Individualismo
inutile
Ieri sera, in
parrocchia, abbiamo meditato sull’individualismo come malattia spirituale. Ci
siamo serviti di questi contenuti dell’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium:
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Sintesi
La vita
spirituale [può confondersi] con alcuni momenti religiosi che offrono un certo
sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo,
la passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti
operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo,
una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono
tre mali che si alimentano l’uno con l’altro.
Si può sviluppare negli operatori pastorali un
relativismo ancora più pericoloso di quello dottrinale. Ha a che fare con le
scelte più profonde e sincere che determinano una forma di vita. Questo
relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere
come se i poveri non esistessero, sognare come gli altri non esistessero,
lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esistessero.
Sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la
“mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in
braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può
trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in
un santo pellegrinaggio!
Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa
bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno
dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che
facciamo.
L’ideale cristiano inviterà sempre a superare
il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli
atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Il Vangelo ci invita
sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua
presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua
gioia contagiosa in un costante corpo a corpo.
Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale
che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo,
oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di
molta gente, perché non cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un
Gesù Cristo senza carne e senza impegno con l’altro. Se non trovano nella
Chiesa una spiritualità che li sani, li liberi, li ricolmi di vita e di pace e
che nel medesimo tempo li chiami alla comunione solidale e alla fecondità
missionaria, finiranno ingannati da proposte che non umanizzano né danno gloria
a Dio.
Una sfida importante è mostrare che la
soluzione non consisterà mai nel fuggire da una relazione personale e impegnata
con Dio, che al tempo stesso ci impegni con gli altri. Questo è ciò che accade
oggi quando i credenti fanno in modo di nascondersi e togliersi dalla vista
degli altri, e quando sottilmente scappano da un luogo all’altro o da un
compito all’altro, senza creare vincoli profondi e stabili.
È necessario aiutare a riconoscere che l’unica
via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con l’atteggiamento
giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada, senza resistenze
interiori. Il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece
di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa
guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere
umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore
di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli
altri come la cerca il loro Padre buono.
Testo
esteso
(le parti utilizzate per la sintesi sono
evidenziate in neretto)
78. Oggi si
può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una
preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione,
che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se
non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni
momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano
l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per
l’evangelizzazione. Così, si possono
riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino,
un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e
un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con
l’altro.
79. La
cultura mediatica e qualche ambiente intellettuale a volte trasmettono una
marcata sfiducia nei confronti del messaggio della Chiesa, e un certo
disincanto. Come conseguenza, molti operatori pastorali, benché preghino,
sviluppano una sorta di complesso di inferiorità, che li conduce a
relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni.
Si produce allora un circolo vizioso, perché così non sono felici di quello che
sono e di quello che fanno, non si sentono identificati con la missione
evangelizzatrice, e questo indebolisce l’impegno. Finiscono per soffocare la
gioia della missione in una specie di ossessione per essere come tutti gli
altri e per avere quello che gli altri possiedono. In questo modo il compito
dell’evangelizzazione diventa forzato e si dedicano ad esso pochi sforzi e un
tempo molto limitato.
80. Si sviluppa negli operatori
pastorali, al di là dello stile spirituale o della peculiare linea di
pensiero che possono avere, un
relativismo ancora più pericoloso di quello dottrinale. Ha a che fare con le
scelte più profonde e sincere che determinano una forma di vita. Questo
relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere
come se i poveri non esistessero, sognare come gli altri non esistessero,
lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esistessero. È
degno di nota il fatto che, persino chi apparentemente dispone di solide
convinzioni dottrinali e spirituali, spesso cade in uno stile di vita che porta
ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che
ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri nella
missione. Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!
[…]
87. Oggi,
quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto
sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di
scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di
incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa
marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità,
in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le
maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di
incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada,
sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto
generatrice di speranza! Uscire da se
stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare
l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta
egoistica che facciamo.
88. L’ideale cristiano inviterà sempre a
superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli
atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Molti tentano di
fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei
più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo.
Perché, così come alcuni vorrebbero un Cristo puramente spirituale, senza carne
e senza croce, si pretendono anche relazioni interpersonali solo mediate da
apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e
spegnere a comando. Nel frattempo, il
Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto
dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue
richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo.
L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé,
dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la
carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato
alla rivoluzione della tenerezza.
89.
L’isolamento, che è una versione dell’immanentismo, si può esprimere in una falsa
autonomia che esclude Dio e che però può anche trovare nel religioso una forma
di consumismo spirituale alla portata del suo morboso individualismo. Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale
che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la
sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente, perché non
cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne e
senza impegno con l’altro. Se non trovano nella Chiesa una spiritualità che li
sani, li liberi, li ricolmi di vita e di pace e che nel medesimo tempo li
chiami alla comunione solidale e alla fecondità missionaria, finiranno
ingannati da proposte che non umanizzano né danno gloria a Dio.
90. Le
forme proprie della religiosità popolare sono incarnate, perché sono sgorgate
dall’incarnazione della fede cristiana in una cultura popolare. Per ciò stesso
esse includono una relazione personale, non con energie armonizzanti ma con
Dio, con Gesù Cristo, con Maria, con un santo. Hanno carne, hanno volti. Sono
adatte per alimentare potenzialità relazionali e non tanto fughe
individualiste. In altri settori delle nostre società cresce la stima per
diverse forme di “spiritualità del benessere” senza comunità, per una “teologia
della prosperità” senza impegni fraterni, o per esperienze soggettive senza
volto, che si riducono a una ricerca interiore immanentista.
91. Una sfida importante è mostrare che la
soluzione non consisterà mai nel fuggire da una relazione personale e impegnata
con Dio, che al tempo stesso ci impegni con gli altri. Questo è ciò che accade
oggi quando i credenti fanno in modo di nascondersi e togliersi dalla vista
degli altri, e quando sottilmente scappano da un luogo all’altro o da un
compito all’altro, senza creare vincoli profondi e stabili: « Andar
sognando luoghi diversi, e passare dall’uno all’altro, è stato per molti un
inganno ».[ Tommaso
da Kempis, L’imitazione di Cristo]] È
un falso rimedio che fa ammalare il cuore e a volte il corpo. È necessario aiutare a riconoscere che
l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri con
l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come compagni di strada,
senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di imparare a scoprire
Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste. È anche
imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso quando subiamo
aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di scegliere la
fraternità.
92. Lì sta
la vera guarigione, dal momento che il
modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci
ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare
alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano,
che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di
Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli
altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche
là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del
Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce
del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza
di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova Non
lasciamoci rubare la comunità!
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«Mescolarci, incontrarci, partecipare a questa marea un po’ caotica»:
questo blog risponde anche a quest’esigenza.
Pensato per i quaranta dell’Azione Cattolica parrocchiale, raggiunge ormai una
platea molto più vasta: lo vedo dalle statistiche delle frequentazioni. Vuole
fornire materiale per la conoscenza e la riflessione principalmente su due
temi: il pensiero sociale cristiano e l’acculturazione religiosa alla
democrazia. E’ possibile che i più
giovani non abbiano mai letto nulla del genere di quello che pubblico. Questa è
la vita dell’umanità: di generazione in generazione bisogna ripartire da capo.
Quante volte mi è capitato? Ormai molte.
Nel gruppo di
discussione a cui ho partecipato ieri dopo la meditazione svolta nella chiesa
parrocchiale dal sacerdote, è stato giustamente osservato che da soli non si
risolve nulla. L’individualismo, che significa giudicare il mondo dalla propria
prospettiva, a seconda dell’utilità che se ne ricava, è, in definitiva,
inutile.
I nostri problemi
personali, a parte quelli di salute e di vecchiaia che dipendono dalla nostra
biologia, sono in genere di origine sociale, a partire dalla famiglia, per
arrivare ormai al mondo intero con il quale siamo collegati con un intenso
flusso di relazioni commerciali e culturali, tanto che quasi tutto ciò che è di
uso comune ci viene da molto lontano. La soluzione sta quindi nel cambiare le
società, nel cercare di influirvi per migliorarle. La dottrina sociale si
propone di orientare questo lavoro. Essa non è originata dai teologi, ma dalla
società religiosa, innanzi tutto dai laici. Poi i teologi hanno scoperto i
significati religiosi dell’azione sociale e hanno messo ordine concettuale in
materia. A differenza di certe grandi convinzioni di fede, teorizzate dalla
teologia dogmatica, la dottrina sociale, come il pensiero sociale che la
alimenta, è in continua e veloce evoluzione, seguendo quella della società in
cui si è immersi.
Quando ci riuniamo
in parrocchia e parliamo di che fare in società ci guardiamo l’un l’altro smarriti. Finché
si tratta di partecipare a liturgie religiose sappiamo che fare e qual è il
nostro posto. Appena usciti sul sagrato, le cose si complicano. Ci vengono in
mente le vie seguite da preti e religiosi, l’assistenza ai bisognosi e ai
sofferenti, o quelle di altre associazioni che si occupano della vita di quartiere,
ad esempio del parco, della pulizia e manutenzione delle strade, dei vari
servizi pubblici, per sollecitare miglioramenti. Ci sembra che solo così si
possa agire nel sociale. Allora,
però, ci si preoccupa: non è che così facendo si toglierà tempo alla vita
religiosa, quella in cui si parla di fede con il linguaggio proprio di quest’ultima?
Non ci viene in mente, forse, che noi già
operiamo nel sociale in tutto ciò
che facciamo. Ad esempio come cittadini, lavoratori, datori di lavoro, consumatori,
utenti, genitori, figli e via dicendo. Gran parte della nostra vita si spende
nel sociale. Tutto ciò deve essere animato
religiosamente: è un compito che
specificamente compete ai laici, a quelli che non sono inquadrati nel personale
che si occupa di liturgia e formazione religiosa, preti, frati e suore, monaci
e monache. Secondo quanto deliberato dai saggi del Concilio Vaticano 2° è un
lavoro che i laici devono svolgere con autonomia, con la competenza loro
propria nelle cose della vita, senza attendere l’imbeccata dai preti e dai
religiosi. C’è però bisogno di prepararsi, di una scuola, così come per tutte
le cose della vita. Questa formazione, che un tempo si faceva molto più di
oggi, è divenuta un po’ carente, in particolare nelle parrocchie. Bisognerebbe
rimediare, spenderci un po’ di tempo. Io ho tentato di farlo sistematicamente,
dal gennaio 2012, con questo blog, sottraendo un po’ di tempo al sonno. C’è
ormai molto da leggere. Il primo post è del 1 gennaio 2012, dal titolo Democrazia e valori - sintesi di un saggio di Giorgio Campanini (lo incollo
qua sotto, perché è ancora attualissimo). Attualmente sono disponibili 1.681 post.
In parrocchia la
formazione richiederebbe la ricostituzione di una biblioteca. E pensare a un’organizzazione
specifica, in cui i laici siano molto responsabilizzati, e a spazi adeguati. La
mia, naturalmente, è la prospettiva di uno che ha sempre lavorato con libri e pensiero, sia pure
da pratico, non da teorico, come sono gli operatori del
diritto. Altri potrebbero indicare altre vie. Ma conoscere e far pratica di
dialogo è sempre il punto di partenza di tutto. La società prima la si vive, la
si sperimenta, e poi la si teorizza: è vero. Però non si parte mai da zero, ci si avvale delle esperienze passate, si impara dagli errori: ecco la necessità di conoscere. Fare pratica, poi, fa parte della preparazione. Nelle cose sociali occorre anche un tirocinio, un apprendistato: certe abilità non sono innate, ma si apprendono. E ciò che io e mia moglie e tanti nostri amici facemmo in FUCI, tra gli universitari cattolici.
Alcuni pensano che
la fede vada innanzi tutto protetta, preservata. Nella mia esperienza occorre
anche questo. E’ per questo che non uso con leggerezza le parole della fede,
come potete constatare leggendomi. Non le uso per non appropriarmene. Esse sono
una risorsa preziosa, anzi la più preziosa, ma non sono strumenti nelle mie
mani. Anche nelle relazioni soprannaturali è vero quello che accade per le
altre: l’amicizia richiede rispetto. Ma che fede sarebbe quella che avesse
bisogno del mio rispetto, della mia protezione, per sopravvivere? Origina da
una realtà potente, che, crediamo, orienta la storia. Ci attrae. Ci ha chiamati
amici. In essa confidiamo religiosamente per superare ogni inimicizia sociale,
ogni barriera che la società abbia edificato per dividere e segregare, in
definitiva ad essa ci ispiriamo e su di essa contiamo per trasformare la società, animandola
secondo certi valori. E’ questo che
ancora crediamo? Tuo è il regno,
tua la potenza e la gloria nei secoli. Amen.
Di fronte alle difficoltà, nei rovesci della vita, a volte si è tentati di proteggersi in uno
spazio sicuro, confinato, chiuso, nascosto alle insidie o barricato contro di esse, in modo che le minacce non ci raggiungano. Può servire per riprendere forza, ma, in religione, non può
essere una via permanente, quella ordinaria. Perché, altrimenti, come modificheremmo
la società intorno a noi? Per farlo è necessario interagirvi. Come ho detto, lo
facciamo ogni giorno, anche se forse non ne cogliamo il senso religioso. Ci
sono un’etica politica, una fiscale, una
economica, una sociale, che orientano la società in un senso o nell’altro.
Hanno un valore religioso. Agiamo sempre
in scenari limitati, ma moltiplicandone gli effetti secondo le azioni di massa,
si finisce per incidere sulla società nel suo complesso. Acquisirne
consapevolezza non è più facile come una volta. Si sbaglia nel fare la raccolta
differenziata dei rifiuti: se accade a molti ne può riuscire compromesso
l’ambiente, anche se, pensando in piccolo, non vediamo come il nostro sacchetto
sbagliato dell’immondizia possa fare la differenza. Così è per ogni altra cosa
cattiva, potenzialmente dannosa per la società, ad esempio quando sfruttiamo
ingiustamente il lavoro altrui o ci accaparriamo vantaggi a scapito degli
altri. Fenomeni criminali molto pericolosi come il traffico di stupefacenti o
lo sfruttamento della prostituzione si basano su cedimenti individuali che,
quando ci riguardano, tendiamo a giustificare. Il volto delle città può esserne
compromesso. Due dei tre omicidi che sono avvenuti negli ultimi anni nel nostro
quartiere hanno avuto a che fare con cose simili. E anche il fatto che non ci
si azzardi a tenere aperta notte e giorno la nuova stazione della ferrovia
urbana su via Val d’Ala. Ciò che fa male alla società, ad
esempio il razzismo che ha preso vigorosamente piede in Italia tra la gente
comune, tra gente che vorrebbe essere buona, ha anche un valore religioso, è
male anche per la fede, fa soffrire anche l’anima. La Provvidenza sembra,
allora, impotente, e si pensa, a quel punto, di doverla preservare
confinandola, per poter avere un’idea, ogni tanto, di com’era bello un tempo.
Non è, questa, mancanza di fede? Non è un ridurre la fede alle nostre
sfiduciate dimensioni? L’individualismo
inutile, appunto. Meglio che nulla,
si può dire. A me è stato insegnato a ragionare in una diversa prospettiva. Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria
nei secoli. Non temo il confronto e la lotta, come non temo il dialogo. E
voi?
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma,
Monte Sacro, Valli
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Per il gruppo AC S.
Clemente -riunione dell’8-11-11 – Democrazia e valori
Questa sera vi voglio parlare del saggio divulgativo Democrazia
e valori – per un’etica della politica del sociologo e storico Giorgio
Campanini, disponibile il libreria ad €8,00, pag.114, editrice AVE. L’autore si
propone di recuperare il profondo collegamento tra etica e politica, che
riguarda anche le relazioni tra il Cristianesimo e il potere.
“Con il Cristianesimo, per la prima volta nella storia, è stato
chiaramente, e in un certo senso definitivamente affermato -con diffusa
risonanza anche fuori dell’Occidente- il principio della distinzione tra
politica e religione”.
E’ questo che si intende quando si parla
di laicità della politica.
“…il potere diventa un compito affidato all’uomo, un ambito nel
quale Dio si astiene dall’operare direttamente ma che riserva alla libertà
degli uomini.”
E’ la distinzione “fra Dio e Cesare [Mt
22,21] e cioè tra autorità religiosa e politica”.
