Critica democratica in religione
1. Dalle Scritture impariamo
la critica della religione. Ce n’è
veramente molta. In quelle che abbiamo ricevuto dalla cultura dell’antico
ebraismo, si intreccia strettamente con quella politica. In quel contesto i grandi personaggi biblici che ci vengono presentati come storici, vale a dire con
riferimenti ad una preciso contesto sociale e temporale, ci si manifestano in genere anche come agitatori o capi politici. Veramente molto diversi ci appaiono,
sotto quest’ultimo profilo, la vita e l’insegnamento del Maestro, che non lo fu
e non volle esserlo. Questo ha liberato la sua critica da precisi modelli
politici, ad esempio da quelli delle antiche monarchie. Il suo Regno, disse,
non è di questo mondo. Il fondamento della sua critica
politica su base religiosa, che, a questo punto, diviene per noi, critica di ogni politica, è il principio del dare a Cesare quel che è di Cesare. Al
suo tempo, nel primo secolo della nostra era, Cesare era il titolo che veniva dato agli imperatori romani. Nella
riflessione dei secoli seguenti, Cesare rappresentò il potere politico, ogni potere
politico. Dall’inizio del secondo millennio, quando le nostre collettività
religiose furono organizzate al modo di un impero religioso, il detto
evangelico su ciò che compete a Cesare fu intenso come una sorta di regolamento di
condominio. Due autorità, quella civile e quella religiosa, dominavano sul
popolo, ed ognuna aveva i suoi diritti che non dovevano essere lesi dall’altra.
Ma quella religiosa era anche plenipotenziaria,
vicaria, del Cielo e sulle questioni
fondamentali, così ritenevano i capi religiosi, doveva prevalere. Purché le si
riconoscesse questa supremazia, essa era disposta ad accordare spazi di libertà
a quell’altra, anche molto vasti, secondo l’ordine politico del feudalesimo.
Quest’ultimo fu assimilato dalla nostra gerarchia del clero nell’Ottavo secolo
e due secoli dopo divenne il modello della ristrutturazione in impero della nostra organizzazione religiosa.
Si pretese che i feudatari religiosi, vescovi e capi di ordini religiosi,
si impegnassero alla fedeltà innanzi tutto verso l’imperatore religioso. Quello
civile non fu in genere d’accordo. Da qui una serie continua di tensioni. Ancora
oggi il modello imperiale e feudale è
quello prevalente, anche se, dal papa Giovanni Battista Montini, Paolo 6°, i
papi cominciarono a rinunciare ad alcuni degli orpelli scenografici del potere imperiale, ad esempio alla pesante
corona a tre strati ricevuta dalla tradizione storica e all’essere condotti in
giro su un grande trono portato a spalla da numerosi portatori.
Un altro modo di intendere il principio del dare a Cesare quel che è di
Cesare è quello di considerarlo l’affermazione che ogni potere umano debba
avere un limite nei valori fondamentali che legano gli esseri umani al
soprannaturale e che, come tali, non dipendono da come vanno le cose in una
certa fase storica e dalle esigenze del momento. E’ collegato ad una
convinzione che assai presto si diffuse nelle nostre prime collettività
religiose, come risulta dalle Scritture che risalgono a quel periodo. C’è un
limite invalicabile all’obbedienza che
gli umani possono pretendere dai propri simili ed è costituito dai valori
religiosi. A volte si crea un conflitto, che investe la coscienza, lì dove si
decide che fare nella vita e si cerca di scegliere non tanto il meglio per sé o
per i propri amici e alleati, ma il bene. Può succedere che un potere umano comandi, ma
si capisca bene che varca quel limite. Quando ciò accade il potere spesso dà
spiegazioni, giustificazioni, del perché si debba fare così. Quando sono
implicati dei valori, può costruire anche una ideologia, per spiegare che essi
non sono veramente o permanentemente lesi, ma solo per quella tale volta, solo
verso quella tale persona o quel tale gruppo, perché si versa in stato di
necessità, ed è meglio, secondo quanto ritennero i giudici del Maestro, che uno
soccomba se ciò occorre per salvare molti. Se è un potere che si avvale della
religione, come sono quelli religiosi, o se è un potere civile sacralizzato, vale a dire che si propone
come voluto dal Cielo, costruirà anche la teologia che gli occorre. Fattolo,
accuserà di eresia i dissenzienti. A quel punto la controversia sembrerà
abbandonare la Terra e raggiungere il Cielo. Ci si scambieranno anatemi e, non
di rado, si passerà a vie di fatto, come ciclicamente è accaduto nella storia
delle nostre collettività religiose, che, avverto, è molto peggiore di quello
che generalmente si è portati a ritenere, ad uno sguardo superficiale.
