1. Gli ultimi incontri
in parrocchia sulle malattie spirituali, dedicati all’accidia e al pessimismo
sterile, hanno coinvolto meno gente. Forse perché ci si è sentiti messi in
questione più direttamente e non si è avuto voglia di approfondire. Nella
discussione di venerdì scorso, alla quale ho partecipato nel piccolo gruppo di
approfondimento in cui mi sono trovato, ho osservato che, in fondo, questo è
stato il mio atteggiamento in parrocchia da quando le cose sono iniziate a
cambiare, verso la fine degli anni ’70. “Passerà”, mi sono detto. Ci sono
voluti trent’anni perché passasse, ed ora è tanto difficile ripartire. Sarebbe
stato meglio, mi sono detto, cercare di influire prima sul corso degli eventi,
a costo anche di qualche contrasto. Da giovane ho trovato altrove quello che mi
serviva. Molti hanno fatto come me. Si sono accettati certi sviluppi pensando che si potesse fare poco per
contrastarli e che, alla fine, come tutto in questo mondo, sarebbe finita:
occorreva solo aver la pazienza di aspettare. Sì, è finita, ma, ad uno sguardo
realistico, è finita male. In definitiva, la fede, come la si era iniziata a
vivere dagli anni ’60, è ora sentita come inutile, e la fede di prima nessuno se la
ricorda più se non i più anziani, e del resto si era cercato di cambiare perché
non andava più bene. Si accetta la religione solo in un contesto di realtà
potenziata, come pausa emozionante in un’esistenza di tutti giorni piuttosto
grigia, o come rifugio corazzato da una realtà sociale vissuta come abominio e
regno del maligno. La resistenza sembra possibile solo creando mondi virtuali
protetti, realtà potenziate appunto. Più
accidia e pessimismo radicale di così…
Ho
notato che nel dibattito ognuno ha proposto una parte della storia della
propria vita. Lui, il compagno o la compagna nella vita di coppia, le esperienze religiose che hanno
fatto, il punto a cui sono arrivati in un certo percorso di spiritualità.
Sembra che ci sia difficile pensare in termini sociali più ampi, allontanarsi
per un momento da noi stessi e dai nostri dintorni. Non succede solo nella
nostra parrocchia, ma è un atteggiamento più generale ed è uno degli effetti
più dannosi della piega che presero gli eventi negli anni ’80. Si parlò di
quell’epoca come caratterizzata dal riflusso nel privato. La gente iniziava ad
avere poca fiducia nelle ideologie e se ne fu contenti perché su basi
ideologiche ci si era piuttosto scontrati nel decennio precedente, anche in
religione. Ma non era successo solo quello: su basi ideologiche ci si era anche
incontrati, erano state occasioni di dialogo. Quest’ultimo iniziò ad essere
visto come una perdita di tempo: vivere occorreva. La comunità precedeva la
riflessione e gli incontri: bisognava prima recuperarla individuandone le
tracce in società. Ce l’aveva data la tradizione, ciò da cui deriva una certa
cultura, intesa come complesso di costumi e concezioni. Si confidava che questo
ci avrebbe consentito di riscoprire anche il valore della gerarchia nelle cose di
religione e di recuperare quindi un certo ordine sacrale. Del resto nella storia
italiana l’ingombrante gerarchia del clero si era sempre trovata in mezzo ad
ogni sviluppo, nel bene e nel male, più spesso nel male che nel bene, come nei
tremendi primi vent’anni del Novecento, l’era dell’ultima grande persecuzione
religiosa nella nostra fede, quella contro modernismo e democrazia, che furono
il preludio di un altro tremendo ventennio in Italia, quello del cedimento al
fascismo mussoliniano. C’è questa storia nel nostro recente passato ed è chiaro
perché ogni tentazione reazionaria, di quelli che vorrebbero tornare indietro,
va contrastata.
