Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna. Secondo questo criterio va giudicato il principio: « Diritto è ciò che è utile alla nazione ». Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo. Persino l’antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase dovrebbe essere capovolta e suonare: «Non vi è mai alcunché di vantaggioso, se in pari tempo non è moralmente buono, e non perché è vantaggioso è moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso ». Questo principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni; nella vita nazionale poi misconosce, nel confondere interesse e diritto, il fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità, che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio. Disprezzando questa verità, si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura umana.
[dalla Lettera enciclica Mit brennender sorge - Con viva ansia, diffusa il 14 marzo 1937 dal papa Achille Ratti, regnante in religione come Pio 11°]
Ma guai a coloro che in
questo tremendo momento non assurgono alla piena coscienza della loro
responsabilità per la sorte dei popoli, che alimentano odi e conflitti fra le
genti, che edificano la loro potenza sulla ingiustizia, che opprimono e
straziano gl'inermi e gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13); ecco che
l'ira di Dio verrà sopra di loro sino alla fine (cfr. I Thess. 2,
16)!
[dal Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1943, nel 4°
anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale]
Discorsi e
radiomessaggi del papa Eugenio Pacelli - Pio 12° - tra il 1939 e il 1945,
contenenti dottrina sociale in materia di organizzazione sociale e politica. L’enciclica
Con viva Ansia del papa Achille
Ratti - Pio 11° - (1937), sull’azione
politica del nazionalsocialismo tedesco.
[dal
sito WEB http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html
della Santa Sede]
Torna attuale di questi tempi la dottrina
sociale in materia di organizzazione sociale e politica diffusa dai papi
Achille Ratti - Pio 11° - ed Eugenio Pacelli - Pio 12°- tra il 1937 e il 1945.
La ripropongo, traendola dal sito WEB http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html
della Santa Sede, ripromettendomi di commentarla, anche traendo spunti da
letture che vado facendo in questi giorni.
I documenti compongono un libretto di 95
pagine che potrebbe utilmente essere adottato come libro di testo per un gruppo
parrocchiale di approfondimento della dottrina sociale composto di persone che
abbiano concluso almeno il ciclo di studi della scuola media superiore. Per
intenderli occorre avere sotto mano il libro di storia dell’ultimo anno delle
superiori.
Mario Ardigò
- Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Indice
1937
14 marzo 1937 - Lettera enciclica Mit brennender sorge - Con viva ansia del papa Achille Ratti, regnante in
religione come Pio 11°;
1939
24 agosto 1939 - Radiomessaggio del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, rivolto ai governanti ed ai popoli
nell'imminente pericolo della guerra;
24 dicembre 1939 - Discorso del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, al Sacro collegio e alla Prelatura
Romana in occasione della Vigilia del Natale 1939
1941
1 giugno 1941 -Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio
12°, in occasione della Pentecoste del 1941, nel 50° anniversario
dell’enciclica «Rerum novarum» (1891), diffuso nella solennità di
Pentecoste;
24 dicembre 1941 - Radiomessaggio
del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio XII nella Vigilia del
natale 1941;
1942
24 dicembre 1942 Radiomessaggio
del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione
della Vigilia del Natale 1942;
1943
1943
1 settembre 1943 Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, nel 4° anniversario dell’inizio della
Seconda Guerra mondiale;
24 dicembre 1943
Radiomessaggio
del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del
mondo intero in occasione della Vigilia del Natale 1943;
1944
1
settembre 1944 - Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione
come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1944 nel 5° anniversario dell’inizio della
Seconda Guerra Mondiale;
24 dicembre 1944 - Radiomessaggio
del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, ai popoli del
mondo interno in occasione della Viglia del Natale 1944;
1945
9 maggio 1945
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante in
religione come Pio 12°, «Ecco alfine terminata», in occasione della fine in
Europa della Seconda guerra mondiale;
2 giugno 1945 - Discorso del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Nell’accogliere», ai
Cardinali che gli avevano presentato gli auguri per la festa di Sant’Eugenio;
24 dicembre 1945
Discorso
del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Negli ultimi sei
anni», diffuso in occasione della Vigilia del Natale 1945.
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1937
14 marzo 2017
Lettera enciclica Mit brennender sorge - Con viva ansia
del papa Achille Ratti, regnante in
religione come Pio 11°
Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e agli altri Ordinari di
Germania aventi pace e comunione con la Sede Apostolica.
Il Papa Pio XI. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Con viva ansia e con stupore sempre crescente veniamo osservando da lungo
tempo la via dolorosa della Chiesa e il progressivo acuirsi dell’oppressione
dei fedeli ad essa rimasti devoti nello spirito e nell’opera; e tutto ciò in
quella terra e in mezzo a quel popolo, a cui S. Bonifacio portò un giorno il
luminoso e lieto messaggio di Cristo e del Regno di Dio.
Tale Nostra ansia non è stata alleviata dalle relazioni che i
Reverendissimi Rappresentanti dell’Episcopato, conforme al loro dovere, Ci
fecero secondo verità, visitandoCi durante la Nostra infermità. Accanto a molte
notizie, che Ci furono di consolazione e conforto, sulla lotta sostenuta dai
loro fedeli a causa della religione, non poterono, nonostante l’amore al loro
popolo e alla loro patria e la cura di esprimere un giudizio ben ponderato,
passare sotto silenzio innumerevoli altri avvenimenti tristi e riprovevoli.
Quando Noi udimmo le loro relazioni, con profonda gratitudine verso Dio potemmo
esclamare con l’Apostolo dell’amore: «Non ho gioia più grande di quando
sento che i miei figli camminano nella verità »(1). Ma la franchezza
che si addice alla grave responsabilità delNostro ministero Apostolico, e la
decisione di presentare davanti a voi e all’intero mondo cristiano la realtà in
tutta la sua crudezza esigono anche che aggiungiamo: Non abbiamo maggiore ansia
né più crudele afflizione pastorale di quando sentiamo che molti abbandonano il
cammino della verità(2).
1. IL CONCORDATO
Quando Noi, Venerabili Fratelli, nell’estate del 1933, a richiesta del
governo del Reich, accettammo di riprendere le trattative per un Concordato, in
base ad un progetto elaborato già vari anni prima, e addivenimmo così ad un
solenne accordo, che riuscì di soddisfazione a voi tutti, fummo mossi dalla
doverosa sollecitudine di tutelare la libertà della missione salvifica della
Chiesa in Germania e di assicurare la salute delle anime ad essa affidate, e in
pari tempo dal sincero desiderio di rendere un servizio d’interesse capitale al
pacifico sviluppo e al benessere del popolo tedesco.
Nonostante molte e gravi preoccupazioni, pervenimmo allora, non senza
sforzo, alla determinazione di non negare il Nostro consenso. Volevamo
risparmiare ai Nostri fedeli, ai Nostri figli e alle Nostre figlie della
Germania, secondo le umane possibilità, le tensioni e le tribolazioni che, in
caso contrario, si sarebbero dovute con certezza aspettare, date le condizioni
dei tempi. E volevamo dimostrare col fatto, a tutti, che Noi, cercando solo
Cristo e ciò che appartiene a Cristo, non rifiutiamo ad alcuno, se egli stesso
non la respinga, la mano pacifica della Madre Chiesa.
Se l’albero di pace, da Noi piantato in terra tedesca con puro intento, non
ha prodotto i frutti, da Noi bramati nell’interesse del vostro popolo, non ci
sarà alcuno al mondo intero, che abbia occhi per vedere e orecchi per sentire,
il quale potrà dire ancor oggi la colpa essere della Chiesa e del suo Capo
Supremo. L’esperienza degli anni trascorsi mette in luce le responsabilità, e
svela macchinazioni, che già dal principio non si proposero altro scopo se non
una lotta fino all’annientamento. Nei solchi, in cui Ci eravamo sforzati di
gettare la semenza della vera pace, altri sparsero — come l’inimicus
homo della Sacra Scrittura(3) — la zizzania della sfiducia, della
discordia, dell’odio, della diffamazione, di un’avversione profonda, occulta e
palese, contro Cristo e la sua Chiesa, scatenando una lotta che si alimentò in
mille fonti diverse, e si servì di tutti i mezzi. Su di essi e solamente su di
essi, e sui loro protettori, occulti o palesi, ricade la responsabilità se
all’orizzonte della Germania apparisce, non l’arcobaleno della pace, ma il
nembo minaccioso delle dissolvitrici lotte religiose.
Venerabili Fratelli, Noi non Ci siamo stancati di far presente ai
reggitori, responsabili delle sorti della vostra nazione, le conseguenze che
sarebbero necessariamente derivate dalla tolleranza, o peggio ancora dal
favoreggiamento di quelle correnti. Abbiamo fatto di tutto per difendere la
santità della parola solennemente data, la inviolabilità degli obblighi
volontariamente contratti, contro teorie e pratiche, le quali, se ufficialmente
ammesse, avrebbero dovuto spegnere ogni fiducia e svalutare intrinsecamente
ogni parola data, anche per l’avvenire. Se verrà il momento di esporre agli
occhi del mondo questi Nostri sforzi, tutti i ben pensanti sapranno dove sono
da cercare i tutori della pace e dove i suoi perturbatori. Chiunque abbia
conservato nel suo animo un residuo di amore per la verità, e nel suo cuore
anche un’ombra del senso di giustizia, dovrà ammettere che negli anni difficili
e gravi di vicende, susseguitisi al Concordato, ciascuna delle Nostre parole e
delle Nostre azioni ebbe per norma la fedeltà degli accordi sanciti. Ma dovrà
anche riconoscere, con stupore e con intima ripulsa, come dall’altra parte si
sia eretto a norma ordinaria lo svisare arbitrariamente i patti, l’eluderli, lo
svuotarli e finalmente il violarli più o meno apertamente.
La moderazione da Noi finora mostrata, nonostante tutto ciò, non Ci è stata
suggerita da calcoli di interessi terreni né tanto meno da debolezza, ma
semplicemente dalla volontà di non strappare, insieme con la zizzania, anche
qualche buona pianta; dalla decisione di non pronunziare pubblicamente un
giudizio, prima che gli animi fossero maturi per riconoscerne l’ineluttabilità;
dalla determinazione di non negare definitivamente la fedeltà di altri alla
parola data, prima che il duro linguaggio della realtà avesse strappato i veli,
con cui si è saputo e si cerca anche adesso mascherare, secondo un piano
prestabilito, l’attacco contro la Chiesa. Anche oggi, che la lotta aperta
contro le scuole confessionali, tutelate dal Concordato, e l’annientamento
della libertà di voto per coloro che hanno diritto all’educazione cattolica,
manifestano, in un campo particolarmente vitale per la Chiesa, la tragica
serietà della situazione e una non mai vista pressione spirituale dei fedeli,
la sollecitudine paterna per il bene delle anime Ci consiglia di non lasciare
senza considerazione le prospettive, per quanto scarse, che possano ancora
sussistere, di un ritorno alla fedeltà dei patti e ad una intesa permessa dalla
Nostra coscienza.
Seguendo le preghiere dei Reverendissimi Membri dell’Episcopato non Ci
stancheremo anche nel futuro di difendere il diritto leso presso i reggitori
del vostro popolo, incuranti del successo o dell’insuccesso del momento,
ubbidienti solo alla Nostra coscienza e al Nostro ministero pastorale, e non
cesseremo di opporCi ad una mentalità, che cerca, con aperta od occulta
violenza, di soffocare il diritto, autenticato da documenti.
Lo scopo però della presente lettera, Venerabili Fratelli, è un altro. Come
voi ci avete visitato amabilmente durante la Nostra infermità, così Noi ci
rivolgiamo oggi a voi e, per mezzo vostro, ai fedeli cattolici della Germania,
i quali, come tutti i figli sofferenti e perseguitati, stanno molto vicini al
cuore del Padre comune. In questa ora, in cui la loro fede viene provata, come
vero oro, nel fuoco della tribolazione e della persecuzione, insidiosa o
aperta, ed essi sono accerchiati da mille forme di organizzata compressione
della libertà religiosa, in cui l’impossibilità di aver informazioni, conformi
a verità, e di difendersi con mezzi normali, molto li opprime, hanno un doppio
diritto ad una parola di verità e d’incoraggiamento morale da parte di Colui,
al cui primo predecessore il Salvatore diresse quella parola densa di
significato: « Io ho pregato per te, affinché la tua debolezza non
vacilli, e tu a tua volta corrobora i tuoi fratelli »(4).
2. GENUINA FEDE IN DIO
E anzitutto, Venerabili Fratelli, abbiate cura che la fede in Dio, primo e
insostituibile fondamento di ogni religione, rimanga pura e integra nelle
regioni tedesche. Non si può considerare come credente in Dio colui che usa il
nome di Dio retoricamente, ma solo colui che unisce a questa venerata parola
una vera e degna nozione di Dio.
Chi, con indeterminatezza panteistica, identifica Dio con l’universo,
materializzando Dio nel mondo e deificando il mondo in Dio, non appartiene ai
veri credenti.
Né è tale chi, seguendo una sedicente concezione precristiana dell’antico
germanesimo, pone in luogo del Dio personale il fato tetro e impersonale,
rinnegando la sapienza divina e la sua provvidenza, la quale « con
forza e dolcezza domina da un’estremità all’altra del mondo »(5) e
tutto dirige a buon fine. Un simile uomo non può pretendere di essere annoverato
fra i veri credenti.
Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i
rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società
umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi
peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema
norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto
idolatrico, perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano
dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme.
Rivolgete, Venerabili Fratelli, l’attenzione all’abuso crescente, che si
manifesta in parole e per iscritto, di adoperare il tre volte santo nome di Dio
quale etichetta vuota di senso per un prodotto più o meno arbitrario di ricerca
o aspirazione umana, e adoperatevi che tale aberrazione incontri tra i vostri
fedeli la vigile ripulsa che merita. Il nostro Dio è il Dio personale,
trascendente, onnipotente, infinitamente perfetto, uno nella trinità delle
persone e trino nell’unità della essenza divina, creatore dell’universo,
signore, re e ultimo fine della storia del mondo, il quale non ammette né può
ammettere altre divinità accanto a sé.
Questo Dio ha dato i suoi comandamenti in maniera sovrana: comandamenti
indipendenti da tempo e spazio, da regione e razza. Come il sole di Dio splende
indistintamente su tutto il genere umano, così la sua legge non conosce
privilegi né eccezioni. Governanti e governati, coronati e non coronati, grandi
e piccoli, ricchi e poveri dipendono ugualmente dalla sua parola. Dalla
totalità dei suoi diritti di Creatore promana essenzialmente la sua esigenza ad
un’ubbidienza assoluta da parte degli individui e di qualsiasi società. E tale
esigenza all’ubbidienza si estende a tutte le sfere della vita, nelle quali le
questioni morali richiedono l’accordo con la legge divina e con ciò stesso
l’armonizzazione dei mutevoli ordinamenti umani col complesso degli immutabili
ordinamenti divini.
Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un
Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo
di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una
sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla
cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua(6).
I Vescovi della Chiesa di Cristo « preposti a quelle cose che
riguardano Dio »(7) devono vigilare perché non si affermino tra i
fedeli tali perniciosi errori, ai quali sogliono tener dietro pratiche ancora
più perniciose. Appartiene al loro sacro ministero di fare tutto il possibile,
affinché i comandamenti di Dio siano considerati e praticati quali obbligazioni
inconcusse di una vita morale e ordinata, sia privata sia pubblica; i diritti della
maestà divina, il nome e la parola di Dio non vengano profanati(8); le
bestemmie contro Dio in parole, scritti e immagini, numerose talvolta come
l’arena del mare, vengano ridotte al silenzio, e di fronte allo spirito
caparbio e insidioso di coloro, che negano, oltraggiano e odiano Dio, non si
illanguidisca mai la preghiera espiatrice dei fedeli, la quale sale ad ogni ora
come incenso all’Altissimo, trattenendone la mano punitrice.
Noi ringraziamo, Venerabili Fratelli, voi, i vostri sacerdoti e tutti i fedeli
che nella difesa dei diritti della divina Maestà contro un provocante
neopaganesimo, appoggiato, purtroppo, spesso da personalità influenti, avete
adempiuto e adempite il vostro dovere di cristiani. Questo ringraziamento è
particolarmente intimo e unito ad una riconoscente ammirazione per coloro i
quali, nel compimento di questo loro dovere, si sono resi degni di sopportare
per la causa di Dio sacrifici e dolori.
3. GENUINA FEDE IN GESÙ CRISTO
La fede in Dio non si manterrà, a lungo andare, pura e incontaminata, se
non si appoggerà nella fede in Gesù Cristo. «Nessuno conosce il Figlio se
non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui il
Figlio lo vuole rivelare »(9). «Questa è la vita eterna; che essi
riconoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo »(10).
A nessuno dunque è lecito dire: io credo in Dio, e ciò è sufficiente per la mia
religione. La parola del Salvatore non lascia posto a scappatoie di simil
genere: « Chi rinnega il Figlio non ha neanche il Padre; chi riconosce
il Figlio ha anche il Padre »(11).
In Gesù Cristo, incarnato Figlio di Dio, è apparsa la pienezza della
rivelazione divina: « In varie maniere e in diverse forme, Dio un
giorno parlò ai padri per mezzo dei profeti. Nella pienezza dei tempi ha
parlato a noi per mezzo del Figlio »(12). I libri santi dell' Antico
Testamento sono tutti parola di Dio, parte organica della sua rivelazione.
Conforme allo sviluppo graduale della rivelazione, su di essi si posa il
crepuscolo del tempo che doveva preparare il pieno meriggio della redenzione.
In alcune parti si narra dell’imperfezione umana, della sua debolezza e del
peccato, come non può accadere diversamente, quando si tratta di libri di
storia e di legislazione. Oltre a innumerevoli cose alte e nobili, essi parlano
della tendenza superficiale e materiale, che appariva a varie riprese nel
popolo dell’antico patto, depositario della rivelazione e delle promesse di
Dio. Ma per ogni occhio, non accecato dal pregiudizio o dalla passione, non può
che risplendere ancora più luminosamente, nonostante la debolezza umana, di cui
parla la storia biblica, la luce divina del cammino della salvezza, che trionfa
alla fine su tutte le debolezze e i peccati.
E proprio su questo sfondo, spesso cupo, la pedagogia della salute eterna
si allarga in prospettive, le quali nello stesso tempo dirigono, ammoniscono,
scuotono, sollevano e rendono felici. Solo cecità e caparbietà possono far
chiudere gli occhi davanti ai tesori di salutari insegnamenti, nascosti
nell’Antico Testamento. Chi quindi vuole banditi dalla Chiesa e dalla scuola la
storia biblica e i saggi insegnamenti dell’Antico Testamento, bestemmia la
parola di Dio, bestemmia il piano della salute dell’Onnipotente ed erige a
giudice dei piani divini un angusto e ristretto pensar umano. Egli rinnega la
fede in Gesù Cristo, apparso nella realtà della sua carne, il quale prese
natura umana da un popolo, che doveva poi configgerlo in croce. Non comprende
nulla del dramma mondiale del Figlio di Dio, il quale oppose al misfatto dei
suoi crocifissori, qual sommo sacerdote, l’azione divina della morte
redentrice, e fece così trovare all’Antico Testamento il suo compimento, la sua
fine e la sua sublimazione nel Nuovo Testamento.
La rivelazione culminata nell’Evangelo di Gesù Cristo è definitiva e
obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno,
succedanei o sostituzioni di « rivelazioni » arbitrarie, che
alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue
e della razza. Da che Cristo, l’Unto del Signore, ha compiuto l’opera di
redenzione, infrangendo il dominio del peccato e meritandoci la grazia di
diventare figli di Dio, da allora non è stato dato agli uomini alcun altro nome
sotto il cielo, per diventare beati, se non il nome di Gesù(13). Anche se un
uomo identifichi in sé ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale
della terra, non può gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha
gettato(14). Colui quindi che con sacrilego misconoscimento delle diversità
essenziali tra Dio e la creatura, tra l’Uomo-Dio e il semplice uomo, osasse di
porre accanto a Cristo o, ancora peggio, sopra di Lui o contro di Lui, un
semplice mortale, fosse anche il più grande di tutti i tempi, sappia che è un
profeta di chimere, a cui si applica spaventosamente la parola della Scrittura:
« Colui, che abita nel cielo, ride di loro »(15).
4. GENUINA FEDE NELLA CHIESA
La fede in Gesù Cristo non resterà pura e incontaminata, se non sarà
sostenuta e difesa dalla fede nella Chiesa, colonna e fondamento della
verità(16). Cristo stesso, Dio benedetto in eterno, ha innalzato questa colonna
della fede; il suo comandamento di ascoltare la Chiesa(17) e di sentire,
attraverso le parole e i comandamenti della Chiesa, le sue parole stesse e i suoi
stessi comandamenti(18), vale per gli uomini di tutti i tempi e di tutte le
regioni. La Chiesa, fondata dal Salvatore, è unica per tutti i popoli e per
tutte le nazioni, e sotto la sua volta, la quale si inarca come il firmamento
sull’universo intero, trovano posto e asilo tutti i popoli e tutte le lingue, e
possono svolgersi tutte le proprietà, qualità, missioni e compiti, che sono
stati assegnati da Dio, creatore e salvatore, agli individui e alle società
umane. L’amore materno della Chiesa è tanto largo da vedere nello sviluppo,
conforme al volere di Dio, di tali peculiarità e compiti particolari, piuttosto
la ricchezza delle varietà che il pericolo di scissioni; gode dell’elevato
livello spirituale degli individui e dei popoli, scorge con gioia e alterezza
materna nelle loro genuine attuazioni frutti di educazione e di progresso, che
benedice e promuove, ogni qualvolta lo può secondo verità. Ma sa pure che a
questa libertà son segnati limiti dal comandamento della divina maestà, che ha
voluto e fondato questa Chiesa come unità inseparabile nelle sue parti
essenziali. Chi attenta a questa inscindibile unità toglie alla sposa di Cristo
uno dei diademi, con cui Dio stesso l’ha coronata; sottomette l’edificio divino
che posa su fondamenta eterne, al riesame e alla trasformazione da parte di
architetti, ai quali il Padre Celeste non ha concesso alcun potere.
La divina missione, che la Chiesa compie tra gli uomini e deve compiere per
mezzo di uomini, può essere dolorosamente oscurata dall’umano, talvolta troppo umano,
che, in certi tempi, ripullula quasi zizzania in mezzo al grano del regno di
Dio. Chi conosce la parola del Salvatore sopra gli scandali e coloro che li
danno, sa come la Chiesa e ciascun individuo deve giudicare su ciò che fu ed è
peccato. Ma chi, fondandosi su questi lamentevoli contrasti tra fede e vita,
tra parola e azione, tra il contegno esteriore e l’interno sentire di alcuni —
e fossero anche molti — pone in oblio, o coscientemente passa sotto silenzio,
l’immenso capitale di genuino sforzo verso la virtù, lo spirito di sacrificio,
l’amore fraterno, l’eroismo di santità in tanti membri della Chiesa, manifesta
una cecità ingiusta e riprovevole. E quando poi si vede che quella rigida
misura, con cui egli giudica la odiata Chiesa, viene messa da canto se si
tratta di altre società, a lui vicine per sentimento o interesse, allora riesce
evidente che, ostentandosi colpito nel suo presunto senso di purezza, si
appalesa simile a coloro i quali, secondo la tagliente parola del Salvatore,
osservano la pagliuzza nell’occhio del fratello, ma non scorgono la trave nel
proprio. Altrettanto meno pura è l’intenzione di coloro i quali pongono a scopo
della loro vocazione proprio quel che vi è di umano nella Chiesa, talvolta
facendone persino un losco affare, e sebbene la potestà di colui che è
insignito della dignità ecclesiastica, posando in Dio, non sia dipendente dalla
sua elevatezza umana e morale, non vi è epoca alcuna, né individuo, né società
che non debba esaminarsi onestamente la coscienza, purificarsi inesorabilmente,
rinnovarsi profondamente nel sentire e nell’operare. Nella Nostra Enciclica
sopra il Sacerdozio, in quella sull’Azione Cattolica, abbiamo con implorante
insistenza attirato l’attenzione di tutti gli appartenenti alla Chiesa, e
soprattutto degli Ecclesiastici, dei Religiosi e dei laici, i quali collaborano
nell’apostolato, al sacro dovere di mettere fede e condotta in quell’armonia
richiesta dalla legge di Dio e domandata con instancabile insistenza dalla
Chiesa. Anche oggi Noi ripetiamo con gravità profonda: non basta essere
annoverati nella Chiesa di Cristo, bisogna essere in spirito e verità membri
vivi di questa Chiesa. E tali sono solamente coloro che stanno nella grazia del
Signore e continuamente camminano alla sua presenza, sia nell’innocenza sia
nella penitenza sincera e operosa. Se l’Apostolo delle genti, « il vaso
di elezione », teneva il suo corpo sotto la sferza della
mortificazione affinché, dopo aver predicato agli altri, non venisse egli
stesso riprovato, può darsi forse per quelli, nelle cui mani è posta la
custodia e l’incremento del regno di Dio, via diversa da quella dell’intima
unione dell’apostolato e della santificazione propria? Solo così si mostrerà
agli uomini di oggi, e in prima linea agli oppositori della Chiesa, che il sale
della terra e il lievito del Cristianesimo non sono diventati inefficaci, ma
sono potenti e pronti a portare rinnovamento spirituale e ringiovanimento a
coloro che sono nel dubbio e nell’errore, nell’indifferenza e nello smarrimento
spirituale, nel rilassamento della fede e nella lontananza da Dio, di cui essi
— l’ammettano o lo neghino — hanno più bisogno che mai. Una Cristianità, in cui
tutti i membri vigilino su se stessi, che espella ogni tendenza a ciò che è
puramente esteriore e mondano, si attenga seriamente ai comandamenti di Dio e
della Chiesa, e si mantenga quindi nell’amore di Dio e nella solerte carità
verso il prossimo, potrà e dovrà essere esempio e guida al mondo profondamente
infermo, che cerca sostegno e direzione, se non si vuole che sopravvenga un
immane disastro o un indescrivibile decadimento.
Ogni riforma genuina e duratura ha avuto propriamente origine dal
santuario, da uomini infiammati e mossi dall’amore di Dio e del prossimo; i
quali, per la loro grande generosità nel rispondere ad ogni appello di Dio e
nel metterlo in pratica anzitutto in se stessi, cresciuti in umiltà e con la
sicurezza di chi è chiamato da Dio, hanno illuminato e rinnovato i loro tempi.
Dove lo zelo di riforma non scaturì dalla pura sorgente dell’integrità personale,
ma fu effetto dell’esplosione di impulsi passionali, invece di illuminare
ottenebrò, invece di costruire distrusse, e fu sovente punto di partenza di
errori ancora più funesti dei danni, a cui si volle o si pretese portare
rimedio. Certamente lo spirito di Dio spira dove vuole(19), dalle pietre può
suscitare gli esecutori dei suoi disegni(20), e sceglie gli strumenti della sua
volontà secondo i suoi piani, non secondo quelli degli uomini. Ma Egli, che ha
fondato la Chiesa e l’ha chiamata in vita nella Pentecoste, non spezza la
struttura fondamentale della salutare istituzione, da Lui stesso voluta. Chi è
mosso dallo spirito di Dio ha perciò stesso un contegno esteriore ed interiore
rispettoso verso la Chiesa, nobile frutto dell’albero della Croce, dono dello
Spirito della Pentecoste al mondo bisognoso di guida.
Nelle vostre contrade, Venerabili Fratelli, si elevano voci in coro sempre
più forte, che incitano ad uscire dalla Chiesa, e sorgono banditori, i quali,
per la loro posizione ufficiale, cercano di risvegliare l’impressione che tale
distacco dalla Chiesa, e conseguentemente l’infedeltà verso Cristo Re, sia una
testimonianza particolarmente persuasiva e meritoria della loro fedeltà al
regime presente. Con pressioni, occulte e palesi, con intimidazioni, con
prospettive di vantaggi economici, professionali, civili o d’altra specie,
l’attaccamento alla fede dei cattolici, e specialmente di alcune classi di
funzionari cattolici, viene sottoposto ad una violenza tanto illegale quanto
inumana. Con commozione paterna Noi sentiamo e soffriamo profondamente con
coloro che hanno pagato a sì caro prezzo il loro attaccamento a Cristo e alla
Chiesa; ma si è ormai giunti a un tal punto, che è in giuoco il fine ultimo e
più alto, la salvezza o la perdizione; e quindi unico cammino di salute per il
credente resta la via di un generoso eroismo. Quando il tentatore e
l’oppressore gli si accosterà con le insinuazioni traditrici di uscire dalla
Chiesa, allora egli non potrà che contrapporgli, anche a prezzo dei più gravi
sacrifici terreni, la parola del Salvatore: «Allontànati da me, o Satana,
perché sta scritto: adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo servirai »(21).
Alla Chiesa invece rivolgerà queste parole: O tu, che sei madre mia fin dai
giorni della mia fanciullezza, mio conforto in vita, mia avvocata in morte, si
attacchi la lingua al mio palato, se io, cedendo a terrene lusinghe o minacce,
dovessi tradire il mio voto battesimale. A coloro poi, i quali si lusingassero
di potere conciliare con l’esterno abbandono della Chiesa la fedeltà interiore
ad essa, sia di monito severo la parola del Salvatore: « Chi mi rinnega
davanti agli uomini, lo rinnegherò davanti al Padre mio, che è nei cieli »(22).
5. GENUINA FEDE NEL PRIMATO
La fede nella Chiesa non si manterrà pura e incontaminata, se non sarà
appoggiata nella fede al primato del Vescovo di Roma. Nello stesso momento in
cui Pietro, prevenendo agli altri apostoli e discepoli, professò la sua fede in
Cristo, Figlio del Dio vivente, l’annunzio della fondazione della sua Chiesa,
dell’unica Chiesa, su Pietro, la roccia(23), fu la risposta di Cristo, che lo
ricompensò della sua fede e di averla professata. La fede in Cristo, nella
Chiesa e nel Primato stanno perciò in un sacro legame di interdipendenza.
Un’autorità genuina e legale è dappertutto un vincolo di unità e una sorgente
di forza, un presidio contro lo sfaldamento e la disgregazione, una garanzia
dell’avvenire. E ciò si verifica nel senso più alto e nobile, dove, come nel
caso della Chiesa, a tale autorità venne promessa l’assistenza soprannaturale
dello Spirito Santo e il suo appoggio invincibile. Se persone, che non sono
neanche unite nella fede in Cristo, vi adescano e vi lusingano col fantasma di
una « chiesa tedesca nazionale », sappiate ciò non essere
altro se non un rinnegamento dell’unica Chiesa di Cristo, un apostasia
manifesta dal mandato di Cristo di evangelizzare tutto il mondo, che solo una
Chiesa universale può attuare. Lo sviluppo storico di altre chiese nazionali,
il loro irrigidimento spirituale, il loro soffocamento e asservimento da parte
dei poteri laici mostrano la desolante sterilità, che colpisce con ineluttabile
sicurezza il tralcio separatosi dal ceppo vitale della Chiesa. Colui che a
questi erronei sviluppi fin da principio oppone il suo vigile e
irremovibile no, rende un servizio non solo alla purezza della sua
fede ma anche alla sanità e forza vitale del suo popolo.
6. NESSUNA ADULTERAZIONE DI NOZIONI E TERMINI SACRI
Venerabili Fratelli, abbiate un occhio particolarmente vigile, quando nozioni
religiose vengono svuotate del loro contenuto genuino e applicate a significati
profani.
Rivelazione, in senso cristiano, significa la parola di Dio agli uomini.
Usare questo stesso termine per suggestioni provenienti dal sangue e dalla
razza, per le irradiazioni della storia di un popolo, è, in ogni caso, causare
disorientamento. Tali false monete non meritano di passare nel tesoro
linguistico di un fedele cristiano.
La fede consiste nel tener per vero ciò che Dio ha rivelato e mediante la
Chiesa impone di credere: è « dimostrazione di cose che non si
vedono »(24). La fiducia gioiosa e altera sull’avvenire del proprio
popolo, cosa cara ad ognuno, significa ben altra cosa che la fede in senso
religioso. L’usare l’una per l’altra, il volere sostituire l’una con l’altra e
pretendere con ciò di essere riconosciuto come « credente » da
un convinto cristiano, è un vuoto gioco di parole, una consapevole confusione
di termini, o anche peggio.
L’immortalità, in senso cristiano, è la sopravvivenza dell’uomo dopo la
morte terrena, come individuo personale, per l’eterna ricompensa o per l’eterno
castigo. Chi con la parola immortale non vuole indicare altro che una
sopravvivenza collettiva nella continuità del proprio popolo, per un avvenire
di indeterminata durata in questo mondo, perverte e falsifica una delle verità
fondamentali della fede cristiana e scuote le fondamenta di qualsiasi
concezione religiosa, la quale richiede un ordinamento morale universale. Chi
non vuole essere cristiano dovrebbe almeno rinunziare a volere arricchire il
lessico della sua miscredenza col patrimonio linguistico cristiano.
Il peccato originale è la colpa ereditaria, propria, sebbene non personale,
di ciascuno dei figli di Adamo, che in lui hanno peccato(25), è perdita della
grazia, e conseguentemente della vita eterna, con la concupiscenza che ciascuno
deve soffocare e domare per mezzo della grazia, della penitenza, della lotta e
dello sforzo morale. La passione e morte del Figlio di Dio hanno redento il
mondo dal maledetto retaggio del peccato e della morte. La fede in queste
verità, fatte oggi bersaglio del basso scherno dei nemici di Cristo nella
vostra patria, appartiene all’inalienabile deposito della religione cristiana.
La croce di Cristo, anche se il suo solo nome sia diventato per molti
follia e scandalo(26), resta per il cristiano il segno sacrosanto della
redenzione, il vessillo di grandezza e di forza morale. Nella sua ombra
viviamo, nel suo bacio moriamo; sul nostro sepolcro starà come annunziatrice
della nostra fede, testimonio della nostra speranza, protesa verso la vita
eterna.
L’umiltà nello spirito del Vangelo e la implorazione dell’aiuto di Dio si
accordano bene con la propria dignità, con la fiducia in sé e coll’eroismo. La
Chiesa di Cristo, che in tutti i tempi, fino a quelli a noi vicinissimi, conta
più confessori e martiri eroici di qualsiasi altra società morale, non ha certo
bisogno di ricevere da tali campi insegnamento sul sentimento e l’azione
eroica. Nel rappresentare stoltamente l’umiltà cristiana come avvilimento e
meschinità, la ripugnante superbia di questi innovatori rende irrisoria
soltanto se stessa.
Grazia, in senso largo, può chiamarsi ciò che proviene alla creatura dal
Creatore. Grazia, nel senso proprio cristiano della parola, comprende però le
gratificazioni soprannaturali dell’amore divino, la degnazione e l’opera per
cui mezzo Dio eleva l’uomo a quella intima comunione della sua vita, che il
Nuovo Testamento chiama figliolanza di Dio: «Vedete quale grande amore il
Padre ci ha mostrato: noi ci chiamiamo figli di Dio, e siamo realmente
tali »(27). Il ripudio di questa elevazione soprannaturale alla
grazia, a causa di una pretesa peculiarità del carattere tedesco, è un errore,
un’aperta dichiarazione di guerra ad una verità fondamentale del Cristianesimo.
L’equiparare la grazia soprannaturale coi doni della natura significa
violentare il linguaggio, creato e santificato dalla religione. I pastori e i
custodi del popolo di Dio faranno bene a opporsi a questo furto sacrilego e a
questo lavoro di traviamento degli spiriti.
7. DOTTRINA E ORDINE MORALE
Sulla fede in Dio genuina e pura si fonda la moralità del genere umano.
Tutti i tentativi di staccare la dottrina dell’ordine morale dalla base
granitica della fede, per ricostruirla sulla sabbia mobile di norme umane,
portano, tosto o tardi, individui e nazioni al decadimento morale. Lo stolto,
che dice nel suo cuore: « non c’è Dio », si avvierà alla
corruzione morale(28). E questi stolti, che presumono di separare la morale
dalla religione, sono oggi divenuti legione. Non si accorgono, o non vogliono
accorgersi, che col bandire l’insegnamento confessionale, ossia chiaro e
determinato, dalle scuole e dall’educazione, coll’impedirgli di contribuire
alla formazione della società e della vita pubblica, si percorrono sentieri di
impoverimento e di decadenza morale. Nessun potere coercitivo dello Stato,
nessun ideale puramente terreno, per quanto grande e nobile, potrà sostituire a
lungo andare i più profondi e decisivi stimoli, che provengono dalla fede in
Dio e in Gesù Cristo. Se a chi è chiamato ai più ardui cimenti, al sacrificio
del suo piccolo io in bene della comunità, si toglie il sostegno morale che gli
viene dall’eterno e dal divino, dalla fede elevante e consolatrice in Colui che
premia ogni bene e punisce ogni male, allora il risultato finale per
innumerevoli uomini non sarà l’adesione al dovere, ma piuttosto la diserzione.
L’osservanza coscienziosa dei dieci comandamenti di Dio e dei precetti della
Chiesa, i quali ultimi non sono altro che regolamenti derivati dalle norme del
Vangelo, è per ogni individuo una incomparabile scuola di disciplina organica,
di rinvigorimento morale e di formazione di carattere. È una scuola che esige
molto; ma non oltre le forze. Dio misericordioso, quando ordina come
legislatore: « tu devi », dà colla sua grazia la possibilità
di eseguire il suo comando. Il lasciare quindi inutilizzate energie morali di
così potente efficacia, o sbarrar coscientemente ad esse il cammino nel campo
dell’istruzione popolare, è opera da irresponsabili, che tende a produrre
deficienza religiosa nel popolo. Il connettere la dottrina morale con opinioni
umane, soggettive e mutevoli nel tempo, invece di ancorarle nella santa volontà
dell’eterno Dio e nei suoi comandamenti, significa spalancare le porte alle
forze dissolvitrici. Perciò il promuovere l’abbandono delle eterne direttive di
una dottrina morale per la formazione delle coscienze, per la nobilitazione di
tutti i campi della vita e di tutti gli ordinamenti, è attentato peccaminoso
contro l’avvenire del popolo, i cui tristi frutti amareggeranno le generazioni
future.
8. RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO NATURALE
È una caratteristica nefasta del tempo presente il volere distaccare, non
solo la dottrina morale, ma anche le fondamenta del diritto e della sua amministrazione
dalla vera fede in Dio e dalle norme della rivelazione divina. Il nostro
pensiero si rivolge qui a quello che si suole chiamare diritto naturale, che il
dito dello stesso Creatore impresse nelle tavole del cuore umano(29), e che la
ragione umana sana e non ottenebrata da peccati e passioni può in esse leggere.
Alla luce delle norme di questo diritto naturale, ogni diritto positivo,
qualunque ne sia il legislatore, può essere valutato nel suo contenuto etico e
conseguentemente nella legittimità del comando e nella obbligatorietà
dell’adempimento. Quelle leggi umane, che sono in contrasto insolubile col
diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le
costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna. Secondo questo criterio va
giudicato il principio: « Diritto è ciò che è utile alla nazione ».
Certo a questo principio può darsi un senso giusto, se si intende che ciò che è
moralmente illecito non può essere mai veramente vantaggioso al popolo. Persino
l’antico paganesimo ha riconosciuto che, per essere giusta, questa frase
dovrebbe essere capovolta e suonare: «Non vi è mai alcunché di vantaggioso,
se in pari tempo non è moralmente buono, e non perché è vantaggioso è
moralmente buono, ma perché moralmente buono è anche vantaggioso »(30).
Questo principio, staccato dalla legge etica, significherebbe, per quanto
riguarda la vita internazionale, un eterno stato di guerra tra le nazioni;
nella vita nazionale poi misconosce, nel confondere interesse e diritto, il
fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio,
che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità, che avesse per
scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio. Disprezzando questa
verità, si perde di vista che il vero bene comune, in ultima analisi, viene
determinato e conosciuto mediante la natura dell’uomo con il suo armonico
equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della
società determinato dalla stessa natura umana. La società è voluta dal Creatore
come mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali, di cui
l’uomo ha da valersi, ora dando ora ricevendo per il bene suo e quello degli
altri. Anche quei valori più universali e più alti che possono essere
realizzati, non dall’individuo, ma solo dalla società, hanno per volontà del
Creatore come ultimo scopo l’uomo e il suo sviluppo e perfezionamento naturale
e soprannaturale. Chi si allontana da questo ordine, scuote i pilastri su cui
riposa la società, e ne pone in pericolo la tranquillità, la sicurezza e
l’esistenza.
Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di
praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi, che sopprimono o
rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto
col diritto naturale.
I genitori coscienziosi e consapevoli della loro missione educativa hanno
prima di ogni altro il diritto essenziale alla educazione dei figli, loro
donati da Dio, secondo lo spirito della vera fede e in accordo con i suoi
princìpi e le sue prescrizioni. Leggi, o altre simili disposizioni, le quali
non tengono conto nella questione scolastica della volontà dei genitori o la
rendono inefficace colle minacce o colla violenza, sono in contraddizione col
diritto naturale e nella loro intima essenza immorali.
La Chiesa, la cui missione è di custodire ed interpretare il diritto
naturale, non può fare altro che dichiarare essere effetto di violenza, e
quindi prive di ogni valore giuridico, le iscrizioni scolastiche avvenute in un
recente passato in una atmosfera di notoria mancanza di libertà.
9. ALLA GIOVENTÙ
Rappresentanti di Colui che nell’Evangelo disse ad un giovane: « Se
vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti »(31), Noi
indirizziamo una parola particolarmente paterna alla gioventù.
Da mille bocche viene oggi ripetuto al vostro orecchio un Evangelo che non
è stato rivelato dal Padre celeste; migliaia di penne scrivono a servizio di
una larva di cristianesimo, che non è il Cristianesimo di Cristo. Tipografia e
radio vi inondano giornalmente con produzioni di contenuto avverso alla fede e
alla Chiesa, e, senza alcun riguardo e rispetto, assaltano ciò che per voi deve
essere sacro e santo. Sappiamo che moltissimi tra voi, a causa
dell’attaccamento alla fede e alla Chiesa e dell’appartenenza ad associazioni
religiose, tutelate dal Concordato, hanno dovuto e devono attraversare periodi
tenebrosi di misconoscimento, di sospetto, di vituperio, di accusa di
antipatriottismo, di molteplici danni nella loro vita professionale e sociale.