Nei primi secoli della nostra fede, piuttosto bellicosi, ci si
scambiavano, tra capi religiosi, lettere
di comunione, con quelli con cui si andava d’accordo, che erano però anche anatemi,
lettere di esclusione ( la parola
anatema deriva del greco antico anàtema,
inteso come da escludere e sterminare per ragioni religiose) per quelli i quali
non ne erano destinatari o che appartenevano a una diversa cerchia di comunione. E i deliberati
dei nostri Concili, escluso l’ultimo
degli anni Sessanta, contengono vari anatemi. Ad esempio, ecco un anatema lanciato durante il Concilio Vaticano 1°,
iniziato nel 1869 e interrotto nel 1870, dopo la conquista di Roma da parte
degli italiani del nuovo Regno d’Italia:
Se qualcuno dice che le scienze umane devono essere trattate con quella
libertà, per cui le loro asserzioni, anche se contrarie alla dottrina rivelata,
possono essere ritenute come vere e non essere proscritte dalla chiesa, sia
anatema.
Questo principio anatemizzante costò la
sospensione dal ministero di prete e la scomunica al filosofo Roberto Ardigò,
canonico della Cattedrale di Mantova, per un suo discorso tenuto nel 1869 a
seminaristi, nel quale aveva parlato della figura e dell’opera del filosofo
mantovano del Quattrocento Pietro Pomponazzi, rilevando l’importanza da lui
data all’esperienza e all’osservazione. Il filosofo positivista (vale a dire quello che intendeva argomentare seguendo
il metodo delle scienze naturali), sosteneva Ardigò, dice tra sé: «dove
sia la verità, lo saprò soltanto, quando saprò scoprirla col metodo infallibile
dell’osservazione e dell’analisi». Ad avviso dell’Ardigò questo
sarebbe bastato a fondare una scienza vera e certa
per tutti, tale che bastasse conoscerla per ammetterla, e ciò a differenza
delle verità scoperte per via metafisica, vale a dire senza quel metodo
dell’osservazione e dell’analisi. Sappiamo che gli scienziati contemporanei non
condividono la fiducia dell’Ardigò di poter trovare per via di osservazioni e
di analisi una verità indiscutibile quale quella cercata inutilmente dalla
metafisica. E questo sebbene il metodo delle scienze naturali venga ritenuto
affidabile, credibile, fino a prova contraria, solo se fondato appunto
sull’analisi e l’osservazione (1).
Quel principio, senza arrivare a
una smentita, fu piuttosto modificato mediante integrazioni e precisazioni nei
deliberati del Concilio Vaticano 2°, circa un secolo dopo. Venne riconosciuta l’autonomia delle scienze, limitando i poteri degli interventi censori delle autorità religiose. E’ avvertibile, in questo modo di
argomentare, l’influsso dei processi democratici, che nella seconda metà del
Novecento si fecero strada anche nella nostra confessione religiosa, dopo
essere stati duramente contrastati.
Il pensiero democratico moderno accoglie quell’interpretazione del dare a Cesare come un sistema di limiti invalicabili, a cui
corrispondono diritti inviolabili e doveri
inderogabili. Il primo limite è quello del divieto di disporre
arbitrariamente dei valori religiosi. Questo comportò una desacralizzazione di ogni
potere umano e il principio, corrispondente, della laicità dei poteri pubblici. Nessun potere politico
può pretendere di sottrarsi alla critica affermando di essere voluto dal Cielo
(questa è la sacralizzazione). Senza laicità dei poteri pubblici non ci può essere democrazia come oggi la si
intende, perché altrimenti i poteri umani si presenteranno come non sottoposti
a critica negli aspetti fondamentali sotto pena di anatema religioso. Invece, in democrazia, ogni potere umano deve
poter essere sottoposto a critica. Dagli anni ’60 questo processo ha investito
la stessa organizzazione religiosa, vista come insieme di poteri umani.
Questo ha consentito di rivedere, rendendole più affidabili, certe concezioni
storiche costruite e diffuse negli ambienti religiosi sostanzialmente a fini
propagandistici, fino a giungere, approssimandosi il Grande Giubileo dell’Anno
2000, all’esortazione a procedere ad una purificazione della memoria, alla quale
nel corso dell’Anno Santo, è corrisposto un franco, anche se parziale,
riconoscimento di colpe storiche della gente di fede. Si sta anche cercando, ed
è la storia di questi anni, di rivedere il sistema di potere feudale ricevuto
dalla storia.