2. Dagli anni ’80 si
pensò che fosse meglio congelare, in attesa di tempi migliori, nei quali si
rischiasse di meno nel cambiamento. Negli anni ’70 si era temuta, infatti, la dissoluzione, a causa della vivacità delle sperimentazioni
di innovazioni seguite al Concilio Vaticano 2°. Questo il clima in cui si visse
negli ultimi anni del papato di Giovanni Battista Montini, Paolo 6° in
religione. E ciò proprio nel mezzo di una delle iniziative più importanti di
inculturazione dei principi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), il
rinnovamento della catechesi, aperto nel 1970 con la diffusione del Documento di base da parte della
Conferenza Episcopale Italiana. Iniziò quindi una specie di lungo inverno, o di
era glaciale, e i mutamenti furono
rallentati e poi fermati, o comunque sopiti. Non si poteva andare indietro, ma non si
voleva che si andasse oltre ciò che si era raggiunto. Si cercarono di costruire
d’autorità frontiere, al di là delle quali non si si doveva spingere, perché
altrimenti, si temeva, sarebbe ripreso il processo di disgregazione. In questo
quadro si inserisce l’imposizione del Catechismo
della Chiesa cattolica, nel 1992, revisionato e modificato nel 1997: esso
non si inserisce nel processo di rinnovamento della catechesi iniziato nel
1970, non riguarda solo l’iniziazione
alla fede e l’approfondimento religioso;
è un documento normativo diretto in primo luogo ai teologi, e poi al clero e ai religiosi, insomma a coloro a
cui compete ammaestrare il popolo nelle fede, perché non vadano oltre
nell’innovazione. E infatti viene citato
nelle opere di teologia e nei documenti del magistero locale. Nacque già
vecchio, tanto che dopo poco si dovette cambiarvi diverse cose. Oggi è senz’altro
utile per la formazione di secondo livello, delle persone che hanno fatto le
superiori e che hanno dimestichezza con lettura un po’ più impegnative, ma non
serve a guidarci a risolvere i problemi dell’attualità. Nel complesso è
obsoleto; però conserva il suo valore normativo. Lo può cambiare solo il Papa, come
accade per il codice di diritto canonico; non appartiene più a comunità vive. Fa
il lavoro per cui venne progettato: vincolare, stringere, contenere, dare uno
strumento per capire chi è fuori e chi è dentro. Discostarsene può costare
molto caro ad un teologo, a un vescovo, a un prete o a un religioso. Il laico
rischia l’emarginazione ecclesiale.
Insomma: dovremmo cambiare, ma mancano
innanzi tutto gli strumenti culturali per progettare il nuovo. In Italia tutto questo ha portato al
declino della forza di influenza nella società della dottrina sociale, il
complesso di orientamenti per costruire una società non ostile alla religione. L’impegno
del clero e del laicato in questo campo, in particolare a partire dagli anni ’30, aveva portato i cattolici a dirigere dal 1948 al 1994 la politica italiana,
esprimendo la forza principale di governo, la quale negli anni ’80, quando iniziò a declinare, ebbe una
forza elettorale pari a quella raggiunta il 4 marzo scorso, nelle elezioni
politiche, dalla formazione che è risultata più votata. Con quel consenso
elettorale i cattolici continuarono a dirigere la politica italiana dal 1983 al
1994, il decennio nel quale si produsse la dispersione del partito cristiano, essenzialmente perché il mondo, l’Europa, l’Italia,
e noi delle Valli dentro, cambiarono. L’obiettivo principale dell’Occidente diventò lo sviluppo, che sostituì quello della giustizia sociale. Il Papato,
in quegli anni impegnato principalmente nel produrre la dissoluzione dei regimi
comunisti dell’Europa orientale, assecondò questo orientamento, scoraggiando
ogni movimento di ispirazione religiosa che si proponesse di lottare per la
giustizia sociale e limitando la critica sociale e politica a profili etici. Affidò
i propositi di rigenerazione alla
scoperta di radici cristiane nelle culture europee, come si stava
facendo nella Polonia comunista e cristiana dalla quale proveniva san Wojtyla.