E ben sappiamo come molti ignoti soldati di Cristo si trovano nelle vostre
file, che con cuore affranto, ma a testa alta, sopportano la loro sorte e
trovano conforto solo nel pensiero che soffrono contumelie nel nome di
Gesù(32).
Ed oggi, che incombono nuovi pericoli e nuove tensioni, Noi diciamo a
questa gioventù: « Se alcuno vi volesse annunziare un Evangelo diverso
da quello che avete ricevuto sulle ginocchia di una pia madre, dalle labbra di
un padre credente, dall’insegnamento di un educatore fedele a Dio e alla sua
Chiesa, costui sia anatema »(33). Se lo Stato organizza la gioventù in
associazione nazionale obbligatoria per tutti, allora, salvi sempre i diritti
delle associazioni religiose, i giovani hanno il diritto ovvio e inalienabile,
e con essi i genitori responsabili di loro dinanzi a Dio, di esigere che questa
associazione sia mondata da ogni tendenza ostile alla fede cristiana e alla
Chiesa, tendenza che sino al recentissimo passato, anzi presentemente, stringe
i genitori credenti in un insolubile conflitto di coscienza, poiché essi non
possono dare allo Stato ciò che viene loro richiesto in nome dello Stato, senza
togliere a Dio ciò che appartiene a Dio.
Nessuno pensa di porre alla gioventù tedesca pietre di inciampo sul cammino,
che dovrebbe condurre all’attuazione di una vera unità nazionale e fomentare un
nobile amore per la libertà e una incrollabile devozione alla patria. Quello
contro cui Noi Ci opponiamo, e Ci dobbiamo opporre, è il contrasto voluto e
sistematicamente inasprito, mediante il quale si separano queste finalità
educative da quelle religiose. Perciò Noi diciamo a questa gioventù: cantate i
vostri inni di libertà, ma non dimenticate che la vera libertà è la libertà dei
figli di Dio. Non permettete che la nobiltà di questa insostituibile libertà
scompaia nei ceppi servili del peccato e della concupiscenza. A chi canta
l’inno della fedeltà alla patria terrena non è lecito divenire transfuga e
traditore con l’infedeltà al suo Dio, alla sua Chiesa e alla sua patria eterna.
Vi parlano molto di grandezza eroica, contrapponendola volutamente e falsamente
all’umiltà e alla pazienza evangelica; ma perché vi nascondono che si dà anche
un eroismo nella lotta morale? e che la conservazione della purezza battesimale
rappresenta un’azione eroica, che dovrebbe essere apprezzata meritevolmente nel
campo sia religioso sia naturale? Vi parlano delle fragilità umane nella storia
della Chiesa; ma perché vi nascondono le grandi gesta, che l’accompagnarono
attraverso i secoli, i santi che essa ha prodotto, il vantaggio che provenne
alla cultura occidentale dall’unione vitale tra questa Chiesa e il vostro
popolo? Vi parlano molto di esercizi sportivi, i quali, usati secondo una ben
intesa misura, danno una gagliardia fisica, che è un beneficio per la gioventù.
Ma ad essi viene assegnata oggi spesso un’estensione, che non tiene conto né
della formazione integrale e armonica del corpo e dello spirito, né della
conveniente cura della vita di famiglia, né del comandamento di santificare il
giorno del Signore. Con un’indifferenza, che confina col disprezzo, si toglie
al giorno del Signore il suo carattere sacro e raccolto, che corrisponde alla
migliore tradizione tedesca. Attendiamo fiduciosi dai giovani tedeschi
cattolici che essi, nel difficile ambiente delle organizzazioni obbligatorie
dello Stato, rivendichino esplicitamente il loro diritto a santificare
cristianamente il giorno del Signore, che la cura di irrobustire il corpo non
faccia loro dimenticare la loro anima immortale, che non si lascino sopraffare
dal male e cerchino piuttosto di vincere il male col bene(34), che quale loro
altissima e nobilissima meta ritengano quella di conquistare la corona della
vittoria nello stadio della vita eterna(35).
10. AI SACERDOTI E AI RELIGIOSI
Una parola di particolare riconoscimento, di incoraggiamento, di
esortazione rivolgiamo ai sacerdoti della Germania, ai quali, in sottomissione
ai loro Vescovi, spetta il compito, in tempi difficili e circostanze dure, di
mostrare al gregge di Cristo i retti sentieri con la dottrina e con l’esempio,
con la dedizione quotidiana, con la pazienza apostolica. Non vi stancate, figli
diletti e partecipi dei divini misteri, di seguire l’eterno sommo sacerdote
Gesù Cristo nel suo amore e nel suo ufficio di buon samaritano. Camminate
ognora in condotta immacolata davanti a Dio, in incessante disciplinatezza e
perfezionamento, in amore misericordioso verso quanti sono a voi affidati,
specialmente i pericolanti, i deboli e i vacillanti. Siate guida ai fedeli,
appoggio ai titubanti, maestri ai dubbiosi, consolatori degli afflitti,
disinteressati soccorritori e consiglieri per tutti. Le prove e le sofferenze,
per cui il vostro popolo è passato nel periodo del dopoguerra, non sono
trascorse senza lasciar tracce nella sua anima. Vi hanno lasciato tensione e
amarezze, che solo lentamente potranno guarirsi ed essere superate nello
spirito di un amore disinteressato e operante. Questo amore, che è l’armatura
indispensabile dell’apostolo, specialmente nel mondo presente, agitato e sconvolto,
Noi lo desideriamo e lo imploriamo per voi da Dio in misura copiosa. L’amore
apostolico, se non vi farà dimenticare, vi farà almeno perdonare molte
immeritate amarezze, che sul vostro cammino di sacerdoti e di pastori di anime
sono più numerose che in qualsiasi altro tempo. Quest’amore intelligente e
misericordioso verso gli erranti e gli stessi oltraggiatori non significa
peraltro, né può per nulla significare, rinunzia a proclamare, a far valere e a
difendere coraggiosamente la verità e ad applicarla liberamente alla realtà che
vi circonda. Il primo e il più ovvio dono di amore del sacerdote al mondo è di
servire la verità, tutta intera la verità, smascherare e confutare l’errore,
qualunque sia la sua forma o il suo travestimento. La rinunzia a ciò sarebbe
non solo un tradimento verso Dio e la vostra santa vocazione, ma un delitto nei
riguardi del vero benessere del vostro popolo e della vostra patria. A tutti
quelli che hanno mantenuto verso i loro Vescovi la fedeltà promessa
nell’ordinazione, a quelli i quali nell’adempimento del loro ufficio pastorale
hanno dovuto e devono sopportare dolori e persecuzioni — e alcuni sino ad
essere incarcerati e mandati ai campi di concentramento, — vada il
ringraziamento e l’encomio del Padre della Cristianità. E il Nostro
ringraziamento paterno si estende ugualmente ai religiosi di ambo i sessi: un
ringraziamento congiunto ad una partecipazione intima per il fatto che, in
seguito a misure contro gli Ordini e le Congregazioni religiose, molti sono
stati strappati dal campo di un’attività benedetta e a loro cara. Se alcuni
hanno mancato e si sono mostrati indegni della loro vocazione, i loro falli,
condannati anche dalla Chiesa, non diminuiscono i meriti della stragrande
maggioranza di essi, che con disinteresse e povertà volontaria si sono sforzati
di servire con piena dedizione il loro Dio e il loro popolo. Lo zelo, la
fedeltà, lo sforzo di perfezionarsi, l’operosa carità verso il prossimo e la
prontezza soccorritrice di quei religiosi, la cui attività si svolge nella cura
pastorale, negli ospedali e nella scuola, sono e restano un glorioso contributo
al benessere privato e pubblico, a cui un tempo futuro più tranquillo renderà
giustizia più che il turbolento presente. Noi abbiamo fiducia che i superiori
delle comunità religiose piglieranno argomento dalle difficoltà e prove
presenti per implorare dall’Onnipotente nuovo rigoglio e nuova fertilità sul
loro duro campo di lavoro, per mezzo di uno zelo raddoppiato, di una vita
spirituale approfondita, di una santa serietà conforme alla loro vocazione e di
una genuina disciplina regolare.
11. AI FEDELI LAICI
Davanti ai Nostri occhi sta l’immensa schiera dei Nostri diletti figli e
figlie, a cui le sofferenze della Chiesa in Germania e le proprie nulla hanno
tolto della loro dedizione alla causa di Dio, nulla del loro tenero affetto
verso il Padre della Cristianità, nulla della loro ubbidienza verso i Vescovi e
i sacerdoti, nulla della gioiosa prontezza di rimanere anche in futuro,
qualunque cosa avvenga, fedeli a ciò che essi hanno creduto e che hanno
ricevuto in prezioso retaggio dagli avi. Con cuore commosso inviamo loro il
Nostro paterno saluto.
E in primo luogo ai membri delle associazioni cattoliche, che strenuamente
e a prezzo di sacrifici spesso dolorosi si sono mantenuti fedeli a Cristo, e
non sono stati mai disposti a cedere quei diritti che una solenne Convenzione
aveva autenticamente garantito alla Chiesa e a loro. Un saluto particolarmente
cordiale va anche ai genitori cattolici. I loro diritti e i loro doveri nell’educazione
dei figli, da Dio loro donati, stanno, al momento presente, nel punto cruciale
di una lotta, della quale appena si può immaginarne altra più grave. La Chiesa
di Cristo non può cominciare a gemere e a deplorare solo quando gli altari
vengono spogliati e mani sacrileghe mandano in fiamme i santuari. Quando si
cerca di profanare il tabernacolo dell’anima del fanciullo, santificata dal
battesimo, con un’educazione anticristiana, quando viene strappata da questo
vivo tempio di Dio la fiaccola della fede e viene posta in suo luogo la falsa
luce di un succedaneo della fede, che non ha più nulla in comune con la fede
della Croce, allora la profanazione spirituale del tempio è vicina ed è dovere
di ogni credente di scindere chiaramente la sua responsabilità da quella della
parte contraria e la sua coscienza da qualsiasi peccaminosa collaborazione a
tale nefasta distruzione. E quanto più i nemici si sforzano di negare od
orpellare i loro tetri disegni, tanto più necessaria è una diffidenza oculata e
una vigilanza diffidente, stimolata da un’amara esperienza. La formalistica
conservazione di un’istruzione religiosa, e per di più controllata e inceppata
da gente incompetente, nell’ambiente di una scuola, la quale in altri rami
dell’istruzione lavora sistematicamente e astiosamente contro la stessa
religione, non può mai presentare titolo giustificativo al fedele cristiano,
perché liberamente acconsenta a una tal sorta di scuola, deleteria per la
religione. Sappiamo, diletti genitori cattolici, che non è il caso di parlare,
riguardo a voi, di un tale consenso e sappiamo che una libera votazione segreta
tra voi equivarrebbe ad uno schiacciante plebiscito in favore della scuola
confessionale. E perciò non Ci stancheremo neanche nell’avvenire di rinfacciare
francamente alle autorità responsabili l’illegalità delle misure violente prese
finora, e il dovere di permettere la libera manifestazione della volontà.
Intanto non vi dimenticate di ciò: nessuna potestà terrena può sciogliervi dal
vincolo di responsabilità voluto da Dio, che unisce voi con i vostri figli.
Nessuno di quelli che oggi opprimono il vostro diritto all’educazione e
pretendono sostituirsi a voi nei vostri doveri di educatori, potrà rispondere
per voi al Giudice eterno, quando egli vi rivolgerà la domanda: « dove
sono coloro che io vi ho dati ? » possa ciascuno di voi essere in
grado di rispondere: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dati »(36).
* * *
Venerabili Fratelli! Siamo certi che le parole, che Noi rivolgiamo a voi, e
per mezzo vostro ai cattolici del Reich germanico, in quest’ora decisiva
troveranno nel cuore e nelle azioni dei Nostri fedeli figlioli un’eco
corrispondente alla sollecitudine amorosa del Padre Comune. Se vi è cosa che
Noi imploriamo dal Signore con particolare fervore, essa è che le Nostre parole
pervengano anche all’orecchio e al cuore di quelli che hanno già cominciato a
lasciarsi prendere dalle lusinghe e dalle minacce dei nemici di Cristo e del
suo santo Vangelo, e li facciano riflettere.
Abbiamo pesato ogni parola di questa Enciclica sulla bilancia della verità
e insieme dell’amore. Non volevamo con silenzio inopportuno esser colpevoli di
non aver chiarito la situazione, né con rigore eccessivo di aver indurito il
cuore di quelli che, essendo sottoposti alla Nostra responsabilità pastorale,
non sono meno oggetto del Nostro amore, perché ora camminano sulle vie
dell’errore e si sono allontanati dalla Chiesa. Anche se molti di questi,
conformatisi alle abitudini del nuovo ambiente, non hanno se non parole di
infedeltà, di ingratitudine, e persino di ingiuria, per la casa paterna
abbandonata e per il padre stesso, anche se dimenticano quanto prezioso sia ciò
di cui essi hanno fatto getto, verrà il giorno in cui il raccapriccio che essi
sentiranno della lontananza da Dio e della loro indigenza spirituale graverà su
questi figli oggi perduti, e il rimpianto nostalgico li ricondurrà a Dio, che
allietò la loro giovinezza, e alla Chiesa, la cui mano materna loro insegnò il
cammino verso il Padre celeste. L’affrettare quest’ora è l’oggetto delle nostre
incessanti preghiere.
Come altre epoche della Chiesa, anche questa sarà preannunciatrice di nuovi
progressi e di purificazione interiore, quando la fortezza della professione
della fede e la prontezza nell’affrontare i sacrifici da parte dei fedeli di
Cristo saranno abbastanza grandi da contrapporre alla forza materiale degli
oppressori della Chiesa l’adesione incondizionata alla fede, l’inconcussa
speranza ancora nell’eterno, la forza travolgente di amore operoso. Il sacro
tempo della Quaresima e di Pasqua, che predica raccoglimento e penitenza e fa
rivolgere lo sguardo del cristiano più che mai alla Croce, ma insieme anche
allo splendore del Risorto, sia per tutti e per ciascuno di voi un’occasione
che saluterete con gioia e sfrutterete con ardore, per riempire tutto l’animo
dello spirito eroico paziente e vittorioso che si irradia dalla Croce di
Cristo. Allora i nemici di Cristo — di ciò siamo sicuri — che vaneggiano sulla
scomparsa della Chiesa, riconosceranno che troppo presto hanno giubilato e
troppo presto hanno voluto seppellirla. Allora verrà il giorno, in cui, invece
dei prematuri inni di trionfo dei nemici di Cristo, si eleverà al cielo dai
cuori e dalle labbra dei fedeli il «Te Deum » della liberazione: un
«Te Deum » di ringraziamento all’Altissimo, un «Te Deum »
di giubilo, perché il popolo tedesco, anche nei suoi membri erranti, avrà
ritrovato il cammino del ritorno alla religione, con una fede purificata dal
dolore, piegherà di nuovo il ginocchio dinanzi al Re del tempo e dell’eternità,
Gesù Cristo, e si accingerà in lotta contro i rinnegati e i distruttori
dell’occidente cristiano, in armonia con tutti gli uomini ben pensanti delle
altre nazioni, a compiere la missione, che gli hanno assegnato i piani
dell’Eterno.
Egli, che scruta i cuori e i reni(37), Ci è testimonio che Noi non abbiamo
aspirazione più intima che quella del ristabilimento di una vera pace tra la
Chiesa e lo Stato in Germania. Ma se, senza colpa Nostra, la pace non verrà, la
Chiesa di Dio difenderà i suoi diritti e le sue libertà, in nome
dell’Onnipotente, il cui braccio anche oggi non si è abbreviato. Pieni di
fiducia in Lui « non cessiamo di pregare e di invocare »(38),
per voi, figli della Chiesa, affinché i giorni della tribolazione vengano
accorciati e voi siate trovati fedeli nel dì della prova; anche ai persecutori
e agli oppressori possa il Padre di ogni luce e di ogni misericordia concedere
l’ora del ravvedimento per sé e per i molti che insieme con loro hanno errato
ed errano.
Con questa implorazione nel cuore e sulle labbra, Noi impartiamo, quale
pegno del divino aiuto, quale appoggio nelle vostre decisioni difficili e piene
di responsabilità, quale corroboramento nella lotta, quale conforto nel dolore,
a Voi vescovi, pastori del vostro fedele popolo, ai sacerdoti, ai religiosi,
agli apostoli laici dell’Azione Cattolica e a tutti i vostri diocesani, e non
ultimi agli ammalati e ai prigionieri, con amore paterno la Benedizione
Apostolica.
Dato in Vaticano, nella Domenica di Passione, 14 marzo 1937.
PIUS PP. XI
(1) III Io., 4.
(2) II Petr., 2, 2.
(3) Matth., 13, 25.
(4) Luc., 22, 32.
(5) Sap., 8, 1.
(6) Isaia, 40, 15.
(7) Hebr., 5, 1.
(8) Tit., 2, 5.
(9) Matth., 11, 27.
(10) Io., 17, 3.
(11) I Io., 2, 23.
(12) Hebr., I, 1 ss.
(13) Acta, IV, 12.
(14) I Cor., 3, 11.
(15) Ps. 2, 4.
(16) I Tim., 3, 15.
(17) Matth., XVIII, 17.
(18) Luc., X, 16.
(19) Io., 3, 8.
(20) Matth., 3, 93 Luc., 3, 8.
(21) Matth., 4, 10; Luc., 4, 8.
(22) Luc., 12, 9.
(23) Matth., 16, 18.
(24) Hebr., 11, 1.
(25) Rom., 5, 12.
(26) I Cor., 1, 23.
(27) I Io., 3, 1.
(28) Ps. 13, 1 ss.
(29) Rom., 2, 14 ss.
(30) Cicero, De officiis, 3, 30.
(31) Matth., 19,17.
(32) Acta, 5, 41.
(33) Gal., 1, 9.
(34) Rom., 12, 21.
(35) I Cor., 9, 24 s.
(36) Io., 18, 9.
(37) Ps. 7, 10.
(38) Coloss., 1, 9.
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1939
24 agosto 1939
Radiomessaggio del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, rivolto ai governanti ed ai popoli
nell'imminente pericolo della guerra*
A tutto il mondo.
Un’ora grave suona nuovamente per la grande famiglia
umana; ora di tremende deliberazioni, delle quali non può disinteressarsi il
Nostro cuore, non deve disinteressarsi la Nostra Autorità spirituale, che da
Dio Ci viene, per condurre gli animi sulle vie della giustizia e della pace.
Ed eccoCi con voi tutti, che in questo
momento portate il peso di tanta responsabilità, perché a traverso la Nostra
ascoltiate la voce di quel Cristo da cui il mondo ebbe alta scuola di vita e
nel quale milioni e milioni di anime ripongono la loro fiducia in un frangente
in cui solo la sua parola può signoreggiare tutti i rumori della terra.
EccoCi con voi, condottieri di popoli, uomini
della politica e delle armi, scrittori, oratori della radio e della tribuna, e
quanti altri avete autorità sul pensiero e l’azione dei fratelli,
responsabilità delle loro sorti.
Noi, non d’altro armati che della parola di
Verità, al disopra delle pubbliche competizioni e passioni, vi parliamo nel
nome di Dio, da cui ogni paternità in cielo ed in terra prende nome (Eph.,
III, 15), — di Gesù Cristo, Signore Nostro, che tutti gli uomini ha voluto
fratelli, — dello Spirito Santo, dono di Dio altissimo, fonte inesausta di
amore nei cuori.
Oggi che, nonostante le Nostre ripetute
esortazioni e il Nostro particolare interessamento, più assillanti si fanno i
timori di un sanguinoso conflitto internazionale; oggi che la tensione degli
spiriti sembra giunta a tal segno da far giudicare imminente lo scatenarsi del
tremendo turbine della guerra, rivolgiamo con animo paterno un nuovo e più
caldo appello ai Governanti e ai popoli: a quelli, perché, deposte le accuse,
le minacce, le cause della reciproca diffidenza, tentino di risolvere le
attuali divergenze coll’unico mezzo a ciò adatto, cioè con comuni e leali
intese: a questi, perché, nella calma e nella serenità, senza incomposte
agitazioni, incoraggino i tentativi pacifici di chi li governa.
È con la forza della ragione, non con quella
delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gl’imperi non fondati sulla
Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale
tradisce quelli stessi che così la vogliono.
Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo.
Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino
gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare. Trattando con buona volontà e
con rispetto dei reciproci diritti si accorgeranno che ai sinceri e fattivi
negoziati non è mai precluso un onorevole successo.
E si sentiranno grandi — della vera grandezza
— se imponendo silenzio alle voci della passione, sia collettiva che privata, e
lasciando alla ragione il suo impero, avranno risparmiato il sangue dei
fratelli e alla patria rovine.
Faccia l’Onnipotente che la voce di questo
Padre della famiglia cristiana, di questo Servo dei servi, che di Gesù Cristo
porta, indegnamente sì, ma realmente tra gli uomini, la persona, la parola,
l’autorità, trovi nelle menti e nei cuori pronta e volenterosa accoglienza.
Ci ascoltino i forti, per non diventar deboli
nella ingiustizia. Ci ascoltino i potenti, se vogliono che la loro potenza sia
non distruzione, ma sostegno per i popoli e tutela a tranquillità nell’ordine e
nel lavoro.
Noi li supplichiamo per il sangue di Cristo,
la cui forza vincitrice del mondo fu la mansuetudine nella vita e nella morte.
E supplicandoli, sappiamo e sentiamo di aver con Noi tutti i retti di cuore;
tutti quelli che hanno fame e sete di Giustizia — tutti quelli che soffrono
già, per i mali della vita, ogni dolore. Abbiamo con Noi il cuore delle madri,
che batte col Nostro; i padri, che dovrebbero abbandonare le loro famiglie; gli
umili, che lavorano e non sanno; gli innocenti, su cui pesa la tremenda
minaccia; i giovani, cavalieri generosi dei più puri e nobili ideali. Ed è con
Noi l’anima di questa vecchia Europa, che fu opera della fede e del genio
cristiano. Con Noi l’umanità intera, che aspetta giustizia, pane, libertà, non
ferro che uccide e distrugge. Con Noi quel Cristo, che dell’amore fraterno ha
fatto il Suo comandamento, fondamentale, solenne; la sostanza della sua
Religione, la promessa della salute per gli individui e per le Nazioni.
Memori infine che le umane industrie a nulla
valgono senza il divino aiuto, invitiamo tutti a volgere lo sguardo in Alto ed
a chiedere con fervide preci al Signore che la sua grazia discenda abbondante
su questo mondo sconvolto, plachi le ire, riconcilii gli animi e faccia
risplendere l’alba di un più sereno avvenire. In questa attesa e con questa
speranza impartiamo a tutti di cuore la Nostra paterna Benedizione.
Benedictio Dei Omnipotentis Patris et Filii
et Spiritus Sancti descendat super vos et maneat semper.
24 dicembre 1939
Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in
religione come Pio 12°, al Sacro
collegio e alla Prelatura Romana in occasione della Vigilia del Natale 1939
Agli
eminentissimi Cardinali,
agli eccellentissimi Vescovi e
ai Prelati della Curia Romana.
In questo giorno di
santa e soave letizia, Venerabili Fratelli e diletti Figli, in cui l’ansia del
Nostro spirito, proteso nell’aspettazione dell’avvento divino, sta per
appagarsi nella dolcissima contemplazione del mistero della nascita del
Redentore, Ci riesce quasi preludio di tanto gaudio l’intima gioia di vedere
adunati intorno a Noi i membri del Sacro Collegio e della Prelatura Romana, e
di accogliere dalle eloquenti labbra dell’eminente, amato e da tutti venerato
Cardinale Decano, i sentimenti così squisitamente affettuosi e gli auguri, che
— accompagnati e resi sublimi dall’ala delle fervide preghiere innalzate al
celeste Bambino — Ci vengono offerti da tanti cuori fedeli e devoti in questa
gioconda solennità del Santo Natale, prima del ciclo dell’anno liturgico e
prima festa natalizia del Nostro Pontificato.
Il Nostro spirito si
eleva con voi da questo mondo verso una sfera spirituale vivida della gran luce
della fede; con voi si esalta, con voi gioisce, con voi si profonda nella sacra
rimembranza del mistero e sacramento dei secoli, recondito e palese nella
grotta di Betlemme, culla della redenzione di tutte le genti, rivelazione della
pace fra il cielo e la terra, della gloria di Dio nel più alto dei cieli e di
pace in terra agli uomini di buona volontà, inizio di un nuovo corso dei
secoli, che adoreranno questo divino mistero, gran dono di Dio e gaudio della
terra universa. Esultiamo, diremo a voi tutti con le parole del grande Nostro
Predecessore il santo Pontefice Leone Magno: «Exultemus in Domino,
dilectissimi, et spirituali iucunditate laetemur, quia illuxit nobis dies
redemptionis novae, reparationis antiquae, felicitatis aeternae. Reparatur enim
nobis salutis nostrae annua revolutione sacramentum, ab initio promissum, in
fine redditum, sine fine mansurum, in quo dignum est nos erectis sursum
cordibus divinum adorare mysterium, ut, quod magno Dei munere agitur, magnis
Ecclesiae gaudiis celebretur » (S. Leon. M., Sermo XXII. In Nativ.
Dom. II, Cap. I, PL, 54, col. 193-194).
Nella celebrazione di
questo divino mistero la gioia dei nostri cuori si leva in alto, si fa
spirituale, si radica nel soprannaturale e tende al soprannaturale, volando a
Dio con l’eccelsa espressione della preghiera della Chiesa: « ut inter
mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia »
(or. Dom. IV post Pasch.). In mezzo all’urto e al tumulto delle varie
vicende del mondo, il vero gaudio si rifugia nell’imperturbabilità dello
spirito, nella quale, quasi in torre incrollabile alle bufere, con fiducia in
Dio si affissa, e si unisce con Cristo, principio e cagione di ogni gioia e di
ogni grazia. Non è forse questo il sacramento del re dell’anime nostre, del Dio
Infante del presepio di Betlemme? Quando questo segreto regale trapassa e si
annida nelle anime, allora la fede, la speranza e l’amore si sublimano
nell’estasi dell’Apostolo delle genti che grida al mondo: «Vivo, già non io;
vive in me Cristo » (Gal., 2, 20). Nel trasumanarsi dell’uomo
in Cristo, Cristo stesso veste di sé l’uomo, umiliandosi fino a lui per
sollevarlo fino a sé in quel gaudio del suo nascimento ch’è perenne festa
natalizia, a cui la liturgia della Chiesa non è mai che cessi in ogni stagione
di richiamarci, invitarci ed esortarci, affinché in noi si avveri la promessa
di Lui che il nostro cuore gioirà, e nessuno ci toglierà la nostra allegrezza (Io.,
16, 22).
La luce celeste di
questa gioia e di questo conforto sostiene la fiducia di coloro in cui vive e
splende; né può venir oscurata o turbata da alcun affanno o fatica, da alcuna
ansietà o sofferenza che salga o rumoreggi di quaggiù, simile a quella
«… lodoletta che in aere
si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
dell’ultima dolcezza che la sazia ». (Par., XX, 73).
Dove altri si sbigottiscono,
dove le amare acque dell’afflizione e della disperazione sommergono i
pusillanimi, le anime in cui vive Cristo possono tutto, e si elevano, sopra i
disordini e le bufere del mondo, con sempre eguale coraggio e ardore, al
cantico degli ordinamenti, delle giustificazioni e delle magnificenze di Dio.
Sotto le tempeste, si sentono maggiori dei turbini, della terra che calcano e
dei mari che solcano, più che per il loro spirito immortale, per l’elevazione
dei loro cuori verso Dio, « Sursum corda », per la loro
preghiera e unione con Dio, « Habemus ad Dominum ».
E verso Dio,
misericordioso e onnipotente, Venerabili Fratelli e diletti Figli, Noi leviamo
il Nostro sguardo e la Nostra supplica, come la migliore e più efficace
espressione della Nostra gratitudine per i vostri fervidi voti natalizi, i
quali son pure una preghiera innalzata al Padre celeste, « da cui viene
ogni ottima grazia e ogni perfetto dono » (Iac., 1, 17). Faccia
Egli che, in questa unione di preghiera, ognuno di voi ottenga, presso il presepio
dell’Unigenito suo Figlio fatto carne e tra noi abitante quella « mensuram
bonam et confertam et coagitatam et supereffluentem » di gioia
natalizia, cui Egli solo può largire; sicché, corroborati e alleviati da tanto
gaudio, possiate generosamente e virilmente, da soldati di Cristo, proseguire
il cammino vostro attraverso il deserto della vita terrena fino a quel
tramonto, in cui dinanzi all’anelo vostro sguardo risplenda nell’aurora
dell’eternità il monte del Signore, e in ciascuno di voi, rinato a novella vita
di gaudio indefettibile, si compia la preghiera natalizia della Chiesa « di
contemplare con fiducia come giudice quell’Unigenito, che ora accogliamo con
gioia qual Redentore » (Orat. in Vig. Nat.).
Ma in quest’ora, in cui
la vigilia del Santo Natale Ci procura la dolce letizia della vostra presenza,
all’allegrezza si mesce e rivive in Noi, e senza dubbio non meno in voi, il
mesto ricordo del glorioso Nostro Predecessore di s. m. (così piamente
rievocato dal Venerabile Nostro Fratello il Cardinale Decano) e delle parole —
è scorso solo un anno — parole indimenticabili, solenni e gravi, prorompenti
dal profondo del suo cuore paterno, che voi con Noi ascoltaste, compresi di
accoramento, come il «Nunc dimittis » del santo vegliardo Simeone;
parole risonate in quest’aula, in pari vigilia, pregne del peso del
presentimento, per non dire della visione presaga, di vicina sventura; parole
di deprecante ammonimento, di eroico sacrificio di sé, i cui affocati accenti
ancor oggi inteneriscono gli animi nostri.
L’indicibile sciagura
della guerra, che Pio XI con profondo estremo cordoglio prevedeva, e con
l’indomabile energia del suo nobile, altissimo spirito voleva con tutti i mezzi
far lontana dalle contese delle nazioni, si è scatenata ed ormai è tragica realtà.
Innanzi al suo rumoreggiare una immensa amarezza inonda l’animo Nostro, mesto e
pensoso che il Santo Natale del Signore, del Principe della pace, debba oggi
celebrarsi tra il funesto, funereo rombar dei cannoni, sotto il terrore di
bellici ordigni volanti, in mezzo alle minacce e alle insidie dei navigli
armati. E poiché sembra che il mondo abbia posto in dimenticanza il pacificante
messaggio di Cristo, la voce della ragione, la fratellanza cristiana, abbiamo
dovuto purtroppo assistere a una serie di atti inconciliabili sia colle
prescrizioni del diritto internazionale positivo, che coi princípi del diritto
naturale e cogli stessi più elementari sentimenti di umanità, atti i quali
mostrano in quale caotico circolo vizioso si avvolge il senso giuridico sviato
da pure considerazioni utilitarie. In questa categoria rientrano: la
premeditata aggressione contro un piccolo, laborioso e pacifico popolo, col
pretesto di una minaccia né esistente né voluta e nemmeno possibile; — le
atrocità (da qualsiasi parte commesse) e l’uso illecito di mezzi di distruzione
anche contro non combattenti e fuggiaschi, contro vecchi, donne e fanciulli; —
il disprezzo della dignità, della libertà e della vita umana, da cui derivano
atti che gridano vendetta al cospetto di Dio: « vox sanguinis fratris
tui clamat ad me de terra » (Gen., 4, 10); la sempre più estesa e
metodica propaganda anticristiana e persino atea, massime fra la gioventù.
A preservare la Chiesa e
la sua missione tra gli uomini da ogni contatto con tale spirito anticristiano
Ci sprona il Nostro dovere, che è anche intima e sacra volontà, di Padre
e Maestro di verità; e perciò rivolgiamo calda e insistente esortazione
soprattutto ai ministri del Santuario e ai « distributori dei misteri
di Dio », perché siano sempre avveduti ed esemplari nell’insegnamento
e nella pratica dell’amore, e mai non dimentichino che nel regno di Cristo non
vi è precetto più inviolabile né più fondamentale e sacro del servigio della
verità e del vincolo dell’amore.
Con viva e angosciosa
ansia Ci è forza purtroppo contemplare manifeste ai Nostri occhi le rovine
spirituali, che si vengono accumulando a causa di una larga colluvie d’idee, la
quale, più o meno volutamente o velatamente ottenebra e deforma la verità negli
animi di tanti individui e popoli, travolti o no nella guerra; onde pensiamo
quale immenso lavoro sarà necessario, — quando il mondo, stanco dal
guerreggiarsi, vorrà ristabilire la pace —, per abbattere le mura ciclopiche
dell’avversione e dell’odio, che nel calore della lotta sono state innalzate.
Consapevoli degli
eccessi, a cui aprono la via e sospingono ineluttabilmente dottrine e opere di
una politica non curante della legge di Dio, Noi, come ben sapete, allorché i
contrasti divennero minacciosi, con tutto l’ardore del Nostro animo tentammo
fino all’ultimo di evitare il peggio e di persuadere gli uomini, nelle cui mani
era la forza e sulle cui spalle gravava una pesante responsabilità, di recedere
da un conflitto armato e risparmiare al mondo imprevedibili sciagure. Gli
sforzi nostri e quelli venuti da altre parti influenti e rispettate non fu vero
che sortissero l’effetto sperato, soprattutto perché apparve irremovibile la
profonda sfiducia, ingigantitasi negli animi durante gli ultimi anni, la quale
aveva elevate insormontabili barriere spirituali tra i popoli.
Non erano insolubili i
problemi, che si agitavano fra le nazioni; ma quella sfiducia, originata da una
serie di circostanze particolari, impediva, quasi con forza irresistibile, che
più ormai si prestasse fede alla efficacia di eventuali promesse e alla durata
e vitalità di possibili convenzioni. Il ricordo della vita effimera e
contrastata di simili trattative od accordi finì col paralizzare ogni sforzo
per promuovere una soluzione pacifica.
Non Ci rimase,
Venerabili Fratelli e diletti Figli, che ripetere col Profeta: « Expectavimus
pacem, et non est bonum, et tempus curationis, et ecce turbatio » (Ier.,
14, 19) e adoperarCi intanto ad alleviare, per quanto è da Noi, le sventure
derivanti dalla guerra, sebbene tale azione sia non poco impedita dalla
impossibilità, non ancora superata, di portare il soccorso della carità
cristiana in regioni, ove più vivo ed urgente se ne sentirebbe il bisogno. Con
inesprimibile angoscia da quattro mesi veniamo osservando questa guerra, iniziata
e proseguita in così insolite circostanze, far cumuli di tragiche rovine. E se
finora — eccettuato il suolo insanguinato della Polonia e della Finlandia — il
numero delle vittime può considerarsi inferiore a quel che si temeva, la somma
di dolori e di sacrifici è giunta a tal punto da incutere viva ansietà in chi
si preoccupa del futuro stato economico, sociale e spirituale dell’Europa, e
non dell’Europa soltanto. Quanto più il mostro della guerra si procaccia,
inghiotte e si aggiudica i mezzi materiali, che inesorabilmente vengono tutti
messi al servizio delle necessità guerresche, d’ora in ora crescenti, tanto più
acuto diventa per le nazioni, direttamente o indirettamente colpite dal
conflitto, il pericolo di una, vorremmo dire, anemia perniciosa, e si affaccia
l’incalzante domanda: come potrà, a guerra finita, una economia esausta o
estenuata trovare i mezzi per la ricostruzione economica e sociale, tra
difficoltà che d’ogni lato saranno enormemente aumentate, e delle quali le
forze e le arti del disordine, che si tengono in agguato, cercheranno di
valersi, nella speranza di poter dare all’Europa cristiana il colpo decisivo?
Simili considerazioni
del presente e dell’avvenire debbono tener sopra pensiero, pur nella febbre
della lotta, i governanti e la parte sana di ogni popolo, e muoverla e
spingerla a esaminarne gli effetti e a riflettere sugli scopi e sulle finalità
giustificabili della guerra.
E pensiamo che coloro i
quali con occhio vigile mirino queste gravi previsioni e considerino con mente
pacata i sintomi che in molte parti del mondo accennano a tale evoluzione degli
eventi, si terranno, nonostante la guerra e le sue dure necessità,
interiormente disposti a definire, al momento opportuno e propizio,
chiaramente, per quanto li riguarda, i punti fondamentali di una pace giusta e
onorevole, né rifiuterebbero senz’altro le trattative, qualora se ne
presentasse l’occasione con le necessarie garanzie e cautele.
1° Un postulato
fondamentale di una pace giusta e onorevole è assicurare il diritto alla vita e
all’indipendenza di tutte le nazioni, grandi e piccole, potenti e deboli. La
volontà di vivere d’una nazione non deve mai equivalere alla sentenza di morte
per un’altra. Quando questa uguaglianza di diritti sia stata distrutta o lesa o
posta in pericolo, l’ordine giuridico esige una riparazione, la cui misura e
estensione non è determinata dalla spada o dall’arbitrio egoistico, ma dalle
norme di giustizia e di reciproca equità.
2° Affinché l’ordine, in
tal modo stabilito, possa avere tranquillità e durata, cardini di una vera
pace, le nazioni devono venir liberate dalla pesante schiavitù della corsa agli
armamenti e dal pericolo che la forza materiale, invece di servire a tutelare
il diritto, ne divenga tirannica violentatrice. Conclusioni di pace, che non
attribuissero fondamentale importanza ad un disarmo mutuamente consentito,
organico, progressivo, sia nell’ordine pratico che in quello spirituale, e non
curassero di attuarlo lealmente, rivelerebbero, presto o tardi, la loro
inconsistenza e mancanza di vitalità.
3° In ogni riordinamento
della convivenza internazionale, sarebbe conforme alle massime dell’umana
saggezza che da tutte le parti in causa si deducessero le conseguenze dalle
lacune o dalle deficienze del passato; e nel creare o ricostituire le istituzioni
internazionali, che hanno una missione tanto alta, ma in pari tempo così
difficile e piena di gravissime responsabilità, si dovrebbero tener presenti le
esperienze che sgorgassero dall’inefficacia o dal difettoso funzionamento di
simili anteriori iniziative. E poiché alla debolezza umana è così malagevole,
si sarebbe tentati di dire, quasi impossibile, di tutto prevedere e tutto
assicurare al momento delle trattative di pace, quando torna difficile l’esser
scevri di passione e d’amarezza, la costituzione di giuridiche istituzioni, che
servano a garantire la leale e fedele attuazione delle convenzioni e, in caso
di riconosciuto bisogno, a rivederle e correggerle, è d’importanza decisiva per
una onorevole accettazione di un trattato di pace e per evitare arbitrarie e
unilaterali lesioni e interpretazioni delle condizioni dei trattati medesimi.
4° In particolare, un
punto, che dovrebbe attirare l’attenzione, se si vuole un migliore ordinamento
dell’Europa, riguarda i veri bisogni e le giuste richieste delle nazioni e dei
popoli, come pure delle minoranze etniche; richieste le quali, se non bastano
sempre a fondare uno stretto diritto, quando siano in vigore trattati
riconosciuti e sanciti o altri titoli giuridici, che vi si oppongano, meritano
tuttavia un benevolo esame, per venire loro incontro in vie pacifiche e anche,
ove apparisca necessario, per mezzo di una equa, saggia e concorde revisione
dei trattati. Ricondotto così un vero equilibrio tra le nazioni, e ricostituite
le basi di una mutua fiducia, si allontanerebbero molti incentivi a ricorrere
alla violenza.
5° Ma anche i
regolamenti migliori e più compiuti saranno imperfetti e condannati in
definitiva all’insuccesso, se quei che dirigono le sorti dei popoli, e i popoli
stessi, non si lasciano penetrare sempre più da quello spirito, da cui solo può
provenire vita, autorità e obbligazione alla lettera morta dei paragrafi negli
ordinamenti internazionali; da quel senso, cioè, di intima e acuta
responsabilità che misura e pondera gli statuti umani secondo le sante e
incrollabili norme del diritto divino; da quella fame e sete di giustizia, che
è proclamata come beatitudine nel Sermone della Montagna e che ha come naturale
presupposto la giustizia morale; da quell’amore universale, che è il compendio
e il termine più proteso dell’ideale cristiano e per ciò getta un ponte anche
verso coloro, i quali non hanno il bene di partecipare alla stessa nostra fede.
Non misconosciamo quanto
gravi siano le difficoltà che si frappongono al conseguimento dei fini, da Noi
tracciati in grandi linee, per fondare, porre in atto e conservare una giusta
pace internazionale. Ma se mai vi fu scopo degno del concorso degli spiriti
nobili e generosi, se mai sorse ardimento di crociata spirituale, in cui con
nuova verità risonasse il grido « Dio lo vuole », è veramente
quest’altissimo scopo e questa crociata e lotta di cuori puri e magnanimi,
ingaggiata per ricondurre i popoli dalle torbide cisterne di interessi
materiali ed egoistici alla fonte viva del diritto divino, il quale solo è
potente a dare quella moralità, nobiltà e stabilità, di cui troppo e troppo a
lungo si è sentito il difetto e il bisogno con grave iattura delle nazioni e
dell’umanità.
A questi ideali, che
sono in pari tempo i fini reali di una vera pace nella giustizia e nell’amore,
Noi aspettiamo e speriamo che tutti quelli i quali a Noi sono uniti col vincolo
della fede, ciascuno al suo posto e entro i limiti della sua missione, tengano
aperta la mente e il cuore; affinché, quando l’uragano della guerra sia sul cessare
e disperdersi, sorgano, presso tutti i popoli e le nazioni, spiriti preveggenti
e puri, animati dal coraggio che sappia e valga ad opporre al tenebroso istinto
di bassa vendetta la severa e nobile maestà della giustizia, sorella dell’amore
e compagna di ogni verace saggezza.
Di questa giustizia, che
sola vale a creare la pace e assicurarla, Noi, e con Noi quanti ascoltano la
Nostra voce, non ignoriamo dove ci è dato trovare il sublime esemplare,
l’intimo impulso e la sicura promessa. «Transeamus usque Bethlehem, et
videamus » (Luc., 2, 15). Andiamo a Betlemme. Ivi troveremo
giacente nel presepio il nato « Sole della giustizia, Cristo Dio nostro »,
e al suo fianco la Vergine Madre, « specchio della giustizia »
e « regina della pace », col santo custode Giuseppe, « l’uomo
giusto ». Gesù è l’Aspettato delle genti. I profeti lo additarono, e
ne cantarono i futuri trionfi: « et vocabitur nomen eius Admirabilis,
Consiliarius, Deus, Fortis, Pater futuri saeculi, Princeps pacis » (Is.,
9, 6).
Alla nascita di questo
celeste Bambino, un altro Principe della pace sedeva sulle sponde del Tevere e
aveva con solenni cerimonie dedicato un’Ara Pacis Augustae, le cui
meravigliose ma infrante reliquie, sepolte già sotto le rovine di Roma, hanno
levato il capo in mezzo alla nostra età. Su quell’altare Augusto sacrificò a
dèi che non salvano. Ma è lecito pensare che il vero Dio ed eterno Principe
della pace, che pochi anni dopo discese fra gli uomini, abbia esaudito
l’anelito di quel tempo per la pace e che la pace augustea sia stata quasi una
figura di quella pace soprannaturale, che Egli solo può dare ed in cui ogni
vera pace terrestre è necessariamente compresa, di quella pace conquistata, non
col ferro, ma col legno della culla di questo Infante Signore della pace, e col
legno della sua futura croce di morte, irrorata del suo sangue, sangue non di
odio e rancore, ma di amore e perdono.
Andiamo dunque a
Betlemme, alla grotta del nato Re della pace, cantata sulla sua culla dalle
schiere degli Angeli; e genuflessi dinanzi a Lui, in nome di questa umanità
inquieta e sconvolta, in nome degli innumerevoli, senza distinzione di popolo e
di nazione, che sanguinano e muoiono, o sono piombati nel pianto e nella
miseria, o hanno perduto la patria, rivolgiamoGli la nostra invocazione di pace
e concordia, di aiuto e di salvezza con le parole, che la Chiesa pone in questi
giorni sulle labbra dei suoi figli: «O Emmanuel, Rex et legifer noster,
exspectatio Gentium et salvator earum, veni ad salvandum nos, Domine, Deus
noster » (Brev. rom.).
Mentre in questa
preghiera effondiamo la nostra insaziata aspirazione verso una pace nello
spirito di Cristo, Mediatore di pace fra il cielo e la terra, con la sua
benignità e umanità apparsa in mezzo a noi, ed esortiamo caldamente i fedeli
cristiani ad associare con le Nostre intenzioni anche i loro sacrifici e le
loro preghiere, impartiamo, Venerabili Fratelli e diletti Figli, a voi e a
tutti quelli che portate nel vostro cuore, a tutti gli uomini di buona volontà,
che si trovano sulla faccia della terra, specialmente ai sofferenti, agli
angustiati, ai perseguitati, ai prigionieri, agli oppressi di ogni regione e
Paese, con immutato affetto, come pegno di grazie e di consolazioni e conforti
celesti, l’Apostolica Benedizione.
Alla fine di questo
Nostro discorso non vogliamo privarCi della gioia di annunziarvi, Venerabili
Fratelli e diletti Figli, essere giunto stamane dalla Delegazione Apostolica di
Washington un telegramma, della cui parte introduttiva ed essenziale teniamo a
darvi lettura:
«Il Signor Presidente,
chiamato stamane Monsignor Spellman, Arcivescovo di New York, dopo un colloquio
con lui, lo ha inviato a me insieme al Signor Berle, Assistant Secretary of
State, consegnando una lettera per Sua Santità, che qui trascrivo, secondo il
desiderio dello stesso Signor Presidente, letteralmente. In essa il Signor
Presidente stabilisce di nominare un rappresentante del Presidente con rango di
Ambasciatore straordinario, ma senza titolo formale, presso la Santa Sede.
Questo rappresentante sarà l’onorevole Myron Taylor, che partirà per Roma fra
circa un mese. La notizia sarà resa di pubblica ragione domani ufficialmente ».
Segue il testo della
lettera in lingua inglese, che sarà pubblicato sull’Osservatore Romano.
È un annunzio natalizio
che non poteva giungerCi più gradito, giacché esso rappresenta, da parte
dell’eminente Capo di una così grande e potente Nazione, un valido e
promettente contributo alle Nostre sollecitudini, sia per il conseguimento di
una pace giusta ed onorevole, come per una più efficace e larga opera intesa ad
alleviare le sofferenze delle vittime della guerra. Perciò teniamo ad esprimere
qui per questo atto nobile e generoso del Signor Presidente Roosevelt le Nostre
felicitazioni e il Nostro grato animo.
*Discorsi e
Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, I,
Primo anno di Pontificato, 2 marzo 1939 - 1° marzo 1940, pp. 435-445
Tipografia Poliglotta Vaticana
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1941
Pentecoste 1941 - 1 giugno 1941
Radiomessaggio del
papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, in occasione della
Pentecoste del 1941, nel 50° anniversario dell’enciclica «Rerum novarum» (1891), diffuso
il 1-6-1941, nella solennità di Pentecoste
La solennità della Pentecoste, glorioso
natale della Chiesa di Cristo, è all'animo Nostro, diletti figli dell'universo
intero, un dolce e propizio invito fecondo di alto ammonimento, per
indirizzarvi, tra le difficoltà e i contrasti dei tempi presenti, un messaggio
di amore d'incoraggiamento e di conforto. Vi parliamo in un momento, in cui
tutte le energie e forze fisiche e intellettuali di una porzione sempre
crescente dell'umanità stanno, in misura e con ardore non mai prima conosciuti,
tese sotto la ferrea inesorabile legge di guerra: e da altre parlanti antenne
volano accenti pregni di esasperazione e di acrimonia, di scissione e di lotta.
Ma le antenne del Colle Vaticano, della terra
consacrata a centro intemerato della Buona Novella e della sua benefica
diffusione nel mondo dal martirio e dal sepolcro del primo Pietro, non possono
trasmettere se non parole che s'informano e si animano dello spirito
consolatore della predica, di cui alla prima Pentecoste per la voce di Pietro
risonò e si commosse Gerusalemme; spirito di ardente amore apostolico, spirito
che non sente brama più viva e gioia più santa di quella di tutti condurre,
amici e nemici, ai piedi del Crocifisso del Golgota, al sepolcro del
glorificato Figlio di Dio e Redentore del genere umano, per convincere tutti
che solo in lui, nella verità da lui insegnata, nell'amore di lui, benefacendo
e sanando tutti, dimostrato e vissuto fino a far sacrificio di sé per la vita
del mondo, si può trovare verace salvezza e duratura felicità per gl'individui
e per i popoli.
[3] In quest'ora, gravida di eventi in potere
del consiglio divino, che regge la storia delle nazioni e veglia sulla Chiesa,
è per Noi gioia e soddisfazione intima, nel far sentire a voi, diletti figli,
la voce del Padre comune, il chiamarvi quasi ad una breve e universale adunata
cattolica, affinché possiate sperimentalmente provare nel vincolo della pace la
dolcezza delcor unum e dell' anima una, (Cf At 4,32.)
che cementava, sotto l'impulso dello Spirito divino, la comunità di Gerusalemme
nel dì della Pentecoste. Quanto più le condizioni, originate dalla guerra,
rendono in molti casi difficile un contatto diretto e vivo tra il Sommo Pastore
e il suo gregge, con tanta maggior gratitudine salutiamo il rapidissimo ponte
di unione, che il genio inventivo dell'età nostra lancia in un baleno
attraverso l'etere collegando oltre monti, mari e continenti ogni angolo della
terra. E ciò che per molti è arma di lotta, si trasforma per Noi in strumento
provvidenziale di apostolato operoso e pacifico, che attua e innalza a un
significato nuovo la parola della Scrittura: «In omnem terram exivit sonus
eorum; et in fines orbis terrae verba eorum» (Sal 18,5; Rm 10,18).
Così pare che si rinnovi il gran miracolo della Pentecoste, quando le diverse
genti dalle regioni di altre lingue convenute in Gerusalemme ascoltavano nel
loro idioma la voce di Pietro e degli Apostoli. Con sincero compiacimento Ci
serviamo oggi di un tal mezzo meraviglioso, per attirare l'attenzione del mondo
cattolico sopra una ricorrenza, meritevole di essere a caratteri d'oro segnata
nei fasti della Chiesa: sul cinquantesimo anniversario, cioè, della
pubblicazione, avvenuta il 15 maggio 1891, della fondamentale enciclica socialeRerum novarum di
Leone XIII.
Mosso dalla convinzione profonda che alla
Chiesa compete non solo il diritto, ma ancora il dovere di pronunziare una
parola autorevole sulle questioni sociali, Leone XIII diresse al mondo il suo
messaggio. Non già che egli intendesse di stabilire norme sul lato puramente
pratico, diremmo quasi tecnico, della costituzione sociale; perché ben sapeva e
gli era evidente - e il nostro predecessore di s. m. Pio XI lo ha dichiarato or
è un decennio nella sua enciclica commemorativaQuadragesimo anno -
che la Chiesa non si attribuisce tale missione. Nell'ambito generale del
lavoro, allo sviluppo sano e responsabile di tutte le energie fisiche e
spirituali degl'individui e alle loro libere organizzazioni si apre un
vastissimo campo di azione multiforme, dove il pubblico potere interviene con
una sua azione integrativa e ordinativa, prima per mezzo delle corporazioni
locali e professionali, e infine per forza dello Stato stesso, la cui superiore
e moderatrice autorità sociale ha l'importante ufficio di prevenire i
perturbamenti di equilibrio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti
degli egoismi concorrenti, individuali e collettivi.
E' invece inoppugnabile competenza della
Chiesa, in quel lato di ordine sociale dove si accosta ed entra a toccare il
campo morale, il giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in
accordo con l'ordine immutabile, che Dio creatore e redentore ha manifestato
per mezzo del diritto naturale e della rivelazione: doppia manifestazione, alla
quale si richiama Leone XIII nella sua enciclica. E con ragione: perché i
dettami del diritto naturale e le verità della rivelazione promanano per
diversa via, come due rivi d'acque non contrarie, ma concordi, dalla medesima
fonte divina; e perché la Chiesa, custode dell'ordine soprannaturale cristiano,
in cui convergono natura e grazia, ha da formare le coscienze, anche le
coscienze di coloro, che sono chiamati a trovare soluzioni per i problemi e i
doveri imposti dalla vita sociale. Dalla forma data alla società, consona o no
alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime,
vale a dire, se gli uomini chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di
Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita respirino il sano e
vivido alito della verità e della virtù morale o il bacillo morboso e spesso
letale dell'errore della depravazione. Dinnanzi a tale considerazione e
previsione come potrebbe esser lecito alla Chiesa, madre tanto amorosa e
sollecita del bene dei suoi figli, di rimanere indifferente spettatrice dei
loro pericoli, tacere o fingere di non vedere e ponderare condizioni sociali
che, volutamente o no, rendono ardua o praticamente impossibile una condotta di
vita cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore?
Consapevole di tale gravissima responsabilità
Leone XIII, indirizzando la sua enciclica al mondo, additava alla coscienza
cristiana gli errori e i pericoli della concezione di un socialismo
materialista, le fatali conseguenze di un liberalismo economico, spesso
inconscio o dimentico o sprezzante dei doveri sociali; ed esponeva con
magistrale chiarezza e mirabile precisione i principi convenienti e acconci a
migliorare - gradatamente e pacificamente - le condizioni materiali e
spirituali dell'operaio.
Che se, diletti figli, oggi, dopo un
cinquantennio dalla pubblicazione dell'enciclica, voi Ci domandate fino a qual
segno e misura l'efficacia della sua parola corrispose alle nobili intenzioni,
ai pensieri ricchi di verità, ai benefici indirizzi intesi e suggeriti dal suo
sapiente Autore, sentiamo di dovervi rispondere: proprio per rendere a Dio
onnipotente, dal fondo dell'animo Nostro, umili grazie per il dono, che, or
sono cinquant'anni, largì alla Chiesa con quell'enciclica del suo vicario in
terra, e per lodarlo del soffio dello Spirito rinnovatore, che per essa, da
allora in modo sempre crescente, effuse sull'umanità intera. Noi, in questa
solennità della Pentecoste, Ci siamo proposti di rivolgervi la Nostra parola.
Già il nostro Predecessore Pio XI esaltò
nella prima parte della sua enciclica commemorativa la splendida messe, cui
aveva maturata la Rerum novarum, germe
fecondo, donde si svolse una dottrina sociale cattolica, che offrì ai figli
della Chiesa, sacerdoti e laici, ordinamenti e mezzi per una ricostruzione
sociale, esuberante di frutti; sicché per lei sorsero nel campo cattolico
numerose e varie istituzioni benefiche e fiorenti centri di reciproco soccorso
in favore proprio e d'altrui. Quale prosperità materiale e naturale, quali
frutti spirituali e soprannaturali, non sono provenuti agli operai e alle loro
famiglie dalle unioni cattoliche! Quanto efficace e opportuno al bisogno non si
è dimostrato il contributo dei sindacati e delle associazioni in pro del ceto
agricolo e medio per sollevarne le angustie, assicurarne la difesa e la giustizia,
e in tal modo, mitigando le passioni, preservare da turbamenti la pace sociale!
Né questo fu tutto il vantaggio.
L'enciclica Rerum novarum,
accostandosi al popolo, che abbracciava con stima e amore, penetrò nei cuori e
nelle menti della classe operaia e vi infuse sentimento cristiano e dignità
civile; a segno tale che la potenza dell'attivo suo influsso venne, con lo
scorrere degli anni, così efficacemente esplicandosi e diffondendosi, da far
diventare le sue norme quasi comune patrimonio della famiglia umana. E mentre
lo Stato, nel secolo decimonono, per soverchio esaltamento di libertà,
considerava come suo scopo esclusivo il tutelare la libertà con il diritto,
Leone XIII lo ammonì essere insieme suo dovere l'applicarsi alla provvidenza
sociale, curando il benessere del popolo intero e di tutti i suoi membri,
particolarmente dei deboli e diseredati, con larga politica sociale e con creazione
di un diritto del lavoro. Alla sua voce rispose un'eco potente; ed è sincero
debito di giustizia riconoscere i progressi, che la sollecitudine delle
autorità civili di molte nazioni hanno procurato alla condizione dei
lavoratori. Onde ben fu detto che la Rerum novarumdivenne la Magna
Charta dell'operosità sociale cristiana.
Intanto trascorreva un mezzo secolo, che ha
lasciato solchi profondi e tristi fermenti nel terreno delle nazioni e delle
società.
Le questioni, che i mutamenti e rivolgimenti
sociali e soprattutto economici offrivano a un esame morale dopo la Rerum novarum sono
state con penetrante acutezza trattate dal Nostro immediato Predecessore nella
enciclica Quadragesimo anno. Il
decennio che la seguì non fu meno ricco degli anni anteriori per sorprese nella
vita sociale ed economica, e ha versate le irrequiete e oscure sue acque nel
pelago di una guerra, che può avere imprevedibili flutti urtanti l'economia e
la società.
Quali problemi e quali assunti particolari,
forse del tutto nuovi, presenterà alla sollecitudine della Chiesa la vita
sociale dopo il conflitto che mette a fronte tanti popoli, l'ora presente rende
difficile designare e antivedere. Tuttavia, se il futuro ha radice nel passato,
se l'esperienza degli ultimi anni Ci è maestra per l'avvenire, Noi pensiamo di
servirci dell'odierna commemorazione per dare ulteriori principi direttivi
morali sopra tre fondamentali valori della vita sociale ed economica; e ciò
faremo animati dallo stesso spirito di Leone XIII e svolgendo le sue vedute
veramente, più che profetiche, presaghe dell'insorgente processo sociale dei
tempi. Questi tre valori fondamentali, che s'intrecciano, si saldano e si
aiutano a vicenda, sono: l'uso dei beni materiali, il lavoro, la
famiglia.
L'Enciclica Rerum novarum espone
sulla proprietà e sul sostentamento dell'uomo principi, i quali col tempo nulla
hanno perduto del nativo loro vigore e, oggi dopo cinquant'anni, conservano
ancora e profondono vivificante la loro intima fecondità. Sopra il loro punto
fondamentale, Noi stessi abbiamo richiamata l'attenzione comune nella Nostra
enciclicaSertum laetitiae,
diretta ai Vescovi degli Stati Uniti dell'America del Nord: punto fondamentale,
che consiste, come dicemmo, nell'affermazione della inderogabile esigenza «che
i beni, da Dio creati per tutti gli uomini, equamente affluiscano a tutti,
secondo i principi della giustizia e della carità».
Ogni uomo, quale vivente dotato di ragione,
ha infatti dalla natura il diritto fondamentale di usare dei beni materiali
della terra, pur essendo lasciato alla volontà umana e alle forme giuridiche
dei popoli di regolarne più particolarmente la pratica attuazione. Tale diritto
individuale non può essere in nessun modo soppresso, neppure da altri diritti
certi e pacifici sui beni materiali. Senza dubbio l'ordine naturale, derivante
da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero reciproco commercio dei
beni con scambi e donazioni, come pure la funzione regolatrice del potere
pubblico su entrambi questi istituti. Tutto ciò nondimeno rimane subordinato
allo scopo naturale dei beni materiali, e non potrebbe rendersi indipendente
dal diritto primo e fondamentale, che a tutti ne concede l'uso; ma piuttosto
deve servire a farne possibile l'attuazione in conformità con il suo scopo.
Così solo si potrà e si dovrà ottenere che proprietà e uso dei beni materiali
portino alla società pace feconda e consistenza vitale, non già costituiscano
condizioni precarie, generatrici di lotte e gelosie, e abbandonate in balia
dello spietato giuoco della forza e della debolezza.
Il diritto originario sull'uso dei beni
materiali, per essere in intima connessione con la dignità e con gli altri
diritti della persona umana, offre ad essa con le forme sopra indicate una base
materiale sicura, di somma importanza per elevarvi al compimento dei suoi
doveri morali. La tutela di questo diritto assicurerà la dignità personale
dell'uomo, e gli agevolerà l'attendere e il soddisfare in giusta libertà a
quella somma di stabili obbligazioni e decisioni, di cui è direttamente
responsabile verso il Creatore.
Spetta invero all'uomo il dovere del tutto
personale di conservare e ravviare a perfezionamento la sua vita materiale e
spirituale, per conseguire lo scopo religioso e morale, che Dio ha assegnato a
tutti gli uomini e dato loro quale norma suprema, sempre e in ogni caso
obbligante, prima di tutti gli altri doveri.
Tutelare l'intangibile campo dei diritti
della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol
essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere. Non è forse questo che porta
con sé il significato genuino del bene comune, che lo Stato è chiamato a
promuovere? Da qui nasce che la cura di un tal bene comune non importa un
potere tanto esteso sui membri della comunità, che in virtù di esso sia
concesso all'autorità pubblica di menomare lo svolgimento dell'azione
individuale sopra descritta, decidere sull'inizio o (escluso il caso di
legittima pena) sul termine della vita umana, determinare a proprio talento la
maniera del suo movimento fisico, spirituale, religioso e morale in contrasto
con i personali doveri e diritti dell'uomo, e a tale intento abolire o privare
d'efficacia il diritto naturale ai beni materiali. Dedurre tanta estensione di
potere dalla cura del bene comune vorrebbe dire travolgere il senso stesso del
bene comune e cadere nell'errore di affermare che il proprio scopo dell'uomo
sulla terra è la società, che la società è fine a se stessa, che l'uomo non ha
altra vita che l'attende fuori di quella che si termina quaggiù.
Anche l'economia nazionale, com'è frutto dell'attività
di uomini che lavorano uniti nella comunità statale, così ad altro non mira che
ad assicurare senza interrompimento le condizioni materiali, in cui possa
svilupparsi pienamente la vita individuale dei cittadini. Dove ciò, e in modo
duraturo si ottenga, un popolo sarà, a vero dire, economicamente ricco, perché
il benessere generale e, per conseguenza, il diritto personale di tutti all'uso
dei beni terreni viene in tal modo attuato conformemente all'intento voluto dal
Creatore.
Dal che, diletti figli, vi tornerà agevole
scorgere che la ricchezza economica di un popolo non consiste propriamente
nell'abbondanza dei beni, misurata secondo un computo puro e pretto materiale
del loro valore, bensì in ciò che tale abbondanza rappresenti e porga realmente
ed efficacemente la base materiale bastevole al debito sviluppo personale dei
suoi membri. Se una simile giusta distribuzione dei beni non fosse attuata o
venisse procurata solo imperfettamente, non si raggiungerebbe il vero scopo
dell'economia nazionale; giacché, per quanto soccorresse una fortunata
abbondanza di beni disponibili, il popolo, non chiamato a parteciparne, non
sarebbe economicamente ricco, ma povero. Fate invece che tale giusta
distribuzione sia effettuata realmente e in maniera durevole, e vedrete un
popolo, anche disponendo di minori beni, farsi ed essere economicamente sano.
Questi concetti fondamentali, riguardanti la
ricchezza e la povertà dei popoli, Ci sembra particolamente opportuno porre
innanzi alla vostra considerazione oggi, quando si è inclinati a misurare e
giudicare tale ricchezza e povertà con bilance e con criteri semplicemente
quantitativi, sia dello spazio, sia della ridondanza dei beni. Se invece si
pondera rettamente lo scopo dell'economia nazionale, allora esso diverrà luce
per gli sforzi degli uomini di Stato e dei popoli e li illuminerà a
incamminarsi spontaneamente per una via, che non esigerà continui gravami in
beni e in sangue, ma donerà frutti di pace e di benessere generale.
Con l'uso dei beni materiali voi stessi, diletti
figli, comprendete come viene a congiungersi il lavoro. La Rerum novaruminsegna
che due sono le proprietà del lavoro umano: esso è personale ed è necessario.
E' personale, perché si compie con l'esercizio delle particolari forze
dell'uomo: è necessario, perché senza di esso non si può procurare ciò che è
indispensabile alla vita, mantenere la quale è un dovere naturale, grave, individuale.
Al dovere personale del lavoro imposto dalla
natura corrisponde e consegue il diritto naturale di ciascun individuo a fare
del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli: tanto
altamente è ordinato per la conservazione dell'uomo l'impero della natura.
Ma notate che tale dovere e il relativo
diritto al lavoro viene imposto e concesso all'individuo in primo appello dalla
natura, e non già dalla società, come se l'uomo altro non fosse che un semplice
servo o funzionario della comunità. Dal che segue che il dovere e il diritto a
organizzare il lavoro del popolo appartengono innanzi tutto agli immediati
interessati: datori di lavoro e operai. Che se poi essi non adempiano il loro
compito o ciò non possano fare per speciali straordinarie contingenze, allora
rientra nell'ufficio dello Stato l'intervento nel campo e nella divisione e
nella distribuzione del lavoro, secondo la forma e la misura che richiede il
bene comune rettamente inteso.
Ad ogni modo, qualunque legittimo e benefico
intervento statale nel campo del lavoro vuol esser tale da salvarne e
rispettarne il carattere personale, sia in linea di massima, sia, nei limiti
del possibile, per quel che riguarda l'esecuzione. E questo avverrà, se le
norme statali non aboliscano né rendano inattuabile l'esercizio di altri
diritti e doveri ugualmente personali: quali sono il diritto al vero culto di
Dio; al matrimonio; il diritto dei coniugi, del padre e della madre a condurre
la vita coniugale e domestica; il diritto a una ragionevole libertà nella
scelta dello stato e nel seguire una vera vocazione; diritto quest'ultimo
personale, se altro mai, dello spirito dell'uomo ed eccelso, quando gli si
accostino i diritti superiori e imprescindibili di Dio e della Chiesa, come
nella scelta e nell'esercizio delle vocazioni sacerdotali e religiose.
Secondo la dottrina della Rerum novarum, la
natura stessa ha intimamente congiunto la proprietà privata con l'esistenza
dell'umana società e con la sua vera civiltà, e in grado eminente con
l'esistenza e con lo sviluppo della famiglia. Un tal vincolo appare più che
apertamente; non deve forse la proprietà privata assicurare al padre di famiglia
la sana libertà, di cui ha bisogno, per poter adempiere i doveri assegnatigli
dal Creatore, concernenti il benessere fisico, spirituale e religioso della
famiglia?
Nella famiglia la nazione trova la radice
naturale e feconda della sua grandezza e potenza. Se la proprietà privata ha da
condurre al bene della famiglia, tutte le norme pubbliche, anzitutto quelle
dello Stato che ne regolano il possesso, devono non solo rendere possibile e
conservare tale funzione - funzione nell'ordine naturale sotto certi rapporti
superiore a ogni altra - ma ancora perfezionarla sempre più. Sarebbe infatti
innaturale un vantato progresso civile, il quale - o per la sovrabbondanza di
carichi o per soverchie ingerenze immediate - rendesse vuota di senso la
proprietà privata, togliendo praticamente alla famiglia e al suo capo la
libertà di perseguire lo scopo da Dio assegnato al perfezionamento della vita
familiare.
Fra tutti i beni che possono esser oggetto di
proprietà privata nessuno è più conforme alla natura, secondo l'insegnamento
della Rerum novarum, di
quanto è il terreno, il podere, in cui abita la famiglia, e dai cui frutti trae
interamente o almeno in parte il di che vivere. Ed è nello spirito della Rerum novarum l'affermare
che, di regola, solo quella stabilità, che si radica in un proprio podere, fa
della famiglia la cellula vitale più perfetta e feconda della società, riunendo
splendidamente con la sua progressiva coesione le generazioni presenti e
future. Se oggi il concetto e la creazione di spazi vitali è al centro delle mete
sociali e politiche, non si dovrebbe forse, avanti ogni cosa, pensare allo
spazio vitale della famiglia e liberarla dai legami di condizione, che non
permettono neppure la formazione dell'idea di un proprio casolare?
Il nostro pianeta con tanti estesi oceani e
mari e laghi, con monti e piani coperti di neve e di ghiacci eterni, con grandi
deserti e terre inospite e sterili, non è pur scarso di regioni e luoghi vitali
abbandonati al capriccio vegetativo della natura e ben confacentesi alla
coltura della mano dell'uomo, ai suoi bisogni e alle sue operazioni civili; e
più di una volta è inevitabile che alcune famiglie, di qua o di là emigrando,
si cerchino altrove una nuova patria. Allora, secondo l'insegnamento
della Rerum novarum, va
rispettato il diritto della famiglia ad uno spazio vitale. Dove questo accadrà,
l'emigrazione raggiungerà il suo scopo naturale, che spesso convalida l'esperienza,
vogliamo dire la distribuzione più favorevole degli uomini sulla superficie
terrestre, acconcia a colonie di agricoltori; superficie che Dio creò e preparò
per uso di tutti. Se le due parti, quella che concede di lasciare il luogo
natio e quella che ammette i nuovi venuti, rimarranno lealmente sollecite di
eliminare quanto potrebbe essere d'impedimento al nascere e allo svolgersi di
una verace fiducia tra il paese di emigrazione e il paese d'immigrazione, tutti
i partecipanti a tale tramutamento di luoghi e di persone ne avranno vantaggio:
le famiglie riceveranno un terreno che sarà per loro terra patria nel vero
senso della parola; le terre di densi abitanti resteranno alleggerite e i loro
popoli si creeranno nuovi amici in territori stranieri; e gli Stati che
accolgono gli emigrati guadagneranno cittadini operosi. Così le nazioni che
danno e gli Stati che ricevono, in pari gara, contribuiranno all'incremento del
benessere umano e al progresso dell'umana cultura.
[26] Sono questi, diletti figli, i principi,
le concezioni e le norme, con cui Noi vorremmo cooperare fin da ora alla futura
organizzazione di quell'ordine nuovo, che dall'immane fermento della presente
lotta il mondo si attende e si augura che nasca, e nella pace e nella giustizia
tranquilli i popoli. Che resta a Noi, se non nello spirito di Leone XIII e
nell'intento dei suoi nobili ammonimenti e fini, esortarvi a proseguire e
promuovere l'opera, che la precedente generazione dei vostri fratelli e delle
sorelle vostre hanno con si ardimentoso animo fondata? Non si spenga in mezzo a
voi o si faccia fioca la voce insistente dei due pontefici delle encicliche
sociali, che altamente addita ai credenti nella rigenerazione soprannaturale
dell'umanità il dovere morale di cooperare all'ordinamento della società e, in
special modo della vita economica, accendendo all'azione non meno coloro i
quali a tale vita partecipano che lo Stato stesso. Non è forse ciò un sacro
dovere per ogni cristiano? Non vi sgomentino, diletti figli, le esterne
difficoltà, né vi disanimi l'ostacolo del crescente paganesimo della vita
pubblica. Non vi traggano in inganno i fabbricatori di errori e di malsane
teorie, tristi correnti non d'incremento, ma piuttosto di disfacimento e di
corrompimento della vita religiosa; correnti, le quali pretendono che,
appartenendo la redenzione all'ordine della grazia soprannaturale ed essendo
perciò esclusiva opera di Dio, non abbisogna della nostra cooperazione sulla
terra. Oh misera ignoranza dell'opera di Dio! « Dicentes enim se esse, sapientes,
stulti facti sunt» (Rm 1,22).
Quasi che la prima efficacia della grazia non
fosse di corroborare i nostri sforzi sinceri per adempiere ogni di i comandi di
Dio, come individui e come membri della società; quasi che da due millenni non
viva e perseveri nell'anima della Chiesa il senso della responsabilità
collettiva di tutti per tutti, onde furono e sono mossi gli spiriti fino
all'eroismo caritativo dei monaci agricoltori, dei liberatori di schiavi, dei
sanatori d'infermi, dei portatori di fede, di civiltà e di scienza a tutte le
età e a tutti i popoli, per creare condizioni sociali che solo valgono per
rendere a tutti possibile e agevole una vita degna dell'uomo e del cristiano.
Ma voi, consci e convinti di tale sacra responsabilità, non siate mai in fondo
all'anima vostra paghi di quella generale mediocrità pubblica in cui il comune
degli uomini non possa, se non con atti eroici di virtù, osservare i divini
precetti inviolabili sempre e in ogni caso.
Se tra il proposito e l'attuazione apparve
talvolta evidente la sproporzione; se vi furono falli, comuni del resto a ogni
umana attività; se diversità di pareri nacquero sulla via seguita o da
seguirsi, tutto ciò non ha da far cadere d'animo o rallentare il vostro passo o
suscitare lamenti o accuse; né può far dimenticare il fatto consolante che
dall'ispirato messaggio del pontefice della Rerum novarum scaturì
vivida e limpida una sorgente di spirito sociale forte, sincero,
disinteressato; una sorgente la quale, se oggi potrà venire in parte coperta da
una valanga di eventi diversi e più forti, domani, rimosse le rovine di questo
uragano mondiale, all'iniziarsi il lavoro di ricostruzione di un nuovo ordine
sociale, implorato degno di Dio e dell'uomo, infonderà nuovo gagliardo impulso
e nuova onda di rigoglio e crescimento in tutta la fioritura della cultura
umana. Custodite la nobile fiamma di spirito sociale fraterno, che, or è mezzo
secolo, riaccese nei cuori dei vostri padri la face luminosa e illuminante
della parola di Leone XIII: non lasciate né permettete che manchi d'alimento e,
sfavillando ai vostri commemorativi ossequi, muoia, spenta da una ignava,
schiva e guardinga indifferenza verso i bisogni dei più poveri tra i nostri
fratelli, o travolta nella polvere e nel fango dal turbinante soffio dello
spirito anticristiano o non cristiano. Nutritela, ravvivatela, elevatela,
dilatatela questa fiamma; portatela ovunque viene a voi un gemito di affanno,
un lamento di miseria, un grido di dolore; rinfocatela sempre nuovamente con
l'ardenza di amore attinto al Cuore del Redentore, a cui il mese che oggi si
inizia è consacrato. Andate a quel cuore divino, mite e umile, rifugio per ogni
conforto nella fatica e nel peso dell'azione: è il cuore di colui, che a ogni
opera genuina e pura, compiuta nel suo nome e nel suo spirito, in favore dei
sofferenti, degli angustiati, degli abbandonati dal mondo e dei diseredati di
ogni bene e fortuna, ha promesso l'eterna ricompensa beatificante: Voi
benedetti del Padre mio. Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli,
l'avete fatto a me!
Festa di Pentecoste del 1941
PIO PP. XII
24 dicembre 1941
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante
in religione come Pio XII nella Vigilia del natale 1941
Mercoledì,
24 dicembre 1941(1)
Nell'alba
e nella luce che rifulge previa alla festa del Santo Natale, attesa sempre con
vivo anelito di gioia soave e penetrante, mentre ogni fronte si prepara a
curvarsi e ogni ginocchio a piegarsi in adorazione davanti all'ineffabile
mistero della misericordiosa bontà di Dio, che nella sua carità infinita volle
dare, quale dono più grande e augusto, all'umanità il suo Figliuolo Unigenito;
il Nostro cuore, diletti figli e figlie, sparsi sulla faccia della terra, si
dilata a voi, e, pur non obliando la terra, si eleva e si profonda nel cielo.
La
stella, indicatrice della culla del neonato Redentore, da venti secoli ancora
splende meravigliosa nel cielo della Cristianità. Si agitino pure le genti, e
le nazioni congiurino contro Dio e contro il suo Messia (cf. Sal 2,1-2):
attraverso le bufere del mondo umano la stella non conobbe, non conosce né
conoscerà tramonti; il passato, il presente e l'avvenire sono suoi. Essa
ammonisce a mai non disperare: splende sopra i popoli, quand'anche sulla terra,
come su oceano mugghiante per tempesta, si addensino i cupi turbini, generatori
di stragi e di miserie. La sua luce è luce di conforto, di speranza, di fede
incrollabile, di vita e certezza nel trionfo finale del Redentore, che
traboccherà, quale torrente di salvezza, nella pace interiore e nella gloria per
tutti quelli che, elevati all'ordine soprannaturale della grazia, avranno
ricevuto il potere di farsi figli di Dio, perché nati da Dio.
Onde
Noi, che, in questi amari tempi di sconvolgimenti guerreschi, siamo straziati
dei vostri strazi e doloranti dei vostri dolori, Noi che viviamo come voi sotto
il gravissimo incubo di un flagello, dilaniante un terzo anno ancora l'umanità,
nella vigilia di tanta solennità amiamo di rivolgervi con commosso cuore di
padre la parola, per esortarvi a restar saldi nella fede, e per comunicarvi il
conforto di quella verace, esuberante e trasumanante speranza e certezza, che
si irradiano dalla culla del neonato Salvatore.
Per
vero, diletti figli, se il nostro occhio non mirasse più su della materia e
della carne, appena è che troverebbe qualche ragione di conforto. Diffondono,
sì, le campane il lieto messaggio del Natale, si illuminano chiese e oratori,
le armonie religiose rallegrano gli spiriti, tutto è festa e ornamento nei
sacri templi; ma la umanità non cessa dal dilaniarsi in una guerra
sterminatrice. Nei sacri riti echeggia sulle labbra della Chiesa la mirabile
antifona: «Rex pacificus magnificatus est, cuius vultum desiderat universa
terra»;(2) ma essa risuona in
stridente contrasto con avvenimenti, che rombano per piani e per monti con
fracasso pieno di spavento, devastano terre e case per estese regioni, e
gettano milioni di uomini e le loro famiglie nell'infelicità, nella miseria e
nella morte. Certo, ammirevoli sono i molteplici spettacoli di indomato valore
nella difesa del diritto e del suolo natìo; di serenità nel dolore; di anime
che vivono come fiamme di olocausto per il trionfo della verità e della
giustizia. Ma pure con angoscia che Ci preme l'animo pensiamo e, come sognando,
guardiamo ai terribili scontri di armi e di sangue di quest'anno che volge al
tramonto; alla infelice sorte dei feriti e dei prigionieri; alle sofferenze corporali
e spirituali, alle stragi, alle distruzioni e rovine che la guerra aerea porta
e rovescia su grandi e popolose città, su centri e vasti territori industriali,
alle dilapidate ricchezze degli Stati, ai milioni di gente, che l'immane
conflitto e la dura violenza vengono gettando nella miseria e nell'inedia.
E
mentre il vigore e la salute di larga parte di gioventù, che andava maturando,
si vengono scuotendo per le privazioni imposte dal presente flagello, vanno per
contro salendo ad altezze vertiginose le spese e i gravami di guerra, che,
originando contrazione delle forze produttive nel campo civile e sociale, non
possono non dar fondamento alle ansie di coloro che volgono l'occhio
preoccupato verso l'avvenire. L'idea della forza soffoca e perverte la norma
del diritto. Rendete possibile e offrite porta aperta a individui e gruppi
sociali o politici di ledere i beni e la vita altrui; lasciate che anche tutte
le altre distruzioni morali turbino e accendano l'atmosfera civile a tempesta;
e voi vedrete le nozioni di bene e di male, di diritto e d'ingiustizia perdere
i loro acuti contorni, smussarsi, confondersi e minacciare di scomparire. Chi
in virtù del ministero pastorale ha la via di penetrare nei cuori, sa e vede
qual cumulo di dolori e di ansietà inenarrabili s'aggravi e si amplifichi in
molte anime, ne scemi la brama e la gioia di lavorare e di vivere; ne soffochi
gli spiriti e li renda muti e indolenti, sospettosi e quasi senza speranza in
faccia agli eventi e ai bisogni: turbamenti d'animo che nessuno può prendere
alla leggiera, se tiene a cuore il vero bene dei popoli, e desidera promuovere
un non lontano ritorno a condizioni normali e ordinate di vita e di azione.
Davanti a tale visione del presente, nasce un'amarezza che invade il petto,
tanto più in quanto non appare oggi aperto alcun sentiero d'intesa tra le parti
belligeranti, i cui reciproci scopi e programmi di guerra sembrano essere in
contrasto inconciliabile.
Quando
si indagano le cause delle odierne rovine, davanti a cui l'umanità, che le considera,
resta perplessa, si ode non di rado affermare che il cristianesimo è venuto
meno alla sua missione. Da chi e donde viene siffatta accusa? Forse da quegli
apostoli, gloria di Cristo, da quegli eroici zelatori della fede e della
giustizia, da quei pastori e sacerdoti, araldi del cristianesimo, i quali
attraverso persecuzioni e martirii ingentilirono la barbarie e la prostrarono
devota all'altare di Cristo, iniziarono la civiltà cristiana, salvarono le
reliquie della sapienza e dell'arte di Atene e di Roma, adunarono i popoli nel
nome cristiano, diffusero il sapere e la virtù, elevarono la croce sopra i
pinnacoli aerei e le volte delle cattedrali, immagini del cielo, monumenti di
fede e di pietà, che ancora ergono il capo venerando fra le rovine dell'Europa?
No: il Cristianesimo, la cui forza deriva da Colui che è via, verità e vita, e
sta e starà con esso fino alla consumazione dei secoli, non è venuto meno alla
sua missione; ma gli uomini si sono ribellati al Cristianesimo vero e fedele a
Cristo e alla sua dottrina; si sono foggiati un cristianesimo a loro talento,
un nuovo idolo che non salva, che non ripugna alle passioni della concupiscenza
della carne, all'avidità dell'oro e dell'argento che affascina l'occhio, alla
superbia della vita; una nuova religione senz'anima o un'anima senza religione,
una maschera di morto cristianesimo, senza lo spirito di Cristo; e hanno
proclamato che il Cristianesimo è venuto meno alla sua missione!
Scaviamo
in fondo alla coscienza della società moderna, ricerchiamo la radice del male:
dove essa alligna? Senza dubbio anche qui non vogliamo tacere la lode dovuta
alla saggezza di quei Governanti, che o sempre favorirono o vollero e seppero
rimettere in onore, con vantaggio del popolo, i valori della civiltà cristiana
nei felici rapporti fra Chiesa e Stato, nella tutela della santità del
matrimonio, nella educazione religiosa della gioventù. Ma non possiamo chiudere
gli occhi alla triste visione del progressivo scristianamento individuale e
sociale, che dalla rilassatezza del costume è trapassato all'indebolimento e
all'aperta negazione di verità e di forze, destinate a illuminare gl'intelletti
sul bene e sul male, a corroborare la vita familiare, la vita privata, la vita
statale e pubblica. Un'anemia religiosa, quasi contagio che si diffonda, ha
così colpito molti popoli di Europa e del mondo e fatto nell'anime un tal vuoto
morale, che nessuna rigovernatura religiosa o mitologia nazionale e
internazionale varrebbe a colmarlo. Con parole e con azioni e con
provvedimenti, da decenni e secoli, che mai di meglio o di peggio si seppe fare
se non strappare dai cuori degli uomini, dalla puerizia alla vecchiezza, la
fede in Dio, Creatore e Padre di tutti, rimuneratore del bene e vindice del
male, snaturando l'educazione e l'istruzione, combattendo e opprimendo con ogni
arte e mezzo, con la diffusione della parola e della stampa, con l'abuso
della scienza e del potere, la religione e la Chiesa di Cristo?
Travolto
lo spirito nel baratro morale con lo straniarsi da Dio e dalla pratica cristiana,
altro non rimaneva se non che pensieri, propositi, avviamenti, stima delle
cose, azione e lavoro degli uomini si rivolgessero e mirassero al mondo
materiale, affannandosi e sudando per dilatarsi nello spazio, per crescere più
che mai oltre ogni limite nella conquista delle ricchezze e della potenza, per
gareggiare di velocità nel produrre più e meglio ogni cosa che l'avanzamento o
il progresso materiale pareva richiedere. Di qui, nella politica, il prevalere
di un impulso sfrenato verso l'espansione e il mero credito politico incurante
della morale; nell'economia il dominare delle grandi e gigantesche imprese e
associazioni; nella vita sociale il riversarsi e pigiarsi delle schiere di
popolo in gravosa sovrabbondanza nelle grandi città e nei centri d'industria e
di commercio, con quella instabilità che consegue e accompagna una moltitudine
di uomini, i quali mutano casa e residenza, paese e mestiere, passioni e
amicizie.