Lo sviluppo delle concezioni che ho descritto può essere apprezzato
confrontando testi divulgativi di storia della Chiesa contemporanei con quelli
di qualche anno fa, ad esempio tra quello di Gian Luca Potestà e Giovanni Vian,
Storia del cristianesimo, Il Mulino,
2010, con un testo molto utilizzato nelle università cattoliche fino agli anni
’70, di Ludwig Hertling, Storia della Chiesa. La penetrazione dello spazio umano ad opera del
cristianesimo, Città Nuova, 1974 (l’edizione originale è del 1967).
C’è stata quindi una critica politica, democratica, della religione,
intesa come fatto sociale organizzato, non della fede e della teologia
fondamentale che c’è dietro; una critica di come, in religione, viene
esercitato il potere. Questo ha avuto però anche riflessi teologici, per
cercare come modificare le teologie che, nel passato anche piuttosto recente,
giustificarono poteri dispotici in religione, poco rispettosi delle
personalità, e delle stesse vite, dei dissenzienti. E’ un processo non ancora
concluso. E c’è chi addirittura lo contesta e vorrebbe tornare indietro, o
pensa al nuovo come organizzato con nuove gerarchie tendenzialmente dispotiche.
Solo l’obbedienza-sottomissione,
pensano, garantirebbero gli assoluti della fede e, innanzi tutto, l’idea stessa
di assoluto. Fa di me ciò che vuoi,
sarebbe l’atto di dedizione incondizionata che occorrerebbe esprimere verso il
potere religioso: esso, o la sua pretesa, sono stati all’origine dei tanti
abusi sulle persone umane, anche su larga e larghissima scala, che si sono
avuti nella nostra religione. Una storia orrenda. Perché bisogna avere
consapevolezza di questo: praticamente tutte le accuse di disumanità che sono
state rivolte ai poteri e costumi religiosi sono vere. E’ la pretesa di
esercitare poteri assoluti, senza
limiti, che, in genere, ha fatto danno. Il principio democratico porta invece a
relativizzare ogni potere umano, anche quello che si esercita in religione. E,
innanzi tutto, ad acquisire consapevolezza di ciò che in quest’ultimo è umano,
quindi fallibile e bisognoso di contenimento. Questa critica democratica dei
poteri religiosi è stata ritenuta a lungo eretica, quindi deviante nei
fondamenti, fino ad epoca molto recente. E ancora non si può dire che abbia
piena cittadinanza in religione. Certi eccessi sono diventati impossibili,
certo: sarebbero ritenuti criminali
dalle leggi penali della maggior parte degli stati contemporanei. E anche
Roberto Ardigò, per quanto colpito da una durissima persecuzione morale e
religiosa, cacciato dal suo ministero e dalle liturgie, squalificato
platealmente come spretato e apostata, traditore del Papato nella
controversia politica con il Regno d’Italia, non lo si poté più uccidere e,
anzi, fu onorato dall’altra parte, con il posto di professore nell’Università
di Padova, dove godette la stima di una schiera vastissima di allievi. Non
visse nel secolo giusto, ma poteva andargli peggio. Ed anche dopo il Concilio
Vaticano 2° una certa libertà di pensiero è costata cara, stroncando carriere
ecclesiastiche e universitarie e causando l’emarginazione ecclesiale. Lo deve
mettere in conto chi la voglia praticare, esercitando quella che in religione
si definisce parresia, da termine
greco che si può tradurre con franchezza. Sono solito sconsigliarla ai giovani
preti che mi piacciono e che vorrei si facessero strada. Tocca a noi laici
praticarla apertamente. Lo fece a Bologna mio zio Achille Ardigò, sociologo
apertamente credente cattolico, per tanti anni ascoltato profeta, subendo una
dura emarginazione, durata, così almeno mi parve, almeno per un altro anno dopo
la sua morte, fino a che, in occasione dell’intitolazione a lui del
Dipartimento di sociologia dell’Università di Bologna, nel 2009, si ebbe la
presenza dell’Arcivescovo della città.
2. Ma, tornando a noi, alla nostra realtà parrocchiale, che ci
serve sapere quello a cui ho accennato?
I
processi che ho descritto sono in atto anche tra la gente di fede del nostro
quartiere, nella nostra parrocchia, anche se a volte non se ne è consapevoli.