In quegli anni il Papato fu sostanzialmente alleato degli statunitensi sotto i
governi federali di Ronald Reagan (in carica dal 1981 al 1989) e di Georg H.W. Bush (in carica del 1989 al 1993). Il rapido processo di santificazione del
Wojtyla ha probabilmente contribuito a non mettere particolarmente in luce
questo aspetto del suo papato. In Italia il rapporto dei cattolico-democratici
con gli statunitensi è stato sempre molto delicato, e difficile, fin dai tempi del democristiano Alcide De
Gasperi. Gli americani non mostravano di apprezzare particolarmente l’idea
degasperiana di un governo diretto da un partito
di centro che guardava verso sinistra. Wojtyla diffidava delle intense
relazioni culturali e umane che legavano esponenti del
cattolicesimo-democratico al mondo socialista e comunista italiano, e che
risalivano alla collaborazione politica e militare della guerra di Resistenza,
tra il ’43 e il ’45. Joseph Ratzinger, tra i
principali collaboratori e poi successore del Wojtyla, dissentiva da
certi sviluppi di teologia sociale che a quelle relazioni potevano ricondursi. Ad
un certo punto, più o meno dalla metà degli anni ’90, Papato e vescovi italiani
iniziarono a gestire direttamente i rapporti politici prescindendo dall’iniziativa
autonoma del laicato. Nel marzo 2005, durante la dolorosa fase terminale della
malattia del papa Wojtyla, si fece
realisticamente il punto della situazione, si vide che si andava verso l’irrilevanza
politica e si provò di correre ai ripari. Si iniziò con la Lettera ai fedeli laici “Fare di Cristo il cuore del mondo”, del 27 marzo
2005, in cui si legge:
Non sempre l’auspicata
corresponsabilità ha avuto adeguata realizzazione e non mancano segnali
contraddittori. Si ha talora la sensazione che lo slancio conciliare si sia
attenuato. Sembra di notare, in particolare, una diminuita passione per
l’animazione cristiana del mondo del lavoro e delle professioni, della politica
e della cultura, ecc. Vi è in alcuni casi anche un impoverimento di servizio
pastorale all’interno della comunità ecclesiale. Serve un’analisi attenta ed
equilibrata delle ragioni dei ritardi e delle distonie, per poterle colmare con
il concorso di tutti.
A volte,
può essere che il laico nella Chiesa si senta ancora poco valorizzato, poco
ascoltato o compreso. Oppure, all’opposto, può sembrare che anche la ripetuta
convocazione dei fedeli laici da parte dei pastori non trovi pronta e adeguata
risposta, per disattenzione o per una certa sfiducia o un larvato disimpegno.
Dobbiamo superare questa situazione. Una cosa è certa: il Signore ci chiama;
chiama ognuno di noi per nome. La diversità dei carismi e dei ministeri
nell’unico popolo di Dio riguarda le forme della risposta, non l’universalità
della chiamata. Nel mistero della comunione ecclesiale dobbiamo ricercare la
coralità di una risposta armonica e differenziata alla chiamata e alla missione
che il Signore affida a ogni membro della Chiesa. Il momento attuale richiede
cristiani missionari, non abitudinari.
[…]
In una convivenza umana, ferita dal peccato
personale e mortificata da vere e proprie «strutture di peccato», il cristiano
deve alimentare la profezia evangelica di una civiltà fraterna, traducendola in
una nuova sintesi di giustizia e amore, capace di mettere in equilibrio, nella
città degli uomini, l’obbedienza alla legge e la gratuità del dono. Come
possiamo abitare il mondo dell’economia e della politica, dei mass-media e
della cultura, della scienza e della tecnologia, riconoscendone le leggi
costitutive, ma nello stesso tempo professandovi, in modo non retorico o
indolore, il messaggio liberante del Vangelo?
Questa sintesi non riguarda soltanto l’ambito
immediato della testimonianza personale, ma deve attraversare in modo benefico
tutti gli orizzonti più ampi della convivenza, per i quali la mediazione della
politica appare come una forma alta e irrinunciabile di servizio alla persona
umana e di promozione del bene comune. La società ha oggi bisogno di una
rinnovata dedizione cristiana alla politica, che sappia porsi in ascolto della
dottrina sociale della Chiesa, levando la sua voce – in modo realmente libero e
profetico – in difesa della partecipazione e delle istituzioni democratiche, e
progettando nuove forme di incontro fra etica ed economia, per sconfiggere la
grande tentazione dell’individualismo.
Da allora non si è mai riusciti veramente a
ripartire. Troppo lunga era stata la glaciazione. Si erano perse tradizioni,
consuetudini e relazioni. La Chiesa italiana era profondamente mutata, non era
più quella che aveva immaginato possibile la realizzazione di una società
veramente animata dalla carità fraterna, secondo il modello religioso dell’agàpe, che significa includere, far
parte, risanare, risollevare.
3. Agli anni ’80
risale il nostro modello parrocchiale, alle Valli, che è iniziato a mutare nell’ottobre 2015. Quel
mese scrissi, per riassumere il senso della passata esperienza, quello che di
seguito trascrivo:
******************************
La nostra parrocchia è stata appunto
istituita come territoriale: la comunità che la costituisce comprende gran
parte del quartiere delle Valli, fino a piazza Conca d’Oro. Dai dati dell’ultimo
censimento, le Valli sono abitate complessivamente da circa ventimila persone,
buona parte delle quali rientrano nella nostra comunità parrocchiale. Di
queste, secondo la media nazionale, un buon 80% può annoverarsi tra i fedeli. Tenendo conto che, in realtà,
anche la gente che abita nei primi edifici oltre piazza Conca d’Oro, prossimi
alla piazza, gravita intorno alla nostra parrocchia per ragioni di comodità,
anche se territorialmente fa parte della comunità parrocchiale degli Angeli
Custodi, possiamo stimare in circa quindicimila persone la nostra comunità
parrocchiale. La nostra quindi è, o almeno dovrebbe essere, una esperienza parrocchiale di massa. Quante
di queste persone fanno effettivamente comunità con noi, vale a dire vengono in parrocchia
come a casa propria? Se devo giudicare dal
numero di persone che frequentano le messe domenicali, direi, al massimo,
intorno alle settecento. Secondo la media nazionale dei praticanti [tra il 20 e il 30% dei
battezzati] dovrebbero essere almeno il triplo. Se però consideriamo il numero
di coloro che nelle statistiche vengono chiamati convinti e attivi, di quei
settecento ne rimangono, credo, circa la metà. E di questi pochi, troppo
pochi!, bambini per la prima iniziazione religiosa, pochissimi i ragazzi per
quella di secondo livello e un numero ancora più esiguo di giovani più grandi.
Ecco l'enormità di ciò che è successo da noi, alle Valli! Questa
differenza tra i quindicimila e i settecento, o forse sarebbe più giusto dire i
trecentocinquanta, se non ci bastano i praticanti,
ma vogliamo veramente fare
popolo, misura le dimensioni del lavoro che dobbiamo fare. C’è chi dispera di poterlo fare. La nostra
chiesa non sarà mai più piena di gente, dice. Ma, se bastasse questo, saremmo
già a buon punto. La nostra chiesa parrocchiale è sottodimensionata rispetto
alle esigenze del quartiere, la si riempie facilmente. Ad un certo punto, alla
Messa con il vescovo per l’insediamento di don Remo, il nuovo pastore che ci è
stato inviato, c’erano solo posti in piedi. E non si tratta, poi, semplicemente
di riempire la chiesa. Non è una folla che ci serve, ma fare comunità. Questo ci
riesce difficile, se proviamo a confrontarci con i grandi numeri. Allora
preferiamo ragionare su scala più piccola: è ciò che si è fatto negli ultimi
trent’anni, un periodo molto lungo, equivalente a una generazione. Gli effetti
sono sotto gli occhi di tutti, in modo veramente eclatante. Abbiamo speso tutte
le nostre forze per far crescere comunità molto coese di qualche centinaio di persone,
neanche tutte veramente della parrocchia
ma immigrate da fuori, con un impegno
gravosissimo per i sacerdoti della parrocchia, e ora abbiamo ciò per cui
abbiamo lavorato: una comunità di
comunità di poche centinaia di
persone.
******************************
La storia della nostra parrocchia ha visto tre
parroci succedersi fino ad oggi: Il primo dal 1956 al 1983, il secondo dal 1983 all’ottobre 2015, e l’ultimo dall’ottobre 2015.