Ne
nacque allora che i rapporti reciproci della vita sociale presero un carattere
puramente fisico e meccanico. Con dispregio di ogni ragionevole ritegno e
riguardo l'impero della costrizione esterna, il nudo possesso del potere si
sovrappose alle norme dell'ordine, reggitore della convivenza umana, le quali,
emanate da Dio, stabiliscono quali relazioni naturali e soprannaturali
intercorrano fra il diritto e l'amore verso gl'individui e la società. La
maestà e la dignità della persona umana e delle particolari società venne
mortificata, avvilita e soppressa dall'idea della forza che crea il diritto; la
proprietà privata divenne per gli uni un potere diretto verso lo sfruttamento
dell'opera altrui, negli altri generò gelosia, insofferenza e odio; e
l'organizzazione, che ne seguiva, si convertì in forte arma di lotta per far
prevalere interessi di parte. In alcuni Paesi, una concezione dello Stato atea
o anticristiana con i suoi vasti tentacoli avvinse a sé talmente l'individuo da
quasi spogliarlo d'indipendenza, non meno nella vita privata che nella
pubblica.
Chi
potrà oggi meravigliarsi se tale radicale opposizione ai principi della
cristiana dottrina venne infine a tramutarsi in ardente cozzo di tensioni
interne ed esterne, così da condurre a sterminio di vite umane e distruzione di
beni, quale lo lediamo e a cui assistiamo con profonda pena? Funesta
conseguenza e frutto delle condizioni sociali ora descritte, la guerra, lungi
dall'arrestarne l'influsso e lo svolgimento, lo promuove, lo accelera e amplia,
con tanto maggior rovina, quanto più essa dura, rendendo la catastrofe ancor
più generale.
Dalla
Nostra parola contro il materialismo dell'ultimo secolo e del tempo presente
male argomenterebbe chi ne deducesse una condanna del progresso tecnico. No;
Noi non condanniamo ciò che è dono di Dio, il quale, come ci fa sorgere il pane
dalle zolle della terra, nelle viscere più profonde del suolo nei giorni della
creazione del mondo nascose tesori di fuoco, di metalli, di pietre preziose da
scavarsi dalla mano dell'uomo per i suoi bisogni, per le sue opere, per il suo
progresso. La Chiesa, madre di tante Università d'Europa, che ancora esalta e
aduna i più arditi maestri delle scienze, scrutatori della natura, non ignora
però che di ogni bene e della stessa libertà del volere si può far un uso degno
di lode e di premio ovvero di biasimo e di condanna. Così è avvenuto che lo
spirito e la tendenza, con cui fu spesso usato il progresso tecnico, fanno sì
che, all'ora che volge, la tecnica debba espiare il suo errore ed esser quasi
punitrice di se stessa, creando strumenti di rovina, che distruggono oggi ciò
che ieri essa ha edificato.
Di
fronte alla vastità del disastro, originato dagli errori indicati, non si offre
altro rimedio, se non il ritorno agli altari, a' pie' dei quali innumerevoli
generazioni di credenti attingevano già la benedizione e l'energia morale per
il compimento dei propri doveri; alla fede, che illuminava individui e società
e insegnava i diritti e i doveri spettanti a ciascuno; alle sagge e
incrollabili norme di un ordine sociale, le quali nel terreno nazionale, come
in quello internazionale, ergono un'efficace barriera contro l'abuso della
libertà, non altrimenti che contro l'abuso del potere. Ma il richiamo a queste
benefiche sorgenti ha da risonare alto, persistente, universale, nell'ora in
cui il vecchio ordinamento sarà per scomparire e cedere il passo e il posto a
un nuovo.
La
futura ricostruzione potrà presentare e dare preziosa facoltà di promuovere il
bene, non scevra anche di pericoli di cadere in errori, e con gli errori
favorire il male; ed esigerà serietà prudenti e matura riflessione, non solo
per la gigantesca arduità dell'opera, ma ancora per le gravi conseguenze che,
qualora fallisse, cagionerebbe nel campo materiale e spirituale; esigerà
intelletti di larghe vedute e volontà di fermi propositi, uomini coraggiosi e operosi,
ma, sopra tutto e avanti tutto, coscienze, le quali nei disegni, nelle
deliberazioni e nelle azioni siano animate e mosse e sostenute da un vivo senso
di responsabilità, e non rifuggano dall'inchinarsi davanti alle sante leggi di
Dio; perché, se con la vigoria plasmatrice nell'ordine materiale non si
accoppierà somma ponderatezza e sincero proposito nell'ordine morale, si
verificherà senza dubbio la sentenza di S. Agostino: «Bene currunt, sed in via
non currunt. Quanto plus currunt, plus errant, quia a via recedunt».(3)
Né
sarebbe la prima volta che uomini, i quali stanno nell'aspettazione di cingersi
del lauro di vittorie guerresche, sognassero di dare al mondo un nuovo
ordinamento, additando nuove vie, a loro parere, conducenti al benessere, alla
prosperità e al progresso. Ma ogni qualvolta cedettero alla tentazione
d'imporre la loro costruzione contro il dettame della ragione, della
moderazione, della giustizia e della nobile umanità, si trovarono caduti e
stupiti a contemplare i ruderi di speranze deluse e di progetti abortiti. Onde
la storia insegna che i trattati di pace, stipulati con spirito e condizioni
contrastanti sia con i dettami morali sia con una genuina saggezza politica,
mai non ebbero vita, se non grama e breve, mettendo così a nudo e testimoniando
un errore di calcolo, umano senza dubbio, ma non per questo meno
esiziale.
Ora
le rovine di questa guerra sono troppo ingenti, da non dovervisi aggiungere
anche quelle di una pace frustrata e delusa; e perciò ad evitare tanta
sciagura, conviene che con sincerità di volere e di energia, con proposito di
generoso contributo, vi cooperino, non solo questo o quel partito, non solo
questo o quel popolo, ma tutti i popoli, anzi l'intera umanità. È un'intrapresa
universale di bene comune, che richiede la collaborazione della Cristianità,
per gli aspetti religiosi e morali del nuovo edificio che si vuol costruire.
Facciamo
quindi uso di un Nostro diritto o, meglio, adempiamo un Nostro dovere, se oggi,
alla vigilia del Santo Natale, divina aurora di speranza e di pace per il
mondo, con l'autorità del Nostro ministero apostolico e il caldo incitamento
del Nostro cuore, richiamiamo l'attenzione e la meditazione dell'universo
intero sui pericoli che insidiano e minacciano una pace, la quale sia acconcia
base di un vero nuovo ordinamento e risponda all'aspettazione e ai voti dei
popoli per un più tranquillo avvenire.
Tale
nuovo ordinamento, che tutti i popoli anelano di veder attuato, dopo le prove e
le rovine di questa guerra, ha da essere innalzato sulla rupe incrollabile e
immutabile della legge morale, manifestata dal Creatore stesso per mezzo
dell'ordine naturale e da Lui scolpita nei cuori degli uomini con caratteri
incancellabili; legge morale, la cui osservanza deve venir inculcata e promossa
dall'opinione pubblica di tutte le Nazioni e di tutti gli Stati con tale
unanimità di voce e di forza, che nessuno possa osare di porla in dubbio o
attenuarne il vincolo obbligante.
Quale
faro splendente, essa deve coi raggi dei suoi principi dirigere il corso
dell'operosità degli uomini e degli Stati, i quali avranno da seguirne le
ammonitrici, salutari e proficue segnalazioni, se non vorranno condannare alla
bufera e al naufragio ogni lavoro e sforzo per stabilire un nuovo ordinamento.
Riassumendo pertanto e integrando quel che in altre occasioni fu da Noi
esposto, insistiamo anche ora su alcuni presupposti essenziali di un ordine
internazionale, che, assicurando a tutti i popoli una pace giusta e duratura,
sia feconda di benessere e di prosperità.
1.
Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto
per la lesione della libertà, dell'integrità e della sicurezza di altre
Nazioni, qualunque sia la loro estensione territoriale o la loro capacità di
difesa. Se è inevitabile che i grandi Stati, per le loro maggiori possibilità e
la loro potenza, traccino il cammino per la costituzione di gruppi economici fra essi
e le azioni più piccole e deboli; è nondimeno incontestabile - come per tutti,
nell'ambito dell'interesse generale - il diritto di queste al rispetto della
loro libertà nel campo politico, alla efficace custodia di quella neutralità
nelle contese fra gli Stati, che loro spetta secondo il gius naturale e delle
genti, alla tutela del loro sviluppo economico, giacchè soltanto in tal guisa
potranno conseguire adeguatamente il bene comune, il benessere materiale e
spirituale del proprio popolo.
2.
Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto
per la oppressione aperta o subdola delle peculiarità culturali e linguistiche
delle minoranze nazionali, per l'impedimento e la contrazione delle loro
capacità economiche, per la limitazione o l'abolizione della loro naturale
fecondità. Quanto più coscienziosamente la competente autorità dello Stato
rispetta i diritti delle minoranze, tanto più sicuramente ed efficacemente può
esigere dai loro membri il leale compimento dei doveri civili, comuni agli
altri cittadini.
3.
Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto
per i ristretti calcoli egoistici, tendenti ad accaparrarsi le fonti economiche
e le materie di uso comune, in maniera che le Nazioni, meno favorite dalla
natura, ne restino escluse. Al qual riguardo Ci è di somma consolazione il
vedere affermarsi la necessità di una partecipazione di tutti ai beni della
terra anche presso quelle Nazioni, che nell'attuazione di questo principio
apparterrebbero alla categoria di coloro «che danno» e non di quelli «che
ricevono». Ma è conforme a equità che una soluzione di tale questione, decisiva
per l'economia del mondo, avvenga metodicamente e progressivamente con le
necessarie garanzie, e tragga ammaestramento dalle mancanze e dalle omissioni
del passato. Se nella futura pace non si venisse ad affrontare coraggiosamente
questo punto, rimarrebbe nelle relazioni tra i popoli una profonda e vasta
radice germogliante amari contrasti ed esasperate gelosie, che finirebbero col
condurre a nuovi conflitti. Decorre però osservare come la soddisfacente
soluzione di questo problema strettamente vada connessa con un altro cardine
fondamentale di un nuovo ordinamento, del quale parliamo nel punto seguente.
4.
Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto -
una volta eliminati i più pericolosi focolai di conflitti armati - per una
guerra totale né per una sfrenata corsa agli armamenti. Non si deve permettere
che la sciagura di una guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e
le sue aberrazioni e perturbazioni morali si rovesci per la terza volta sopra
la umanità. La quale perché venga tutelata lungi da tale flagello, è necessario
che con serietà e onestà si proceda a una limitazione progressiva e adeguata
degli armamenti. Lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e
il deficiente armamento dei deboli crea un pericolo per la conservazione della
tranquillità e della pace dei popoli, e consiglia di scendere a un ampio e proporzionato
limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive.
Conforme
poi alla misura, in cui il disarmo venga attuato, sono da stabilirsi mezzi
appropriati, onorevoli per tutti ed efficaci, per ridonare alla norma Pacta
sunt servanda, «i patti devono essere osservati», la funzione vitale e
morale, che le spetta nelle relazioni giuridiche fra gli Stati. Tale norma, che
nel passato ha subìto crisi preoccupanti e innegabili infrazioni, ha trovato
contro di sé una quasi insanabile sfiducia tra i vari popoli e i rispettivi
reggitori. Perché la fiducia reciproca rinasca devono sorgere istituzioni, le
quali, acquistandosi il generale rispetto, si dedichino al nobilissimo ufficio,
sia di garantire il sincero adempimento dei trattati, sia di promuoverne, secondo
i principi di diritto e di equità, opportune correzioni o revisioni.
Non
Ci nascondiamo il cumulo di difficoltà da superarsi, e la quasi sovrumana forza
di buona volontà richiesta a tutte le parti, perché convengano a dare felice
soluzione alla doppia impresa qui tracciata. Ma questo lavoro comune è talmente
essenziale per una pace duratura, che nulla deve rattenere gli uomini di Stato
responsabili dall'intraprenderlo e cooperarvi con le forze di un buon volere,
il quale, guardando al bene futuro, vinca i dolorosi ricordi di tentativi non
riusciti nel passato, e non si lasci atterrire dalla conoscenza del gigantesco
vigore, che si domanda per tale opera.
5.
Nel campo di un nuovo ordinamento fondato sui principi morali, non vi è posto
per la persecuzione della religione edella Chiesa. Da una fede viva in un Dio
personale trascendente si sprigiona una schietta e resistente vigoria morale
che informa tutto il corso della vita; perché la fede non è solo una virtù ma
la porta divina per la quale entrano nel tempio dell'anima tutte le virtù, e si
costituisce quel carattere forte e tenace che non vacilla nei cimenti della
ragione e della giustizia. Ciò vale sempre; ma molto più ha da splendere quando
così dall'uomo di Stato, come dall'ultimo dei cittadini si esige il massimo di
coraggio e di energia morale per ricostruire una nuova Europa e un nuovo mondo
sulle rovine, che il conflitto mondiale con la sua violenza, con l'odio e la
scissione degli animi ha accumulate. Quanto alla questione sociale in particolare,
che al finir della guerra si presenterà più acuta, i Nostri Predecessori e
anche Noi stessi abbiamo segnato norme di soluzione; le quali però convien
considerare che potranno seguirsi nella loro interezza e dare pieno frutto solo
se uomini di Stato e popoli, datori di lavoro e operai, siano animati dalla
fede in un Dio personale, legislatore e vindice, a cui devono rispondere delle
loro azioni. Perché, mentre l'incredulità, che si accampa contro Dio,
ordinatore dell'universo, è la più pericolosa nemica di un giusto ordine nuovo,
ogni uomo, invece, credente in Dio ne è un potente fautore e paladino. Chi ha
fede in Cristo, nella sua divinità, nella sua legge, nella sua opera di amore e
di fratellanza fra gli uomini, porterà elementi particolarmente preziosi alla
ricostruzione sociale; a maggior ragione, più ve ne porteranno gli uomini di
Stato, se si dimostreranno pronti ad aprire largamente le porte e spianare il
cammino alla Chiesa di Cristo, affinché, libera e senza intralci, mettendo le
sue soprannaturali energie a servigio dell'intesa tra i popoli e della pace,
possa cooperare col suo zelo e col suo amore all'immenso lavoro di risanare le
ferite della guerra.
Ci
riesce perciò inspiegabile come in alcune regioni disposizioni molteplici
attraversino la via al messaggio della fede cristiana, mentre concedono ampio e
libero passo a una propaganda che la combatte. Sottraggono la gioventù alla
benefica influenza della famiglia cristiana e la estraniano dalla Chiesa; la
educano in uno spirito avverso a Cristo, instillandovi concezioni, massime e
pratiche anticristiane; rendono ardua e turbata l'opera della Chiesa nella cura
delle anime e nelle azioni di beneficenza; disconoscono e rigettano il suo
morale influsso sull'individuo e la società: determinazioni tutte che lungi
dall'essere state mitigate o abolite nel corso della guerra, sono andate sotto
non pochi riguardi inasprendosi. Che tutto questo, e altro ancora, possa essere
continuato tra le sofferenze dell'ora presente è un triste segno dello spirito
con cui i nemici della Chiesa impongono ai fedeli, in mezzo a tutti gli altri
non lievi sacrifici, anche il peso angoscioso di un'ansia d'amarezza, gravante
sulle coscienze.
Noi
amiamo, Ce n'è testimonio Dio, con uguale affetto tutti i popoli senza alcuna
eccezione; e per evitare anche solo l'apparenza di essere mossi da spirito di
parte, Ci siamo imposti finora il massimo riserbo; ma le disposizioni contro la
Chiesa e gli scopi, che esse perseguano, sono tali da sentirci obbligati in
nome della verità a pronunziare una parola, anche perché non ne nasca, per
disavventura, smarrimento tra i fedeli.
Noi
guardiamo oggi, diletti figli, all'Uomo-Dio, nato in una grotta per risollevare
l'uomo a quella grandezza, dond'era caduto per sua colpa, per ricollocarlo sul
trono di libertà, di giustizia e d'onore, che i secoli degli dei falsi gli
avevano negato. Il fondamento di quel trono sarà il Calvario; il suo ornamento
non sarà l'oro o l'argento, ma il sangue di Cristo, sangue divino che da venti
secoli scorre sul mondo e imporpora le gote della sua Sposa, la Chiesa, e,
purificando, consacrando, santificando, glorificando i suoi figli, diventa
candore di cielo.
O
Roma cristiana, quel sangue è la tua vita: per quel sangue tu sei grande e
illumini della tua grandezza anche i ruderi e le rovine della tua grandezza
pagana, e purifichi e consacri i codici della sapienza giuridica dei pretori e
dei Cesari. Tu sei madre di una giustizia più alta e più umana, che onora te,
il tuo seggio e chi ti ascolta. Tu sei faro di civiltà, e la civile Europa e il
mondo ti devono quanto di più sacro e di più santo, quanto di più saggio e di
più onesto esalta i popoli e fa bella la loro storia. Tu sei madre di carità: i
tuoi fasti, i tuoi monumenti, i tuoi ospizi, i tuoi monasteri e i tuoi
conventi, i tuoi eroi e le tue eroine, i tuoi araldi e i tuoi missionari, le
tue età e i tuoi secoli con le loro scuole e le loro università testimoniano i
trionfi della tua carità, che tutto abbraccia, tutto soffre, tutto spera,
tutto opera per farsi tutto a tutti, tutti confortare e sollevare, tutti sanare
e chiamare alla libertà donata all'uomo da Cristo, e tranquillare tutti in
quella pace, che affratella i popoli, e di tutti gli uomini, sotto qualunque
cielo, qualunque lingua o costume li distingua, fa una sola famiglia, e del
mondo una patria comune.
Da
questa Roma, centro, rocca e maestra del Cristianesimo, città più per Cristo
che per i Cesari eterna nel tempo, Noi, mossi dal desiderio ardente e vivissimo
del bene dei singoli popoli e dell'intera umanità, a tutti rivolgiamo la Nostra
voce, pregando e scongiurando che non tardi il giorno che in tutti i luoghi,
dove oggi l'ostilità contro Dio e Cristo trascina gli uomini alla rovina
temporale ed eterna, prevalgano maggiori conoscenze religiose e nuovi
propositi; il giorno, in cui sulla culla del nuovo ordinamento dei popoli
risplenda la stella di Betlemme, annunziatrice di un nuovo spirito che muova a
cantare con gli angeli: Gloria in excelsis Deo, e a proclamare,
come dono alfine largito dal cielo, a tutte le genti: Pax hominibus
bonae voluntatis. Spuntata l'aurora di quel giorno, con qual gaudio Nazioni
e Reggitori, sgombro l'animo dai timori di insidie e di riprese di conflitti,
trasformeranno le spade, laceratrici d'umani petti, in aratri, solcanti, al
sole della benedizione divina, il fecondo seno della terra, per strapparle un
pane, bagnato sì di sudore, ma non più di sangue e di lacrime!
In
tale attesa e con questa anelante preghiera sulle labbra, mandiamo il Nostro
saluto e la benedizione Nostra a tutti i Nostri figli dell'universo intero.
Scenda la Nostra benedizione più larga su quelli - sacerdoti, religiosi e laici
- che soffrono pene e angustie per la loro fede: scenda anche su quelli che,
pur non appartenendo al corpo visibile della Chiesa cattolica, sono a Noi
vicini per la fede in Dio e in Gesù Cristo, e con Noi concordano sopra
l'ordinamento e gli scopi fondamentali della pace; scenda con particolare
palpito d'affezione su quanti gemono nella tristezza, nella dura ambascia dei
travagli di quest'ora. Sia scudo a quanti militano sotto le armi; farmaco ai
malati e ai feriti; conforto ai prigionieri, agli espulsi dalla terra natìa, ai
lontani dal domestico focolare, ai deportati in terre straniere, ai milioni di
miseri che lottano a ogni ora contro gli spaventosi morsi della fame. Sia
balsamo a ogni dolore e sventura; sia sostegno e consolazione a tutti i miseri
e bisognosi i quali aspettano una parola amica, che versi nei loro cuori forza,
coraggio, dolcezza di compassione e di aiuto fraterno. Riposi infine la Nostra
benedizione su quelle anime e quelle mani pietose, che con inesauribile
generoso sacrificio Ci hanno dato di che potere, sopra le strettezze dei Nostri
mezzi, asciugare le lacrime, lenire la povertà di molti, specialmente dei più
poveri e derelitti tra le vittime della guerra, facendo in tal modo
sperimentare come la bontà e benignità di Dio, la cui somma e ineffabile
rivelazione è il Bambino del presepe che della sua povertà volle farci ricchi,
mai non cessano, per volger di tempi e sciagure, di esser vive e operanti nella
Chiesa.
A
tutti impartiamo con profondo amore paterno dalla pienezza del Nostro cuore la
Benedizione Apostolica.
(1) PIO PP. XII,
Radiomessaggio Nell'alba e nella luce nella vigilia del Natale
1941, [A tutti i popoli del mondo], 24 dicembre 1941:AAS 34(1942),
pp, 10-21.
Superare
le degenerazioni e le involuzioni della nostra civiltà riscoprendo i valori
evangelici su cui fondare un nuovo ordine mondiale.
(2) In Nativitate
Domini, in I Vesp., antiph. 1.
(3) Sermo 141,
c. 4: PL 83, 777.
******************************************
1942
24 dicembre 1942
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, in occasione della Vigilia del Natale 1942
Giovedì,
24 dicembre 1942(1)
Il
Santo Natale e la umanità dolorante
Con
sempre nuova freschezza di letizia e di pietà, diletti figli dell'universo
intero, ogni anno al ricorrere del Santo Natale, risuona dal presepe di
Betlemme all'orecchio dei cristiani, ripercuotendosi dolcemente nei loro cuori,
il messaggio di Gesù, Luce in mezzo alle tenebre; un messaggio che illumina con
lo splendore di celestiali verità un mondo oscurato da tragici errori, infonde
una gioia esuberante e fiduciosa ad un'umanità, angosciata da profonda e amara
tristezza, proclama la libertà ai figli d'Adamo, costretti nelle catene del
peccato e della colpa, promette misericordia, amore, pace alle schiere infinite
dei sofferenti e tribolati, che vedono scomparsa la loro felicità e spezzate le
loro energie nella bufera di lotta e di odio dei nostri giorni burrascosi.
E i
sacri bronzi, annunziatori di tale messaggio in tutti i continenti, non pur
ricordano il dono divino, fatto all'umanità, negli inizi dell'età cristiana; ma
annunziano e proclamano anche una consolante realtà presente, realtà come
eternamente giovane, così sempre viva e vivificante; realtà della «luce vera,
la quale illumina ogni uomo, che viene in questo mondo» e non conosce tramonto.
L'Eterno Verbo, via, verità e vita, nascendo nello squallore di una grotta e
nobilitando in tal modo e santificando la povertà, così dava inizio alla sua
missione di dottrina, di salute e di redenzione del genere umano, e diceva e
consacrava una parola, che è ancor oggi la parola di vita eterna, valevole a risolvere
i quesiti più tormentosi, insoluti e insolubili da chi vi porti vedute e mezzi
effimeri e puramente umani; quesiti i quali si affacciano sanguinanti, esigendo
imperiosamente una risposta, al pensiero e al sentimento di una umanità
amareggiata ed esacerbata.
Il
motto «Misereor super turbam» è per Noi una consegna sacra, inviolabile, valida
e impellente in tutti i tempi e in tutte le situazioni umane, com'era la divisa
di Gesù; e la Chiesa rinnegherebbe se stessa, cessando di essere madre, se si
rendesse sorda al grido angoscioso e filiale, che tutte le classi dell'umanità
fanno arrivare al suo orecchio. Essa non intende di prender partito per l'una o
l'altra delle forme particolari e concrete, con le quali singoli popoli e Stati
tendono a risolvere i problemi giganteschi dell'assetto interno e della
collaborazione internazionale, quando esse rispettano la legge divina; ma
d'altra parte, «colonna e base della verità» (1 Tm 3,15) e custode,
per volontà di Dio e per missione di Cristo, dell'ordine naturale e
soprannaturale, la Chiesa non può rinunziare a proclamare davanti ai suoi figli
e davanti all'universo intero le inconcusse fondamentali norme, preservandole
da ogni travolgimento, caligine, inquinamento, falsa interpretazione ed errore;
tanto più che dalla loro osservanza, e non semplicemente dallo sforzo di una
volontà nobile e ardimentosa, dipende la fermezza finale di qualsiasi nuovo
ordine nazionale e internazionale, invocato con cocente anelito da tutti i
popoli. Popoli, di cui conosciamo le doti di valore e di sacrificio, ma anche
le angustie e i dolori, e ai quali tutti, senza alcuna eccezione, in quest'ora
d'indicibili prove e contrasti, Ci sentiamo legati da profondo e imparziale e
imperturbabile amore e da immensa brama di portare loro ogni sollievo e
soccorso che in qualsiasi modo sia in Nostro potere.
Rapporti
internazionali e ordine interno delle nazioni
L'ultimo
Nostro Messaggio natalizio esponeva i principi, suggeriti dal pensiero
cristiano, per stabilire un ordine di convivenza e collaborazione
internazionale, conforme alle norme divine. Oggi vogliamo soffermarCi, sicuri
del consenso e dell'interessamento di tutti gli onesti, con cura particolare e
uguale imparzialità sulle norme fondamentali dell'ordine interno degli Stati e
dei popoli. Rapporti internazionali e ordine interno sono intimamente connessi,
essendo l'equilibrio e l'armonia tra le Nazioni dipendenti dall'interno
equilibrio e dalla interna maturità dei singoli Stati nel campo materiale,
sociale e intellettuale. Né un solido e imperturbato fronte di pace verso
l'esterno risulta possibile di fatto ad attuarsi senza un fronte di pace
nell'interno, che ispiri fiducia. Solo, quindi, l'aspirazione verso una pace
integrale nei due campi varrà a liberare i popoli dal crudele incubo della
guerra, a diminuire o superare gradatamente le cause materiali e psicologiche
di nuovi squilibri e sconvolgimenti.
Duplice
elemento della pace nella vita sociale
Ogni
convivenza sociale, degna di tal nome, come trae origine dalla volontà di pace,
così tende alla pace; a quella tranquilla convivenza nell'ordine in cui S.
Tommaso, facendo eco al noto detto di S. Agostino,(2) vede l'essenza della
pace. Due primordiali elementi reggono quindi la vita sociale: convivenza
nell'ordine, convivenza nella tranquillità.
I. Convivenza
nell'ordine
L'ordine,
base della vita consociata di uomini, di esseri cioè, intellettuali e morali,
che tendono ad attuare uno scopo consentaneo alla loro natura, non è una mera
estrinseca connessione di parti numericamente diverse; è piuttosto, e ha da
essere, tendenza e attuazione sempre più perfetta di una unità interiore, ciò
che non esclude le differenze, realmente fondate, e sanzionate dalla volontà
del Creatore o da norme soprannaturali.
Una
chiara intelligenza dei fondamenti genuini di ogni vita sociale ha
un'importanza capitale oggi più che mai, mentre l'umanità, intossicata dalla
virulenza di errori e traviamenti sociali, tormentata dalla febbre della
discordia di desideri, dottrine e intenti, si dibatte angosciosamente nel
disordine, da essa stessa creato, e risente gli effetti della forza
distruttrice di idee sociali erronee, le quali dimenticano le norme di Dio o
sono ad esse contrarie. E poiché il disordine non può essere superato se non
con un ordine, che non sia meramente forzato e fittizio (non altrimenti che
l'oscurità coi suoi deprimenti e paurosi effetti non può essere bandita se non dalla
luce, e non da fuochi fatui); la salvezza, il rinnovamento e un progressivo
miglioramento non può aspettarsi e originarsi se non da un ritorno di larghi e
influenti ceti alla retta concezione sociale; un ritorno che richiede una
straordinaria grazia di Dio e una volontà incrollabile, pronta e presta al
sacrificio, degli animi buoni e lungimiranti. Da questi ceti più influenti e
più aperti per penetrare e ponderare la bellezza attraente delle giuste norme
sociali, passerà e entrerà poi nelle moltitudini la convinzione della origine
vera, divina e spirituale, della vita sociale, spianando in tal modo la via al
risveglio, all'incremento e al consolidamento di quelle concezioni morali,
senza cui anche le più orgogliose attuazioni rappresenteranno una Babele, i cui
abitanti, se pure hanno mura comuni, parlano lingue diverse e contrastanti.
Iddio
prima causa ed ultimo fondamento
della vita individuale e sociale
Dalla
vita individuale e sociale conviene ascendere a Dio, Prima Causa e ultimo
fondamento, come Creatore della prima società coniugale, fonte della società
familiare, della società dei popoli e delle nazioni. Rispecchiando pur
imperfettamente il suo Esemplare, Dio Uno e Trino, che col mistero
dell'Incarnazione redense ed innalzò la natura umana, la vita consociata, nel
suo ideale e nel suo fine, possiede al lume della ragione e della rivelazione
un'autorità morale ed una assolutezza, travalicante ogni mutar di tempi; e una
forza di attrazione, la quale, lungi dall'esser mortificata e scemata da delusioni,
errori, insuccessi, muove irresistibilmente gli spiriti più nobili e più fedeli
al Signore a riprendere, con rinnovata energia, con nuove conoscenze, con nuovi
studi, mezzi e metodi, ciò che in altri tempi e in altre circostanze fu tentato
invano.
Sviluppo
e perfezionamento della persona umana
Origine
e scopo essenziale della vita sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo
e il perfezionamento della persona umana, aiutandola ad attuare rettamente le
norme e i valori della religione e della cultura, segnati dal Creatore a
ciascun uomo e a tutta l'umanità, sia nel suo insieme, sia nelle sue naturali
ramificazioni.
Una
dottrina o costruzione sociale, che rinneghi tale interna, essenziale
connessione con Dio di tutto ciò che riguarda l'uomo, o ne prescinda, segue
falso cammino; e mentre costruisce con una mano, prepara con l'altra i mezzi,
che presto o tardi insidieranno e distruggeranno l'opera. E quando,
misconoscendo il rispetto dovuto alla persona e alla vita a lei propria, non le
conceda alcun posto nei suoi ordinamenti, nell'attività legislativa ed
esecutiva, lungi dal servire la società, la danneggia; lungi dal promuovere e
animare il pensiero sociale e attuarne le aspettative e le speranze, le toglie
ogni valore intrinseco, servendosene come di frase utilitaria, la quale
incontra in ceti sempre più numerosi risoluta e franca ripulsa.
Se
la vita sociale importa unità interiore, non esclude però le differenze, cui
suffragano la realtà e la natura. Ma quando si tiene fermo al supremo
regolatore di tutto ciò che riguarda l'uomo, Dio, le somiglianze non meno che
le differenze degli uomini trovano il posto conveniente nell'ordine assoluto
dell'essere, dei valori, e quindi anche della moralità. Scosso invece tale
fondamento, si apre tra i vari campi della cultura una pericolosa
discontinuità, appare una incertezza e labilità di contorni, di limiti e di
valori, talché solo meri fattori esterni, e spesso ciechi istinti, vengono poi
a determinare, secondo la dominante tendenza del giorno, a chi spetti il predominio
dell'uno o dell'altro indirizzo.
Alla
dannosa economia dei passati decenni, durante i quali ogni vita civile venne
subordinata allo stimolo del guadagno, succede ora una non meno dannosa
concezione, la quale, mentre guarda tutto e tutti sotto l'aspetto politico,
esclude ogni considerazione etica e religiosa. Travisamento e traviamento
fatali, pregni di conseguenze imprevedibili per la vita sociale, la quale mai
non è più vicina alla perdita delle sue più nobili prerogative di quando
s'illude di poter rinnegare o dimenticare impunemente l'eterna fonte della sua
dignità: Dio.
La
ragione, illuminata dalla fede, assegna alle singole persone e particolari
società nell'organizzazione sociale un posto fisso e nobile; e sa, per parlare
solo del più importante, che tutta l'attività dello Stato, politica ed
economica serve per l'attuazione duratura del bene comune; cioè, di quelle
esterne condizioni, le quali sono necessarie all'insieme dei cittadini per lo
sviluppo delle loro qualità e dei loro uffici, della loro vita materiale,
intellettuale e religiosa, in quanto, da un lato, le forze e le energie della
famiglia e di altri organismi, a cui spetta una naturale precedenza, non
bastano, e, dall'altro, la volontà salvifica di Dio non abbia determinata nella
Chiesa un'altra universale società a servizio della persona umana e
dell'attuazione dei suoi fini religiosi.
In
una concezione sociale, pervasa e sanzionata dal pensiero religioso,
l'operosità dell'economia e di tutti gli altri campi della cultura rappresenta
una universale nobilissima fucina di attività, ricchissima nella sua varietà,
coerente nella sua armonia, dove l'uguaglianza intellettuale e la differenza
funzionale degli uomini conseguono il loro diritto ed hanno adeguata
espressione; in caso diverso si deprime il lavoro e si abbassa l'operaio.
Ordinamento
giuridico della società e suoi scopi
Affinché
la vita sociale, quale è voluta da Dio, ottenga il suo scopo, è essenziale un
ordinamento giuridico, che le serva di esterno appoggio, di riparo e
protezione; ordinamento la cui funzione non è dominare, ma servire, tendere a
sviluppare e accrescere la vitalità della società nella ricca molteplicità dei
suoi scopi, conducendo verso il loro perfezionamento tutte le singole energie
in pacifico concorso e difendendole, con mezzi appropriati ed onesti, contro
tutto ciò che è svantaggioso al loro pieno svolgimento. Un tale ordinamento,
per garantire l'equilibrio, la sicurezza e l'armonia della società, ha anche il
potere di coercizione contro coloro, che solo per questa via possono essere
trattenuti nella nobile disciplina della vita sociale; ma proprio nel giusto
compimento di questo diritto un'autorità, veramente degna di tal nome, non sarà
mai che non senta l'angosciosa responsabilità di fronte all'Eterno Giudice, al
cui tribunale ogni falsa sentenza, e soprattutto ogni sconvolgimento delle
norme da Dio volute, riceverà la sua immancabile sanzione e condanna.
Le
ultime, profonde, lapidarie, fondamentali norme della società non possono
essere intaccate da intervento d'ingegno umano; si potranno negare, ignorare,
disprezzare, trasgredire, ma non mai abrogare con efficacia giuridica.
Certamente, col tempo che volge, mutano le condizioni di vita; ma non si dà mai
manco assoluto, né perfetta discontinuità tra il diritto di ieri e quello di
oggi, tra la scomparsa di antichi poteri e costituzioni e il sorgere di nuovi
ordinamenti. Ad ogni modo, in qualsiasi cambiamento o trasformazione, lo scopo
di ogni vita sociale resta identico, sacro, obbligatorio: lo sviluppo dei valori
personali dell'uomo, quale immagine di Dio; e resta l'obbligo di ogni membro
dell'umana famiglia di attuare i suoi immutabili fini, qualunque sia il
legislatore e l'autorità, a cui ubbidisce. Rimane quindi sempre e non cessa per
opposizione alcuna anche il suo inalienabile diritto, da riconoscersi da amici
e nemici, ad un ordinamento e una prassi giuridica, che sentano e comprendano
esser loro essenziale dovere di servire al bene comune.
L'ordinamento
giuridico ha inoltre l'alto e arduo scopo di assicurare gli armonici rapporti
sia tra gli individui, sia tra le società, sia anche nell'interno di queste. A
ciò si arriverà, se i legislatori si asterranno dal seguire quelle pericolose
teorie e prassi, infauste alla comunità e alla sua coesione, le quali traggono
la loro origine e diffusione da una serie di postulati erronei. Tra questi è da
annoverare il positivismo giuridico, che attribuisce una ingannevole maestà
alla emanazione di leggi puramente umane, e spiana la via ad un esiziale
distacco della legge dalla moralità; inoltre la concezione, la quale rivendica
a particolari nazioni o stirpi o classi l'istinto giuridico, quale ultimo
imperativo e inappellabile norma; infine quelle varie teorie, le quali, diverse
in sé e procedenti da vedute ideologiche contrastanti, si accordano però nel
considerare lo Stato o un ceto, che lo rappresenti, come entità assoluta e
suprema, esente da controllo e da critica, anche quando i suoi postulati
teorici e pratici sboccano e urtano nell'aperta negazione di dati essenziali della
coscienza umana e cristiana.
Chi
consideri con occhio limpido e penetrante la vitale connessione tra genuino
ordine sociale e genuino ordinamento giuridico, e tenga presente che l'unità
interna nella sua multiformità dipende dal predominio di forze spirituali, dal
rispetto della dignità umana in sé e negli altri, dall'amore alla società e
agli scopi da Dio ad essa segnati, non può meravigliarsi sui tristi effetti di
concezioni giuridiche, le quali, allontanatesi dalla via regale della verità,
procedono sul terreno labile di postulati materialistici; ma scorgerà subito la
improrogabile necessità di un ritorno ad una concezione spirituale ed etica,
seria e profonda, riscaldata dal calore di vera umanità e illuminata dallo
splendore della fede cristiana, la quale fa mirare nell'ordinamento giuridico
una rifrazione esterna dell'ordine sociale, voluto da Dio, luminoso frutto
dello spirito umano, anch'esso immagine dello spirito di Dio.
Su
questa concezione organica, la sola vitale, in che la più nobile umanità e il
più genuino spirito cristiano fioriscono in armonia, sta scolpita la sentenza
della Scrittura, illustrata dal grande Aquinate: «Opus iustitiae pax»,(3) che si applica così al
lato interno, come al lato esterno della vita sociale.
Essa
non ammette né contrasto, né alternativa: amore o diritto, ma la sintesi
feconda: amore e diritto.
Nell'uno
e nell'altro, entrambi irradiazioni dello stesso spirito di Dio, sta il
programma e il suggello della dignità dello spirito umano; l'uno e l'altro a
vicenda s'integrano, cooperano, si animano, si sostengono, si danno la mano nel
cammino della concordia e della pacificazione, mentre il diritto spiana la via
all'amore, l'amore mitiga il diritto e lo sublima. Entrambi elevano la vita
umana in quella atmosfera sociale, dove, pur tra le manchevolezze, gli
impedimenti e le durezze di questa terra, si rende possibile una fraterna convivenza.
Ma fate che il cattivo spirito di idee materialistiche domini; che la tendenza
al potere e al prepotere concentri nelle sue rudi mani le redini degli eventi;
voi allora vedrete apparirne ogni giorno più gli effetti disgregatori,
scomparire amore e giustizia; tristo preannunzio di minaccianti catastrofi su
una società, apòstata da Dio.
II. Convivenza
nella tranquillità
Il
secondo elemento fondamentale della pace, verso cui tende quasi istintivamente
ogni società umana, è la tranquillità. O beata tranquillità, tu non hai nulla
di comune con il fissarsi duro e ostinato, tenace e infantilmente caparbio in
ciò che è; né con la riluttanza, figlia di ignavia e d'egoismo, a porre la
mente nei problemi e nelle questioni, che il volgere dei tempi e il corso delle
generazioni coi loro bisogni e col progresso fanno maturare, e traggon seco
come improrogabili necessità del presente. Ma per un cristiano, cosciente della
sua responsabilità anche verso il più piccolo dei suoi fratelli, non vi è
tranquillità infingarda, né si dà fuga, ma lotta, ma azione contro ogni
inazione e diserzione nel grande agone spirituale, dove è proposta in palio la
costruzione, anzi l'anima stessa della società futura.
Armonia
fra tranquillità e operosità
Tranquillità
nel senso dell'Aquinate e ardente operosità non contrastano, ma si accoppiano
piuttosto in armonia per colui che è compreso della bellezza e della necessità
del sostrato spirituale della società, e della nobiltà del suo ideale. E
proprio a voi giovani, inclini a volgere le spalle al passato e rivolgere al
futuro l'occhio delle aspirazioni e speranze, diciamo, mossi da vivo amore e da
paterna sollecitudine: esuberanza e audacia da sé non bastano, se non siano,
come bisogna, poste al servizio del bene e di una bandiera immacolata. Vano è
l'agitarsi, l'affaticarsi, l'affannarsi senza riposarsi in Dio e nella sua
legge eterna. Conviene che siate animati dal convincimento di combattere per la
verità, e di farle dedizione delle proprie simpatie ed energie, degli aneliti e
dei sacrifici; di combattere per le eterne leggi di Dio, per la dignità della
persona umana, e per il conseguimento dei suoi fini. Dove uomini maturi e
giovani, sempre ancorati nel mare della eternamente viva tranquillità di Dio,
coordinano le diversità di temperamento e di attività in genuino spirito
cristiano, là, se l'elemento propulsore si accoppia con l'elemento infrenatore,
la differenza naturale tra le generazioni non diverrà mai pericolosa, ma
condurrà anzi vigorosamente all'attuazione delle leggi eterne di Dio nel
mutevole corso dei tempi e delle condizioni di vita.
Il
mondo operaio
In
un campo particolare della vita sociale, dove durante un secolo sorsero
movimenti e aspri conflitti, si trova oggi calma, almeno apparente; nel mondo,
cioè, vasto e sempre crescente del lavoro, nell'esercito immenso degli operai,
dei salariati e dei dipendenti. Se si considera il presente, con le sue
necessità belliche, come un dato di fatto, questa tranquillità potrà dirsi
esigenza necessaria e fondata; ma se si guarda lo stato odierno dal punto di
vista della giustizia, di un legittimo e regolato movimento operaio, la
tranquillità non resterà che apparente finché tale scopo non sia raggiunto.
