchi ci si può immaginare come poveri. Ma c’è chi
ha meno. E anche molto meno. Però c’è difficoltà a riconoscersi ricchi rispetto a chi ha meno. Al più si
riconosce di stare bene. Non si
vorrebbe porre un limite etico alla possibilità di arricchirsi, riconoscendosi già ricchi. E anche il presupposto, in quanto ricchi confessi, di doveri etici di soccorrere chi ha meno. Questa etica che ci è un po’
d’impaccio ha specifica base nella nostra fede, nella dottrina sociale
diffusa fin dalle origini. La troviamo espressa in diverse narrazioni
evangeliche. Rientra, quindi, nei fondamenti.
Anche in economia e in sociologia si affronta
il tema della povertà. Ci si occupa di chi sta peggio. Se la povertà è molto
diffusa diventa un problema sociale e politico. A seconda dei vari sistemi
politici, un certo livello di povertà viene considerato fisiologico. Ma, oltre
un certo limite, la gente comincia ad agitarsi e cerca di fare pressione su chi tiene i cordoni della borsa. Inoltre, essere ricchi in mezzo a tanta gente che
sta male è meno piacevole. Il benessere e la felicità sono in larga parte prodotti sociali,
nel senso che non basta possedere, ma occorre avere un certo tipo di relazioni
con gli altri. Dunque, se ci sono troppi poveri in giro, anche i ricchi finiscono per essere meno felici. La ricchezza isola: si ha il timore di perderla e, innanzi
tutto, che gli altri si avvicinino solo per sottrarne un po’ con la scusa
dell’amicizia. Anche la povertà estrema, come la malattia grave, isola: i
problemi sono troppo seri e incidono sulla possibilità di trovare amici. Chi si trova ai livelli intermedi trova
piacere nel dare e ottenere solidarietà: insieme ci si fa forza e l’amicizia dà
quel calore umano che dà senso alla vita. Per quanto si abbia meno di altri,
c’è qualcosa da condividere. Ci si mette intorno ad una tavola, in un lieto
convito, e si divide ciò che si ha. Questa immagine è al centro della nostra
fede. La nostra Messa è la rappresentazione di una cena.
Anche l’idea di povertà è relativa. La
considerano tale anche gli economisti. In una società povera, come ancora ve ne
sono nel mondo, basta poco per essere considerati persone che stanno bene. Nelle società europee, che
sono ricche, ci si serve, per definirla, dell’idea di benessere, prendendo come riferimento un certo tenore di vita, che
varia di area in area, che lo consente. Si considera però che c’è un certo
livello di reddito al di sotto del quale non si riesce ad avere accesso a beni
essenziali: non è più solo questione di benessere, non si riesce più, ad esempio, ad alimentarsi in maniera sufficiente o a curarsi per malattie banali.
A quel punto non resta che tendere la mano e aspettare che qualcun altro la
riempia di qualcosa. Si parla allora di povertà estrema o addirittura assoluta. Le cause della povertà
estrema? Dipende innanzi tutto da dove si nasce. C’è quello che gli economisti
indicano come rendita da cittadinanza.
Se si nasce in certi posti dell’Africa si parte male. La guerra è tra le prime
cause di povertà. Poi ci sono le malattie e la vecchiaia, e spesso i vecchi
sono anche molto malati. Per la gente
valida al lavoro che vive in posti non
travagliati dalla guerra, la prima causa della povertà è il sistema economico,
che crea scarti e non fa parti giuste. La gente che arriva sulle nostra coste
provenendo dalla vicina Africa, traversando il mare su precarie imbarcazioni,
è, di solito, in condizioni di povertà estrema. I 150.000 che ogni anni migrano
dall’Italia verso l’estero, in gran parte verso stati dell’Unione Europea, sono
spesso in condizioni di povertà relativa. La migrazione è una strategia che viene naturale a chi sta
peggio, perché combattere le cause sociali (guerre, caratteristiche del sistema
economico) o naturali (malattia, vecchiaia, cataclismi naturali) è molto
difficile e richiederebbe, innanzi tutto, di associarsi e lottare (rischiando
in questo la vita e il poco altro che si ha); si cerca allora di trasferirsi verso i
posti più ricchi, in modo da condividere quella rendita di cittadinanza. I nostri avi partirono tutti dall’Africa
centro-orientale: ce lo confermano le indagini genetiche. La vita delle
comunità umane, fin dai tempi preistorici, è un’infinita serie di migrazioni. Al
punto che oggi nessuno può dirsi veramente autoctono,
come se fosse spuntato dalla terra dove abita.
Il Maestro, nella
sua vita da uomo tra noi, iniziò il suo ministero…tra i malati? Tra i poveri? No. Provvedendo
il vino ad un pranzo di nozze. La dimensione conviviale è stata, così, sempre
molto importante nella nostra prospettiva di fede. Poi si occupò di soccorrere
i malati e, addirittura, i morti. La comunità che si era radunata intorno a lui
sembra che si occupasse anche dei poveri. Ce n’è traccia nell’episodio
evangelico nel quale una donna impiegò un unguento prezioso per il Maestro. E’
scritto (Marco 14,4-5) che ci furono alcuni
che si sdegnarono fra di loro: «Perché
tutto questo spreco di olio profumato?. Si poteva benissimo vendere quest'olio
a più di trecento denari e darli ai poveri!». Il Maestro diede inoltre
quest’insegnamento ad un tale che voleva fare di più della semplice osservanza
della legge: «Se vuoi essere perfetto, va’,
vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi
vieni e seguimi». Se ne faceva, sostanzialmente, una questione
etica per chi in società stava meglio. L’ingiustizia veniva considerata
cattiva, ma, a parte la direttiva di essere misericordiosi, non troviamo
indicazioni di riforma sociale o, addirittura, di azioni sociali da parte di
chi in società stava peggio. Si era in un sistema politico, quello dominato
dagli antichi romani, in cui fatti del genere erano accaduti. Proprio qui nella
nostra zona, a Montesacro, si era avuta una rivolta plebea, di chi in società stava peggio. Le indicazioni religiose
per un governo giusto le traiamo in
gran parte dal Primo Testamento, quello che narra della antichità ebraiche. Del
resto il Maestro non volle mai rinnegarlo. Eppure a una cosa del genere si è
ripetutamente pensato nella nostra storia religiosa: di limitarsi al Vangelo,
sconfessando l’antico ebraismo. Una posizione duramente condannata dal
Magistero. Troviamo un biasimo del genere nell’enciclica Con viva ansia del papa Achille Ratti - Pio 11° - (1937), sull’azione politica del
nazionalsocialismo tedesco: «Solo
cecità e caparbietà possono far chiudere gli occhi davanti ai tesori di
salutari insegnamenti, nascosti nell’Antico Testamento. Chi quindi vuole
banditi dalla Chiesa e dalla scuola la storia biblica e i saggi insegnamenti
dell’Antico Testamento, bestemmia la parola di Dio, bestemmia il piano della
salute dell’Onnipotente ed erige a giudice dei piani divini un angusto e
ristretto pensar umano. Egli rinnega la fede in Gesù Cristo, apparso nella
realtà della sua carne, il quale prese natura umana da un popolo, che doveva
poi configgerlo in croce. Non comprende nulla del dramma mondiale del Figlio di
Dio, il quale oppose al misfatto dei suoi crocifissori, qual sommo sacerdote,
l’azione divina della morte redentrice, e fece così trovare all’Antico
Testamento il suo compimento, la sua fine e la sua sublimazione nel Nuovo
Testamento.».
Il
problema della povertà è, dunque, anche religioso. Storicamente lo si è
affrontato, in genere, rassegnandosi all’esistenza della povertà, e per la verità anche dell’estrema
ricchezza, che a lungo è stata quella dei prìncipi sovrani. Le istituzioni
religiose, memori dell’insegnamento del Maestro, hanno in genere organizzato attività per soccorrere
i poveri e i malati. Ma la critica sociale non fu, in genere, apprezzata dai
più ricchi. Un esempio di critica sociale è la figura di Francesco d’Assisi,
che l’espresse con gesti clamorosi, ottenendo la simpatia di potenti prìncipi
religiosi del suo tempo, che gliela conservarono a condizione che si manifestasse
loro sottomesso. Certe cose, in definitiva, finirono per diventare da frati. E questo anche se importanti
azioni caritative vennero promosse da laici. Mancava però la convinzione che
fosse doveroso rimediare alle cause sociali
della povertà. Si raccomandava di lenirla. Ci si convinse di dover fare più di questo dalla
metà del secolo scorso, al termine di uno sviluppo ideale iniziato a metà dell’Ottocento,
nella stessa linea di pensiero che si proponeva di indagare come prevenire
future guerre totali. Si passò dal considerare la povertà e le guerre come
fenomeni naturali, contro cui c’era poco da fare, a prodotti di cause sociali,
quindi riformabili. Si cominciò a considerare come possibile, mediante riforme sociali, l’abolizione della povertà, così come delle guerre totali ,andando oltre il semplice lenirla con azioni caritative. Nella nostra
confessione, la riflessione fu molto approfondita durante il Concilio Vaticano
2° (1962-1965):
«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso
la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la
stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo «
che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di
schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor
8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia
bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì
per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo
infatti è stato inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a
guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò
che era perduto» (Lc 19,10)», così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura
quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei
sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di
sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo.