A quest’ultimo il Cardinal vicario ha assegnato nove anni. Non ci saranno più ministeri parrocchiali che durino circa trent’anni. Però, adesso che di quei nove ne sono passati già tre, ci
sembrano troppo pochi per recuperare, per cambiare. Tanto, veramente molto è
stato fatto, ma il problema siamo proprio noi parrocchiani, non sono i volenterosi
preti che ci sono stati mandati. Rispetto ad altre parrocchie siamo
privilegiati per il numero di preti, aiutati da seminaristi, che si stanno
impegnando da noi. Una volta che ci si rese conto della gravità dell’emergenza
che si era venuta a creare, si è provveduto con molta determinazione. Eppure,
eccoci, noi parrocchiani, che mostriamo ancora quelle malattie spirituali di
accidia e pessimismo sterile che ci impediscono di migliorare e che ci tengono
a casa quando arriva l’appello. Non sopportiamo realisticamente di vederci come
siamo diventati? Abbiamo paura di finire legati ad un qualche ingranaggio
ecclesiale dal quale risulti poi difficile uscire? Quest’ultimo potrebbe essere
un problema serio. Ogni forma di aggregazione in parrocchia dovrebbe essere
reversibile, dovrebbe essere connotata da una certa libertà. Uno dovrebbe poter
congedarsene senza per questo venir sospettato di influssi maligni. Poi c’è il
fatto che si è stati abituati, nelle occasioni in cui ci si incontra, a
disvelare la propria vita personale e familiare e la propria interiorità.
Questo è controindicato nelle relazioni sociali. Molti si sentono a disagio. Bisogna invece abituarsi a rispettare la personalità
altrui. Si deve poter essere accettati anche se non ci si scopre integralmente
davanti agli altri, in particolare se non si mettono in piazza peccati e
difficoltà intime. Ci si deve invece familiarizzare ad un pensiero sociale, per cui,
quando ci si incontra, si mette al centro l’esperienza collettiva, non quella
personale. Certo, ci possono essere sedute collettive di autocoscienza, come si
fa in certe comunità terapeutiche, ma si tratta di cose diverse dal valutare
criticamente e programmare un impegno
sociale. E dovrebbero essere sempre dirette da persone competenti, perché
altrimenti si può finire per fare molto male alla gente. Noi, ora, dobbiamo
crescere come comunità viva del quartiere, nel quale costituiamo quasi l’unica,
e comunque la maggiore quanto a spazi e risorse, sede di impegno sociale. Una
grande responsabilità. Che però probabilmente è meno avvertita da quelli che
nel quartiere non vivono, ma si sono abituati a venire da noi solo per seguire un certo percorso di
spiritualità, in gruppi confinati. Vengono, si riuniscono con gli altri del
loro gruppo, e se ne vanno. Chi vive nel quartiere non li conosce. Allora ci
incontriamo con loro solo in certi tempi forti liturgici, come nella Veglia di
Pasqua, e a quel punto sprizzano scintille, perché ognuno vorrebbe seguire la propria
via e non capisce gli altri, perché non li conosce, e non conoscendoli non li
apprezza e non vuole nemmeno farseli amici. In una prospettiva in cui ci
sarebbero tribù religiose in lotta
contro un mondo considerato solo abominio,
non di rado mi sono sentito respinto come persona mondana, non trovandomi però male
in questa posizione, perché la mia spiritualità non è mai stata quella del
ritiro dal mondo e nel mondo so distinguere il tanto bene che c’è dal male che,
come sempre, lo permea.
4. Una fede che non sappia essere fermento
sociale, e che ad esempio si proponga di cambiare il mondo colonizzandolo con la propria
prole, sperando che gli altri si avvicinino per imitazione semplicemente contemplando
lo spettacolo di certe comunità molto coese, senza necessità di aprirsi nel
dialogo per farsi conoscere veramente, diventa rapidamente inutile. Non dalla
tradizione e nemmeno dalla natura, secondo la quale ci riproduciamo, troviamo
quello che ci serve oggi. Famiglie molto coese e gerarchicamente sottomesse a
maschi dominanti non migliorano la società. Le società patriarcali nelle quali
si svilupparono erano veri e propri inferni sociali, in particolare per le
donne. La tradizione va depurata del molto male da cui deriva, anche negli
aspetti religiosi. Il lavoro di purificazione della memoria, al quale papa
Wojtyla ci chiamò in preparazione al Grande Giubileo d’Anno 2000, serve anche a
questo.
La soluzione che mi viene in mente, sulla
base della mia passata esperienza, potrebbe essere questa: perseverare, senza scoraggiarci, nel continuare a incontrarci, a riflettere,
studiare, sperimentare. Il tempo è superiore allo spazio, sostiene papa Francesco:
significa che occorre appunto perseverare, senza perdersi d’animo per ciò che
si vede intorno. A tempo debito avremo i frutti: è la lezione del paziente
agricoltore, che nella speranza già pregusta ciò che ancora non vede, ma che
cresce.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa -
Roma, Monte Sacro, Valli