E tuttavia il Cristianesimo “inserisce nella storia una
nuova e per certi aspetti sconvolgente forma di unificazione, tutta spirituale”. Essa
si basa sull’affermazione di valori indisponibili.
Nel corso del Novecento declinarono le ideologie
assolutistiche: nazionalismo, socialismo, comunismo. Si affermarono ideologie
che rispettavano uno spazio di indisponibilità della persona umana:
socialdemocrazia, liberalismo, cattolicesimo sociale. Esse risultarono più
realistiche e praticabili. Si creò così un terreno favorevole alla
democrazia politica. E tuttavia:
“Le stesse istituzioni democratiche, una volta disancorate da un
riferimento ai valori, finiscono per apparire come svuotate di senso. E del
resto, come giustificare il rispetto dell’uomo, la solidarietà tra gli uomini e
fra i popoli, il superamento dei razzismi e degli esclusivismi regionali,
facendo appello alla sola ‘ragione laica’?”
L’autore riassume le fasi storiche del passaggio da una
forma di potere ad un’altra: dalla famiglia alla città, dall’autorità, intesa
come forza di persuasione non basata sulla coazione, alla politica, in cui la
minaccia o l’uso della forza è elemento caratteristico. E tuttavia una certa
base di consenso è sempre necessaria, anche nei regimi politici autoritari.
“Sul piano storico la tendenza del potere è di passare da
un’origine tradizionale a una consensuale e dall’estraneità rispetto ai governanti
al consenso popolare. La democrazia è, in linea teorica, appunto il regime in
cui il potere è esercitato – secondo la nota formula di Abramo Lincoln ripresa
da Maritain- dal popolo, con il popolo, per il popolo”
L’ordinato funzionamento di una società richiede
l’esercizio di un potere politico: “la democrazia appare come un forma di
governo fondata non sulla negazione, ma sulla circoscrizione, limitazione del
potere”. Il fondamento ultimo del potere politico è stato individuato
nell’attuazione di un’etica di giustizia da parte del popolo o del sovrano o in
un contratto sociale, per il quale nell’interesse generale si accetta di
obbedire ad altri. Nelle teorie democratiche del Novecento le due visioni sono
state conciliate, convenendo su alcuni principi comuni: “…il riconoscimento
della sovranità popolare, la teoria della limitazione del potere, il criterio
della diretta partecipazione dei cittadini al suo esercizio e controllo”.
Nei regimi democratici l’attuazione della giustizia sociale e il controllo del
potere richiedono un’attiva partecipazione dei cittadini.
L’esercizio del potere politico si realizza in una
comunità politica. Una delle sue forme storiche di organizzazione è lo Stato,
teorizzata in particolare a partire dal diritto romano.
“Nella tradizione di pensiero cattolica non è lo Stato che è al
centro della vita politica, bensì la persona: la persona che inventa, crea,
realizza progressivamente una serie di ‘luoghi’ ne quali si esprime
la socialità e che hanno tutti un’alta dignità: la famiglia, le comunità
locali, le varie espressioni della società civile, la società economica (quale
si esprime nel mercato) e, alla fine – ma soltanto alla fine- anche lo Stato,
come punto di sintesi finale, ma non unica né esclusiva, delle forme in cui si esprime
la natura sociale dell’uomo”.
Si deve obbedire al potere politico, ma
non in maniera incondizionata e assoluta. Infatti “E’ meglio
obbedire a Dio che agli uomini” [Atti 5,29]. La
Chiesa considera certi valori di fondo indisponibili, anche in un regime
democratico. Questo orientamento, scrive Campanini, è anche alla base delle più
recenti dottrine costituzionalistiche in materia di diritti umani.
Stravolgimenti di questi ultimi sono “…sempre possibili se viene meno il
consenso dei cittadini sui valori essenziali della convivenza."
Pur accettando la reciproca indipendenza e
autonomia di Chiesa e Stato, che dipende dalla distinzione tra religione e
politica, la dottrina sociale della Chiesa, il corpo degli insegnamenti
impartiti dai papi e dai vescovi con l’autorità loro propria, “mette in
guardia da una visione rigidamente separatista dei rapporti tra Stato e Chiesa,
dal momento che una collaborazione appare auspicabile in vista del bene comune”,
inteso anche come tutela di un sistema di valori fondamentali, non solo come
benessere materiale. Pertanto
“…il cristiano è l’uomo di una
‘duplice obbedienza’; alle legittime autorità, ma anche all’ordine morale e, conclusivamente, alla sua
coscienza. Non si tratta di ‘dipendere’ dall’istituzione ecclesiastica o dai
vescovi, ma di riconoscere il primato della coscienza morale. [Ciò] …non
incrina il valore dello Stato democratico, ma, al contrario, lo rafforza, perché
fa di esso uno stato consapevole che vi è una soglia, quella della
coscienza morale, oltre la quale lo Stato non deve andare.”
Appartiene ormai al passato la diffidenza della gerarchia
cattolica verso la democrazia e le sue istituzioni. E parlare dell’esistenza di
“valori non negoziabili” non è una posizione antidemocratica, perché “le
moderne Costituzioni sono appunto orientate nel senso di
ipotizzare una serie di valori ‘non negoziabili’, in qualche modo
assoluti, non assoggettati al gioco delle maggioranze, o delle
minoranze, parlamentari”.
Nella politica il concetto di valore è
collegato a quello di “bene comune”. Quest’ultimo venne esplicitato dal
filosofo greco Aristotele (4° sec.a.C.) al quale il filosofo e teologo Tommaso
D’Aquino (13° sec.d.C.) si ispirò. E’ stata una faticosa conquista culturale
concepire il bene comune come riferito all’intera umanità e non solo a una
determinata collettività, più o meno ampia. Il riconoscimento di una comune
umanità trova un fondamento nei testi evangelici. L’idea di bene comune
universale fu particolarmente sviluppata dagli anni ’60 del Novecento nel
magistero sociale della Chiesa cattolica. Campanini segnala in particolare le
encicliche Pacem in terris (del papa Giovanni 23° - 1963), con
l’affermazione di diritti umani universali, e Populorum
Progressio (del papa Paolo 6° - 1967), con l’affermazione “dell’eguale
diritto ad usufruire dei beni della terra e a conseguire il minimo di benessere
necessario per la piena espansione della vita personale”, nonché
l’importanza data alla questione ambientale, che appare strutturalmente senza
frontiere (ciò che può essere bene per una comunità può diventare male per
un’altra). Dalla concezione universalistica del bene comune deriva una nuova
dimensione planetaria della cittadinanza, dove “cittadini non sono soltanto
i titolari di una determinata nazionalità ma tutti gli uomini del mondo”.
“Si tratta di coniugare valori universali e particolaristici
senza mortificare né gli uni né gli altri e garantendo sempre e in ogni
circostanza i diritti dell’uomo (non solo quelli dei propri cittadini)”.
Nel magistero sociale si pone l’esigenza “di
un’autorità politica supernazionale, embrionalmente disegnata dall’attuale ONU,
che si faccia carico del perseguimento del bene comune, e della salvaguardia
dei diritti dei cittadini, nei confronti di tutti, al limite contro la volontà
stessa dei responsabili di una determinata comunità”.
Le democrazie contemporanee sono pluralistiche.
“Pluralistica è … un’organizzazione dello Stato caratterizzata
da una articolata molteplicità di centri di potere organicamente
collegati fra loro, in una visione che pone al centro della società civile
la persona umana e non lo Stato, né come ordinamento giuridico
o come monopolio della forza, né tanto meno come espressione di un nazione, di
una classe o di una razza”.
La concezione pluralistica è riconosciuta nell’art.2 della
Costituzione Italiana: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità” formulato con l’importante contributo del
cattolico Giorgio La Pira. Perché la comunità politica pluralistica rimanga
governabile occorre realizzare una “minimale convergenza verso il bene
comune”, inteso anche come insieme di valori.
L’esperienza storica dei modelli politici totalitari
portò a una rivalutazione di quelli democratici. E tuttavia la democrazia, che
richiede impegno e fatica, consenso sociale maturo, una sorta di “plebiscito
quotidiano”, è sempre un regime a rischio se si fonda solo su regole e non su
altri valori condivisi.
Mario Ardigò -