[Dalla Costituzione dogmatica Luce per le genti n.8]
L’arrivo di tanta gente in
condizione di povertà estrema ai tempi nostri ci preoccupa. Il sistema economico non sembra in
grado di prendersi cura di tutti quelli che sono così, e c’è una certa
insofferenza anche per quelli che stanno un po’ meglio, ma che mancano di molto
di ciò che dà una condizione minima di benessere. Si vorrebbe imitare lo stile
di vita dei più ricchi, o comunque trovarsi con quelli che hanno qualcosa da
condividere.Si guarda a quelli e si finisce per acquisire una mentalità da ricchi, anche se si è
solo gente che sta bene. Si teme che, dovendo dividere con altri la misericordia
sociale, non ce ne sarà più abbastanza, all'occorrenza, per noi che c’eravamo prima (l’unico
vero titolo preferenziale che rivendichiamo). I più ricchi ci ammoniscono: se tocchiamo il sistema economico, verremo a rimetterci
anche noi, perdendo quello che ancora abbiamo. Se ci manteniamo disciplinati al nostro posto, facendo quello che si vuole da noi, qualcosa arriverà anche a noi. Così siamo scoraggiati dal prendere parte
a un’azione di riforma sociale. Ci spingono, invece, a scagliarci contro i nuovi
arrivati, presentati come concorrenti. Si scopre però che, anche solo per cercare di sovvenire alle esigenze di chi tra noi
sta peggio, non potendo riformare il sistema economico, occorre fare debiti,
cercando soldi a caro prezzo proprio con gli strumenti del sistema economico
che sta respingendo molti ed è insofferente di chi è stato scartato, in sostanza peggiorando la situazione. O si deve cercare di tagliare
altre prestazioni sociali. La coperta della previdenza sociale sembra troppo corta per coprire tutte le esigenze. Guerre tra chi in società sta peggio! Non c’è più quella
che negli scorsi anni Settanta veniva definita politica dei redditi, e che si attuava, secondo quanto espressamente previsto
dalla nostra Costituzione, aumentando nella misura del necessario l’imposizione fiscale sulle le quote di maggiore
ricchezza sociale, di chi era stato maggiormente favorito da quella rendita di cittadinanza di cui dicevo, che è un prodotto sociale, ad
esempio dei livelli di istruzione e salute assicurati mediante servizi
pubblici, pagati da tutti. Anzi: si vuole ridurre le tasse a chi in società ha più beneficiato dell’aumento
dei guadagni garantito dal sistema economico anche nelle fasi recessive, dalle
quali il capitale, la ricchezza investita in attività produttive, può
rapidamente sganciarsi, lasciando lavoratori disoccupati e macerie di aziende. Questo
è un problema politico. Ma come la mettiamo con quello religioso?
Come la mettiamo, in coscienza, con la mentalità da ricchi impenitenti che
abbiamo acquisito anche se ricchi non siamo? Con la difficoltà a condividere?
Si è divenuti insofferenti alla stessa
dottrina sociale. Il Papa, in fondo, è uno di quei grilli
parlanti che vorremmo appiccicare al
muro. Ci piacerebbe che insegnasse come qualche altro di prima, che immaginiamo più accondiscendente verso chi sta meglio. Ma quando mai i Papi hanno insegnato qualcosa di diverso da ora in materia di ricchi e di poveri? Il Papa scrive, ma non sempre abbiamo tempo e voglia di leggere e, poi, preferiamo fare di testa nostra, pensando di sapere come va il mondo e che vada bene come va, visto che non ci va tanto male. Eppure, mai come ora, la dottrina sociale ci sta spiegando come vanno
veramente le cose, le vere cause sociali dei mali sociali che ci affliggono. E’
perché si avvale anche di scienziati sociali di valore.
Non risuonano più, nella nostra coscienza, certi tremendi moniti:
«Ma guai a coloro che in questo tremendo
momento non assurgono alla piena coscienza della loro responsabilità per la
sorte dei popoli, che alimentano odi e conflitti fra le genti, che edificano la
loro potenza sulla ingiustizia, che opprimono e straziano gl'inermi e
gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13); ecco che l'ira di Dio verrà sopra
di loro sino alla fine (cfr. I Thess. 2, 16)!»
[dal Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1943, nel 4°
anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale]
Mario Ardigò -
Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli