INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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domenica 11 marzo 2018

Fede inutile?


Fede inutile?





1.   Gli ultimi incontri in parrocchia sulle malattie spirituali, dedicati all’accidia e al pessimismo sterile, hanno coinvolto meno gente. Forse perché ci si è sentiti messi in questione più direttamente e non si è avuto voglia di approfondire. Nella discussione di venerdì scorso, alla quale ho partecipato nel piccolo gruppo di approfondimento in cui mi sono trovato, ho osservato che, in fondo, questo è stato il mio atteggiamento in parrocchia da quando le cose sono iniziate a cambiare, verso la fine degli anni ’70. “Passerà”, mi sono detto. Ci sono voluti trent’anni perché passasse, ed ora è tanto difficile ripartire. Sarebbe stato meglio, mi sono detto, cercare di influire prima sul corso degli eventi, a costo anche di qualche contrasto. Da giovane ho trovato altrove quello che mi serviva. Molti hanno fatto come me. Si sono accettati certi sviluppi  pensando che si potesse fare poco per contrastarli e che, alla fine, come tutto in questo mondo, sarebbe finita: occorreva solo aver la pazienza di aspettare. Sì, è finita, ma, ad uno sguardo realistico, è finita male. In definitiva, la fede, come la si era iniziata a vivere dagli anni ’60, è ora sentita come inutile, e la fede di prima nessuno se la ricorda più se non i più anziani, e del resto si era cercato di cambiare perché non andava più bene. Si accetta la religione solo in un contesto di realtà potenziata, come pausa emozionante in un’esistenza di tutti giorni piuttosto grigia, o come rifugio corazzato da una realtà sociale vissuta come abominio e regno del maligno. La resistenza sembra possibile solo creando mondi virtuali protetti, realtà potenziate appunto.  Più accidia e pessimismo radicale di così…
   Ho notato che nel dibattito ognuno ha proposto una parte della storia della propria vita. Lui, il compagno o la compagna nella vita di coppia, le esperienze religiose che hanno fatto, il punto a cui sono arrivati in un certo percorso di spiritualità. Sembra che ci sia difficile pensare in termini sociali più ampi, allontanarsi per un momento da noi stessi e dai nostri dintorni. Non succede solo nella nostra parrocchia, ma è un atteggiamento più generale ed è uno degli effetti più dannosi della piega che presero gli eventi negli anni ’80. Si parlò di quell’epoca come caratterizzata dal riflusso nel privato. La gente iniziava ad avere poca fiducia nelle ideologie e se ne fu contenti perché su basi ideologiche ci si era piuttosto scontrati nel decennio precedente, anche in religione. Ma non era successo solo quello: su basi ideologiche ci si era anche incontrati, erano state occasioni di dialogo. Quest’ultimo iniziò ad essere visto come una perdita di tempo: vivere occorreva. La comunità precedeva la riflessione e gli incontri: bisognava prima recuperarla individuandone le tracce in società. Ce l’aveva data la tradizione, ciò da cui deriva una certa cultura, intesa come complesso di costumi e concezioni. Si confidava che questo ci avrebbe consentito di riscoprire anche il valore della gerarchia nelle cose di religione e di recuperare quindi un certo ordine sacrale. Del resto nella storia italiana l’ingombrante gerarchia del clero si era sempre trovata in mezzo ad ogni sviluppo, nel bene e nel male, più spesso nel male che nel bene, come nei tremendi primi vent’anni del Novecento, l’era dell’ultima grande persecuzione religiosa nella nostra fede, quella contro modernismo e democrazia, che furono il preludio di un altro tremendo ventennio in Italia, quello del cedimento al fascismo mussoliniano. C’è questa storia nel nostro recente passato ed è chiaro perché ogni tentazione reazionaria, di quelli che vorrebbero tornare indietro, va contrastata.
2.  Dagli anni ’80 si pensò che fosse meglio congelare, in attesa di tempi migliori, nei quali si rischiasse di meno nel cambiamento. Negli anni ’70 si era temuta, infatti, la dissoluzione,  a causa della vivacità delle sperimentazioni di innovazioni seguite al Concilio Vaticano 2°. Questo il clima in cui si visse negli ultimi anni del papato di Giovanni Battista Montini, Paolo 6° in religione. E ciò proprio nel mezzo di una delle iniziative più importanti di inculturazione dei principi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), il rinnovamento della catechesi, aperto nel 1970 con la diffusione del Documento di base da parte della Conferenza Episcopale Italiana. Iniziò quindi una specie di lungo inverno, o di era glaciale, e i mutamenti furono  rallentati e poi fermati, o comunque sopiti. Non si poteva andare indietro, ma non si voleva che si andasse oltre ciò che si era raggiunto. Si cercarono di costruire d’autorità frontiere, al di là delle quali non si si doveva spingere, perché altrimenti, si temeva, sarebbe ripreso il processo di disgregazione. In questo quadro si inserisce l’imposizione del Catechismo della Chiesa cattolica, nel 1992, revisionato e modificato nel 1997: esso non si inserisce nel processo di rinnovamento della catechesi iniziato nel 1970, non riguarda solo l’iniziazione  alla fede e l’approfondimento religioso;  è un documento normativo diretto in primo luogo ai teologi, e poi  al clero e ai religiosi, insomma a coloro a cui compete ammaestrare il popolo nelle fede, perché non vadano oltre nell’innovazione. E  infatti viene citato nelle opere di teologia e nei documenti del magistero locale. Nacque già vecchio, tanto che dopo poco si dovette cambiarvi diverse cose. Oggi è senz’altro utile per la formazione di secondo livello, delle persone che hanno fatto le superiori e che hanno dimestichezza con lettura un po’ più impegnative, ma non serve a guidarci a risolvere i problemi dell’attualità. Nel complesso è obsoleto; però conserva il suo valore normativo. Lo può cambiare solo il Papa, come accade per il codice di diritto canonico; non appartiene più a comunità vive. Fa il lavoro per cui venne progettato: vincolare, stringere, contenere, dare uno strumento per capire chi è fuori e chi è dentro. Discostarsene può costare molto caro ad un teologo, a un vescovo, a un prete o a un religioso. Il laico rischia l’emarginazione ecclesiale.
  Insomma: dovremmo cambiare, ma mancano innanzi tutto gli strumenti culturali per progettare il nuovo. In Italia tutto questo ha portato al declino della forza di influenza nella società della dottrina sociale, il complesso di orientamenti per costruire una società non ostile alla religione. L’impegno del clero e del laicato in questo campo, in particolare a partire dagli anni ’30, aveva portato i cattolici a dirigere dal 1948 al 1994 la politica italiana, esprimendo la forza principale di governo, la quale negli anni ’80, quando iniziò a declinare, ebbe una forza elettorale pari a quella raggiunta il 4 marzo scorso, nelle elezioni politiche, dalla formazione che è risultata più votata. Con quel consenso elettorale i cattolici continuarono a dirigere la politica italiana dal 1983 al 1994, il decennio nel quale si produsse la dispersione del partito cristiano, essenzialmente perché il mondo, l’Europa, l’Italia, e noi delle Valli dentro, cambiarono. L’obiettivo principale dell’Occidente diventò lo sviluppo, che sostituì quello della giustizia sociale. Il Papato, in quegli anni impegnato principalmente nel produrre la dissoluzione dei regimi comunisti dell’Europa orientale, assecondò questo orientamento, scoraggiando ogni movimento di ispirazione religiosa che si proponesse di lottare per la giustizia sociale e limitando la critica sociale e politica a profili etici. Affidò i  propositi di rigenerazione alla scoperta di  radici  cristiane nelle culture europee, come si stava facendo nella Polonia comunista e cristiana dalla quale proveniva san Wojtyla. In quegli anni il Papato fu sostanzialmente alleato degli statunitensi sotto i governi federali di Ronald Reagan (in carica dal 1981 al 1989) e di Georg H.W. Bush (in carica del 1989 al 1993). Il rapido processo di santificazione del Wojtyla ha probabilmente contribuito a non mettere particolarmente in luce questo aspetto del suo papato. In Italia il rapporto dei cattolico-democratici con gli