Mossa
sempre da motivi religiosi, la Chiesa condannò i vari sistemi del socialismo
marxista, e li condanna anche oggi, com'è suo dovere e diritto permanente di
preservare gli uomini da correnti e influssi, che ne mettono a repentaglio la
salvezza eterna. Ma la Chiesa non può ignorare o non vedere, che l'operaio,
nello sforzo di migliorare la sua condizione, si urta contro qualche congegno,
che, lungi dall'essere conforme alla natura, contrasta con l'ordine di Dio e
con lo scopo, che Egli ha assegnato per i beni terreni. Per quanto fossero e
siano false, condannabili e pericolose le vie, che si seguirono; chi, e
soprattutto qual sacerdote o cristiano, potrebbe restar sordo al grido, che si
solleva dal profondo, e il quale in un mondo di un Dio giusto invoca giustizia
e spirito di fratellanza? Ciò sarebbe un silenzio colpevole e ingiustificabile
davanti a Dio, e contrario al senso illuminato dell'apostolo, il quale, come
inculca che bisogna essere risoluti contro l'errore, sa pure che si vuol essere
pieni di riguardo verso gli erranti e con l'animo aperto per intenderne
aspirazioni, speranze e motivi.
Dio,
benedicendo i nostri progenitori, disse loro: «Crescete e moltiplicatevi e
riempite la terra e soggiogatela» (Gn 1,28). E al primo capo di
famiglia diceva poi: «Nel sudore della tua fronte ti ciberai di pane» (Gn 3,19).
La dignità della persona umana esige dunque normalmente come fondamento
naturale per vivere il diritto all'uso dei beni della terra; a cui risponde
l'obbligo fondamentale di accordare una proprietà privata, possibilmente a
tutti. Le norme giuridiche positive; regolanti la proprietà privata, possono
mutare e accordare un uso più o meno circoscritto; ma se vogliono contribuire
alla pacificazione della comunità, dovranno impedire che l'operaio, che è o
sarà padre di famiglia, venga condannato ad una dipendenza e servitù economica,
inconciliabile con i suoi diritti di persona.
Che
questa servitù derivi dal prepotere del capitale privato o dal potere dello
Stato, l'effetto non muta; anzi, sotto la pressione di uno Stato, che tutto
domina e regola l'intera vita pubblica e privata, penetrando fino nel campo
delle concezioni e persuasioni e della coscienza, questa mancanza di libertà
può avere conseguenze ancora più gravose, come l'esperienza manifesta e
testimonia.
Cinque
punti fondamentali
per l'ordine e la pacificazione della società umana
Chi
pondera al lume della ragione e della fede i fondamenti e gli scopi della vita
sociale, che noi abbiamo tracciati in brevi linee, e li contempla nella loro
purezza ed altezza morale e nei loro benefici frutti in tutti i campi, non può
non avere la convinzione dei potenti principi di ordine e di pacificazione, che
energie rivolte a grandi ideali e risolute ad affrontare gli ostacoli
potrebbero regalare, o diciamo meglio, restituire ad un mondo, interiormente
scardinato, quando avessero abbattute le barriere intellettive e giuridiche,
create da pregiudizi, errori, indifferenza, e da un lungo processo di
secolarizzazione del pensiero, del sentimento, dell'azione, che venne a
staccare e sottrarre la città terrena dalla luce e dalla forza della città di Dio.
Oggi
più che mai scocca l'ora di riparare; di scuotere la coscienza del mondo dal
grave torpore, in cui i tossici di false idee, largamente diffuse, l'hanno
fatto cadere; tanto più che, in questa ora di sfacelo materiale e morale, la
conoscenza della fragilità e della inconsistenza di ogni ordinamento puramente
umano è sul disingannare anche coloro, che, in giorni apparentemente felici,
non sentivano in sé e nella società la mancanza di contatto coll'eterno, e non
la consideravano come un difetto essenziale delle loro costruzioni.
Ciò
che chiaro appariva al cristiano, che, profondamente credente, soffriva
dell'ignoranza altrui, chiarissimo ci presenta il fragore della spaventosa
catastrofe dell'odierno sconvolgimento, che riveste la terribile solennità di un
giudizio universale, persino agli orecchi dei tiepidi, degl'indifferenti,
degl'inconsiderati: una verità, cioè, antica, che si manifesta tragicamente in
forme sempre nuove, e tuona di secolo in secolo, di gente in gente, per bocca
del Profeta: «Omnes qui Te derelinquunt, confundentur: recedentes a Te in terra
scribentur: quoniam dereliquerunt venam aquarum viventium, Dominum» (Ier 17,13).
Non
lamento, ma azione è il precetto dell'ora; non lamento su ciò che è o che fu,
ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società.
Pervasi da un entusiasmo di crociati, ai migliori e più eletti membri della
cristianità spetta riunirsi nello spirito di verità, di giustizia e di
amore al grido: Dio lo vuole! pronti a servire, a sacrificarsi, come gli
antichi Crociati. Se allora trattavasi della liberazione della terra
santificata dalla vita del Verbo di Dio incarnato, si tratta oggi, se possiamo
così esprimerci, del nuovo tragitto, superando il mare degli errori del giorno
e del tempo, per liberare la terra santa spirituale, destinata a essere il
sostrato e il fondamento di norme e leggi immutabili per costruzioni sociali di
interna solida consistenza.
Per
sì alto fine, dal presepe del Principe della pace, fiduciosi che la sua grazia
si diffonda in tutti i cuori, Noi Ci rivolgiamo a voi, diletti figli, che
riconoscete e adorate in Cristo il vostro Salvatore, a tutti quelli che sono
con noi uniti almeno col vincolo spirituale della fede in Dio, a tutti infine,
quanti anelano a liberarsi dai dubbi e dagli errori, bramosi di luce e guida; e
vi esortiamo con scongiurante paterna insistenza non solo a comprendere
intimamente l'angosciosa serietà di quest'ora, ma anche a meditare le sue
possibili aurore benefiche e soprannaturali, e a unirvi e operare insieme per
il rinnovamento della società in spirito e verità.
Scopo
essenziale di questa Crociata necessaria e santa è che la stella della pace, la
stella di Betlemme, spunti di nuovo su tutta l'umanità nel suo rutilante
fulgore, nel suo pacificante conforto, qual promessa e augurio di un avvenire
migliore più fecondo e più felice.
Vero
è che il cammino dalla notte a un luminoso mattino sarà lungo; ma decisivi sono
i primi passi sul sentiero, che porta sopra le prime cinque pietre miliari
scolpite con bronzeo scalpello le seguenti massime:
1°
Dignità e diritti della persona umana
1)
Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da
parte sua a ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal
principio; si opponga all'eccessivo aggruppamento degli uomini, quasi come
masse senz'anima; alla loro inconsistenza economica, sociale, politica,
intellettuale e morale; alla loro mancanza di solidi principi e di forti
convinzioni; alla loro sovrabbondanza di eccitazione istintive e sensibili, e
alla loro volubilità;
favorisca,
con tutti i mezzi leciti, in tutti i campi della vita, forme sociali, in cui
sia resa possibile e garantita una piena responsabilità personale, così quanto
all'ordine terreno come quanto all'eterno;
sostenga
il rispetto e la pratica attuazione dei seguenti fondamentali diritti della
persona: il diritto a mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e
morale, e particolarmente il diritto ad una formazione ed educazione religiosa;
il diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l'azione caritativa
religiosa; il diritto, in massima, al matrimonio e al conseguimento del suo
scopo, il diritto alla società coniugale e domestica; il diritto di lavorare
come mezzo indispensabile al mantenimento della vita familiare; il diritto alla
libera scelta dello stato, quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il
diritto ad un uso dei beni materiali, cosciente dei suoi doveri e delle
limitazioni sociali.
2°
Difesa della unità sociale e particolarmente della famiglia
2)
Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, rifiuti
ogni forma di materialismo, che non vede nel popolo se non un gregge di
individui, i quali, scissi e senza interna consistenza, vengono considerati
come materia di dominio e di arbitrio;
cerchi
di comprendere la società come un'unità interna, cresciuta e maturata sotto il
governo della Provvidenza, unità la quale, nello spazio ad essa assegnato e
secondo le sue peculiari doti, tende, mediante la collaborazione dei diversi
ceti e professioni, agli eterni e sempre nuovi fini della cultura e della
religione;
difenda
la indissolubilità del matrimonio; dia alla famiglia, insostituibile cellula
del popolo, spazio, luce, respiro, affinché possa attendere alla missione di
perpetuare nuova vita e di educare i figli in uno spirito, corrispondente alle
proprie vere convinzioni religiose; conservi, fortifichi o ricostituisca,
secondo le sue forze la propria unità economica, spirituale, morale e
giuridica: curi che i vantaggi materiali e spirituali della famiglia vengano
partecipati anche dai domestici; pensi a procurare ad ogni famiglia un
focolare, dove una vita familiare, sana materialmente e moralmente, riesca a
dimostrarsi nel suo vigore e valore; curi che i luoghi di lavoro e le
abitazioni non siano così separati, da rendere il capo di famiglia e
l'educatore dei figli quasi estraneo alla propria casa; curi soprattutto, che
tra scuole pubbliche e famiglia rinasca quel vincolo di fiducia e di mutuo
aiuto, che in altri tempi maturò frutti così benefici, e che oggi è stato
sostituito da sfiducia colà ove la scuola, sotto l'influsso o il dominio dello
spirito materialistico, avvelena e distrugge ciò che i genitori avevano
istillato nelle anime dei figli.
3°
Dignità e prerogative del lavoro
3)
Chi vuole che la stella della pace spunti e resti sulla società, dia al lavoro
il posto da Dio assegnatogli fin dal principio. Come mezzo indispensabile al
dominio del mondo, voluto da Dio per la sua gloria, ogni lavoro possiede una
dignità inalienabile, e in pari tempo un intimo legame col perfezionamento
della persona; nobile dignità e prerogativa del lavoro, cui in verun modo non
avviliscono la fatica e il peso, che sono da sopportarsi come effetto del
peccato originale, in ubbidienza e sommissione alla volontà di Dio.
Chi
conosce le grande Encicliche dei Nostri Predecessori e i Nostri precedenti
Messaggi non ignora che la Chiesa non esita a dedurre le conseguenze pratiche,
derivanti dalla nobiltà morale del lavoro, e ad appoggiarle con tutto il nome
della sua autorità. Queste esigenze comprendono, oltre ad un salario giusto,
sufficiente alle necessità dell'operaio e della famiglia, la conservazione ed
il perfezionamento di un ordine sociale, che renda possibile una sicura, se pur
modesta proprietà privata a tutti i ceti del popolo, favorisca una formazione
superiore per i figli delle classi operaie particolarmente dotati di
intelligenza e di buon volere, promuova la cura e l'attività pratica dello
spirito sociale nel vicinato, nel paese, nella provincia, nel popolo e nella
nazione, che, mitigando i contrasti di interessi e di classe, toglie agli
operai il sentimento della segregazione con l'esperienza confortante di una
solidarietà genuinamente umana e cristianamente fraterna.
Il
progresso e il grado delle riforme sociali improrogabili dipende dalla potenza
economica delle singole nazioni. Solo con uno scambio di forze,
intelligente e generoso, tra forti e deboli sarà possibile a compiersi una
pacificazione universale in maniera che non restino focolai di incendio e di
infezione, da cui potrebbero originarsi nuove sciagure.
Segni
evidenti inducono a pensare, che nel fermento di tutti i pregiudizi e i
sentimenti di odio, inevitabili ma tristi parti di questa acuta psicosi
bellica, non sia spenta nei popoli la coscienza della loro intima reciproca
dipendenza nel bene e nel male, che anzi sia divenuta più viva e attiva. Non è
forse vero che sempre più chiaramente pensatori profondi vedono, nella rinunzia
all'egoismo e all'isolamento nazionale, la via di salvezza generale, pronti
come sono a domandare ai loro popoli una parte gravosa di sacrifici, necessari
per la pacificazione sociale in altri popoli? Possa questo Nostro Messaggio
natalizio, diretto a tutti coloro che sono animati da buona volontà e cuore
generoso, incoraggiare e aumentare le schiere della Crociata sociale presso
tutte le Nazioni! E voglia Dio concedere alla loro pacifica bandiera la
vittoria, di cui è degna la loro nobile intrapresa!
4°
Reintegrazione dell'ordinamento giuridico
4)
Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla vita sociale,
collabori ad una profonda reintegrazione dell'ordinamento giuridico.
Il
sentimento giuridico di oggi è spesso alterato e sconvolto dalla proclamazione
e dalla prassi di un positivismo e di un utilitarismo ligi e vincolati al
servizio di determinati gruppi, ceti e movimenti, i cui programmi tracciano e
determinano la via alla legislazione e alla pratica giudiziale.
Il
risanamento di questa situazione diventa possibile a ottenersi, quando si ridesti
la coscienza di un ordinamento giuridico, riposante nel sommo dominio di Dio e
custodita da ogni arbitrio umano; coscienza di un ordinamento che stenda la sua
mano protettrice e punitrice anche sugli inobliabili diritti dell'uomo e li
protegga contro gli attacchi di ogni potere umano.
Dall'ordinamento
giuridico voluto da Dio promana l'inalienabile diritto dell'uomo alla sicurezza
giuridica, e con ciò stesso ad una sfera concreta di diritto, protetta contro
ogni arbitrario attacco.
Il
rapporto dell'uomo verso l'uomo, dell'individuo verso la società, verso
l'autorità, verso i doveri civili, il rapporto della società e dell'autorità
verso i singoli debbono essere posti sopra un chiaro fondamento giuridico e
tutelati, al bisogno, dall'autorità giudiziaria. Ciò suppone:
a)
un tribunale e un giudice, che prendano le direttive da un diritto chiaramente
formulato e circoscritto;
b)
chiare norme giuridiche, che non possano essere stravolte con abusivi richiami
ad un supposto sentimento popolare e con mere ragioni di utilità;
c)
riconoscimento del principio che anche lo Stato e i funzionari e le
organizzazioni da esso dipendenti sono obbligati alla riparazione e al ritiro
di misure lesive della libertà, della proprietà, dell'onore, dell'avanzamento e
della salute dei singoli.
5°
Concezione dello Stato secondo lo spirito cristiano
5)
Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società umana,
collabori al sorgere di una concezione e prassi statale, fondate su ragionevole
disciplina, nobile umanità e responsabile spirito cristiano;
aiuti
a ricondurre lo Stato e il suo potere al servizio della società, al pieno
rispetto della persona umana e della sua operosità per il conseguimento dei
suoi scopi eterni;
si
sforzi e adoperi a sperdere gli errori, che tendono a deviare dal sentiero
morale lo Stato e il suo potere e a scioglierli dal vincolo eminentemente
etico, che li lega alla vita individuale e sociale, e a far loro rinnegare o
ignorare praticamente l'essenziale dipendenza, che li unisce alla volontà del
Creatore;
promuova
il riconoscimento e la diffusione della verità, che insegna, anche nel campo
terreno, come il senso profondo e l'ultima morale e universale legittimità del
«regnare» è il «servire».
Considerazioni
sulla guerra mondiale e sul rinnovamento della società
Diletti
figli! Voglia Dio che, mentre la Nostra voce arriva al vostro orecchio, il
vostro cuore sia profondamente scosso ecommosso dalla serietà profonda,
dall'ardente sollecitudine, dalla scongiurante insistenza, con cui Noi vi
inculchiamo questi pensieri, che vogliono essere un appello alla coscienza
universale e un grido di raccolta per tutti quelli che sono pronti a ponderare
e misurare la grandezza della loro missione e responsabilità dalla vastità
della sciagura universale.
Gran
parte della umanità, e, non rifuggiamo dall'affermarlo, anche non pochi di
coloro che si chiamano cristiani, entrano in certa guisa nella responsabilità
collettiva dello sviluppo erroneo, dei danni e della mancanza di altezza morale
della società odierna.
Questa
guerra mondiale, e tutto ciò che le si connette, si tratti dei precedenti
remoti o prossimi, o dei suoi procedimenti ed effetti materiali, giuridici e
morali, che altro rappresenta se non lo sfacelo, inaspettato forse
agl'inconsiderati, ma intuito e deprecato da coloro i quali penetravano a fondo
col loro sguardo in un ordine sociale, che dietro l'ingannevole volto o la
maschera di formole convenzionali nascondeva la sua debolezza fatale e il suo
sfrenato istinto di guadagno e di potere?
Ciò
che in tempi di pace giaceva compresso, al rompere della guerra scoppiò in una
trista serie di azioni, contrastanti con lo spirito umano e cristiano. Le
convenzioni internazionali per rendere meno disumana la guerra, limitandola ai
combattenti, per regolare le norme dell'occupazione e della prigionia dei
vinti, rimasero lettera morta in vari luoghi; e chi mai vede la fine di questo
progressivo peggioramento?
Vogliono
forse i popoli assistere inerti a così disastroso progresso? o non debbono
piuttosto, sulle rovine di un ordinamento sociale, che ha dato prova così
tragica della sua inettitudine al bene del popolo, riunirsi i cuori di tutti i
magnanimi e gli onesti nel voto solenne di non darsi riposo, finché in tutti i
popoli e le nazioni della terra divenga legione la schiera di coloro, che,
decisi a ricondurre la società all'incrollabile centro di gravitazione della
legge divina, anelano al servizio della persona e della sua comunanza
nobilitata in Dio?
Questo
voto l'umanità lo deve agl'innumerevoli morti, che giacciono sepolti nei campi
di guerra: il sacrificio della loro vitanel compimento del loro dovere è
l'olocausto per un nuovo migliore ordine sociale.
Questo
voto l'umanità lo deve all'infinita dolente schiera di madri, di vedove e di
orfani, che si son veduti strappare la luce, il conforto e il sostegno della
loro vita.
Questo
voto l'umanità lo deve a quegl'innumerevoli esuli che l'uragano della guerra ha
spiantati dalla loro patria e dispersi in terra straniera; i quali potrebbero
far lamento col Profeta: «Hereditas nostra versa est ad alienos, domus nostrae
ad extraneos» (Ier, Lam. 5,2).
Questo
voto l'umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza
veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono
destinate alla morte o ad un progressivo deperimento.
Questo
voto l'umanità lo deve alle molte migliaia di non combattenti, donne, bambini,
infermi e vecchi, a cui la guerra aerea, - i cui orrori Noi già fin dall'inizio
più volte denunziammo, - senza discernimento o con insufficiente esame, ha
tolto vita, beni, salute, case, luoghi di carità e di preghiera.
Questo
voto l'umanità lo deve alla fiumana di lagrime e amarezze, al cumulo di dolori
e tormenti, che procedono dalla rovina micidiale dell'immane conflitto e
scongiurano il cielo, invocando la discesa dello Spirito, che liberi il mondo
dal dilagare della violenza e del terrore.
Invocazione
al Redentore del mondo
E
dove potreste voi deporre con più tranquilla sicurezza e fiducia e con fede più
efficace questo voto per il rinnovamento della società, se non ai piedi del
«desideratus cunctis gentibus», che giace davanti a noi nel presepio in tutto
l'incanto della sua dolce umanità di Pargolo, ma anche nell'attrattiva
commovente della sua incipiente missione redentrice? In qual luogo potrebbe
questa nobile e santa crociata per la purificazione ed il rinnovamento della
società avere consacrazione più espressiva e trovare stimolo più efficace che a
Betlemme, dove nell'adorabile mistero dell'incarnazione apparve il nuovo Adamo
alle cui fonti di verità e di grazia conviene in ogni modo che l'umanità
attinga l'acqua salutare, se non vuole perire nel deserto di questa vita? «De
plenitudine eius nos omnes accepimus» (Io 1,16). La sua pienezza di
verità e di grazia, come da venti secoli, si riversa anche oggi sull'orbe con
forza non diminuita; più potente delle tenebre è la sua luce, il raggio del suo
amore più valido dell'agghiacciante egoismo, che rattiene tanti uomini dal
crescere ed eccellere nel loro essere migliore. Voi, volontari crociati di una
nuova nobile società, alzate il nuovo labaro della rigenerazione morale e
cristiana, dichiarate lotta alle tenebre della defezione da Dio, alla freddezza
della discordia fraterna; lotta in nome d'una umanità gravemente inferma e da
sanare in nome della coscienza cristianamente elevata.
La
Nostra benedizione e il Nostro paterno augurio e incoraggiamento sia colla
vostra generosa intrapresa, e perduri con tutti coloro che non rifuggono dai
duri sacrifici, armi più che il ferro potenti a combattere il male, di cui
soffre la società. Sulla vostra crociata per un ideale sociale, umano e
cristiano, splenda consolatrice ed incitatrice la stella che brilla sulla
grotta di Betlemme, astro augurale e perenne dell'era cristiana. Alla sua vista
attinse, attinge e attingerà forza ogni cuore fedele: «Si consistant adversus
me castra ... in hoc ego sperabo» (Ps 26,3). Dove questa stella
risplende, è Cristo: «Ipso ducente, non errabimus; per ipsum ad ipsum eamus, ut
cum nato hodie puero in perpetuum gaudeamus».(4)
(1) PIO PP. XII,
Radiomessaggio Con sempre nuova freschezza nella vigilia del
Natale 1942, [A tutti i popoli del mondo], 24 dicembre 1942: AAS 35(1943),
pp. 9-24.
Il
santo Natale e l'umanità dolorante. - Rapporti internazionali e ordine interno
delle nazioni. - Duplice elemento della pace nella vita sociale: I. Convivenza
nell'ordine (Dio prima causa e ultimo fondamento della vita individuale e
sociale; sviluppo e perfezionamento della persona umana; ordinamento giuridico
della società e nuovi scopi); II. Convivenza nella tranquillità (armonia fra
tranquillità e operosità; il mondo operaio). - Cinque punti fondamentali per
l'ordine e la pacificazione della società umana: 1. Dignità e diritti della
persona umana; 2. Difesa dell'unità sociale e particolarmente della famiglia;
3. Dignità e prerogativa del lavoro; 4. Reintegrazione dell'ordine giuridico;
5. Concezione dello stato secondo lo spirito cristiano. - Considerazioni sulla
guerra mondiale e sul rinnovamento della società. - Invocazione al Redentore
del mondo.
(2) Summa theol.,
II-II, q. 29, a. 1 ad 1; S. AUGUSTINUS, De civitate Dei, 1. 19, c.
13, n. 1.
(3) Summa theol.,
II-II, q. 29, a. 3.
(4) S. AUGUSTINUS, Sermo 189,
c. 4: PL 38, 1007.
**********************************
1943
1 settembre 1943
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, nel 4° anniversario dell’inizio della
Seconda Guerra mondiale
Mercoledì,
1° settembre 1943
Si
compiono oggi quattro anni dal giorno orrendo che diede inizio alla più
formidabile, distruggitrice e devastatrice guerra di tutti i tempi, la cui
visione atterrisce chiunque nutra in petto anima e sensi di umanità.
Nel
presentimento di così universale sciagura, che minacciava la grande famiglia
umana, Noi indirizzammo, pochi giorni avanti lo scoppio delle ostilità, il 24
agosto 1939, ai Governanti e ai popoli un
caldo appello e una supplichevole ammonizione : Nulla — dicemmo — è perduto con
la pace. Tutto può esser perduto con la guerra !
La
Nostra voce giunse agli orecchi, ma non illuminò gli intelletti e non scese nei
cuori. Lo spirito della violenza vinse sullo spirito della concordia e della
intesa : una vittoria che fu una sconfitta.
Oggi,
sulla soglia del quinto anno di guerra, anche coloro, che contavano allora
sopra rapide operazioni belliche e una sollecita pace vittoriosa, volgendo lo
sguardo a quanto li circonda dentro e fuori della patria, non sentono che
dolori e non contemplano che rovine. A molti, i cui orecchi rimasero sordi alle
Nostre parole, la tristissima esperienza e lo spettacolo dell'oggi insegnano
quanto il Nostro ammonimento e presagio corrispondessero alla realtà futura.
Ispirarono
allora le Nostre parole amore imparziale per tutti i popoli senza eccezione e
vigile cura per il loro benessere. Lo stesso amore e la stessa cura Ci muovono
in quest'ora grave e angosciosa, e mettono sulle Nostre labbra parole che
vogliono essere a vantaggio di tutti e di nessuno a danno, mentre istantemente
supplichiamo l'Onnipotente Iddio, affinché apra loro la via ai cuori e alle
decisioni degli uomini, nelle cui mani sono le sorti dell'afflitta umanità.
Attraverso
lotte gigantesche le esteriori vicende della guerra si avvicinano e
confluiscono al loro punto culminante.
Mai
la esortazione della Scrittura: « Imparate, o giudici della terra! » (Ps.
2, 10), non fu più invocata e urgente che in quest'ora in cui a tutti parla la
tragica realtà.
Dappertutto
i popoli rientrano in se stessi a meditare, con gli occhi alle rovine. Vera
saggezza è incoraggiarli e sostenerli nelle loro prove. Scoraggiarli sarebbe
funesto accecamento.
Per
ogni terra l'animo dei popoli si aliena dal culto della violenza, e nell'orrida
messe di morte e di distruzione ne contempla la meritata condanna.
In
tutte le Nazioni cresce l'avversione verso la brutalità dei metodi di una
guerra totale, che porta ad oltrepassare qualunque onesto limite e ogni norma
di diritto divino ed umano.
Più
che mai tormentoso penetra e strugge la mente e il cuore dei popoli il dubbio,
se la continuazione della guerra, e di una tale guerra, sia e possa dirsi
ancora conforme agl'interessi nazionali, ragionevole e giustificabile di fronte
alla coscienza cristiana ed umana.
Dopo
tanti trattati infranti, dopo tante convenzioni lacerate, dopo tante promesse
mancate, dopo tanti contraddittori cambiamenti nei sentimenti e nelle opere, la
fiducia tra le Nazioni è scemata e caduta così profondamente da togliere animo
e ardimento a ogni generosa risoluzione.
Perciò
Ci rivolgiamo a tutti quelli, cui spetta promuovere l'incontro e l'accordo per
la pace, con la preghiera sgorgante dall'intimo e addolorato Nostro cuore, e
diciamo loro:
La
vera forza non ha da temere di essere generosa. Essa possiede sempre i mezzi
per garantirsi contro ogni falsa interpretazione della sua prontezza e volontà
di pacificazione e contro altre possibili ripercussioni.
Non
turbate né offuscate la brama dei popoli per la pace con atti, che, invece di
incoraggiare la fiducia, riaccendono piuttosto gli odi e rinsaldano il proposito
di resistenza.
Date
a tutte le Nazioni la fondata speranza di una pace degna, che non offenda né il
loro diritto alla vita né il loro sentimento di onore.
Fate
apparire in sommo grado la leale concordanza tra i vostri principi e le vostre
risoluzioni, tra le affermazioni per una pace giusta e i fatti.
Soltanto
così sarà possibile di creare una serena atmosfera, nella quale i popoli meno
favoriti, in un dato momento, dalle sorti della guerra possano credere al
rinascere e al crescere di un nuovo sentimento di giustizia e di comunanza tra
le Nazioni, e da questa fede trarre le naturali conseguenze di maggiore fiducia
per l'avvenire, senza dover temere di compromettere la conservazione,
l'integrità o l'onore del loro Paese.
Benedetti
coloro, che con volontà rettilinea aiutano a preparare il terreno, dove
germogli e fiorisca, si rafforzi e si maturi il senso della veracità e della
giustizia internazionale.
Benedetti
coloro — a qualunque gruppo belligerante appartengano — i quali con non meno
retto volere e con lo sguardo alla realtà cooperano a superare il punto morto,
in cui si arresta oggi la fatale bilancia tra guerra e pace.
Benedetti
coloro che mantengono se stessi e i loro popoli liberi dalla stretta di
opinioni preconcette, dall'influsso di indomite passioni, di inordinato
egoismo, di illegittima sete di potere.
Benedetti
coloro che ascoltano le voci supplichevoli delle madri, le quali ai loro figli
hanno dato la vita, perché crescessero nella fede e nelle azioni generose, non
per uccidere e farsi uccidere; coloro che porgono orecchio alle implorazioni
angosciose delle famiglie ferite a morte dalle forzate separazioni, alle grida
sempre più insistenti del popolo, il quale, dopo tante sofferenze, privazioni e
lutti, non altro chiede per la sua vita che pace, pane, lavoro.
Benedetti
infine quanti comprendono che la grande opera di un nuovo e vero ordinamento
delle Nazioni non è possibile senza alzare e tenere fisso lo sguardo a Dio,
che, reggitore e ordinatore di tutti gli eventi umani, è fonte suprema, custode
e vindice di ogni giustizia e di ogni diritto.
Ma
guai a coloro che in questo tremendo momento non assurgono alla piena coscienza
della loro responsabilità per la sorte dei popoli, che alimentano odi e
conflitti fra le genti, che edificano la loro potenza sulla ingiustizia, che
opprimono e straziano gl'inermi e gl'innocenti (cfr. Ier. 22, 13);
ecco che l'ira di Dio verrà sopra di loro sino alla fine (cfr. I Thess.
2, 16)!
Piaccia
al Redentore divino, sulle cui labbra risonarono le parole « Beati i pacifici
», illuminare i potenti e i condottieri dei popoli, dirigere i loro pensieri, i
loro sentimenti e le loro deliberazioni, renderli interiormente ed
esteriormente vigorosi e saldi contro gli ostacoli, le diffidenze e i pericoli,
che intralciano la via alla preparazione e al compimento di una giusta e
durevole pace ! La loro saggezza, la loro moderazione, la loro forza di volontà
e il vivo sentimento di umanità valgano a far cadere un raggio di conforto sul
limitare, bagnato di sangue e di lacrime, del quinto anno di guerra, e dare
alle vittime superstiti dell'immane conflitto, curve sotto l'oppressione del
dolore, la lieta speranza che l'anno stesso non termini nel segno e
nell'oscurità della strage e della distruzione, ma sia principio e aurora di novella
vita, di fraterna riconciliazione, di concorde e operosa ricostruzione.
Con
tale fiducia impartiamo a tutti i Nostri diletti figli e figlie dell'Orbe
cattolico, come a tutti quelli che si sentono a Noi uniti nell'amore e
nell'opera per la pace, la Nostra paterna Apostolica Benedizione.
*Discorsi
e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, V,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1943 - 1° marzo 1944, pp. 119-122
Tipografia Poliglotta Vaticana
24 dicembre 1943
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante
in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo intero in occasione della
Vigilia del Natale 1943
Venerdì,
24 dicembre 1943
NATALE
DI GUERRA
Ancora
una quinta volta, diletti figli e figlie dell'universo, la grande famiglia
cristiana si prepara a celebrare la magnifica solennità della pace e
dell'amore, che redime e affratella, in una cupa atmosfera di morte e di odio;
anche quest'anno essa sente e sperimenta l'amarezza e l'orrore di un contrasto
irreconciliabile tra il dolce messaggio di Betlemme e il feroce accanimento con
cui l'umanità si dilania.
Dolorosi
erano i passati anni, turbati dal fiero rumoreggiare delle armi ; ma le campane
del Natale, sollevando gli animi, risvegliavano e facevano sorgere timide
speranze, suscitavano caldi e potenti aneliti verso la pace.
Sventuratamente
il mondo, guardandosi intorno, deve ancora contemplare con raccapriccio una
realtà di lotta e di rovine che, divenuta di giorno in giorno più estesa e
crudele, infrange le sue speranze e con gelida e dura esperienza comprime e
soffoca i suoi più ardenti impulsi.
Che
vediamo noi infatti se non il conflitto degenerare in quella forma di guerra,
che esclude ogni restrizione e riguardo, quasi fosse un portato apocalittico
generato da una civiltà, nella quale al progresso sempre crescente della
tecnica viene compagno un decrescimento sempre più profondo dello spirito e
della moralità; una forma di guerra, che procede senza posa per l'orrenda sua
via, e matura stragi tali, che le pagine più insanguinate e spaventose delle epoche
passate impallidiscono al suo confronto? Con terrore i popoli hanno dovuto
assistere a un nuovo e immenso perfezionamento di mezzi e arti di distruzione,
ed essere al tempo stesso spettatori di una decadenza interiore, che dal
raffreddamento e sviamento della sensibilità morale va sempre più precipitando
verso il fondo della comprensione di ogni sentimento di umanità e di un tale
offuscamento della ragione e dello spirito, da verificare le parole della
Sapienza : « Tutti erano avvinti da una stessa catena di tenebre » (Sap.
17, 17).
LA
LUCE DELL'ASTRO DI BETLEMME
Ma
in mezzo a questa notte tenebrosa risplende al fedele la luce dell'astro di
Betlemme, che gli addita e illumina il cammino verso Colui, dalla cui pienezza
di grazia e di verità noi tutti abbiamo ricevuto (Io. 1, 16); il cammino
verso il Redentore, fattosi in questo mondo con la sua venuta essenzialmente
Principe di pace, e pace nostra : « Ipse enim est pax nostra » (Eph. 2,
14).
Cristo
solo può allontanare i funesti spiriti dell'errore e del peccato, che hanno
aggiogato l'umanità ad una tirannica e avvilente schiavitù, asservendola ad un
pensiero e ad un volere, dominati e mossi dall'insaziabile bramosia di beni
senza limiti.
Cristo
solo, che ci ha tolti al triste servaggio della colpa, può insegnare a spianare
la via verso una libertà nobile e disciplinata, appoggiata e sostenuta su di
una vera rettitudine e consapevolezza morale.
Cristo
solo, « sulle cui spalle riposa il dominio » (cfr. Is. 9, 6), con
la sua soccorritrice onnipotenza può sollevare e trarre il genere umano dalle
angustie senza nome, che lo tormentano nel corso di questa vita, e avviarlo
alla felicità.
Un
cristiano, che si alimenta e vive della fede in Cristo, nella certezza che Egli
solo è la via, la verità e la vita, reca la sua parte delle sofferenze e dei
disagi del mondo al presepio del Figlio di Dio, e trova dinanzi al neogenito
Bambino una consolazione e un sostegno ignoto al mondo, che gli dà animo e
forza a resistere e mantenersi imperterrito, senza accasciarsi o venir meno in
mezzo alle prove più tormentose e gravi.
I —
AI DELUSI
È
triste e doloroso, diletti figli, il pensare che innumerevoli uomini, pur
sentendo, nella ricerca di una felicita che li appaghi in questa vita,
l'amarezza di fallaci illusioni e penose delusioni, si siano preclusi la via ad
ogni speranza, e lontani come vivono dalla fede cristiana, non sappiano
rintracciare il cammino verso il presepio e verso quella consolazione, che fa
sovrabbondare di gaudio gli eroi della fede in ogni loro tribolazione. Vedono
ridotto in frantumi l'edificio di credenze, in cui umanamente ebbero fiducia e
posero il loro ideale: ma non fu mai che trovassero quell'unica vera fede, la
quale sarebbe valsa a dare loro conforto e rinnovamento di animo. In questo
tentennamento intellettuale e morale, sono presi da una deprimente incertezza
di spirito e vivono in uno stato d'inerzia che opprime l'anima loro, e che può
profondamente intendere e fraternamente compatire solo colui, il quale ha la
gioia di vivere nella vivida aura familiare di una fede soprannaturale,
travalicante i turbini di tutte le contingenze temporali, per fissarsi
nell'eterno.
a)
COLORO, CHE POSERO LA LORO FIDUCIA NELLA ESPANSIONE MONDIALE DELLA VITA
ECONOMICA
Della
schiera di tali amareggiati e delusi non è difficile additare coloro, che
posero la loro intera fiducia nella espansione mondiale della vita economica,
reputandola sola idonea ad unire insieme in fratellanza i popoli, e
ripromettendosi dalla sua grandiosa organizzazione, sempre più perfezionata e
affinata, inauditi e insospettati progressi di benessere per il consorzio
umano.
Con
quanta compiacenza e orgoglio contemplarono l'accrescimento mondiale del
commercio, lo scambio, oltrepassante i continenti, di tutti i beni e di tutte
le invenzioni e produzioni, il cammino trionfale della diffusa tecnica moderna,
superante ogni confine di spazio e di tempo! Oggi invece che sperimentano essi
nella realtà? Vedono ormai che questa economia coi suoi giganteschi rapporti e
vincoli mondiali e con la sua sovrabbondante divisione e moltiplicazione del
lavoro cooperava in mille modi a rendere generale e più grave le crisi della
umanità, mentre, non corretta da nessun ritegno morale, e senza sguardo
ultraterreno che l'illuminasse, non poteva non terminare in un indegno e umiliante
sfruttamento della persona umana e della natura, in una trista e paurosa
indigenza da una parte e in una superba e provocante opulenza dall'altra, in un
tormentoso e implacabile dissidio tra privilegiati e non abbienti : malaugurati
effetti che non sono stati all'ultimo posto nella lunga catena di cause, che
hanno condotto all'immensa tragedia odierna.
Non
temano di presentarsi cotesti delusi della scienza e della potenza economica al
presepio del Figlio di Dio. Che cosa dirà loro il Bambino, che vi è nato e
viene adorato da Maria e da Giuseppe, dai Pastori e dagli Angeli? Senza dubbio
la. povertà nella stalla di Betlemme è una condizione da Lui scelta puramente
per sé, né perciò essa importa alcuna condanna o rifiuto della vita economica
in ciò che è necessario all'avanzamento e al perfezionamento fisico e naturale
dell'uomo. Ma quella povertà del Signore e Creatore del mondo, da Lui
liberamente voluta, che Lo accompagnerà anche nella bottega di Nazareth e in
tutto il tempo della sua vita pubblica, significa e manifesta quale padronanza
e superiorità Egli avesse sulle cose materiali, indicando così con potente
efficacia il naturale ed essenziale ordinamento dei beni terreni alla vita
dello spirito e ad una più alta perfezione culturale, morale e religiosa,
necessaria all'uomo ragionevole. Coloro, che aspettavano la salute della
società dal meccanismo del mercato economico mondiale, sono rimasti così
delusi, perché erano divenuti non i signori e i padroni, ma gli schiavi delle
ricchezze materiali, alle quali avevano servito, svincolandole dal fine
superiore dell'uomo e facendole fine a se stesse.
b)
COLORO, CHE RIPOSERO LA FELICITÀ NELLA SCIENZA SENZA Dio
Non
altrimenti operarono e pensarono altri delusi del passato, i quali riponevano
la felicità e il benessere unicamente in un genere di scienza e di cultura,
aliene dal riconoscere il Creatore dell'universo ; quei pionieri e quei seguaci
non della vera scienza, che è mirabile riflesso della luce di Dio, ma di una
scienza superba, la quale, non dando alcun posto all'opera di un Dio personale,
indipendente da ogni limitazione e superiore a tutto ciò che è terreno, si
vantava di poter spiegare gli avvenimenti del mondo col solo rigido e
deterministico concatenamento di ferree leggi naturali.
Ma
una tale scienza non può dare la felicità ed il benessere. L'apostasia dal
Verbo divino, per il quale furono fatte tutte le cose, ha condotto l'uomo
all'apostasia dallo spirito, così da rendergli arduo il perseguimento di ideali
e di scopi altamente intellettuali e morali. Per tal modo la scienza apostata
dalla vita spirituale, mentre s'illudeva di aver acquistato piena libertà ed
autonomia, rinnegando Dio, si vede oggi punita con un servaggio, che non fu mai
più umiliante, essendo divenuta schiava e quasi automatica esecutrice di
indirizzi e ordini, che non tengono in alcun conto i diritti della verità e
della persona umana. Ciò che a quella scienza parve libertà fu vincolo di
umiliazione e di avvilimento; e scoronata com'è, non riprenderà la dignità
primitiva, se non con un ritorno al Verbo eterno, fonte di sapienza così
follemente abbandonato e dimenticato.
A
tale ritorno invita appunto il Figlio di Dio, che è via, verità e vita, via di
felicità, verità che sublima, vita che eterna l'uomo; invita in muto penetrante
linguaggio, con la sua stessa venuta nel mondo, quei delusi, perché Egli non
delude l'anima umana, ma le dà l'impeto che la porta verso di Lui.
II
— AI DESOLATI SENZA SPERANZA
Accanto
a coloro, che vivono profondamente sconcertati per il fallimento di indirizzi
sociali e intellettuali, largamente seguiti da politici e scienziati, sta la
non meno numerosa schiera di quelli, che si trovano in gran disagio e pena per
il disfacimento del loro personale e proprio ideale di vita.
a)
COLORO, AI QUALI SCOPO DELLA VITA ERA IL LAVORO
È
il gran numero di coloro, a cui scopo della vita era il lavoro, e meta delle
loro fatiche una comoda esistenza materiale, ma che nella lotta per raggiungere
quel fine avevano relegato lontano le considerazioni religiose e trascurato di
dare alla loro esistenza un orientamento sano e morale. La guerra li ha
strappati da questa consueta e amata attività, che era il pregio e sostegno del
vivere loro, li ha divelti dalla loro professione e dalla loro arte, cosicché
provano in sé stessi un vuoto pauroso. Che se alcuni possono ancora attendere
all'opera loro, la guerra ha imposto condizioni di lavoro e di vita, nelle
quali è scomparsa ogni caratteristica personale, viene meno e non è più
possibile una vita familiare ordinata, né più si trova quella soddisfazione
dell'anima, che fornisce soltanto il lavoro quale è stato nobilitato e voluto
da Dio.
O
lavoratori, accostatevi al presepio di Gesù ! Non vi paia orrida quella grotta
e quel rifugio del Figlio di Dio: non per caso, ma per alto e ineffabile disegno
vi troverete soltanto semplici lavoratori: Maria, la Vergine Madre di famiglia
lavoratrice, Giuseppe, il Padre di famiglia lavoratore, i pastori custodi dei
greggi, e infine i Saggi venuti dall'Oriente; lavoratori della mano, delle
vigilie e del pensiero; essi si chinano e adorano il Figlio di Dio, che col suo
cosciente e amabile silenzio, più forte della parola, spiega a tutti loro il
senso e la virtù del lavoro. Esso non è soltanto travaglio delle membra umane
privo di senso e di valore, e nemmeno una umiliante servitù. Il lavoro è
servizio di Dio, dono di Dio, vigore e pienezza della vita umana, merito di
riposo eterno. Levate e tenete alta la fronte, o lavoratori. Mirate il Figlio
di Dio, che col suo eterno Padre creò e ordinò l'universo; e fattosi uomo pari
a noi, tolto il peccato, e cresciuto in età, entra nella grande comunanza del
lavoro, e nella sua missione salvatrice fatica consumando la sua vita terrena,
Egli, Redentore del genere umano, che, con la sua grazia penetrante il nostro
essere e operare, eleva e nobilita ogni onesto lavoro, l'alto e il basso, il
grande e il piccolo, il gradevole ed il penoso, il materiale e l'intellettuale,
ad un valore meritorio e soprannaturale dinanzi a Dio, unendo così ogni
processo del multiforme operare umano in una unica costante glorificazione del
Padre nel cielo.
b)
COLORO, CHE POSERO LA LORO SPERANZA NEL GODIMENTO DELLA VITA TERRENA
Sventurati
sono anche coloro che veggono fallita la loro speranza di felicità, sognata e
riposta puramente nel godimento della passeggera vita terrena, concepita
esclusivamente o come pienezza di energie corporee e bellezza di forme e di
persone, o come opulenza e sovrabbondanza di comodità, o come possesso di forza
e di potere.
Ma
ecco che oggidì, nel turbine della guerra, il vigore e la venustà di tanta
gioventù, cresciuta e addestrata nei campi sportivi, si disfanno e sfioriscono
negli ospedali militari, e molti giovani vagano, aggirandosi mutilati o
infermicci fisicamente e moralmente, per le strade di una patria, desolata e
ridotta in un cumulo di rovine in varie città delle migliori sue regioni dai
bombardamenti aerei e dalle operazioni belliche.
Se
parte della gioventù maschile non ha più forze per faticare e lavorare, le
future madri della prossima generazione, forzate come sono a un soverchio
lavoro oltre ogni misura e ogni limite di tempo, vanno perdendo la possibilità
di fornire al popolo dissanguato quell'incremento sano di corpo e di spirito,
che favorisce la vita e l'educazione dei figli, senza cui l'avvenire della patria
è minacciato da un triste tramonto.
La
penosa irregolarità di lavoro e di vita, lontano da Dio e dalla sua grazia, e
dal cattivo esempio allettata e traviata, insinua e prepara un pernicioso
rilasciamento dei rapporti coniugali e familiari, cosicché il tossico della
lussuria tenta di avvelenare ora molto più di prima la sacra sorgente della
vita. Da questi dolorosi fatti e pericoli appare con dura evidenza come, mentre
il rinvigorimento della famiglia e del popolo veniva considerato uno dei più
nobili propositi in molte nazioni, si diffondono invece e crescono
spaventosamente un deperimento fisico e un pervertimento spirituale, che solo
un'azione curatrice ed educatrice di varie generazioni potrà lentamente almeno
in parte far scomparire. Se il conflitto guerresco ha causato in tanti così
vaste rovine di corpo e di spirito, non ha risparmiato gli avidi dell'opulenza
e del puro godimento della vita, i quali stanno ora muti e perplessi dinanzi
alle distruzioni, sopravvenute anche sopra i loro beni come un uragano
devastatore: ricchezze e focolari annientati dal ferro e dal fuoco, vita comoda
e di piaceri scomparsa, tragico il presente, l'avvenire con poche speranze e
molti timori.
Più
triste è la visione che turba e spaventa coloro, i quali aspirarono a possedere
forza e predominio : ora contemplano con terrore l'oceano di sangue e di
lacrime che bagna il mondo, le tombe e le fosse di cadaveri moltiplicate e
sparse su tutte le regioni della terra e le isole dei mari, il lento spegnersi
della civiltà, il progressivo scomparire del benessere anche materiale, la
distruzione di insignì monumenti e nobilissimi edifici di arte sovrana, che
potevano dirsi patrimonio comune del mondo civile, l'acuirsi e l'approfondirsi
di odi, che infiammano l'uno contro l'altro i popoli e nulla di bene lasciano
sperare per l'avvenire.
III
— AI FEDELI
Il
conforto della fede nelle odierne calamità
Venite
ora voi, o cristiani, voi, o fedeli, legati da un ineffabile vincolo
soprannaturale col Figlio di Dio fattosi piccolo per noi, guidati e santificati
dal suo Evangelo, alimentati dalla grazia, frutto della passione e della morte
del Redentore. Anche voi sentite il dolore, ma con la speranza di un conforto
che viene dalla vostra fede.
Le
presenti miserie sono pure le vostre; la guerra distruggitrice visita e
tormenta anche voi, i vostri corpi e le vostre anime, i vostri averi e i vostri
beni, la vostra casa e il vostro focolare. La morte vi ha spezzato il cuore e
inflitte ferite lente a rimarginarsi. Il pensiero a care tombe lontane rimaste
forse sconosciute, l'ansietà per gli scomparsi o dispersi, il sospiro bramoso
di riabbracciare i vostri amati prigionieri o deportati, vi mettono in una pena
che accascia il vostro spirito, mentre un avvenire grave ed oscuro incombe su
tutti, genitori e figli, giovani e vecchi.
In
ogni giorno, e più che mai in quest'ora, il Nostro cuore di Padre si sente con
profondo e immutabile affetto presso a ciascuno di voi, diletti figli e figlie,
doloranti e angustiati. Ma tutti i nostri sforzi non possono far cessare d'un
tratto questa orrenda guerra. Non ridare la vita ai vostri cari morti. Non
ricostruire il vostro focolare distrutto. Non liberarvi pienamente dalle vostre
ansietà. Molto meno è in Nostro potere di manifestarvi il futuro, le cui chiavi
sono nelle mani di Dio, che governa il processo degli eventi e ne ha segnato il
termine pacifico.
Due
cose però Noi possiamo e vogliamo compiere. La prima è, che Noi abbiamo fatto e
faremo sempre quanto è nelle Nostre forze materiali e spirituali per alleviare
le tristi conseguenze della guerra, per i prigionieri, per i feriti, per i
dispersi, per i randagi, per i bisognosi. per tutti i sofferenti e i
travagliati, di ogni lingua e nazione.
La
seconda è, che in questo volgere del tristo tempo di guerra Noi vogliamo che
soprattutto ricordiate il gran de conforto che ci ispira la fede, quando
c'insegna che la morte e le sofferenze di questa vita terrena perdono la loro
dolorosa amarezza per coloro, che possono con tranquilla e serena coscienza far
propria la commovente preghiera della Chiesa nella Messa per ì defunti : « Ai
tuoi fedeli, o Signore, la vita viene cambiata, non tolta, e quando è disciolta
la dimora di questa abitazione terrena, sta preparata in cielo un'abitazione
eterna » (Praef . Miss. pro defunct.). Mentre gli altri, che non
hanno speranza, si trovano davanti ad un abisso pauroso, e le loro mani,
brancicando alla ricerca di un punto di appoggio, palpano il nulla, non
dell'anima loro immortale, ma di una sfumata felicità oltremondana; voi invece,
per la grazia e liberalità di Dio misericordioso, oltre la morte certa, « certa
moriendi conditio », avete l'ineffabile divina consolazione della
promessa d'immortalità, « futurae immortalitatis promissio ».
Da
una tal fede voi attingete un'interiore serenità, una fiduciosa fortezza
morale, che non soccombono neppure alle più crude sofferenze. Grazia sublime
questa e inestimabile privilegio, che dovete ascrivere alla benignità del
Salvatore; grazia e privilegio, che esige da voi il rispondervi con azione di
esemplare costanza e richiede un apostolato quotidiano, tendente a ridare la
fiducia a chi l'ha perduta e ad avviare a salvezza spirituale coloro i quali,
come naufraghi nell'oceano delle presenti sciagure, stanno per sommergersi e
perire.
Dovere
dei cristiani nell'ora presente
Il
cammino dell'umanità nella presente confusione d'idee è stato un cammino senza
Dio, anzi contro Dio; senza Cristo, anzi contro Cristo. Con ciò non vogliamo né
intendiamo offendere gli erranti; essi sono e rimangono nostri fratelli.
Conviene
però che anche la cristianità consideri quella parte di responsabilità, che a
lei tocca nelle odierne prove. O non hanno forse anche molti cristiani fatto
concessioni a quelle false idee e indirizzi della vita, tante volte
disapprovati dal magistero della Chiesa?
Ogni
tiepidezza e ogni inconsulto patteggiamento col rispetto umano nella
professione della fede e delle sue massime; ogni pusillanimità e ondeggiamento
tra il bene e il male nella pratica della vita cristiana, nell'educazione dei
figli e nel governo della famiglia; ogni peccato occulto o palese; tutto
questo, e quel più che si potrebbe aggiungere, è stato ed è un lacrimevole
contributo alla sciagura, che oggi sconvolge il mondo. E chi mai avrebbe il
diritto di ritenersi senza colpa alcuna? La riflessione sopra voi stessi e le
vostre opere e l'umile riconoscimento di tale responsabilità morale vi farà
scorgere e sentire nel profondo dell'anima quanto doverosa e santa sia per voi
una preghiera e un'azione che plachi e implori la misericordia di Dio e
concorra a salvare i fratelli; ridando a Dio quell'onore, che gli fu per tanti
decenni negato, conquistando e ottenendo agli uomini quella pace interiore, la
quale non si può trovare che col riavvicinamento alla luce spirituale della
Grotta di Betlemme.
All'opera,
diletti figli!
All'opera
dunque e al lavoro, diletti figli! Serrate le vostre file. Non cada il vostro
coraggio; non rimanete inerti in mezzo alle rovine. Uscitene fuori alla
ricostruzione di un nuovo mondo sociale per Cristo.
Splenda
su di voi la stella che guidò il cammino dei Magi a Gesù. Lo spirito, che da
Lui emana, nulla ha perduto della sua forza e della sua potenza risanatrice
della umanità decaduta. Esso trionfò un giorno sul paganesimo imperante. Perché
non dovrebbe trionfare anche oggi, quando pene e delusioni di ogni genere
mostrano a tante anime la vanità e i traviamenti dei sentieri finora seguiti
nella vita pubblica e privata? Gran numero di intelletti vanno ricercando nuovi
ideali politici e sociali, privati e pubblici, istruttivi ed educativi, e
provano intima l'ansia di appagare il bisogno del loro cuore. Sia loro guida
l'esempio della vostra vita cristiana; l'ardente vostra parola li scuota.
Mentre passa la figura di questo mondo, mostrate loro come la vera vita è « che
conoscano Te, l'unico vero Dio, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo » (Io.
17, 3).
Invocazione
di soccorso
Per
il vostro labbro rinasca nei fratelli la conoscenza del Padre celeste, che,
anche in tempi di terribile miseria, governa il mondo con sapiente e provvida
bontà; sperimentino la tranquilla felicità, che viene da una vita ardente
dell'amore di Dio. Ma l'amore di Dio rende l'animo delicatamente sensibile
anche ai bisogni dei fratelli, pronto all'aiuto spirituale e materiale,
disposto ad ogni rinunzia, affinché rifiorisca nel cuore di tutti l'amore
fervido ed attivo.
Oh
forza della carità di Cristo! Noi la sentiamo vibrante nella tenerezza del
Nostro cuore di Padre, che, ugualmente aperto e teso verso tutti, Ci fa
inculcare col grido della Nostra parola l'opera di misericordia e di
soccorrevole amore.
Quante
volte abbiamo dovuto ripetere con animo straziato l'esclamazione del divino
Maestro : « Misereor super turbam », « Ho compassione di
questo popolo », e quante volte aggiungere anche Noi : « Non habent quod
manducent », « Non hanno che mangiare » (Marc. 8, 2),
specialmente guardando a molte regioni devastate e desolate dalla guerra! E non
fu mai volta o momento che non sentissimo duramente il contrasto fra le
ristrettezze Nostre, non valevoli al soccorso, e la gigantesca estensione del
bisogno dei molti, che fanno pervenire a Noi la loro voce supplichevole e il
loro doloroso gemito, prima da regioni lontane, e ora sempre più anche dalle
vicine.
Di
fronte a tale indigenza, ogni giorno crescente, Noi rivolgiamo al mondo
cristiano un insistente grido di paterna invocazione di aiuto e di pietà:
« Ecce sto ad ostium et pulso », « Ecco che sto alla porta e
busso » (Apoc. 3, 20).
E
non dubitiamo di rivolgerCi, con quella fiducia che Dio C'ispira, al sentimento
umano e cristiano di quei popoli e di quelle Nazioni, a cui la Provvidenza ha
risparmiato finora la diretta sofferenza degli orrori della guerra, o che, pur
essendo in guerra, vivono ancora in condizioni che permettono ad essi di dare
un generoso sfogo al loro intento di misericordia e di porgere aiuto e
sostentamento a quelli che, entro i duri disagi del conflitto e senza soccorso
esterno, difettano già oggi del necessario e più ne difetteranno nel futuro.
Per
una tale invocazione Ci sospinge e Ci sostiene la speranza che essa incontrerà
profonda eco nei cuori dei fedeli e di quanti sentono in petto vivo spirito di
umanità; mentre, fra gli urti nati e acuiti dal conflitto mondiale, appare in
luce sempre più chiara un consolante svolgimento di pensieri e di propositi ;
vogliamo dire il risveglio di una solidaria responsabilità dinanzi ai problemi
sorti dall'impoverimento generale, originato dalla guerra. Le distruzioni e le
devastazioni, che ne sono seguite, esigono imperiosamente per tutta la
estensione dei danni avvenuti un'opera di ricostruzione e di soccorso. Gli
errori del passato non molto lontano si tramutano per gli spiriti indipendenti
e illuminati in ammonizioni, alle quali, così per ragione di prudenza, come per
senso di umanità, non è mai che restino sordi. Essi considerano il risanamento
spirituale e la restaurazione materiale dei popoli e degli Stati come un
insieme organico, nel quale nulla sarebbe più esiziale che il lasciare
annidarsi focolari d'infezione, da cui domani potrebbe nascere nuova rovina.
Essi sentono che, in un nuovo ordinamento di pace, di diritto e di operosità.
non dovrebbero, per il trattamento di alcuni popoli in modo non conforme alla
giustizia, all'equità e alla saggezza, sorgere pericoli o rimanere lacune nella
struttura della intera organizzazione, che ne metterebbero a repentaglio la
consistenza e la stabilità.
Aspettazione
di pace
Stretti
e fedeli come vogliamo essere alla doverosa imparzialità del Nostro ministero
pastorale, esprimiamo il desiderio che i Nostri figli diletti nulla omettano
per far trionfare i principi di illuminata ed equanime giustizia e fraternità
nelle questioni così fondamentali per la salute degli Stati. È infatti virtù
propria degli spiriti saggi e dei veri amici dell'umanità il comprendere che
una pace conforme alla dignità dell'uomo e alla coscienza cristiana non è mai
che sia una dura imposizione della spada, bensì il frutto di una previdente
giustizia e di una responsabile equità verso tutti.
Ma,
se nell'aspettazione di una tale pace, che tranquilli il mondo, voi, diletti
figli e figlie, continuate a soffrire amaramente nell'anima e nel corpo sotto i
colpi dei disagi e della ingiustizia, non dovete però domani macchiare quella
pace e rendere ingiustizia con ingiustizia, o forse commettere una ingiustizia
anche maggiore.
In
questa vigilia natalizia il vostro cuore e la vostra mente si volgano al
Fanciullo divino del presepio. Vedete e meditate come in quella grotta
abbandonata, esposta al freddo e ai venti, Egli partecipi della vostra povertà
e della vostra miseria. Egli, Signore del cielo e della terra e di tutte le
ricchezze, per le quali contendono gli uomini. Tutto è suo: eppure quante volte
in questi tempi ha dovuto anch'Egli abbandonare chiese e cappelle distrutte,
incendiate, crollate o pericolanti ! Forse là, dove la devozione dei vostri
antenati Gli aveva dedicato magnifici templi dagli agili archi e dalle volte
sublimi, voi non potete offrirgli, in mezzo alle rovine, fuorché una misera
dimora in cappella di rifugio o in case private. Noi vi lodiamo e ringraziamo,
Sacerdoti e laici, uomini e donne, che non di rado, sprezzando ogni pericolo
della vostra vita, avete ricoverato e custodito in luogo sicuro il Signore e
Salvatore eucaristico. Il vostro zelo non voleva che si avverasse ancora una
volta ciò che fu detto di Cristo: «È venuto nei suoi possessi e i suoi non
l'hanno accolto » (Io. I, II). Così il Signore non ha rifiutato di
venire in mezzo alla vostra povertà: Egli che già preferì Betlemme a
Gerusalemme, la stalla e il presepe al grandioso tempio del Padre suo. Povertà
e miseria sono amare, ma diventano dolci se si conserva in sé Iddio, il Figlio
di Dio, Gesù Cristo, e la sua grazia e verità. Egli rimane con voi, finché nel
vostro cuore vivono la vostra fede, la vostra speranza, il vostro amore, la
vostra obbedienza e devozione.
Insieme
con voi, diletti figli e figlie, Noi deponiamo le Nostre preghiere ai piedi di
Gesù Bambino e imploriamo da Lui che sia questo l'ultimo Natale di guerra e che
l'umanità possa celebrare nel nuovo anno la ricorrenza della solennità
natalizia, fulgente della luce e del gaudio di una pace veramente cristiana.
PRINCIPI
PER UN PROGRAMMA DI PACE
Ed
ora voi tutti, che portate la responsabilità, voi tutti, che per disposizione o
permissione di Dio, avete nelle vostre mani il potere sopra la sorte del vostro
e degli altrui popoli : ascoltate il supplichevole « Erudimini »,
che dal sanguinoso e rovinoso abisso di questa immane guerra rintrona al vostro
orecchio: fremito e ammonimento per tutti, colpo di tromba del futuro giudizio
annunziatrice di condanna e di pena per coloro, che fossero sordi alla voce
dell'umanità, che è anche la voce di Dio.
I
vostri scopi di guerra nella coscienza della vostra forza possono ben aver
abbracciato interi paesi e continenti. La questione circa la colpa della
presente guerra e la richiesta di riparazioni possono pure indurvi ad alzare la
vostra voce. Oggi però le devastazioni, che il conflitto mondiale ha prodotte
in tutti i campi della vita, materiali e spirituali, arrivano già a così incomparabile
gravezza ed estensione, e il temuto pericolo che con la continuazione della
guerra esse crescano in orrori senza nome per ambedue le parti belligeranti, e
per quanti, pur ripugnanti, sono stati in essa travolti, appare così fosco e
minaccioso al Nostro sguardo, che Noi, per il bene e per la stessa esistenza di
tutti e singoli i popoli, vi diciamo e scongiuriamo:
Sollevatevi
sopra voi stessi, sopra ogni strettezza di giudizio e di calcolo, sopra ogni
vanto di superiorità militare, sopra ogni affermazione unilaterale di diritto e
di giusti zia. Riconoscete anche le verità sgradevoli ed educate i vostri
popoli a guardarle in faccia con serietà e fortezza.
Vera
pace non è il risultato, per così dire, aritmetico di una proporzione di forze,
ma, nel suo ultimo e più profondo significato, un'azione morale e giuridica.
Essa
non si effettua in realtà senza impiego di forza, e la sua stessa consistenza
ha bisogno di appoggiarsi sopra una normale misura di potenza. Ma la funzione
propria di questa forza, se vuoi essere moralmente retta, deve servire a
protezione e a difesa, non a diminuzione od oppressione del diritto.
Un'ora
come la presente — capace non meno di potenti e benefici progressi, che di
funesti mancamenti ed errori — non si è forse mai avuta nella storia della
umanità.
E
quest'ora domanda con voce imperiosa che gli scopi di guerra e i programmi di
pace siano dettati dal più alto senso morale. Essi non debbono tendere, come a
scopo supremo, se non ad un'opera d'intesa e di concordia fra i popoli belligeranti,
un'opera che lasci ad ogni Nazione, cosciente della sua doverosa unione con la
intera famiglia degli Stati, la possibilità di associarsi degnamente, senza
rinnegare o distruggere sé stessa, alla grande futura azione mondiale di
risanamento e di ricostruzione. Naturalmente la conclusione di una tale pace
non significherebbe alcun abbandono delle necessarie garanzie e sanzioni di
fronte a qualsiasi attentato della forza contro il diritto.
Non
pretendete da alcun membro della famiglia dei popoli, anche se piccolo o
debole, rinunzie a sostanziali diritti e necessità vitali, che voi stessi, se
si dovessero applicare al vostro popolo, giudichereste inattuabili.
Date
presto alla umanità ansiosa una pace, che riabiliti il genere umano dinanzi a
sé stesso e alla storia. Una pace, sopra la cui culla non guizzino i lampi
vendicatori dell'odio, non gl'istinti di una sfrenata volontà di rappresaglia,
ma risplenda l'aurora di un nuovo spirito di comunanza mondiale, sorto dal
mondiale dolore. Uno spirito di comunanza che, sostenuto dalle indispensabili
forze divine della fede cristiana, sarà solo in grado di preservare la umanità,
dopo questa infelice guerra, dalla indicibile sciagura di una pace edificata su
errati fondamenti, e quindi effimera ed ingannevole.
Animati
da questa speranza, Noi con paterno affetto a voi, diletti figli e figlie,
soprattutto a coloro, che soffrono in maniera particolarmente dolorosa i disagi
e le pene della guerra e hanno bisogno dei divini conforti, e non ultimi a
tutti quelli i quali, rispondono alla Nostra invocazione, aprono il cuore
all'amore operoso e misericordioso, o, reggendo i destini dei popoli, sono
bramosi di tranquillarli con l'olivo di pace, impartiamo, come pegno di
abbondanti favori celesti, la Nostra Apostolica Benedizione.
*Discorsi
e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, V,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1943 - 1° marzo 1944, pp. 97-99
Tipografia Poliglotta Vaticana
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1944
1 settembre 1944
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli,
regnante in religione come Pio 12°, diffuso il 1 settembre 1944 nel 5°
anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale
Venerdì,
1° settembre 1944
I. La
difesa della civiltà cristiana
Oggi,
al compiersi del quinto anno dallo scoppio della guerra, la umanità, mentre si
volge indietro a rimirare il cammino di lagrime e di sangue affannosamente
percorso in questo fosco quinquennio di storia, inorridisce dinanzi all’abisso
di miseria, in cui lo spirito della violenza e il predominio della forza
l’hanno precipitata, e pur senza lasciarsi abbattere dal ricordo del passato,
ricerca ansiosamente le cause di una così funesta catastrofe spirituale e
materiale, risoluta a prendere ogni più efficace rimedio contro il ripetersi,
in altre forme, della immane tragedia.
Scossi
dal cumulo di tante rovine, molti animi onesti si ridestano come da un sogno
angoscioso, bramosi di trovare anche in altri campi — fino ad ora mutuamente
separati e lontani — collaboratori, compagni di via e di lotta, per la grande opera
di ricostruzione di un mondo scalzato nelle sue fondamenta e dilacerato nella
sua più intima compagine.
Nulla
certamente di più naturale, nulla di più opportuno, nulla — supposte le
indispensabili cautele — di più doveroso!
Per
quanti si gloriano del nome cristiano e professano la fede in Cristo con una
condotta di vita inviolabilmente conforme alle sue leggi, questa disposizione e
prontezza di animo a lavorare in comune, nello spirito di una vera solidarietà
fraterna, non obbediscono soltanto all’obbligo morale del retto adempimento dei
doveri civili; essa si eleva alla dignità di un postulato della coscienza
sorretta e guidata dall’amore di Dio e del prossimo, cui aggiungono vigore i
segni ammonitori del momento presente e la intensità dello sforzo richiesto per
la salvezza dei popoli.
Il
quadrante della storia segna oggi un’ora grave, decisiva, per tutta l’umanità.
Un
mondo antico giace in frantumi. Veder sorgere al più presto da quelle rovine un
nuovo mondo, più sano, giuridicamente meglio ordinato, più in armonia con le
esigenze della natura umana: tale è l’anelito dei popoli martoriati.
Quali
saranno gli architetti che disegneranno le linee essenziali del nuovo edificio,
quali i pensatori che daranno ad esso l’impronta definitiva?
Ai
dolorosi e funesti errori del passato succederanno forse altri non meno
deplorevoli, e il mondo oscillerà indefinitamente da un estremo all’altro?
ovvero si arresterà il pendolo, grazie all’azione di saggi reggitori di popoli,
su direzioni e soluzioni che non contraddicano al diritto divino e non
contrastino con la coscienza umana e soprattutto cristiana?
Dalla
risposta a questa domanda dipende la sorte della civiltà cristiana nell’Europa
e nel mondo. Civiltà che, lungi dal portare ombra o pregiudizio a tutte le
forme peculiari e così svariate di vivere civile nelle quali si manifesta
l’indole propria di ciascun popolo, s’innesta in esse e vi ravviva i più alti
princìpi etici: la legge morale scritta dal Creatore nei cuori degli uomini
(Cf. Rom., 2, 15), il diritto di natura derivante da Dio, i diritti
fondamentali e la intangibile dignità della persona umana; e per meglio piegare
le volontà alla loro osservanza, infonde nei singoli uomini, in tutto il popolo
e nella convivenza delle nazioni quelle energie superiori, che nessun potere
umano vale anche soltanto lontanamente a conferire, mentre, a somiglianza delle
forze della natura, preserva dai germi velenosi che minacciano l’ordine morale,
di cui impedisce la rovina.
Così
avviene che la civiltà cristiana, senza soffocare né indebolire gli elementi
sani delle più varie culture native, nelle cose essenziali le armonizza,
creando in tal guisa una larga unità di sentimenti e di norme morali —
fondamento saldissimo di vera pace, di giustizia sociale e di amore fraterno
fra tutti i membri della grande famiglia umana.
Gli
ultimi secoli hanno veduto, con una di quelle evoluzioni piene di
contraddizioni di cui la storia è scaglionata, da un lato, sistematicamente
minati i fondamenti stessi della civiltà cristiana, dall’altro, invece, il
patrimonio di essa diffondersi pur sempre attraverso tutti i popoli. L’Europa e
gli altri continenti vivono ancora, in diverso grado, delle forze vitali e dei
princìpi, che la eredità del pensiero cristiano ha loro trasmessi quasi come in
una spirituale trasfusione di sangue.
Alcuni
giungono a dimenticare questo prezioso patrimonio, a trascurarlo, perfino a
ripudiarlo; ma il fatto di quella successione ereditaria rimane. Un figlio può
ben rinnegare sua madre; egli non cessa perciò di essere a lei unito biologicamente
e spiritualmente. Così anche i figli, allontanatisi e straniatisi dalla casa
paterna, sentono pur sempre, talvolta inconsapevolmente, come voce del sangue,
l’eco di quella eredità cristiana, che spesso nei propositi e nelle azioni li
preserva dal lasciarsi interamente dominare e guidare dalle false idee, a cui
essi, volutamente o di fatto, aderiscono.
La
chiaroveggenza, la dedizione, il coraggio, il genio inventivo, il sentimento di
carità fraterna di tutti gli spiriti retti ed onesti determineranno in quale
misura e fino a qual grado sarà dato al pensiero cristiano di mantenere e di
sorreggere l’opera gigantesca della restaurazione della vita sociale, economica
ed internazionale in un piano non contrastante col contenuto religioso e morale
della civiltà cristiana.
Perciò
a tutti i Nostri figli e figlie nel vasto mondo, come anche a coloro che, pur
non appartenendo alla Chiesa, si sentono uniti con Noi in quest’ora di
determinazioni forse irrevocabili, rivolgiamo l’urgente esortazione di ponderare
la straordinaria gravità del momento e di considerare come, al di sopra di ogni
collaborazione con altre divergenti tendenze ideologiche e forze sociali,
suggerita talora da motivi puramente contingenti, la fedeltà al patrimonio
della civiltà cristiana e la sua strenua difesa contro le correnti atee ed
anticristiane è la chiave di volta, che mai non può essere sacrificata, a
nessun vantaggio transitorio, a nessuna mutevole combinazione.
Questo
invito, che confidiamo troverà un’eco favorevole in milioni di anime sulla
terra, tende principalmente ad una leale ed efficace collaborazione in tutti
quei campi, nei quali la creazione di un più retto ordinamento giuridico si
manifesta come particolarmente richiesta dalla stessa idea cristiana. Ciò vale
in modo speciale per quel complesso di formidabili problemi, che riguardano la
costituzione di un ordine economico e sociale più rispondente all’eterna legge
divina e più conforme alla dignità umana. In esso il pensiero cristiano ravvisa
come elemento sostanziale la elevazione del proletariato, la cui risoluta e
generosa attuazione apparisce ad ogni vero seguace di Cristo non solo come un
progresso terreno, ma anche come l’adempimento di un obbligo morale.
II. Alcuni
aspetti della questione economica e sociale
Dopo
anni amari d’indigenza, di restrizioni e soprattutto di angosciosa incertezza,
gli uomini attendono, al termine della guerra, un profondo e definitivo
miglioramento di così tristi condizioni.
Le
promesse di uomini di Stato, le molteplici concezioni e proposte di dotti e di
tecnici, hanno suscitato fra le vittime di un malsano ordinamento economico e
sociale una illusoria aspettazione di palingenesi totale del mondo, un’esaltata
speranza di un regno millenario di universale felicità.
Tale
sentimento offre un terreno favorevole alla propaganda dei programmi più
radicali, dispone gli spiriti a una ben comprensibile, ma irragionevole e
ingiustificata impazienza, che nulla si ripromette da organiche riforme e tutto
aspetta da sovvertimenti e da violenze.
Di
fronte a queste tendenze estreme il cristiano, che seriamente medita sui
bisogni e le miserie del suo tempo, rimane nella scelta dei rimedi fedele alle
norme che l’esperienza, la sana ragione e l’etica sociale cristiana additano
come i fondamenti e i princìpi di ogni giusta riforma.
Già
il Nostro immortale Predecessore Leone XIII nella sua celebre Enciclica Rerum novarum enunciò
il principio che per ogni retto ordine economico e sociale « deve porsi
come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata ».
Se
è vero che la Chiesa ha sempre riconosciuto « il diritto naturale di
proprietà e di trasmissione ereditaria dei propri beni » (Enciclica Quadragesimo anno), non
è tuttavia men certo che questa proprietà privata è in particolar modo il
frutto naturale del lavoro, il prodotto di una intensa attività dell’uomo, che
l’acquista grazie alla sua energica volontà di assicurare e sviluppare con le
sue forze l’esistenza propria e quella della sua famiglia, di creare a sé e ai
suoi un campo di giusta libertà, non solo economica, ma anche politica,
culturale e religiosa.
La
coscienza cristiana non può ammettere come giusto un ordinamento sociale che o
nega in massima o rende praticamente impossibile o vano il diritto naturale di
proprietà, così sui beni di consumo come sui mezzi di produzione.
Ma
essa non può nemmeno accettare quei sistemi, che riconoscono il diritto della
proprietà privata secondo un concetto del tutto falso, e sono quindi in
contrasto col vero e sano ordine sociale.
Perciò
là dove, per esempio, il « capitalismo » si basa sopra tali
erronee concezioni e si arroga sulla proprietà un diritto illimitato, senza
alcuna subordinazione al bene comune, la Chiesa lo ha riprovato come contrario
al diritto di natura.
Noi
vediamo infatti la sempre crescente schiera dei lavoratori trovarsi sovente di
fronte a quegli eccessivi concentramenti di beni economici che, nascosti spesso
sotto forme anonime, riescono a sottrarsi ai loro doveri sociali e quasi
mettono l’operaio nella impossibilità di formarsi una sua proprietà effettiva.
Vediamo
la piccola e media proprietà scemare e svigorirsi nella vita sociale, serrata e
costretta com’è ad una lotta difensiva sempre più dura e senza speranza di buon
successo.
Vediamo,
da un lato, le ingenti ricchezze dominare l’economia privata e pubblica, e
spesso anche l’attività civile; dall’altro, la innumerevole moltitudine di
coloro che, privi di ogni diretta o indiretta sicurezza della propria vita, non
prendono più interesse ai veri ed alti valori dello spirito, si chiudono alle
aspirazioni verso una genuina libertà, si gettano al servigio di qualsiasi
partito politico, schiavi di chiunque prometta loro in qualche modo pane e
tranquillità. E la esperienza ha dimostrato di quale tirannia in tali
condizioni anche nel tempo presente sia capace la umanità.
Difendendo
dunque il principio della proprietà privata, la Chiesa persegue un alto fine
etico-sociale. Essa non intende già di sostenere puramente e semplicemente il
presente stato di cose, come se vi vedesse la espressione della volontà divina,
né di proteggere per principio il ricco e il plutocrate contro il povero e non
abbiente: tutt’altro! Fin dalle origini, essa è stata la tutrice del debole
oppresso contro la tirannia dei potenti e ha patrocinato sempre le giuste
rivendicazioni di tutti i ceti dei lavoratori contro ogni iniquità. Ma la
Chiesa mira piuttosto a far sì che l’istituto della proprietà privata sia tale
quale deve essere secondo i disegni della sapienza divina e le disposizioni
della natura: un elemento dell’ordine sociale, un necessario presupposto delle
iniziative umane, un impulso al lavoro a vantaggio dei fini temporali e
trascendenti della vita, e quindi della libertà e della dignità dell’uomo,
creato ad immagine di Dio, che fin dal principio gli assegnò a sua utilità un
dominio sulle cose materiali.
Togliete
al lavoratore la speranza di acquistare qualche bene in proprietà personale;
quale altro stimolo naturale potreste voi offrirgli per incitarlo a un lavoro
intenso, al risparmio, alla sobrietà, mentre oggi non pochi uomini e popoli,
avendo tutto perduto, nulla più hanno se non la loro capacità di lavoro? O si
vuol forse perpetuare l’economia di guerra per la quale in alcuni Paesi il
pubblico potere ha in mano tutti i mezzi di produzione e provvede per tutti e a
tutto, ma con la sferza di una dura disciplina? Ovvero si vorrà soggiacere alla
dittatura di un gruppo politico, che disporrà, come classe dominante, dei mezzi
di produzione, ma insieme anche del pane, e quindi della volontà di lavoro dei
singoli?
La
politica sociale ed economica dell’avvenire, l’attività ordinatrice dello
Stato, dei Comuni, degl’istituti professionali, non potranno conseguire
durevolmente il loro alto fine, che è la vera fecondità della vita sociale e il
normale rendimento della economia nazionale, se non rispettando e tutelando la
funzione vitale della proprietà privata nel suo valore personale e sociale.
Quando la distribuzione della proprietà è un ostacolo a questo fine — ciò che
non necessariamente né sempre è originato dalla estensione del patrimonio
privato —, lo Stato può nell’interesse comune intervenire per regolarne l’uso,
od anche, se non si può equamente provvedere in altro modo, decretare la
espropriazione, dando una conveniente indennità. Per lo stesso scopo la piccola
e la media proprietà nell’agricoltura, nelle arti e nei mestieri, nel commercio
e nell’industria debbono essere garantite e promosse; le unioni cooperative
debbono assicurare loro i vantaggi della grande azienda; dove la grande azienda
ancor oggi si manifesta maggiormente produttiva, deve essere offerta la
possibilità di temperare il contratto di lavoro con un contratto di società
(Cf. Enciclica Quadragesimo anno).
Né
si dica che il progresso tecnico si oppone a tale regime e spinge nella sua
corrente irresistibile tutta l’attività verso aziende ed organizzazioni
gigantesche, di fronte alle quali un sistema sociale fondato sulla proprietà
privata dei singoli deve ineluttabilmente crollare. No; il progresso tecnico
non determina, come un fatto fatale e necessario, la vita economica. Esso si è
fin troppo spesso docilmente chinato dinanzi alle esigenze dei calcoli
egoistici avidi di accrescere indefinitamente i capitali; perché dunque non si
piegherebbe anche dinanzi alla necessità di mantenere e di assicurare la
proprietà privata di tutti, pietra angolare dell’ordine sociale? Anche il
progresso tecnico, come fatto sociale, non deve prevalere al bene generale, ma essere
invece a questo ordinato e subordinato.
Al
termine di questa guerra, che ha sconvolto tutte le attività della vita umana e
le ha lanciate verso nuovi sentieri, il problema della futura configurazione.
dell’ordine sociale farà sorgere una lotta ardente fra le varie tendenze, in
mezzo alla quale la concezione sociale cristiana ha l’ardua, ma anche nobile
missione di mettere in evidenza e di mostrare teoricamente e praticamente ai
seguaci di altre dottrine come in questo campo, così importante per il pacifico
sviluppo della umana convivenza, i postulati della vera equità e i princìpi
cristiani possono unirsi in uno stretto connubio generatore di salvezza e di
bene per quanti sanno rinunziare ai pregiudizi e alle passioni e prestare
orecchio agli insegnamenti della verità. Noi abbiamo fiducia che i Nostri
fedeli figli e figlie del mondo cattolico, araldi della idea sociale cristiana,
contribuiranno — anche a prezzo di notevoli rinunzie — all’avanzamento verso
quella giustizia sociale, di cui debbono aver fame e sete tutti i veri
discepoli di Cristo.
III. Pensieri
di carità
L’esortazione
alla vigilanza e alla prontezza di tutti i cristiani per gl’immani doveri di un
avvenire, che sembra ormai prossimo, non deve farCi perdere di vista le acute
angustie del presente. Né alcuno si meraviglierà se, pur abbracciando di eguale
amore tutti i popoli della terra, la Nostra sollecitudine in questo campo e in
questo momento si porta in una maniera speciale verso l’Italia e Roma.
Le
dirette operazioni di guerra, che hanno sconvolto gran parte del suolo italico,
sono ora lontane anche dalla Eterna Città. Ma le conseguenze dirette e
indirette del conflitto sono ben lungi dall’esser cessate. L’Urbe, che Maria,
« Salus populi romani », Madre del Divino Amore, protesse
nell’ora del pericolo, non risuona più del rombo delle battaglie. Ma la lotta
contro la miseria, contro la fame, la disoccupazione, il disagio economico, ha
raggiunto in molte regioni d’Italia una estensione tale che richiede, massime
in vista dell’inverno, un pronto ed efficace rimedio.
Nessuno
ignora come di fatto nelle grandi guerre alle dure necessità di carattere
militare si dia ordinariamente la precedenza sopra ogni diverso riguardo e
considerazione. D’altra parte, chiunque non si lasci guidare da particolari
tendenze, ma rifletta sulla imperiosa esigenza di provvedere insieme ai bisogni
essenziali della vita civile, ammetterà e riconoscerà le funeste influenze e i
danni che la sistematica requisizione, asportazione o distruzione di preziosi
mezzi di trasporto hanno cagionato al rifornimento di viveri sufficienti e
acquistabili a prezzo ragionevole. Ognuno altresì comprende come questo stato
anormale, unito con la egualmente vasta distruzione, requisizione o
asportazione di potenti mezzi di produzione, abbia provocato una paralisi nella
vita economica, le cui ripercussioni materiali e spirituali sulla popolazione
divengono ogni giorno più sintomatiche e minacciose.
Non
sterili accuse porteranno rimedio a tanto male, ma la sincera e generosa
collaborazione di quanti hanno possibilità e autorità per servire agli
interessi del Paese. Non è forse desiderabile che cooperino al bene comune
persone probe, oneste, sperimentate, franche e immuni da qualsiasi macchia di
delitti o di reali abusi, anche se nel passato si trovarono in altro campo
politico, il che spianerebbe altresì la via alla unione degli animi?
Nessun
popolo, accasciato sotto il peso di sciagure fisiche e morali, può risollevarsi
da solo, con le proprie forze, dalla sua prostrazione.
Ma
d’altra parte nessun popolo, giustamente geloso del suo onore, si adatterebbe
ad attendere il suo risorgimento unicamente dall’aiuto altrui, e non in pari
tempo dallo sforzo della propria volontà e delle proprie energie.
Perciò
Noi, conoscendo la profonda miseria in cui sono cadute estese regioni d’Italia,
innanzi tutto ricordiamo a coloro, i quali nel Paese stesso posseggono ampie
scorte e abbondante raccolto di viveri, l’obbligo di non sottrarli, per avidità
di maggiori guadagni, a quelli che languiscono di fame, memori dei tremendi
castighi dal Giudice eterno minacciati a chi è senza pietà per il fratello
sofferente. Invochiamo poi dai popoli, la cui capacità economica non è stata
sostanzialmente danneggiata dalla guerra, di porgere alla popolazione d’Italia,
nei limiti del possibile e senza pregiudizio di quanto è dovuto anche ad altre
Nazioni egualmente indigenti, quei soccorsi, di cui ha bisogno specialmente nel
periodo iniziale della sua rinascita.
Di
buon animo riconosciamo ciò che è stato fatto — e sappiamo che ancor più
s’intende di fare — in tal senso dalle Potenze alleate, come altresì volentieri
apprezziamo gli sforzi compiuti dalle Autorità italiane. Niuno più di Noi, —
cui le cure dell’Apostolico Ministero mettono più facilmente in grado di
conoscere i dolori dei poveri e degli oppressi, — sente nel cuore intima
gratitudine verso quanti, in Italia e all’estero, — Governi, Episcopato, Clero,
laici, — hanno cooperato e cooperano a così nobile scopo. Se purtroppo non Ci è
stato fin qui possibile di ottenere l’uso di motovelieri o di altre navi per il
trasporto di generi alimentari e per il ritorno di profughi alle loro terre,
abbiamo tuttavia la fiducia di conseguire prossimamente altri mezzi per
arrecare sollievo a numerose sventure. E come per il passato, così anche per il
futuro serberemo profonda riconoscenza verso quanti Ci metteranno in condizione
di attenuare la dolorosa sproporzione fra la esiguità delle Nostre proprie
risorse e la grandezza incommensurabile dei più urgenti bisogni.
Noi
salutiamo in questa prestazione di soccorsi da popolo a popolo, già iniziata
durante la guerra e pur nei ristretti limiti che questa consente, il ridestarsi
di un senso di generosità, non meno umanamente elevato che politicamente
saggio; senso, che nel calore della lotta e nell’appassionata affermazione dei
contrastanti interessi può bensì affievolirsi, ma non interamente estinguersi,
e che, fondato com’è sulla natura stessa e sulla concezione cristiana della
vita, dovrà poi tornare pienamente in onore, non appena la spada avrà compiuto
la dura opera sua.
IV. Pensieri
di pace
Nulla
senza dubbio Noi più ardentemente desideriamo che di vedere quanto prima
splendere il giorno in cui, cessato il fragore delle armi, saranno ridate a
tanta parte della umanità torturata, e quasi all’estremo limite delle sue forze
fisiche e morali, pace, sicurezza e prosperità.
Innumerevoli
cuori sospirano questo giorno, come i naufraghi il sorgere della stella
mattutina. Molti nondimeno avvertono fin da ora che il passaggio dalla tempesta
violenta alla grande tranquillità della pace può essere ancora penoso ed amaro;
comprendono che le tappe del cammino dalla cessazione delle ostilità allo
stabilimento di condizioni normali di vita possono nascondere più gravi
difficoltà che non si pensi. È perciò tanto più necessario che un forte
sentimento di solidarietà risorga fra i popoli, al fine di rendere più rapido e
duraturo il risanamento del mondo.
Già
nel Nostro discorso natalizio del 1939 Noi
auspicavamo la creazione di organizzazioni internazionali che, evitando le
lacune e le deficienze del passato, fossero realmente atte a preservare la
pace, secondo i princìpi della giustizia e della equità, contro ogni possibile
minaccia per il futuro. Poiché oggi alla luce di tante terribili esperienze
l’aspirazione verso un simile nuovo istituto universale di pace richiama sempre
più l’attenzione e le cure degli uomini di Stato e dei popoli, Noi volentieri
esprimiamo il Nostro compiacimento e formiamo l’augurio che la sua concreta
attuazione corrisponda veramente nella più larga misura all’altezza del fine,
che è il mantenimento, a vantaggio di tutti, della tranquillità e della
sicurezza nel mondo.
Ma
niuno forse tanto ansiosamente invoca la fine del conflitto e il rinascere
della mutua concordia fra le Nazioni quanto i milioni di prigionieri e
d’internati civili, costretti dalla guerra a mangiare il duro pane della
cattività o del lavoro forzato in terra straniera. Il dolore per la protratta
lontananza dalle madri, dalle spose, dai figli, per la lunga separazione da
tutte le persone e le cose amate, li strugge e li consuma, e desta in loro un
vivo senso di schianto e di abbandono, di cui può farsi una idea soltanto chi
sappia penetrare nell’intima angoscia dei loro cuori. E poiché questa guerra,
con ciò che ad essa è necessariamente o arbitrariamente connesso, ha condotto
alla più ingente e tragica migrazione di popoli che la storia conosca, sarà
opera di alta umanità, di chiaroveggente giustizia e di sapienza ordinatrice,
se a questi infelici non si farà attendere oltre i limiti dello stretto
necessario la già troppo a lungo ritardata liberazione.
Una
tale risoluzione, che naturalmente non escluderebbe alcune cautele giudicate
forse indispensabili, sarebbe per tanti miseri un primo raggio di sole nella
oscurissima notte, il simbolico annunziatore di una nuova era, in cui con la
crescente distensione degli animi tutte le Nazioni amanti della pace, grandi e
piccole, potenti e deboli, vincitrici e vinte, avranno parte, non meno ai
diritti e ai doveri, che ai benefici di una vera civiltà.
La
spada può e talvolta, purtroppo, deve aprire la via verso la pace.
L’ombra
della spada può gravare anche sul tragitto dalla cessazione delle ostilità alla
conclusione formale della pace.
La
minaccia della spada può apparire inevitabile, entro i limiti giuridicamente
necessari e moralmente giustificabili, anche dopo la conclusione della
pace, per tutelare l’osservanza dei giusti obblighi e prevenire tentativi di
nuovi conflitti.
Ma
l’anima di una pace degna di questo nome, il suo spirito vivificatore, non può
essere che uno solo: una giustizia che con imparziale misura a tutti dà ciò che
ad ognuno è dovuto e da tutti esige ciò a cui ognuno è obbligato, una giustizia
che non dà tutto a tutti, ma a tutti dà amore e a nessuno fa torto, una
giustizia che è figlia della verità e madre di sana libertà e di sicura
grandezza.
*Discorsi
e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VI,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo 1944 - 1° marzo 1945, pp. 121-132
Tipografia Poliglotta Vaticana
24 dicembre 1944
Radiomessaggio del papa Eugenio Pacelli, regnante
in religione come Pio 12°, ai popoli del mondo interno in occasione della
Viglia del Natale 1944
Domenica,
24 dicembre l944
Il
sesto Natale di guerra
Benignitas
et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei (Tit. 3,
4). Già per la sesta volta, dopo l'inizio della orribile guerra, la santa
liturgia natalizia saluta con queste parole, spiranti pace serena, la venuta
fra noi del Dio Salvatore. L'umile e squallida culla di Betlemme fa convergere
verso di sé con indicibile attrattiva il pensiero di tutti i credenti.
Nel
fondo dei cuori ottenebrati, afflitti, abbattuti, scende, e tutti li invade, un
gran torrente di luce e di gioia. Le fronti abbassate si rialzano serene,
perché il Natale è la festa della dignità umana, la festa dell'« ammirabile
scambio, per il quale il Creatore del genere umano, prendendo un corpo vivente,
si è degnato di nascere dalla Vergine, e con la sua venuta ci ha largito la sua
divinità » (Ant. I in I Vesp. in Circumc. Dom.).
Ma
il nostro sguardo si porta spontaneamente dal luminoso Bambino del presepio sul
mondo che ci circonda, e il doloroso sospiro dell'Evangelista Giovanni sale
sulle nostre labbra: « Lux in tenebris lucet et tenebrae eam non
comprehenderunt » (Io. I, 5): La luce splende fra le tenebre e
le tenebre non l'hanno accolta.
Poiché
pur troppo anche questa sesta volta l'alba del Natale si leva su campi di
battaglia sempre più estesi, su cimiteri ove sempre più numerose si accumulano
le spoglie delle vittime, su terre deserte, ove rare torri vacillanti indicano
nella loro silenziosa tristezza le rovine di città dianzi fiorenti e prospere,
e ove campane cadute o rapite non risvegliano più gli abitanti col loro giulivo
canto di Natale. Sono altrettanti muti testimoni che denunziano questa macchia
nella storia della umanità, la quale volontariamente cieca dinanzi alla
chiarezza di Colui che è splendore e lume del Padre, volontariamente
allontanatasi da Cristo, discesa e caduta nella rovina e nell'abdicazione della
propria dignità. Anche la piccola lampada si é estinta in molti templi
maestosi, in molte modeste cappelle, ove presso il tabernacolo aveva
partecipato alle veglie dell'Ospite divino sul mondo addormentato. Quale
desolazione! quale contrasto! Non vi sarebbe più dunque speranza per I'umanità?
Aurora
di speranza
Sia
benedetto il Signore! Dai lugubri gemiti del dolore, dal seno stesso della
straziante angoscia degli individui e dei paesi oppressi, si leva un'aurora di
speranza. In una schiera sempre crescente di nobili spiriti sorge un pensiero,
una volontà sempre più chiara e ferma: fare di questa guerra mondiale, di
questo universale sconvolgimento, il punto da cui prenda le mosse un'era
novella per il rinnovamento profondo, la riordinazione totale del mondo. In tal
guisa, mentre gli eserciti continuano ad affaticarsi in lotte micidiali, con
sempre più crudeli mezzi di combattimento, gli uomini di governo, rappresentanti
responsabili delle nazioni, si riuniscono in colloqui, in conferenze, allo
scopo di determinare i diritti e i doveri fondamentali, sui quali dovrebbe
essere ricostituita una comunanza degli Stati, di tracciare il cammino verso un
avvenire migliore, più sicuro, più degno della umanità.
Antitesi
strana, questa coincidenza di una guerra, la cui asprezza tende a giungere fino
al parossismo, e del notevole progresso delle aspirazioni e dei propositi verso
un'intesa per una pace solida e durevole! Senza dubbio si può ben discutere il
valore, l'applicabilità, l'efficacia di questa o di quella proposta; il
giudizio su di esse può ben rimanere in sospeso; ma sempre vero che il
movimento è in corso.
Il
problema della democrazia
Inoltre
— e questo è forse il punto più importante —, sotto il sinistro bagliore della
guerra che li avvolge, nel cocente ardore della fornace in cui sono
imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno
preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti, un contegno nuovo,
interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara esperienza, si oppongono
con maggior impeto ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e
intangibile, e richieggono un sistema di governo, che sia più compatibile con
la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste
moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli strati più profondi,
sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai
incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di
correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato
trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare per
l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo
stesso efficaci garanzie.
In
tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se la tendenza
democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso di
coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui
e della società?
È appena
necessario di ricordare che, secondo gl'insegnamenti della Chiesa, «non è
vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva però la
dottrina cattolica circa l'origine e l'uso del potere pubblico », e che « la
Chiesa non riprova nessuna delle varie forme di governo, purché adatte per sé a
procurare il bene dei cittadini » (Leon. XIII Encycl. «Libertas », 20
giugno 1888, in fin.).
Se
dunque in questa solennità, che commemora ad un tempo la benignità del Verbo
incarnato e la dignità dell'uomo (dignità intesa non solo sotto il rispetto
personale, ma anche nella vita sociale), Noi indirizziamo la Nostra attenzione
al problema della democrazia, per esaminare secondo quali norme deve essere
regolata, per potersi dire una vera e sana democrazia, confacente alle
circostanze dell'ora presente; ciò indica chiaramente che la cura e la
sollecitudine della Chiesa rivolta non tanto alla sua struttura e
organizzazione esteriore, — le quali dipendono dalle aspirazioni proprie di
ciascun popolo, — quanto all'uomo, come tale, che, lungi dall'essere l'oggetto
e un elemento passivo della vita sociale, ne invece, e deve esserne e
rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine.
Premesso
che la democrazia, intesa in senso largo, ammette varie forme e può attuarsi
così nelle monarchie come nelle repubbliche, due questioni si presentano al
Nostro esame:
l°
Quali caratteri debbono contraddistinguere gli uomini, che vivono nella
democrazia e sotto il regime democratico? 2° Quali caratteri debbono
contraddistinguere gli uomini, che nella democrazia tengono il pubblico potere?
I.
CARATTERI PROPRI DEI CITTADINI IN REGIME DEMOCRATICO
Esprimere
il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere
costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del
cittadino, che trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la
loro espressione. Dalla solidità, dall'armonia, dai buoni frutti di questo
contatto tra i cittadini e il governo dello Stato, si può riconoscere se una
democrazia è veramente sana ed equilibrata, e quale sia la sua forza di vita e
di sviluppo. Per quello poi che tocca l'estensione e la natura dei sacrifici
richiesti a tutti i cittadini, — al tempo nostro in cui così vasta e decisiva è
l'attività dello Stato, la forma democratica di governo apparisce a molti come
un postulato naturale imposto dalla stessa ragione. Quando però si reclama «
più democrazia e migliore democrazia », una tale esigenza non può avere altro
significato che di mettere il cittadino sempre più in condizione di avere la
propria opinione personale, e di esprimerla e farla valere in una maniera
confacente al bene comune.
Popolo
e « massa »
Da
ciò deriva una prima conclusione necessaria, con la sua conseguenza pratica. Lo
Stato non contiene in sé e non aduna meccanicamente in un dato territorio
un'agglomerazione amorfa d'individui. Esso è, e deve essere in realtà, l'unità
organica e organizzatrice di un vero popolo.
Popolo
e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, « massa » sono due concetti diversi.
Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può
essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli
uomini che lo compongono, ciascuno dei quali — al proprio posto e nel proprio
modo — è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie
convinzioni. La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo
nelle mani di chiunque ne sfrutti gl'istinti o le impressioni, pronta a
seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell'altra bandiera. Dalla
esuberanza di vita d'un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca,
nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore
incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il
vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente
maneggiata ed usata, può pure servirsi lo Stato: nelle mani ambiziose d'un solo
o di più, che le tendenze egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo
Stato stesso può, con l'appoggio della massa, ridotta a non essere più che una
semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo:
l'interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è
bene spesso difficilmente guaribile.
Da
ciò appare chiara un'altra conclusione : la massa — quale Noi abbiamo or ora
definita — è la nemica capitale della vera democrazia e del suo ideale di
libertà e di uguaglianza.
In
un popolo degno di tal nome, il cittadino sente in se stesso la coscienza della
sua personalità, dei suoi doveri e dei suoi diritti, della propria libertà
congiunta col rispetto della libertà e della dignità altrui. In un popolo degno
di tal nome, tutte le ineguaglianze, derivanti non dall'arbitrio, ma dalla
natura stessa delle cose, ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione
sociale — senza pregiudizio, ben inteso, della giustizia e della mutua carità —
non sono affatto un ostacolo all'esistenza ed al predominio di un autentico
spirito di comunità e di fratellanza. Che anzi esse, lungi dal ledere in alcun
modo l'uguaglianza civile, le conferiscono il suo legittimo significato, che
cioè, di fronte allo Stato, ciascuno ha il diritto di vivere onoratamente la
propria vita personale, nel posto e nelle condizioni in cui i disegni e le
disposizioni della Provvidenza l'hanno collocato.
In
contrasto con questo quadro dell'ideale democratico di libertà e d'uguaglianza
in un popolo governato da mani oneste e provvide, quale spettacolo offre uno
Stato democratico lasciato all'arbitrio della massa! La libertà, in quanto
dovere morale della persona, si trasforma in una pretensione tirannica di dare
libero sfogo agl'impulsi e agli appetiti umani a danno degli altri.
L'uguaglianza degenera in un livellamento meccanico, in una uniformità monocroma:
sentimento del vero onore, attività personale, rispetto della tradizione,
dignità, in una parola, tutto quanto dà alla vita il suo valore, a poco a poco,
sprofonda e dispare. E sopravvivono soltanto, da una parte, le vittime illuse
del fascino appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito
stesso della democrazia, con la libertà e l'uguaglianza; e, dall'altra parte, i
profittatori più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro
o quella dell'organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione
privilegiata e lo stesso potere.
II.
CARATTERI DEGLI UOMINI CHE NELLA DEMOCRAZIA TENGONO IL PUBBLICO POTERE
Lo
Stato democratico, sia esso monarchico o repubblicano, deve, come qualsiasi
altra forma di governo, essere investito del potere di comandare con una
autorità vera ed effettiva. Lo stesso ordine assoluto degli esseri e dei fini,
che mostra l'uomo come persona autonoma, vale a dire soggetto di doveri e di
diritti inviolabili, radice e termine della sua vita sociale, abbraccia anche
lo Stato come società necessaria, rivestita dell'autorità, senza la quale non
potrebbe né esistere né vivere. Che se gli uomini, prevalendosi della libertà
personale, negassero ogni dipendenza da una superiore autorità munita del
diritto di coazione, essi scalzerebbero con ciò stesso il fondamento della loro
propria dignità e libertà, vale a dire quell'ordine assoluto degli esseri e dei
fini.
Stabiliti
su questa medesima base, la persona, lo Stato, il pubblico potere, con i loro
rispettivi diritti, sono stretti e connessi in tal modo che o stanno o rovinano
insieme.
E
poiché quell'ordine assoluto, alla luce della sana ragione, e segnatamente
della fede cristiana, non può avere altra origine che in un Dio personale,
nostro Creatore, consegue che la dignità dell'uomo è la dignità dell'immagine
di Dio, la dignità, dello Stato è la dignità della comunità morale voluta da
Dio, la dignità dell'autorità politica la dignità della sua partecipazione
all'autorità di Dio.
Nessuna
forma di Stato può non tener conto di questa intima e indissolubile
connessione; meno di ogni altra la democrazia. Pertanto, se chi ha il pubblico
potere non la vede o più o meno la trascura, scuote nelle sue basi la sua
propria autorità. Parimente, se egli non terrà abbastanza in conto questa
relazione, e non vedrà nella sua carica la missione di attuare l'ordine voluto
da Dio, sorgerà il pericolo che l'egoismo del dominio o degli interessi
prevalga sulle esigenze essenziali della morale politica e sociale, e che le
vane apparenze di una democrazia di pura forma servano spesso come di maschera
a quanto vi è in realtà di meno democratico.
Soltanto
la chiara intelligenza dei fini assegnati da Dio ad ogni società umana,
congiunta col sentimento profondo dei sublimi doveri dell'opera sociale, può
mettere quelli, a cui è affidato il potere, in condizione di adempire i propri
obblighi di ordine sia legislativo, sia giudiziario od esecutivo, con quella
coscienza della propria responsabilità., con quella oggettività, con quella
imparzialità, con quella lealtà, con quella generosità, con quella
incorruttibilità, senza le quali un governo democratico difficilmente
riuscirebbe ad ottenere il rispetto, la fiducia e l'adesione della parte
migliore del popolo.
Il
sentimento profondo dei principi di un ordine politico e sociale, sano e
conforme alle norme del diritto e della giustizia, è di particolare importanza
in coloro che, in qualsiasi forma di regime democratico, hanno come
rappresentanti del popolo, in tutto o in parte, il potere legislativo. E poiché
il centro di gravità di una democrazia normalmente costituita risiede in questa
rappresentanza popolare, da cui le correnti politiche s'irradiano in tutti i
campi della vita pubblica — così per il bene come per il male —, la questione
della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale
dei deputati al parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una
questione di vita o di morte, di prosperità o di decadenza, di risanamento o di
perpetuo malessere.
Per
compiere un'azione feconda, per conciliare la stima e la fiducia, qualsiasi
corpo legislativo deve - come attestano indubitabili esperienze - raccogliere
nel suo seno una eletta di uomini, spiritualmente eminenti e di fermo
carattere, che si considerino come i rappresentanti dell'intero popolo e non
già come i mandatari di una folla, ai cui particolari interessi spesso
purtroppo sono sacrificati i veri bisogni e le vere esigenze del bene comune.
Una eletta di uomini, che non sia ristretta ad alcuna professione o condizione,
bensì che sia l'immagine della molteplice vita di tutto il popolo. Una eletta
di uomini di solida convinzione cristiana, di giudizio giusto e sicuro, di
senso pratico ed equo, coerente con se stesso in tutte le circostanze; uomini
di dottrina chiara e sana, di propositi saldi e rettilinei, uomini soprattutto
capaci, in virtù dell'autorità che emana dalla loro pura coscienza e largamente
s'irradia intorno ad essi, di essere guide e capi specialmente nei tempi in cui
le incalzanti necessità sovreccitano la impressionabilità del popolo, e lo
rendono più facile ad essere traviato e a smarrirsi; uomini che nei periodi di
transizione, generalmente travagliati e lacerati dalle passioni, dalle
divergenze delle opinioni e dalle opposizioni dei programmi, si sentono
doppiamente in dovere di far circolare nelle vene del popolo e dello Stato,
arse da mille febbri, l'antidoto spirituale delle vedute chiare, della bontà
premurosa, della giustizia ugualmente favorevole a tutti, e la tendenza della
volontà verso l'unione e la concordia nazionale in uno spirito di sincera
fratellanza.
I
popoli, il cui temperamento spirituale e morale è bastantemente sano e fecondo,
trovano in se stessi e possono dare al mondo gli araldi e gli strumenti della
democrazia, che vivono in quelle disposizioni e le sanno mettere realmente in
atto. Dove invece mancano tali uomini, altri vengono ad occupare il loro posto,
per far dell'attività politica l'arena della loro ambizione, una corsa ai
guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe, mentre la
caccia agl'interessi particolari fa perdere di vista e mette in pericolo il
vero bene comune.
L'assolutismo
di Stato
Una
sana democrazia, fondata sugl'immutabili principi della legge naturale e delle
verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che
attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti, e
che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze,
un puro e semplice sistema di assolutismo.
L'assolutismo
di Stato (da non confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui
qui non si tratta) consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello
Stato è illimitata, e che di fronte ad essa — anche quando dà libero corso alle
sue mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male, — non è
ammesso alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante.
Un
uomo compreso da rette idee intorno allo Stato e all'autorità e al potere di
cui è rivestito, in quanto custode dell'ordine sociale, non penserà mai di
offendere la maestà della legge positiva nell'ambito della sua naturale
competenza. Ma questa maestà del diritto positivo umano allora soltanto è
inappellabile, se si conforma — o almeno non si oppone — all'ordine assoluto,
stabilito dal Creatore e messo in una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo.
Essa non può sussistere, se non in quanto rispetta il fondamento, sul quale si
appoggia la persona umana, non meno che lo Stato e il pubblico
potere. È questo il criterio fondamentale di ogni sana forma di
governo, compresa la democrazia; criterio col quale deve essere giudicato il
valore morale di ogni legge particolare.
III.
NATURA E CONDIZIONI DI UNA EFFICACE ORGANIZZAZIONE PER LA PACE
La
unità del genere umano e la società dei popoli
Noi
abbiamo voluto, diletti figli e figlie, cogliere l'occasione della festa
natalizia per indicare su quali vie una democrazia, che corrisponda alla
dignità umana, possa, in armonia con la legge naturale e coi disegni di Dio
manifestati nella rivelazione, pervenire a benefici risultati. Noi infatti
profondamente sentiamo la somma importanza di questo problema per il pacifico
progresso della famiglia umana; ma al tempo stesso siamo consapevoli delle alte
esigenze che questa forma di governo impone alla maturità morale dei singoli
cittadini; una maturità morale, alla quale invano si potrebbe sperar di
giungere pienamente e sicuramente, se la luce della grotta di Betlemme non
rischiarasse l'oscuro sentiero, per il quale i popoli dal tempestoso presente
s'incamminano verso un avvenire che sperano più sereno.
Fino
a qual punto però i rappresentanti e i pionieri della democrazia saranno
compresi nelle loro deliberazioni dalla convinzione che l'ordine assoluto degli
esseri e dei fini, da Noi ripetutamente ricordato, include anche, come esigenza
morale e quale coronamento dello sviluppo sociale, la unità del genere umano e
della famiglia dei popoli? Dal riconoscimento di questo principio dipende
l'avvenire della pace. Nessuna riforma mondiale, nessuna garanzia di pace può
fare da esso astrazione, senza indebolirsi e rinnegare se stessa. Se invece
quella medesima esigenza morale trovasse la sua attuazione in una società dei
popoli, che sapesse evitare i difetti di struttura e le manchevolezze di
precedenti soluzioni, allora la maestà di quell'ordine regolerebbe e
dominerebbe egualmente le deliberazioni di questa società e l'applicazione dei
suoi mezzi di sanzione.
Per
lo stesso motivo si comprende come l'autorità di una tale società dei popoli
dovrà essere vera ed effettiva sugli Stati, che ne sono membri, in guisa però
che ognuno di essi conservi un eguale diritto alla sua relativa sovranità.
Soltanto in tal modo lo spirito di una sana democrazia potrà penetrare anche
nel vasto e scabroso campo della politica estera.
Contro
la guerra di aggressione
come soluzione delle controversie internazionali
Un
dovere, del resto, obbliga tutti, un dovere che non tollera alcun ritardo,
alcun differimento, alcuna esitazione, alcuna tergiversazione: di fare cioè
tutto quanto possibile per proscrivere e bandire una volta per sempre la guerra
di aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e
come strumento di aspirazioni nazionali. Si son veduti nel passato molti
tentativi intrapresi a tale scopo. Tutti sono falliti. E falliranno tutti
sempre, fino a quando la parte più sana del genere umano non avrà volontà
ferma, santamente ostinata, come un obbligo di coscienza, di compire la
missione che i tempi passati avevano iniziata con non sufficiente serietà e
risolutezza.
Se
mai una generazione ha dovuto sentire nel fondo della coscienza il grido: «
Guerra alla guerra! », essa certamente la presente. Passata com'è attraverso un
oceano di sangue e di lagrime, quale forse i tempi passati mai non conobbero,
essa ne ha vissuto le indicibili atrocità cosi intensamente, che il ricordo di
tanti orrori dovrà restarle impresso nella memoria e fino nel più profondo
dell'anima, come l'immagine di un inferno, in cui chiunque nutre nel cuore
sentimenti di umanità non potrà mai avere più ardente brama che di chiudere per
sempre le porte.
Formazione
di un organo comune
per il mantenimento della pace
Le
risoluzioni finora note delle Commissioni internazionali permettono di
concludere che un punto essenziale d'ogni futuro assetto mondiale sarebbe la
formazione di un organo per il mantenimento della pace, organo investito per
comune consenso di suprema autorità., e il cui ufficio dovrebbe essere anche
quello di soffocare in germe qualsiasi minaccia di aggressione isolata o
collettiva. Nessuno potrebbe salutare questa evoluzione con maggior gaudio di
chi già da lungo tempo ha difeso il principio che la teoria della guerra, come
mezzo adatto e proporzionato per risolvere i conflitti internazionali, è ormai
sorpassata. Nessuno potrebbe augurare a questa comune collaborazione, da
attuare con una serietà d'intenti prima non conosciuta, pieno e felice successo
con maggior ardore di chi si è coscienziosamente adoperato per condurre la
mentalità cristiana e religiosa a riprovare la guerra moderna coi suoi
mostruosi mezzi di lotta.
Mostruosi
mezzi di lotta! Senza dubbio il progresso delle umane invenzioni, che doveva
segnare l'avveramento di un maggiore benessere per tutta l'umanità, è stato
invece volto a distruggere ciò che i secoli avevano edificato. Ma con ciò
stesso, si è resa sempre più evidente l'immoralità di quella guerra di
aggressione. E se ora al riconoscimento di questa immoralità si aggiungerà la
minaccia di un intervento giuridico delle Nazioni e di un castigo inflitto
all'aggressore dalla società degli Stati, cosicché la guerra si senta sempre
sotto il colpo della proscrizione, sempre sorvegliata da un'azione preventiva;
allora l'umanità, uscendo dalla notte oscura in cui è stata per tanto tempo
sommersa, potrà salutare l'aurora di una nuova e migliore epoca della sua
storia.
Suo
statuto escludente ogni ingiusta imposizione
A
una condizione però : e cioè che l'organizzazione della pace, cui le mutue
garanzie, e ove occorre le sanzioni economiche e perfino l'intervento armato
dovrebbero dare vigore e stabilità, non consacri definitivamente alcuna
ingiustizia, non comporti alcuna lesione di alcun diritto a detrimento di alcun
popolo (sia che appartenga al gruppo dei vincitori, o dei vinti o dei
neutrali), non perpetui alcuna imposizione o gravezza, che può essere permessa
soltanto temporaneamente come riparazione dei danni di guerra.
Che
alcuni popoli, ai cui governi — o forse anche in parte a loro stessi — si
attribuisce la responsabilità della guerra, abbiano a sopportare per qualche
tempo i rigori dei provvedimenti di sicurezza, fino a quando i vincoli di mutua
fiducia violentemente infranti non siano a poco a poco riannodati, cosa, per
quanto gravosa, altrettanto difficilmente evitabile. Nondimeno, questi stessi
popoli dovranno avere anch'essi la ben fondata speranza — nella misura della
loro leale ed effettiva cooperazione agli sforzi per la futura restaurazione —
di poter essere, insieme con gli altri Stati e con la medesima considerazione e
i medesimi diritti, associati alla grande comunità delle nazioni. Rifiutare
loro questa speranza sarebbe il contrario di una previdente saggezza, sarebbe
assumere la grave responsabilità di sbarrare il sentiero ad una liberazione
generale da tutte le disastrose conseguenze materiali, morali, politiche del
gigantesco cataclisma, che ha scosso fin nelle ultime profondità la povera
famiglia umana, ma che le ha al tempo stesso additata la via verso nuove mète.
Le
austere lezioni del dolore
Noi
non vogliamo rinunziare alla fiducia che i popoli, i quali tutti sono passati
per la scuola del dolore, avranno saputo ritenerne le austere lezioni. E in
questa speranza Ci confortano le parole di uomini che hanno maggiormente
provato le sofferenze della guerra e hanno trovato accenti generosi, per
esprimere, insieme con l'affermazione delle proprie esigenze di sicurezza
contro ogni futura aggressione, il loro rispetto dei diritti vitali degli altri
popoli e la loro avversione contro ogni usurpazione dei diritti medesimi.
Sarebbe vano l'attendere che questo saggio giudizio, dettato dall'esperienza
della storia e da un alto senso politico, venga — mentre gli animi sono ancora
incandescenti — generalmente accettato dalla pubblica opinione, od anche
soltanto dalla maggioranza. L'odio, l'incapacità di comprendersi vicendevolmente,
ha fatto sorgere, tra i popoli che hanno combattuto gli uni contro gli altri,
una nebbia troppo densa da poter sperare che l'ora sia già venuta in cui un
fascio di luce spunti a rischiarare il tragico panorama ai due lati dell'oscura
muraglia. Ma una cosa sappiamo: ed è che il momento verrà, forse prima che non
si pensi, quando gli uni e gli altri riconosceranno come, tutto considerato,
non vi è che una via per uscire dall'irretimento, in cui la lotta e l'odio
hanno avvolto il mondo, vale a dire il ritorno a una solidarietà da troppo
tempo dimenticata, solidarietà non ristretta a questi o a quei popoli, ma
universale, fondata sulla intima connessione delle loro sorti e sui diritti in
egual modo loro spettanti.
La
punizione dei delitti
Nessuno
certamente pensa di disarmare la giustizia nei riguardi di chi ha profittato
della guerra per commettere veri e provati delitti di diritto comune, ai quali
le supposte necessità militari potevano al più offrire un pretesto, non mai una
giustificazione. Ma se essa presumesse di giudicare e punire, non più singoli
individui, bensì collettivamente intere comunità, chi potrebbe non vedere in
simile procedimento una violazione delle norme, che presiedono a qualsiasi
giudizio umano?
IV.
LA CHIESA TUTRICE DELLA VERA DIGNITÀ
E LIBERTÀ UMANA
In
un tempo in cui i popoli si trovano di fronte a doveri, quali forse non hanno
mai incontrato in alcuna svolta della loro storia, essi sentono fervere nei
loro cuori tormentati il desiderio impaziente e come innato di prendere le redini
del proprio destino con maggiore autonomia che nel passato, sperando che così
riuscirà loro più agevole di difendersi contro le periodiche irruzioni dello
spirito di violenza, che, come un torrente di lava infocata, nulla risparmia di
quanto ad essi caro e sacro.
Grazie
a Dio, si possono credere tramontati i tempi, in cui il richiamo ai principi
morali ed evangelici per la vita degli Stati e dei popoli era sdegnosamente
escluso come irreale. Gli avvenimenti di questi anni di guerra si sono
incaricati di confutare, nel modo più duro che si sarebbe mai potuto pensare, i
propagatori di simili dottrine. Lo sdegno da essi ostentato contro quel preteso
irrealismo si è tramutato in una spaventevole realtà : brutalità, iniquità,
distruzione, annientamento.
Se l'avvenire
apparterrà alla democrazia, una parte essenziale nel suo compimento dovrà
toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa, messaggera della parola del
Redentore e continuatrice della sua missione di salvezza. Essa infatti insegna
e difende le verità, comunica le forze soprannaturali della grazia, per attuare
l'ordine stabilito da Dio degli esseri e dei fini, ultimo fondamento e norma
direttiva di ogni democrazia.
Con
la sua stessa esistenza la Chiesa si erge di fronte al mondo, faro splendente
che ricorda costantemente quest'ordine divino. La sua storia riflette
chiaramente la sua missione provvidenziale. Le lotte che, costretta dall'abuso
della forza, ha dovuto sostenere per la difesa della libertà ricevuta da Dio,
furono, al tempo stesso, lotte per la vera libertà dell'uomo.
La
Chiesa ha la missione di annunziare al mondo, bramoso di migliori e più
perfette forme di democrazia, il messaggio più alto e più necessario che possa
esservi : la dignità dell'uomo, la vocazione alla figliolanza di Dio. È il potente
grido che dalla culla di Betlemme risuona fino agli estremi confini della terra
agli orecchi degli uomini, in un tempo in cui questa dignità è più
dolorosamente abbassata.
Il
mistero del Santo Natale proclama questa inviolabile dignità umana con un
vigore e con un'autorità inappellabile, che trascende infinitamente quella, cui
potrebbero giungere tutte le possibili dichiarazioni dei diritti dell'uomo.
Natale, la grande festa del Figlio di Dio apparso nella carne, la festa in cui
il cielo si china verso la terra con una ineffabile grazia e benevolenza, anche
il giorno in cui la cristianità e la umanità, dinanzi al Presepe, nella
contemplazione della « benignitas et humanitas Salvatoris nostri Dei »,
divengono più intimamente consapevoli della stretta unità che Iddio ha
stabilita tra di loro. La culla del Salvatore del mondo, del Restauratore della
dignità umana in tutta la sua pienezza, è il punto contrassegnato dalla
alleanza tra tutti gli uomini di buona volontà. Là al povero mondo, lacerato
dalle discordie, diviso dagli egoismi, avvelenato dagli odi, verrà concessa la
luce, restituito l'amore e sarà dato d'incamminarsi, in cordiale armonia, verso
lo scopo comune, per trovare finalmente la guarigione delle sue ferite nella
pace di Cristo.
V.
CROCIATA DI CARITÀ
Non
vogliamo chiudere questo Nostro Messaggio natalizio senza rivolgere una
commossa parola di gratitudine a tutti coloro — Stati, Governi, Vescovi, popoli
—, che in questi tempi di inenarrabili sciagure Ci hanno prestato valido aiuto
nel dare ascolto al grido di dolore, che Ci giunge da tante parti del mondo, e
nel porgere la Nostra soccorrevole mano a tanti diletti figli e figlie, che le
vicende della guerra hanno ridotto all'estrema povertà e miseria.
Ed
in primo luogo giusto ricordare la vasta opera di assistenza svolta, nonostante
le straordinarie difficoltà dei trasporti, dagli Stati Uniti d'America e, per
ciò che riguarda particolarmente l'Italia, dall'Eccm-o Rappresentante
personale del Signor Presidente di quell'Unione presso di Noi.
Né
minor lode e riconoscenza Ci è grato di esprimere alla generosità del Capo
dello Stato, del Governo e del popolo Spagnuolo, del Governo Irlandese,
dell'Argentina, dell'Australia, della Bolivia, del. Brasile, del Canadà, del
Cile, dell'Italia, della Lituania, del Perù, della Polonia, della Romania,
della Slovacchia, della Svizzera, dell'Ungheria, dell'Uruguay, che hanno
gareggiato in nobile sentimento di fratellanza e di carità, la cui eco non
risonerà invano nel mondo.
Mentre
gli uomini di buona volontà si studiano di gettare un ponte spirituale di
unione tra i popoli, questa pura e disinteressata azione di bene assume un
aspetto e un valore di singolare importanza.
Allorché
— come tutti ci auguriamo — le dissonanze dell'odio e della discordia, che
dominano l'ora presente, non saranno più che un triste ricordo, matureranno con
ancor più larga abbondanza i frutti di questa vittoria dell'attuoso e magnanimo
amore sul veleno dell'egoismo e delle inimicizie.
A
quanti hanno partecipato a questa Crociata di carità, sia sprone e ricompensa
la Nostra Apostolica Benedizione e il pensiero che nella festa dell'amore da
innumerevoli cuori angosciati, ma nella loro angustia non immemori, sale al
Cielo per loro la riconoscente preghiera: Retribuere di gnare, Domine,
omnibus nobis bona facientibus propter nomen tuum, vitam aeternam!
*Discorsi
e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, VI,
Quinto anno di Pontificato, 2 marzo l944 - l° marzo l945, pp. 235-25l
Tipografia Poliglotta Vaticana
**************************************
1945
9 maggio 1945
Radiomessaggio del papa Eugenio
Pacelli, regnante in religione come Pio 12°, «Ecco alfine terminata», in
occasione della fine in Europa della Seconda guerra mondiale
ECCO ALFINE TERMINATA questa guerra che, durante quasi sei anni, ha tenuto
l'Europa nella stretta delle più atroci sofferenze e delle più amare tristezze.
Un grido di riconoscenza umile e ardente sgorga dal più profondo del Nostro
cuore verso «il Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione» (2Cor
1,3). Ma il Nostro cantico di azioni di grazia si accompagna con una preghiera
supplichevole per implorare dalla onnipotenza e dalla bontà divina il termine,
secondo giustizia, delle lotte sanguinose anche nell'Estremo Oriente.
Inginocchiati
in spirito dinanzi alle tombe, ai burroni sconvolti e rossi di sangue, ove
riposano le innumerevoli spoglie di coloro che son caduti vittime dei
combattimenti o dei massacri disumani, della fame o della miseria, Noi li
raccomandiamo tutti nelle Nostre preghiere e specialmente nella celebrazione
del Santo Sacrificio, al misericordioso amore di Gesù Cristo, loro Salvatore e
loro Giudice. E Ci sembra che essi, i caduti, ammoniscano i superstiti
dell'immane flagello e dicano loro: Sorgano dalle nostre ossa e dai nostri
sepolcri e dalla terra, ove siamo stati gettati come grani di frumento, i
plasmatori e gli artefici di una nuova e migliore Europa, di un nuovo e
migliore universo, fondato sul timore filiale di Dio, sulla fedeltà ai suoi
santi comandamenti, sul rispetto della dignità umana, sul principio sacro della
uguaglianza dei diritti per tutti i popoli e tutti gli Stati, grandi e piccoli,
deboli e forti.
La
guerra ha accumulato tutto un caos di rovine, rovine materiali e rovine morali,
come mai il genere umano non ne ha conosciute nel corso di tutta la sua storia.
Si tratta ora di riedificare il mondo. Come primo elemento di questa
restaurazione, Noi bramiamo di vedere, dopo una così lunga attesa, il ritorno
pronto e rapido, per quanto le circostanze lo permettono, dei prigionieri,
degl'internati, combattenti e civili, ai loro domestici focolari, verso le loro
spose, verso i loro figli, verso i loro nobili lavori di pace.
A
tutti poi Noi diciamo: Non lasciate piegare la vostra energia né abbattersi il
vostro coraggio; dedicatevi ardentemente all'opera di ricostruzione, sostenuti
da una robusta fede nella Provvidenza divina. Mettetevi al lavoro, ognuno al
suo posto, risoluto e tenace, col cuore animato da un generoso, indistruttibile
amore del prossimo. È ardua, certamente, ma è pur santa la impresa che vi
attende per riparare gl'immediati e disastrosi effetti della guerra: vogliamo
dire il disfacimento dei pubblici ordinamenti, la miseria e la fame, il
rilasciamento e l'imbarbarimento dei costumi, l'indisciplinatezza della gioventù.
In tal guisa, a poco a poco, voi preparerete alle vostre città e ai vostri
villaggi, alle vostre provihce e alle patrie vostre, una sorte più accettevole
e il vigore di un sangue rinnovato.
Fugata
dalla terra, dal mare, dal cielo la morte insidiatrice, assicurata ormai
dall'offesa delle armi la vita degli uomini, creature di Dio, e quanto ad essi
rimane dei privati e dei comuni averi, gli uomini possono ormai aprire la mente
e l'animo alla edificazione della pace.
Se
noi ci restringiamo a considerare l'Europa, ci troviamo già dinanzi a problemi
e a difficoltà gigantesche, di cui bisogna trionfare, se si vuole spianare il
cammino a una pace vera, la sola che possa essere duratura. Essa non può
infatti fiorire e prosperare se non in una atmosfera di sicura giustizia e di
lealtà perfetta, congiunte con reciproca fiducia, comprensione e benevolenza.
La guerra ha suscitato dappertutto discordia, diffidenza ed odio. Se dunque il
mondo vuol ricuperare la pace, occorre che spariscano la menzogna e il rancore
e in luogo loro dominino sovrane la verità e la carità.
Innanzi
tutto pertanto supplichiamo istantemente nelle nostre preghiere quotidiane il
Dio d'amore di adempire la sua promessa fatta per bocca del profeta
Ezechiele:.«Io darò loro un cuore unanime, un nuovo spirito infonderò nel loro
interno, e strapperò dalle loro viscere il cuore di sasso e vi sostituirò un
cuore di carne, affinché camminino sulla via dei miei precetti e osservino i
miei giudizi e li mettano in pratica, ed essi siano il mio popolo e io sia il
loro Dio» (Ez 11,19-20). Che il Signore si degni di destare questo spirito
nuovo, il suo spirito, nei popoli e particolarmente nel cuore di coloro, cui è
affidata la cura di ristabilire la futura pace! Allora, e allora soltanto, il
mondo risuscitato eviterà il ritorno del tremendo flagello e regnerà la vera,
stabile e universale fratellanza e quella pace garantita da Cristo anche in
terra a chi nella sua legge d'amore vorrà credere e sperare.
(1) PIO PP. XII,
Radiomessaggio Ecco alfine terminata per la fine della guerra
in Europa, [A tutto il mondo], 9 maggio 1945: AAS 37(1945),
pp. 129-131.
2 giugno 1945
Discorso
del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12°,
«Nell’accogliere», ai Cardinali che gli avevano presentato gli auguri per la
festa di Sant’Eugenio
Agli Eminentissimi
Cardinali che hanno presentato gli auguri al Beatissimo Padre in occasione
della festa di Sant’Eugenio.
Nell’accogliere,
Venerabili Fratelli, con viva gratitudine gli auguri che a nome di voi tutti il
venerando e amatissimo Decano del S. Collegio Ci ha offerti, il Nostro pensiero
Ci riporta a ben sei anni addietro, allorché, in questa medesima ricorrenza, Ci
presentavate i vostri voti onomastici, la prima volta dopo la elevazione della
Nostra indegna persona alla Cattedra di Pietro.
Il mondo allora era
ancora in pace: ma quale pace! e quanto precaria! Col cuore pieno di angoscia,
nella perplessità e nella preghiera, Noi Ci chinavamo su questa pace, come chi
si china al capezzale d’un agonizzante e con ardente amore si ostina a
contenderlo, pur contro ogni speranza, alle strette della morte.
Nelle parole, che allora
vi rivolgemmo, traspariva la Nostra dolorosa apprensione per lo scatenarsi di
un conflitto, che sembrava farsi sempre più minaccioso, e di cui nessuno
avrebbe potuto prevedere né l’estensione né la durata.
Il successivo svolgersi
degli avvenimenti non soltanto dimostrò fin troppo vere le Nostre previsioni
più tristi, ma le ha anzi di gran lunga superate.
Oggi, dopo circa sei
anni, le lotte fratricide sono cessate, in una parte almeno di questo mondo
devastato dalla guerra. È una pace — se pure tale può chiamarsi — ben fragile
ancora, e che non potrà persistere e consolidarsi se non a prezzo di assidue
cure; una pace, la cui tutela impone a tutta la Chiesa, al Pastore e al gregge,
gravi e delicatissimi doveri: paziente prudenza, coraggiosa fedeltà, spirito di
sacrificio! Tutti son chiamati a consacrarvisi, ciascuno nel suo ufficio e al
proprio posto. Nessuno potrà mai apportarvi troppa premura né troppo zelo.
Quanto a Noi e al Nostro
Apostolico Ministero, ben sappiamo, Venerabili Fratelli, di poter fare sicuro
assegnamento sulla vostra sapiente collaborazione, sulle vostre incessanti
preghiere, sulla vostra inalterabile devozione.
I. LA CHIESA E IL
NAZIONALSOCIALISMO
In Europa, la guerra è
finita; ma quali stigmate vi ha impresse! Il divino Maestro aveva detto: «Tutti
quelli, che ingiustamente metteranno mano alla spada, di spada periranno »
(1). Ora, che cosa voi vedete?
Voi vedete ciò che
lascia dietro di sé una concezione e un’attività dello Stato, che non tiene in
nessun conto i sentimenti più sacri dell’umanità, che calpesta gli inviolabili
principi della fede cristiana. Il mondo intero, stupito, contempla oggi la
rovina che ne è derivata.
Questa rovina, Noi
l’avevamo veduta venir di lontano, e ben pochi, crediamo, hanno seguito con
maggior tensione dell’animo l’evolversi e il precipitarsi della inevitabile
caduta. Oltre dodici anni, tra i migliori della Nostra età matura, avevamo
vissuto, per dovere dell’ufficio commessoCi, in mezzo al popolo germanico. In
quel tempo, con la libertà che le condizioni politiche e sociali di allora
permettevano, Noi Ci adoperammo per il consolidamento dello stato della Chiesa
cattolica in Germania. Noi avemmo così occasione di conoscere le grandi qualità
di quel popolo e Ci trovammo in relazioni personali coi suoi migliori
rappresentanti. Perciò nutriamo fiducia che esso possa risollevarsi a nuova
dignità e a nuova vita, dopo aver respinto da sé lo spettro satanico esibito
dal nazionalsocialismo, e dopo che i colpevoli (come abbiamo già avuto
occasione di esporre altre volte) avranno espiato i delitti da loro commessi.
Fin a quando non si era
ancora perduto ogni barlume di speranza che quel movimento potesse prendere un
diverso e men pernicioso indirizzo, sia per la resipiscenza dei suoi membri più
moderati, sia per una efficace opposizione della parte non consenziente del
popolo tedesco, la Chiesa fece quanto era in suo potere, per contrapporre una
potente diga al dilagare di quelle dottrine non meno deleterie che violente.
Nella primavera del
1933, il Governo germanico sollecitò la Santa Sede a concludere un Concordato
col Reich: pensiero che incontrò il consenso anche dell’Episcopato e almeno
della più gran parte dei cattolici tedeschi. Infatti, né i Concordati già
conclusi con alcuni Stati particolari della Germania (Länder), né la Costituzione
di Weimar sembravano loro assicurare e garantire sufficientemente il rispetto
delle loro convinzioni, della loro fede, dei loro diritti e della loro libertà
d’azione. In tali condizioni, queste garanzie non potevano essere ottenute che
mediante un accordo, nella forma solenne di un Concordato, col Governo centrale
del Reich. Si aggiunga che, avendone questo fatta la proposta, sarebbe
ricaduta, in caso di rifiuto, sulla Santa Sede la responsabilità di ogni
dolorosa conseguenza.
Non già che la Chiesa,
dal canto suo, si lasciasse illudere da eccessive speranze, né che con la
conclusione del Concordato intendesse in qualsiasi modo di approvare la
dottrina e le tendenze del nazionalsocialismo, come fu allora espressamente
dichiarato e spiegato (2). Tuttavia bisogna riconoscere che il Concordato negli
anni seguenti procurò qualche vantaggio, o almeno impedì mali maggiori.
Infatti, nonostante tutte le violazioni di cui divenne ben presto l’oggetto,
esso lasciava ai cattolici una base giuridica di difesa, un campo sul quale
trincerarsi per continuare ad affrontare, fino a quando fosse loro possibile,
il flutto sempre crescente della persecuzione religiosa.
Invero la lotta contro
la Chiesa si andava sempre più inasprendo: era la distruzione delle
organizzazioni cattoliche; era la soppressione progressiva delle così fiorenti
scuole cattoliche, pubbliche e private; era la separazione forzata della
gioventù dalla famiglia e dalla Chiesa; era l’oppressione esercitata sulla
coscienza dei cittadini, particolarmente degli impiegati dello Stato; era la
denigrazione sistematica, mediante una propaganda scaltramente e rigorosamente
organizzata, della Chiesa, del Clero, dei fedeli, delle sue istituzioni, della
sua dottrina, della sua storia; era la chiusura, lo scioglimento, la confisca
di case religiose e di altri istituti ecclesiastici; era l’annientamento della
stampa e della produzione libraria cattolica.
Per resistere a questi
attacchi, milioni di valorosi cattolici, uomini e donne, si stringevano intorno
ai loro Vescovi, la cui voce coraggiosa e severa non mancò mai di risuonare
fino a questi ultimi anni di guerra; intorno ai loro sacerdoti, per aiutarli ad
adattare incessantemente il loro apostolato alle mutate necessità e
circostanze; e fino all’ultimo, con pazienza e fermezza, essi opposero al
fronte dell’empietà e dell’orgoglio il fronte della fede, della preghiera,
della condotta e della educazione francamente cattolica.
Intanto, senza
esitazione, la stessa S. Sede moltiplicava presso i governanti in Germania le
sue premure e le sue proteste, richiamandoli, con energia e chiarezza, al
rispetto e all’osservanza dei doveri derivanti dallo stesso diritto di natura e
confermati nel patto concordatario. In quei critici anni, associando
all’attenta vigilanza del Pastore la paziente longanimità del Padre, il Nostro
grande Predecessore Pio XI compì con intrepida fortezza la sua missione di
Pontefice supremo.
Allorché, però, tentate
invano tutte le vie della persuasione, egli si vide con ogni evidenza di fronte
alle deliberate violazioni di un patto solenne e a una persecuzione religiosa,
dissimulata o manifesta, ma sempre duramente condotta, la domenica di Passione
del 1937, nella sua Enciclica « Mit brennender Sorge » [=Con viva ansia], egli svelò agli sguardi del
mondo quel che il nazionalsocialismo era in realtà: l’apostasia orgogliosa da
Gesù Cristo, la negazione della sua dottrina e della sua opera redentrice, il
culto della forza, l’idolatria della razza e del sangue, l’oppressione della
libertà e della dignità umana.
* * *
Come uno squillo di
tromba che dà l’allarme, il Documento pontificio, vigoroso — troppo vigoroso,
pensava già più di uno — fece sussultare gli spiriti e i cuori.
Molti — anche fuori dei
confini della Germania, — che fino allora avevano chiuso gli occhi dinanzi alla
incompatibilità della concezione nazionalsocialista con la dottrina cristiana,
dovettero riconoscere e confessare il loro errore.
Molti, ma non tutti!
Altri, nelle file stesse dei fedeli, erano fin troppo accecati dai loro
pregiudizi o sedotti dalla speranza di vantaggi politici. L’evidenza dei fatti
segnalati dal Nostro Predecessore non riuscì a convincerli, meno ancora ad indurli
a modificare la loro condotta. È forse una mera coincidenza che alcune regioni,
più duramente poi colpite dal sistema nazionalsocialista, furono precisamente
quelle ove l’Enciclica « Mit brennender Sorge » era stata meno o
per nulla ascoltata?
Sarebbe stato
forse allora possibile, con opportune e tempestive provvidenze politiche, di
frenare una volta per sempre lo scatenarsi della violenza brutale e di mettere
il popolo tedesco in condizione di svincolarsi dai tentacoli che lo
stringevano? Sarebbe stato possibile risparmiare in tal guisa all’Europa ed al
mondo l’invasione di questa immensa marea di sangue? Niuno oserebbe di dare un
sicuro giudizio. Ad ogni modo, però, niuno potrebbe rimproverare la Chiesa di
non avere denunziato e additato a tempo il vero carattere del movimento
nazionalsocialista e il pericolo a cui esso esponeva la civiltà cristiana.
« Chi eleva la
razza, o il popolo, o lo Stato o una sua determinata forma, i rappresentanti
del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana … a
suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e li divinizza con culto
idolatrico, perverte e falsa l’ordine delle cose create e voluto da Dio »
(3).
In questa proposizione
dell’Enciclica si assomma la radicale opposizione tra lo Stato
nazionalsocialista e la Chiesa cattolica. Giunte le cose a tal punto, la Chiesa
non poteva più, senza venir meno alla sua missione, rinunziare a prender
posizione dinanzi a tutto il mondo. Con questo atto, però, essa diveniva ancora
una volta un « segno di contraddizione » (4) dinanzi al quale
gli spiriti contrastanti si venivano a dividere in due opposte schiere.
I cattolici tedeschi furono,
si può dire, concordi nel riconoscere che l’Enciclica « Mit brennender Sorge » aveva arrecato
luce, direzione, consolazione, conforto a tutti quelli che consideravano
seriamente e praticavano coerentemente la religione di Cristo. Non poteva,
però, mancare la reazione da parte di coloro che erano stati colpiti; e di
fatto proprio il 1937 fu per la Chiesa cattolica in Germania un anno
d’indicibili amarezze e di terribili procelle.
I grandi avvenimenti
politici, che contrassegnarono i due anni seguenti, e poi la guerra non
attenuarono in alcun modo l’ostilità del nazionalsocialismo contro la Chiesa,
ostilità che si manifestò fino a questi ultimi mesi, quando i suoi seguaci si
lusingavano ancora di potere, non appena riportata la vittoria militare,
finirla per sempre con la Chiesa. Testimonianze autorevoli ed ineccepibili Ci
tenevano informati di questi disegni, i quali, del resto, si svelavano da se
stessi con le reiterate e sempre più avverse azioni contro la Chiesa cattolica
in Austria, nell’Alsazia-Lorena e soprattutto in quelle regioni della Polonia,
che già durante la guerra erano state incorporate all’antico Reich: tutto fu ivi
colpito, annientato, tutto quello, cioè, che dalla violenza esterna poteva
essere raggiunto.
Continuando l’opera del
Nostro Predecessore, Noi stessi durante la guerra non abbiamo cessato,
specialmente nei Nostri Messaggi, di contrapporre alle rovinose e inesorabili
applicazioni della dottrina nazionalsocialista, che giungevano fino a valersi
dei più raffinati metodi scientifici per torturare o sopprimere persone spesso
innocenti, le esigenze e le norme indefettibili della umanità e della fede
cristiana. Era questa per Noi la più opportuna e potremmo anzi dire l’unica via
efficace per proclamare in cospetto del mondo gl’immutabili princìpi della
legge morale e per confermare, in mezzo a tanti errori e a tante violenze, le
menti e i cuori dei cattolici tedeschi negli ideali superiori della verità e
della giustizia. Né tali sollecitudini rimasero senza effetto. Sappiamo
infatti, che i Nostri Messaggi, massime quello Natalizio del 1942, nonostante
ogni proibizione ed ostacolo, furono fatti oggetto di studio nelle Conferenze
diocesane del Clero in Germania, e poi esposti, e spiegati al popolo cattolico.
Ma se i reggitori della
Germania avevano deliberato di distruggere la Chiesa cattolica anche
nell’antico Reich, la Provvidenza aveva disposto altrimenti. Le tribolazioni
della Chiesa da parte del nazionalsocialismo hanno avuto termine con la
repentina e tragica fine del persecutore!
Dalle prigioni, dai
campi di concentramento, dagli ergastoli affluiscono ora, accanto ai detenuti
politici, anche le falangi di coloro, sia del Clero che del laicato, il cui
unico delitto era stato la fedeltà a Cristo e alla fede dei Padri o la
coraggiosa osservanza dei doveri sacerdotali. Per tutti loro Noi abbiamo
ardentemente pregato e Ci siamo studiati con ogni industria, ogniqualvolta è
stato possibile, di far loro pervenire la Nostra parola confortatrice e le
benedizioni del Nostro cuore paterno.
Quanto più infatti si
alzano i veli, che nascondevano finora la dolorosa passione della Chiesa sotto
il regime nazionalsocialista, tanto più si palesa la fermezza, incrollabile
spesso fino alla morte, d’innumerevoli cattolici e la parte gloriosa che in
tale nobile agone ha avuto il Clero. Pur non essendo ancora in possesso di
completi dati statistici, non possiamo tuttavia astenerCi dal menzionare qui,
come esempio, qualcuna almeno delle copiose notizie pervenuteCi da sacerdoti e
da laici che, internati nel campo di Dachau, furono fatti degni di patir
contumelia per il nome di Gesù (5).
In prima linea, per il
numero e per la durezza del trattamento sofferto, si trovavano i sacerdoti
polacchi. Dal 1940 al 1945 furono imprigionati nel campo medesimo 2800
ecclesiastici e religiosi di quella Nazione, fra i quali il Vescovo ausiliare
di Wladislavia, che vi morì di tifo. Nell’aprile scorso ve ne erano rimasti
soltanto 816, essendo tutti gli altri morti, ad eccezione di due o tre
trasferiti in altro campo. Nell’estate del 1942 furono segnalati come colà
raccolti 480 ministri del culto, di lingua tedesca, di cui 45 protestanti e
tutti gli altri sacerdoti cattolici. Nonostante il continuo affluire di nuovi
internati, specialmente da alcune diocesi della Baviera, della Renania e della
Westfalia il loro numero, a causa della forte mortalità, al principio di
quest’anno, non superava i 350. Né sono da passare sotto silenzio quelli
appartenenti ai territori occupati: Olanda, Belgio, Francia (tra i quali il
Vescovo di Clermont), Lussemburgo, Slovenia, Italia. Indicibili patimenti molti
di quei sacerdoti e di quei laici hanno sopportato per motivo della loro fede e
della loro vocazione. In un caso l’odio degli empi contro Cristo giunse a tal
segno da parodiare, in un sacerdote internato, con fili di ferro spinati la
flagellazione e la coronazione di spine del Redentore.
Le vittime generose, che
durante dodici anni, dal 1933, in Germania hanno fatto a Cristo e alla sua
Chiesa il sacrificio dei propri beni, della propria libertà, della propria
vita, innalzano a Dio le loro mani in oblazione espiatoria. Possa il giusto
Giudice accettarla in riparazione di tanti delitti commessi contro la umanità,
non meno che a danno del presente e dell’avvenire del proprio popolo,
specialmente della infelice gioventù, e abbassare finalmente il braccio del suo
Angelo sterminatore.
Con una insistenza
sempre crescente il nazionalsocialismo ha voluto denunziare la Chiesa come
nemica del popolo germanico. L’ingiustizia manifesta dell’accusa avrebbe ferito
nel più vivo i sentimenti dei cattolici tedeschi e i Nostri propri, se fosse
uscita da altre labbra; ma su quelle di tali accusatori, lungi dall’essere un
aggravio, è la testimonianza più fulgida e più onorevole dell’opposizione
ferma, costante sostenuta dalla Chiesa contro dottrine e metodi così deleteri,
per il bene della vera civiltà e dello stesso popolo tedesco, cui auguriamo
che, liberato dall’errore che l’ha precipitato nell’abisso, possa ritrovare la
sua salvezza alle pure sorgenti della vera pace e della vera felicità, alle
sorgenti della verità, della umiltà, della carità, sgorgate con la Chiesa dal
Cuore di Cristo.
II. SGUARDI VERSO L’AVVENIRE
Dura lezione quella
degli ultimi anni! Che almeno essa sia compresa e riesca proficua alle altre
Nazioni! «Erudimini, qui gubernatis terram! » (6). Questo è il voto
più ardente di chiunque ami sinceramente l’umanità. Vittima di un empio logorio,
di un cinico disprezzo della vita e dei diritti dell’uomo, essa non ha che un
solo desiderio, non aspira che a una cosa sola: condurre una vita tranquilla e
pacifica nella dignità e nell’onesto lavoro.
E per questo essa brama
che si ponga termine alla sfrontatezza, con cui la famiglia e il focolare
domestico negli anni della guerra sono stati malmenati e profanati;
sfrontatezza che grida al cielo e si è tramutata in uno dei più gravi pericoli
non soltanto per la religione e la morale, ma anche per la ordinata convivenza
umana; mancanza che ha soprattutto creato le moltitudini dei dissestati, dei
delusi, dei desolati senza speranza, i quali vanno ad ingrossare le masse della
rivoluzione e del disordine, assoldate da una tirannide non meno dispotica di quelle
che si sono volute abbattere.
Le Nazioni, segnatamente
quelle medie e piccole, reclamano che sia loro dato di prendere in mano i
propri destini. Esse possono essere condotte a contrarre, con loro pieno
gradimento, nell’interesse del progresso comune, vincoli che modifichino i loro
diritti sovrani. Ma dopo aver sostenuto la loro parte, la loro larga parte, di
sacrifici per distruggere il sistema della violenza brutale, esse sono in
diritto di non accettare ché venga loro imposto un nuovo sistema politico o
culturale, che la grande maggioranza delle loro popolazioni recisamente
respinge.
Esse ritengono, e con
ragione, che ufficio principale degli organizzatori della pace è di porre un
termine al giuoco criminale della guerra, e di tutelare i diritti vitali e i
reciproci doveri tra grandi e piccoli, potenti e deboli.
Nel fondo della loro
coscienza i popoli sentono che i loro reggitori si screditerebbero, se al folle
delirio di una egemonia della forza non facessero seguire la vittoria del
diritto. Il pensiero di una nuova organizzazione della pace è scaturito —
nessuno potrebbe dubitarne — dal più retto e leale volere. Tutta l’umanità
segue con ansia il progresso di così nobile impresa. Quale amara delusione
sarebbe, se essa venisse a fallire, se fossero resi vani tanti anni di
sofferenze e di rinunzie, lasciando nuovamente trionfare quello spirito di
oppressione, dal quale il mondo sperava di vedersi finalmente liberato per
sempre! Povero mondo, al quale si potrebbe allora applicare la parola di Gesù:
che la sua nuova condizione è divenuta peggiore di quella da cui era così
penosamente uscito (7)!
Le condizioni politiche
e sociali Ci mettono sul labbro queste parole ammonitrici. Purtroppo abbiamo
dovuto deplorare in più di una regione uccisioni di sacerdoti, deportazioni di
civili, eccidi di cittadini senza processo o per vendetta privata; né meno
tristi sono le notizie che Ci sono pervenute dalla Slovenia e dalla Croazia.
Ma non vogliamo perderci
di animo. I discorsi pronunziati da uomini competenti e responsabili nel corso
di queste ultime settimane lasciano comprendere che essi hanno in vista la
vittoria del diritto, non solo come scopo politico, ma anche più come dovere
morale.
Perciò Noi rivolgiamo di
gran cuore ai Nostri figli e alle Nostre figlie dell’intero universo un caldo
invito alla preghiera: che esso pervenga all’orecchio di quanti riconoscono in
Dio il Padre amantissimo di tutti gli uomini creati a sua immagine e
somiglianza, di quanti sanno che nel petto di Cristo pulsa un Cuore divino
ricco di misericordia, sorgente profonda ed inesauribile di ogni bene e di ogni
amore, di ogni pace e di ogni riconciliazione.
Dalla tregua delle armi
alla pace vera e sincera, come or non è molto ammonivamo, il cammino sarà arduo
e lungo, troppo lungo per le ansiose aspirazioni di una umanità affamata di
ordine e di calma. Ma è inevitabile che così sia. E forse è anche meglio.
Occorre prima lasciar sedare la bufera delle passioni sovreccitate: « motos
praestat componere fluctus » (8). È necessario che l’odio, la diffidenza,
gl’incentivi di un nazionalismo estremo cedano il posto alla concezione di
saggi consigli, al germogliare di pacifici disegni, alla serenità nello scambio
di vedute e alla mutua comprensione fraterna.
Si degni lo Spirito
Santo, luce delle intelligenze, Signore soave dei cuori, di esaudire le
preghiere della sua Chiesa e di guidare nel loro arduo lavoro quelli che,
secondo la loro alta missione, si sforzano sinceramente, nonostante gli
ostacoli e le contraddizioni, di giungere al termine, così universalmente, così
ardentemente bramato: la pace, la vera pace degna di tal nome. Una pace fondata
e confermata nella sincerità e nella lealtà, nella giustizia e nella realtà;
una pace di leale e risoluto sforzo per vincere o prevenire quelle condizioni
economiche e sociali, le quali potrebbero, come già in passato, così anche
nell’avvenire, facilmente condurre a nuovi conflitti armati; una pace che possa
essere approvata da tutti gli animi retti di ogni popolo e di ogni Nazione; una
pace che le generazioni future possano considerare con riconoscenza come il
frutto felice di un tempo infelice; una pace che segni nei secoli una svolta
risolutiva nell’affermazione della dignità umana e dell’ordine nella libertà;
una pace che sia come la Magna Charta, la quale ha chiuso l’era oscura della
violenza; una pace che, sotto la guida misericordiosa di Dio, ci faccia passare
attraverso la prosperità temporale, in modo da non perdere la felicità eterna
(9).
Ma prima di conseguire
questa pace, è pur vero che milioni di uomini, presso il focolare domestico o
nella guerra, nella prigionia o nell’esilio, devono ancora gustare l’amarezza
del calice. Quanto Ci tarda di vedere la fine delle loro sofferenze e delle
loro angosce, il compimento delle loro brame! Anche per loro, per tutta
l’umanità, che con loro ed in loro soffre, salga all’Onnipotente la nostra
umile e ardente preghiera.
Ci riesce intanto
d’immenso conforto, Venerabili Fratelli, il pensiero che voi partecipate alle
Nostre cure, alle Nostre preghiere, alle Nostre speranze, e che in tutto il
mondo Vescovi, Sacerdoti, fedeli associano le loro suppliche alle Nostre nella
grande voce della Chiesa universale. In attestato della Nostra profonda
gratitudine e come pegno delle infinite misericordie e dei favori divini, a
voi, a loro, a quanti sono a Noi congiunti nel desiderio e nella ricerca della
pace, impartiamo dal fondo del cuore la Nostra Apostolica Benedizione.
(1) Cf. Matth.,
26, 52.
(2) Cf. L’Osservatore
Romano, n. 174 del 2 luglio 1933.
(3) Acta
Apostolicae Sedis, tom. XXIX, 1937, pp. 149 e 171.
(4) Luc., 2,
34.
(5) Act., 5,
41.
(6) Ps. 2,
10.
(7) Cf. Luc., 11, 24-26.
(8) Verg., Aen.,
1, 135.
(9) Cf. Oratio Domin.
III post Pent.
24 dicembre 1945
Discorso del papa Eugenio Pacelli, regnante in
religione come Pio 12°, «Negli ultimi sei anni», diffuso in occasione della
Vigilia del Natale 1945
Negli
ultimi anni, noi tutti, Venerabili Fratelli e diletti figli, dovemmo
assaporare, in questa vigilia della Natività del Signore, l’amaro contrasto fra
i sentimenti di santa allegrezza, d’intima e fraterna unione nel servizio del
Signore, che la cara ricorrenza natalizia infonde negli animi, e i tristi
rancori e le brame di vendetta, imperanti nel mondo; tra i soavi accenti del Gloria
in excelsis Deo et in terra pax hominibus, e le voci discordanti di odio
nei fragori di una guerra fratricida; tra la dolce chiarezza di Betlemme e il
sinistro bagliore degli incendi; tra il soave splendore irraggiante dal volto
del celeste Infante, e il marchio di Caino, che rimarrà ancora a lungo impresso
sulla fronte del nostro secolo.
Così,
quale sospiro di sollievo uscì da tutti i nostri petti, alla notizia che il
sanguinoso conflitto aveva avuto fine, prima in Europa, poi nell’Asia! Quante
fervide suppliche erano in quei lunghi anni di lotta salite al trono
dell’Altissimo, affinché abbreviasse i giorni dell’afflizione e arrestasse la
mano degli angeli che portano le fiale dell’ira di Dio per i peccati del mondo!
Ora, per la prima volta, l’umana famiglia celebrerà di nuovo per misericordia
divina una festa natalizia, nella quale i terrori della guerra in terra, in mare
e soprattutto nell’aria non empiranno più tanti cuori di timore e di angoscia
mortale. Per questo mutamento delle cose siano da noi tutti rese umili grazie
all’Onnipotente Signore!
La
pace della terra? La vera pace? No, ma solamente il « dopo-guerra » espressione
dolorosa e fin troppo significativa! Quanto tempo sarà necessario per guarire
il malessere materiale e morale, quanti sforzi per cicatrizzare tante piaghe!
Ieri si sono seminate su territori immensi le distruzioni, le calamità, le
miserie; ed oggi che si tratta di ricostruire, gli uomini cominciano appena a
rendersi con- 39 to di quanta perspicacia e avvedutezza, di quanta rettitudine
e buona volontà vi sia bisogno per ricondurre il mondo dalle devastazioni e
dalle rovine fisiche e spirituali, al diritto, all’ordine e alla pace.
Così
anche questo Natale rimane un tempo di aspettazione, di speranza e di preghiera
al Figlio di Dio fatto uomo, affinché Egli, che è il « Rex pacificus,…
cuius vultum desiderat universa terra » (1), doni al mondo la sua pace.
[…]
LA SOPRANNAZIONALITÀ
DELLA CHIESA
La
Chiesa cattolica, di cui l’Urbe è il centro, è soprannazionale per la sua
stessa essenza. Ciò ha un duplice senso, uno negativo ed uno positivo. La
Chiesa è madre, Sancta Mater Ecclesia, una vera madre, la madre di
tutte le nazioni e di tutti i popoli, non meno che di tutti i singoli uomini, e
precisamente perché madre, non appartiene né può appartenere esclusivamente a
questo o a quel popolo, e neanche ad un popolo più e ad un altro meno, ma a
tutti egualmente. È madre, e quindi non è né può essere straniera in alcun
luogo; essa vive, o almeno per la sua natura deve vivere, in tutti i popoli.
Inoltre, mentre la madre, col suo sposo e i suoi figli, forma una famiglia, la
Chiesa, in virtù di una unione incomparabilmente più stretta, costituisce, più
e meglio che una famiglia, il corpo mistico di Cristo. La Chiesa è dunque
soprannazionale, perché è un tutto indivisibile e universale.
LA INDIVISIBILE
UNITÀ DELLA CHIESA
La
Chiesa è un tutto indivisibile, perché Cristo, con la sua Chiesa, è indiviso e
indivisibile. Cristo, come Capo della Chiesa, è, per adoperare un profondo
pensiero di S. Agostino (7), totus Christus, il Cristo intero.
Questa interezza di Cristo, secondo il S. Dottore, significa la indivisibile
unità del Capo e del corpo « in plenitudine Ecclesiae », in
quella pienezza di vita della Chiesa, che congiunge tutte le zone e tutti i
tempi della umanità redenta, senza eccezione
Saldamente
stabilita con sì profonda radice, la Chiesa, posta com’è nel mezzo di tutta la
storia del genere umano, nel campo agitato e sconvolto di energie divergenti e
di contrastanti tendenze, quantunque esposta a tutti gli assalti diretti contro
la sua indivisibile interezza, è così lontana dall’esserne scossa, che dalla
sua propria vita di interezza e di unità irradia e diffonde sempre nuove forze
sanatrici e unificatrici nella umanità lacerata e divisa, forze di unificante
grazia divina, forze dello Spirito unificante, di cui tutti sono affamati,
verità che sempre e dappertutto valgono, ideali che sempre e dappertutto
ardono.
Da
ciò apparisce che era ed è un sacrilego attentato contro il totus
Christus, il Cristo nella sua integrità, e in pari tempo un colpo nefasto
contro la unità del genere umano, ogniqualvolta si è tentato e si tenta di far
la Chiesa quasi prigioniera e schiava di questo o di quel popolo particolare,
di confinarla negli angusti limiti di una nazione, od anche di metterla al
bando. Tale smembramento della interezza della Chiesa ha sminuito e sminuisce —
tanto più, quanto più a lungo — nei popoli, che ne sono le vittime, il bene
della loro reale e piena vita.
Ma
l’individualismo nazionale e statale degli ultimi secoli non ha soltanto
cercato di vulnerare l’interezza della Chiesa, d’indebolire e di ostacolare le
sue forze unitrici e unificatrici, quelle forze che pure ebbero un tempo una
parte essenziale nella formazione dell’unità dell’Occidente europeo. Un vieto
liberalismo volle, senza e contro la Chiesa, creare la unità mediante la
cultura laica e un umanesimo secolarizzato. Qua e là, come frutto della sua
azione dissolvente e al tempo stesso come nemico, gli succedette il
totalitarismo. In una parola, quale fu dopo poco più di un secolo il risultato
di tutti quegli sforzi senza e spesso contro la Chiesa? La tomba della sana
libertà umana; le organizzazioni forzate; un mondo, che per brutalità e
barbarie, per istruzioni e rovine, soprattutto però per funesta disunione e per
mancanza di sicurezza, non aveva conosciuto l’eguale.
In
un tempo turbato, qual è ancora il nostro, la Chiesa, per il bene proprio e per
quello della umanità, deve fare del tutto per mettere in valore la sua
indivisibile e indivisa interezza. Essa ha da essere oggi più che mai
soprannazionale. Questo spirito deve penetrare e pervadere il suo Capo visibile,
il Sacro Collegio, tutta l’azione della Santa Sede, su cui specialmente ora
gravano importanti doveri riguardanti non solo il presente, ma anche più il
futuro.
Si
tratta qui principalmente di un fatto dello spirito, di avere il senso giusto
di questa soprannazionalità, e non di misurarla o determinarla secondo
proporzioni matematiche o su basi statistiche rigorose circa la nazionalità
delle singole persone. Nei lunghi periodi di tempo, in cui, per disposizione
della Provvidenza, la nazione italiana, più delle altre, ha dato alla Chiesa il
suo Capo e molti collaboratori al governo centrale della Santa Sede, la Chiesa
nel suo complesso ha sempre conservato intatto il suo carattere
soprannazionale. Che anzi non poche circostanze hanno contribuito, precisamente
per questa via, a preservarla da pericoli, che altrimenti avrebbero potuto
farsi più sensibili. Si pensi, per citare un esempio, alle lotte per la
egemonia degli Stati nazionali europei e delle grandi dinastie nei secoli
passati.
Anche
dopo la Conciliazione fra la Chiesa e lo Stato coi Patti Lateranensi, il clero
italiano, nel suo insieme, pur senza alcun pregiudizio del naturale e legittimo
amore di patria, ha continuato ad essere un fedele sostegno e un patrocinatore
della soprannazionalità della Chiesa. Noi Ci auguriamo e preghiamo che tale
rimanga, specialmente il giovane clero, in Italia e in tutto l’orbe cattolico;
ad ogni modo le delicate condizioni presenti esigono una particolare cura e
tutela di quella soprannazionalità e indivisibile unità della Chiesa.
LA
UNIVERSALITÀ DELLA CHIESA
Soprannazionale
perché abbraccia con un medesimo amore tutte le nazioni e tutti i popoli, essa
è anche tale, come abbiamo già accennato, perché in nessun luogo è straniera.
Essa vive e si sviluppa in tutti i paesi del mondo, e tutti i paesi del mondo
contribuiscono alla sua vita e al suo sviluppo. Un tempo la vita ecclesiastica,
in quanto è visibile, si svolgeva rigogliosa a preferenza nei paesi della
vecchia Europa, donde si diffondeva, come fiume maestoso, a quella che poteva
dirsi la periferia del mondo; oggi apparisce invece come uno scambio di vita e
di energie fra tutti i membri del corpo mistico di Cristo sulla terra. Non
poche regioni in altri continenti hanno da molto tempo sorpassato il periodo
della forma missionaria della loro organizzazione ecclesiastica, sono rette da
una propria gerarchia e danno a tutta la Chiesa beni spirituali e materiali,
mentre prima soltanto li ricevevano.
Non
si svela forse in questo progresso e arricchimento della vita soprannaturale,
ed anche naturale, della umanità il vero senso della soprannaturalità della
Chiesa? Essa non sta, a causa di questa soprannazionalità, quasi sospesa, in
una inaccessibile e intangibile lontananza, al di sopra delle nazioni; ma, come
Cristo fu in mezzo agli uomini, così anche la Chiesa, in cui Egli continua a
vivere, si trova in mezzo ai popoli. Come il Figlio di Dio assunse una vera
natura umana, così anche la Chiesa prende in sé la pienezza di tutto ciò che è
genuinamente umano e lo eleva a sorgente di forza soprannaturale, dovunque e
comunque lo trova.
Si
compie così sempre più nella Chiesa di oggi ciò che S. Agostino magnificava
nella sua «Città di Dio »: La Chiesa, egli scriveva, «chiama da
tutte le genti i suoi cittadini, e in tutte le lingue aduna la sua comunità
peregrina sulla terra; non cura ciò che è diverso nei costumi, nelle leggi,
nelle istituzioni; nulla di ciò essa rescinde o distrugge, ma piuttosto
conserva e segue. Anche quel che è diverso nelle diverse nazioni, è tuttavia
indirizzato all’unico e medesimo fine della pace terrena, se non impedisce la
religione dell’unico sommo e vero Dio » (8).
Come
un faro potente, la Chiesa, nella sua universale interezza, getta il suo fascio
di luce in questi giorni oscuri, per i quali passiamo. Non meno tenebrosi erano
quelli, in cui il gran Dottore d’Ippona vedeva quel mondo, che egli amava
tanto, cominciare a sommergersi. Quella luce allora lo confortava e al suo
chiarore salutava, come in una visione profetica, la novella aurora di un
giorno più bello. Il suo amore verso la Chiesa, il quale non era altro che il
suo amore di Cristo, fu la sua beatificante consolazione. Possano tutti coloro,
che oggi, nei dolori e nei pericoli della loro patria, soffrono pene simili a
quelle di Agostino, trovare, come lui, nell’amore della Chiesa, di questa casa
universale, che, secondo la divina promessa rimarrà sino alla fine dei tempi,
ristoro e sostegno!
Da
parte Nostra, Noi bramiamo di rendere questa casa medesima sempre più solida,
sempre più abitabile per tutti, senza eccezione. Perciò nulla vogliamo
omettere, che possa esprimere visibilmente la soprannazionalità della Chiesa,
quale segno del suo amore verso Cristo, Che essa vede e a Cui serve nella
ricchezza dei suoi membri sparsi per il mondo intiero.
L’OPERA
DI PACE
In
quest’ora, in cui celebriamo la nascita di Colui, che venne per riconciliare
gli uomini con Dio e fra loro stessi, Noi non possiamo omettere di dire una
parola sull’opera di pace, che le classi dirigenti nello Stato, nella politica
e nell’economia si sono accinti ad edificare.
Con
una dovizia, finora forse non mai avutasi, di esperienza, di buon volere, di
saggezza politica e di potenza organizzatrice, sono stati iniziati i
preparativi per l’ordinamento della pace mondiale. Giammai, forse, da che mondo
è mondo, i reggitori della cosa pubblica non si sono trovati dinanzi ad
un’impresa così vasta e complessa per il numero, la grandezza e la difficoltà
delle questioni da risolvere, né così grave per i suoi effetti in larghezza e
in profondità, per il bene o per il male, come quella di ridare oggi
all’umanità — dopo tre decenni di guerre mondiali, di catastrofi economiche e
di smisurato impoverimento, — ordine, pace e prosperità. Altissima, formidabile
è la responsabilità di coloro che si apprestano a portare a compimento un’opera
così gigantesca.
Non
è Nostra intenzione di entrare nell’esame delle soluzioni pratiche che essi
potranno dare a così ardui problemi; crediamo però proprio del Nostro ufficio,
in continuazione dei Nostri precedenti Messaggi Natalizi durante la guerra, di
additare i presupposti morali fondamentali di una vera e durevole pace; ciò che
ridurremo a tre brevi considerazioni:
1°
L’ora presente richiede imperiosamente la collaborazione, la buona volontà, la
reciproca fiducia di tutti i popoli. I motivi di odio, di vendetta, di
rivalità, di antagonismo, di sleale e disonesta concorrenza, debbono essere
tenuti lontano dai dibattiti e dalle risoluzioni politiche ed economiche. «Chi
può dire — aggiungeremo con la Sacra Scrittura (9) —: Ho la
coscienza netta, sono puro di colpa? Doppio peso e doppia misura, ambedue sono
abominevoli presso Dio ». Chi dunque esige la espiazione delle colpe
con la giusta punizione dei criminali in ragione dei loro delitti, deve avere
ogni cura di non fare egli stesso ciò che rimprovera ad altri come colpa o
delitto. Chi vuole riparazioni, deve chiederle sulla base dell’ordine morale,
del rispetto a quegl’inviolabili diritti di natura, che rimangono anche in
coloro, che si soni arresi incondizionatamente al vincitore. Chi domanda
sicurezza per il futuro, non deve dimenticare che la sola vera garanzia
consiste nella propria forza interna, vale a dire nella tutela della famiglia,
dei figli, del lavoro, nell’amore fraterno, nell’abbandono di ogni odio, di
ogni persecuzione o ingiusta vessazione di onesti cittadini, nella leale
concordia fra Stato e Stato, fra popolo e popolo
2°
A tal fine è necessario che dappertutto si rinunzi a creare artificiosamente,
con la potenza del danaro, di una arbitraria censura, di giudizi unilaterali,
di false affermazioni, una cosiddetta pubblica opinione, che muove il pensiero
e il volere degli elettori come canne agitate dal vento. Si dia il debito
valore alla vera e grande maggioranza, formata da tutti quelli che onestamente
e tranquillamente vivono del loro lavoro in mezzo alle loro famiglie e vogliono
fare la volontà di Dio. Ai loro occhi le contese per più favorevoli confini, la
lotta per i tesori della terra, anche se non sono necessariamente e a priori
immorali in se stesse, costituiscono pur sempre un giuoco pericoloso, che non
si può affrontare se non a rischio di cagionare un cumulo di rovine e di morte.
È la vasta maggioranza dei buoni padri e madri di famiglia, che vorrebbero
proteggere e difendere l’avvenire dei propri figli contro la pretesa di ogni
politica di pura forza, contro gli arbitri del totalitarismo dello Stato forte.
3°
La forza dello Stato totalitario! Crudele e sanguinante ironia! Tutta la
superficie del globo, rossa del sangue versato in questi anni terribili, proclama
altamente la tirannia di un tale Stato.
L’edificio
della pace riposerebbe sopra una base crollante e sempre minacciosa, se non
ponesse fine a un siffatto totalitarismo, il quale riduce l’uomo a non essere
più che una pedina nel giuoco politico, un numero nei calcoli economici. Con un
tratto di penna esso muta i confini degli Stati; con una decisione perentoria
sottrae l’economia di un popolo, che pure è sempre una parte di tutta la vita
nazionale, alle sue naturali possibilità; con una mal dissimulata crudeltà
scaccia anch’esso milioni di uomini, centinaia di migliaia di famiglie, nella
più squallida miseria, dalle loro case e dalle loro terre, e le sradica e le
strappa da una civiltà e una cultura, alla cui formazione avevano lavorato
intiere generazioni. Anch’esso pone arbitrari limiti alla necessità, e al
diritto di migrazione e al desiderio di colonizzazione Tutto ciò costituisce un
sistema contrario alla dignità e al bene del genere umano. Eppure, secondo
l’ordinamento divino, non è la volontà e la potenza di fortuiti e mutevoli
gruppi d’interesse, ma l’uomo nel mezzo della famiglia e della società col suo
lavoro, il signore del mondo. Così quel totalitarismo fallisce in ciò che è
l’unica misura del progresso, vale a dire nel creare sempre maggiori e migliori
condizioni pubbliche, affinché la famiglia possa esistere e svilupparsi, come
unità economica, giuridica, morale e religiosa.
Nei
confini di ciascuna Nazione particolare, come in seno alla grande famiglia dei
popoli, il totalitarismo dello Stato forte è incompatibile con una vera e sana
democrazia. Come un pericoloso bacillo, esso avvelena la comunità delle Nazioni
e la rende incapace di essere la garante della sicurezza dei singoli popoli.
Esso rappresenta un continuo pericolo di guerra. La futura opera di pace vuol
bandire dal mondo ogni uso aggressivo della forza, ogni guerra offensiva. Chi
potrebbe non salutare di cuore un tale proposito, e specialmente la sua
efficace attuazione? Se però questo non deve essere soltanto un bel gesto, occorre
escludere ogni oppressione e ogni arbitrio dal di dentro e dal di fuori.
Di
fronte a questo incontestabile stato di cose, un’unica soluzione rimane: il
ritorno a Dio e all’ordine stabilito da Dio.
Quanto
più si sollevano i veli circa il sorgere ed il crescere delle forze che hanno
scatenato la guerra, tanto più chiaro appare che esse erano le eredi, le
portatrici e le continuatrici di errori, dei quali un elemento essenziale era
la noncuranza, il sovvertimento, la negazione e il disprezzo del pensiero e dei
principi cristiani.
Se
dunque qui giace la radice del male, non vi è che un solo rimedio: tornare
all’ordine fissato da Dio anche nelle relazioni fra gli Stati e i popoli;
tornare a un vero cristianesimo nello Stato e fra gli Stati. Né si dica che
questa non è politica realistica. La esperienza dovrebbe aver insegnato a tutti
che la politica orientata verso le eterne verità e le leggi di Dio è la più
reale e concreta delle politiche. I politici realisti, che altrimenti pensano,
non creano che rovine.
[…]
(1) 1
Antiph. I, in I Vesp. Nativ. Domini.
(2)
Cf. Ex. 24, 1. 9.
(3) Clem.
XI P. M., Orationes consistor., Romae 1722, p. 32.
(4) Op.
cit., p. 38.
(5) Arch.
Consist. Acta Vicecancell. 2, fogli 39 e 40.
(6)
Cf. Pii VII, Allocutio habita in Cons. Secr. die 8 Martii 1816.
(7) Serm.
341 c. 1 – Migne, PL., t. 39, col. 1493.
(8) De
civit. Dei, 1. 19, c. 17 – Migne, PL., t. 41, col. 646.
(9) Prov.
20, 9-10.