Il progresso umano deriva dall’acquisire consapevolezza degli errori, in
modo da correggerli, se possibile, e comunque da non ripeterli. Si cerca di
ottenere questo risultato anche dai sistemi di calcolo elettronico più
sofisticati, in modo da realizzare qualcosa
di simile ad un’intelligenza artificiale. Perché è intelligenza il
riconoscere ed emendare gli errori personali e sociali.
Purtroppo, per carenze formative, questo progresso non ha sufficiente
permeato le nostre collettività, che quindi sono portate a ripetere, spesso in
buona fede, gli errori del passato. Lo sanno bene i preti con cura d’anime, in
particolare quelli delle parrocchie. Loro hanno studiato, sanno, e quindi possono
riconoscere i guasti quando si presentano. Si pecca d’ignoranza, di
fondamentalismo, di violenza sbrigativa verso gli altri, di intolleranza verso
i dissenzienti, ed anche di
sottomissione ai prepotenti. Perché talvolta si è insofferenti dei limiti per
avidità di potere, ma anche per smania di dipendenza, per cavarsi dalle
responsabilità. Peccano anche persone fondamentalmente buone, che però, con le
migliori intenzioni, possono fare molto male. Le conseguenze, in un microcosmo
parrocchiale, non sono gravi, perché uno ha sempre la scelta di mandare tutti a
quel paese e di andarsene altrove. Perché farsi il sangue cattivo, se si può trarsi
d’impaccio così? Magari a tre fermate d’autobus è tutto diverso. Non è come per
Roberto Ardigò che, finché visse, dovunque andava, era seguito dalla condanna
religiosa: apostata, apostata, apostata…
e le cose peggiorarono durante i primi vent’anni del Novecento, anni duri, che
distrussero più d’una grande anima per smania di persecuzione religiosa,
convinti, anche qui, che occorresse
dannare i pochi che si azzardavano a dissentire per salvare i più. Una persona, l’Ardigò che
continuò sostanzialmente, fino alla sua tragica fine, a fare vita da prete.
Ecco come rispose nel 1903 a chi lo accusava di aver apostatato per la rabbia di non essere
stato fatto vescovo:
«Correre il palio a chi salisse più presto i gradini della
gerarchia ecclesiastica? Ma che! Una sola fu sempre la preoccupazione della mia
vita: quella di avere l’agio di attendere a’ miei studi prediletti. Aspirare a
fare il Vescovo?
Per carità! Piuttosto rimanere sempre, come pure sono stato da principio, un
semplice maestro elementare. Ah, sì! L’Articolista non lo immagina il
temperamento che sono io.
Per anni e anni a Mantova (e mi
rallegro tutto a pensarvi e come a un tempo di vita proprio secondo i miei
gusti) finita la scuola alle tre o alle quattro dopo il pomeriggio, e mangiato
un poco a casa, io usciva dalle porte della città con un libro in tasca e carta
e matita, e mi aggirava solitario, a mio agio, senza seccature attorno, fosse
pure d’estate col gran caldo, sulle rive dei laghi, fermandomi talvolta in
qualche insenatura ombrosa delle alture che li circondano, e preparandomi in
mente il tratto del mio libro in formazione che doveva far seguito ai tratti
già scritti. E sull’imbrunire, lieto del fardello delle fatte meditazioni che
portava meco, tornava, tutto polveroso e inzaccherato, a casa a fare un po’ di
cena, per passare al Caffè del Corso a giuocare un pajo d’ore al bigliardo. E
quindi una buona dormita, e alzarmi la mattina assai per tempo a scrivere
quanto aveva pensato il pomeriggio precedente, e godere così che un po’ alla
volta venisse fuori un libro da lanciare al pubblico, come una sfida ai
pregiudizi tradizionali: di lanciarla colla fiducia confortantissima della più
salda e imperitura convinzione. Altro che il gusto di fare il vescovo!»
Mancando una sufficiente formazione, in particolare
nel campo della conoscenza storica a fini di purificazione della memoria, una
persona religiosa, del tutto in buona fede, può anche incorrere in un anatema ancora pienamente vigente, ad
esempio se si sentisse di sostenere che
quel tale, con nome e cognome, è dannato o, il che è lo stesso, non ha o non avrà la vita beata.
L’anatema sulla questione lo proclamò il Concilio di Trento, nel Cinquecento.
Però, per peccare veramente occorre piena coscienza e deliberato consenso, e
spesso in religione ci muoviamo superficialmente, con scarsa consapevolezza,
stando a ricasco dei preti o di altri ai quali riconosciamo autorità, quindi
non li abbiamo, rimaniamo o ritorniamo nella condizione infantile, aspettando
che qualcuno ci indichi la via o la soluzione, insomma ci dica finalmente nel
dettaglio che fare, in modo di liberarci dall’onere, e dalla responsabilità,
della decisione, e in modo da poterci, poi, se si fa danno, scusarci con l’aver obbedito, un po’ come fecero, al processo internazionale di
Norimberga del 1946, i gerarchi nazisti accusati.
Un gruppo di lettura e di approfondimento che
prendesse piede in parrocchia potrebbe essere un buon inizio per cominciare a
cambiare. Purtroppo ci manca una biblioteca.
E non ci conosciamo ancora abbastanza bene per fidarci a tal punto gli
uni degli altri, e a stimarci, tanto da programmare, ad esempio un impegno
settimanale o quindicinale dedicato a questo. Ma vorremmo conoscerci meglio?
Quando ci si siede insieme in una sala della parrocchia, ad esempio nell’incontro
di approfondimento per piccoli gruppi che si terrà venerdì prossimo, alle
20:30, dovremmo iniziare per presentarci per nome, in modo da potere essere
chiamati per nome. A quel punto non saremmo più per gli altri, quello là o quella lì.
Una volta iniziato, però, bisognerebbe prendere l’abitudine di non mancare
a nessun appuntamento. Bisognerebbe imparare la pervicacia che spesso ci viene
a mancare.
E’ stato osservato che la democrazia inizia come una forma di amicizia.
Se ne parla nell’esortazione apostolica La
gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium, del
2013, quando si introduce il tema dell’amicizia
sociale:
227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e
vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con
la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono
prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie
confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un
terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di
sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento
di un nuovo processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
228. In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle
differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il
coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri
nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire
l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà,
intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di
costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli
opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né
all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano
superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in
contrasto.
Di certe abitudini democratiche occorre fare tirocinio, darsi ordine e
metodo condivisi. Negli incontri a cui ho partecipato recentemente in
parrocchia ho notato alcuni aspetti da correggere. Essenzialmente è questione
di limiti che ci si deve auto-imporre,
nell’interesse comune. Ad esempio un limite di tempo quando si interviene. Il
limite del tema proposto: bisogna cercare di stare in tema. Il limite dell’ascolto
degli altri: si interviene non solo per dire la propria e avere consenso, ma
per ascoltare. Ogni intervento dovrebbe collegarsi a quello degli altri. E’
così che poi si può creare un sentire comune, anche se non si arriva a
concordare con tutti e su tutti. Lo scopo non è l’eliminazione delle
differenze, ma il superamento del conflitto nello spirito dell’agàpe religiosa. E poi c’è il limite dell’attenzione:
non si cresce se non si fa attenzione agli altri. Che cosa ci lasciano? A volte
sembra che potrebbero esserci o non esserci e, in fondo, non farebbe
differenza; forse, a volte, si preferirebbe che certuni non ci fossero. Parlo
di ciò che non va in un piccolo gruppo di approfondimento religioso, ma, badate
bene, è anche quello che accade in altri ambienti, ad esempio nei gruppi di
orientamento politico. Infine il limite dell’invadenza: come si fa a volte da
ragazzi, si è tentati di entrare di forza nelle vite degli altri, si arriva
anche a parole grosse, ricambiati a
volte, e a volte no, e questa è l’ipotesi peggiore, perché può segnalare una
persona che, colpita, si ritrae umiliata in sé stessa. Nella presunzione di ricostruire gli altri si può fare proprio questo danno.
Entra in questione l’autorità che, di fatto, si pretende di affermare sugli
altri.
I preti
conoscono bene il flagello dei capetti che talvolta finiscono per rovinare i
migliori progetti. Basta dare i gradi da caporale a qualcuno, che subito quello
tende a degenerare. Tra gli scout, ad esempio, a cose del genere si fa molta
attenzione: ogni autorità ha sempre chiari limiti ed è sottoposta a verifica:
nessuna autorità è per sempre e ogni autorità è condizionata al buon esercizio.
Un buon tirocinio alla democrazia. Nel mondo scout, però, il controllo e la
verifica, quindi il limite, vengono dall’alto: in un mondo di pari, quale l’ambiente
democratico è, essi sono materia di decisione collettive, dibattute,
argomentate. E’ questo il metodo degli adulti di Azione Cattolica.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
(1) Chi volesse approfondire, può farlo sul WEB: http://www.academia.edu/13806050/Roberto_Ardig%C3%B2_e_Pietro_Pomponazzi._Le_radici_rinascimentali_del_positivismo