statunitensi è stato sempre molto delicato, e difficile,  fin dai tempi del democristiano Alcide De Gasperi. Gli americani non mostravano di apprezzare particolarmente l’idea degasperiana di un governo diretto da un partito di centro che guardava verso sinistra. Wojtyla diffidava delle intense relazioni culturali e umane che legavano esponenti del cattolicesimo-democratico al mondo socialista e comunista italiano, e che risalivano alla collaborazione politica e militare della guerra di Resistenza, tra il ’43 e il ’45. Joseph Ratzinger, tra i  principali collaboratori e poi successore del Wojtyla, dissentiva da certi sviluppi di teologia sociale che a quelle relazioni potevano ricondursi. Ad un certo punto, più o meno dalla metà degli anni ’90, Papato e vescovi italiani iniziarono a gestire direttamente i rapporti politici prescindendo dall’iniziativa autonoma del laicato. Nel marzo 2005, durante la dolorosa fase terminale della malattia del papa  Wojtyla, si fece realisticamente il punto della situazione, si vide che si andava verso l’irrilevanza politica e si provò di correre ai ripari. Si iniziò con la Lettera  ai fedeli laici “Fare di Cristo il cuore del mondo”, del 27 marzo 2005, in cui si legge:
 Non sempre l’auspicata corresponsabilità ha avuto adeguata realizzazione e non mancano segnali contraddittori. Si ha talora la sensazione che lo slancio conciliare si sia attenuato. Sembra di notare, in particolare, una diminuita passione per l’animazione cristiana del mondo del lavoro e delle professioni, della politica e della cultura, ecc. Vi è in alcuni casi anche un impoverimento di servizio pastorale all’interno della comunità ecclesiale. Serve un’analisi attenta ed equilibrata delle ragioni dei ritardi e delle distonie, per poterle colmare con il concorso di tutti.
A volte, può essere che il laico nella Chiesa si senta ancora poco valorizzato, poco ascoltato o compreso. Oppure, all’opposto, può sembrare che anche la ripetuta convocazione dei fedeli laici da parte dei pastori non trovi pronta e adeguata risposta, per disattenzione o per una certa sfiducia o un larvato disimpegno. Dobbiamo superare questa situazione. Una cosa è certa: il Signore ci chiama; chiama ognuno di noi per nome. La diversità dei carismi e dei ministeri nell’unico popolo di Dio riguarda le forme della risposta, non l’universalità della chiamata. Nel mistero della comunione ecclesiale dobbiamo ricercare la coralità di una risposta armonica e differenziata alla chiamata e alla missione che il Signore affida a ogni membro della Chiesa. Il momento attuale richiede cristiani missionari, non abitudinari.
 […]
  In una convivenza umana, ferita dal peccato personale e mortificata da vere e proprie «strutture di peccato», il cristiano deve alimentare la profezia evangelica di una civiltà fraterna, traducendola in una nuova sintesi di giustizia e amore, capace di mettere in equilibrio, nella città degli uomini, l’obbedienza alla legge e la gratuità del dono. Come possiamo abitare il mondo dell’economia e della politica, dei mass-media e della cultura, della scienza e della tecnologia, riconoscendone le leggi costitutive, ma nello stesso tempo professandovi, in modo non retorico o indolore, il messaggio liberante del Vangelo?
  Questa sintesi non riguarda soltanto l’ambito immediato della testimonianza personale, ma deve attraversare in modo benefico tutti gli orizzonti più ampi della convivenza, per i quali la mediazione della politica appare come una forma alta e irrinunciabile di servizio alla persona umana e di promozione del bene comune. La società ha oggi bisogno di una rinnovata dedizione cristiana alla politica, che sappia porsi in ascolto della dottrina sociale della Chiesa, levando la sua voce – in modo realmente libero e profetico – in difesa della partecipazione e delle istituzioni democratiche, e progettando nuove forme di incontro fra etica ed economia, per sconfiggere la grande tentazione dell’individualismo.
  Da allora non si è mai riusciti veramente a ripartire. Troppo lunga era stata la glaciazione. Si erano perse tradizioni, consuetudini e relazioni. La Chiesa italiana era profondamente mutata, non era più quella che aveva immaginato possibile la realizzazione di una società veramente animata dalla carità fraterna, secondo il modello religioso dell’agàpe, che significa includere, far parte, risanare, risollevare.
3. Agli anni ’80 risale il nostro modello parrocchiale, alle Valli,  che è iniziato a mutare nell’ottobre 2015. Quel mese scrissi, per riassumere il senso della passata esperienza, quello che di seguito trascrivo:
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La nostra parrocchia è stata appunto istituita come territoriale: la comunità che la costituisce comprende gran parte del quartiere delle Valli, fino a piazza Conca d’Oro.  Dai dati dell’ultimo censimento, le Valli sono abitate complessivamente da circa ventimila persone, buona parte delle quali rientrano nella nostra comunità parrocchiale. Di queste, secondo la media nazionale, un buon 80% può annoverarsi tra i fedeli. Tenendo conto che, in realtà, anche la gente che abita nei primi edifici oltre piazza Conca d’Oro, prossimi alla piazza, gravita intorno alla nostra parrocchia per ragioni di comodità, anche se territorialmente fa parte della comunità parrocchiale degli Angeli Custodi, possiamo stimare in circa quindicimila persone la nostra comunità parrocchiale. La nostra quindi è, o almeno dovrebbe essere,  una esperienza parrocchiale di massa. Quante di queste persone  fanno effettivamente comunità  con noi, vale a dire vengono in parrocchia come a casa propria?  Se devo giudicare dal numero di persone che frequentano le messe domenicali, direi, al massimo,  intorno alle settecento. Secondo la media nazionale dei praticanti [tra il 20 e il 30% dei battezzati] dovrebbero essere almeno il triplo. Se però consideriamo il numero di coloro che nelle statistiche vengono chiamati convinti e attivi, di quei settecento ne rimangono, credo, circa la metà. E di questi pochi, troppo pochi!, bambini per la prima iniziazione religiosa, pochissimi i ragazzi per quella di secondo livello e un numero ancora più esiguo di giovani più grandi. Ecco l'enormità di ciò che è successo da noi, alle Valli! Questa differenza tra i quindicimila e i settecento, o forse sarebbe più giusto dire i trecentocinquanta, se non ci bastano i praticanti, ma vogliamo  veramente fare popolo,  misura le dimensioni del lavoro che dobbiamo fare.   C’è chi dispera di poterlo fare. La nostra chiesa non sarà mai più piena di gente, dice. Ma, se bastasse questo, saremmo già a buon punto. La nostra chiesa parrocchiale è sottodimensionata rispetto alle esigenze del quartiere, la si riempie facilmente. Ad un certo punto, alla Messa con il vescovo per l’insediamento di don Remo, il nuovo pastore che ci è stato inviato, c’erano solo posti in piedi. E non si tratta, poi, semplicemente di riempire la chiesa. Non è una folla  che ci serve, ma  fare comunità. Questo ci riesce difficile, se proviamo a confrontarci con i grandi numeri. Allora preferiamo ragionare su scala più piccola: è ciò che si è fatto negli ultimi trent’anni, un periodo molto lungo, equivalente a una generazione. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti, in modo veramente eclatante. Abbiamo speso tutte le nostre forze per far crescere comunità molto coese di qualche centinaio di persone, neanche tutte veramente  della parrocchia ma immigrate da fuori,  con un impegno gravosissimo per i sacerdoti della parrocchia, e ora abbiamo ciò per cui abbiamo lavorato: una comunità di comunità  di poche centinaia di persone.
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 La storia della nostra parrocchia ha visto tre parroci succedersi fino ad oggi: Il primo dal 1956 al 1983, il secondo dal 1983 all’ottobre 2015, e l’ultimo dall’ottobre 2015.  A quest’ultimo il Cardinal  vicario ha assegnato nove anni. Non ci saranno più ministeri parrocchiali che durino circa trent’anni. Però, adesso che di quei nove ne sono passati già tre, ci sembrano troppo pochi per recuperare, per cambiare. Tanto, veramente molto è stato fatto, ma il problema siamo proprio noi parrocchiani, non sono i volenterosi preti che ci sono stati mandati. Rispetto ad altre parrocchie siamo privilegiati per il numero di preti, aiutati da seminaristi, che si stanno impegnando da noi. Una volta che ci si rese conto della gravità dell’emergenza che si era venuta a creare, si è provveduto con molta determinazione. Eppure, eccoci, noi parrocchiani, che mostriamo ancora quelle malattie spirituali di accidia e pessimismo sterile che ci impediscono di migliorare e che ci tengono a casa quando arriva l’appello. Non sopportiamo realisticamente di vederci come siamo diventati? Abbiamo paura di finire legati ad un qualche ingranaggio ecclesiale dal quale risulti poi difficile uscire? Quest’ultimo potrebbe essere un problema serio. Ogni forma di aggregazione in parrocchia dovrebbe essere reversibile, dovrebbe essere connotata da una certa libertà. Uno dovrebbe poter congedarsene senza per questo venir sospettato di influssi maligni. Poi c’è il fatto che si è stati abituati, nelle occasioni in cui ci si incontra, a disvelare la propria vita personale e familiare e la propria interiorità. Questo è controindicato nelle relazioni sociali. Molti si sentono a disagio. Bisogna invece abituarsi a rispettare la personalità altrui. Si deve poter essere accettati anche se non ci si scopre integralmente davanti agli altri, in particolare se non si mettono in piazza peccati e difficoltà intime. Ci si  deve invece familiarizzare ad un pensiero sociale, per cui, quando ci si incontra, si mette al centro l’esperienza collettiva, non quella personale. Certo, ci possono essere sedute collettive di autocoscienza, come si fa in certe comunità terapeutiche, ma si tratta di cose diverse dal valutare criticamente  e programmare un impegno sociale. E dovrebbero essere sempre dirette da persone competenti, perché altrimenti si può finire per fare molto male alla gente. Noi, ora, dobbiamo crescere come comunità viva del quartiere, nel quale costituiamo quasi l’unica, e comunque la maggiore quanto a spazi e risorse, sede di impegno sociale. Una grande responsabilità. Che però probabilmente è meno avvertita da quelli che nel quartiere non vivono, ma si sono abituati a venire da  noi solo per seguire un certo percorso di spiritualità, in gruppi confinati. Vengono, si riuniscono con gli altri del loro gruppo, e se ne vanno. Chi vive nel quartiere non li conosce. Allora ci incontriamo con loro solo in certi tempi forti liturgici, come nella Veglia di Pasqua, e  a quel punto sprizzano scintille, perché ognuno vorrebbe seguire la propria via e non capisce gli altri, perché non li conosce, e non conoscendoli non li apprezza e non vuole nemmeno farseli amici. In una prospettiva in cui ci sarebbero tribù religiose in lotta  contro un mondo considerato solo abominio, non di rado mi sono sentito respinto come persona  mondana, non trovandomi però male in questa posizione, perché la mia spiritualità non è mai stata quella del ritiro dal mondo e nel mondo so distinguere il tanto bene che c’è dal male che, come sempre, lo permea.
4.  Una fede che non sappia essere fermento sociale, e che ad esempio si proponga di cambiare il mondo colonizzandolo con la propria prole, sperando che gli altri si avvicinino per imitazione semplicemente contemplando lo spettacolo di certe comunità molto coese, senza necessità di aprirsi nel dialogo per farsi conoscere veramente, diventa rapidamente inutile. Non dalla tradizione e nemmeno dalla natura, secondo la quale ci riproduciamo, troviamo quello che ci serve oggi. Famiglie molto coese e gerarchicamente sottomesse a maschi dominanti non migliorano la società. Le società patriarcali nelle quali si svilupparono erano veri e propri inferni sociali, in particolare per le donne. La tradizione va depurata del molto male da cui deriva, anche negli aspetti religiosi. Il lavoro di  purificazione della memoria, al quale papa Wojtyla ci chiamò in preparazione al Grande Giubileo d’Anno 2000, serve anche a questo.
  La soluzione che mi viene in mente, sulla base della mia passata esperienza, potrebbe essere questa: perseverare, senza scoraggiarci,  nel continuare a incontrarci, a riflettere, studiare, sperimentare. Il tempo è superiore allo spazio, sostiene papa Francesco: significa che occorre appunto perseverare, senza perdersi d’animo per ciò che si vede intorno. A tempo debito avremo i frutti: è la lezione del paziente agricoltore, che nella speranza già pregusta ciò che ancora non vede, ma che cresce. 
Mario Ardigò   - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli