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  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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domenica 18 marzo 2018

Critica democratica in religione


Critica democratica in religione

1.  Dalle Scritture impariamo la critica della religione.  Ce n’è veramente molta. In quelle che abbiamo ricevuto dalla cultura dell’antico ebraismo, si intreccia strettamente con quella politica. In quel contesto i grandi personaggi biblici che ci vengono presentati come storici, vale a dire con riferimenti ad una preciso contesto sociale e temporale, ci si manifestano in genere anche come agitatori o capi politici. Veramente molto diversi ci appaiono, sotto quest’ultimo profilo, la vita e l’insegnamento del Maestro, che non lo fu e non volle esserlo. Questo ha liberato la sua critica da precisi modelli politici, ad esempio da quelli delle antiche monarchie. Il suo Regno, disse, non è di  questo  mondo. Il fondamento della sua critica politica su base religiosa, che, a questo punto, diviene per noi, critica di ogni  politica, è il principio del dare a Cesare quel che è di Cesare. Al suo tempo, nel primo secolo della nostra era, Cesare era il titolo che veniva dato agli imperatori romani.  Nella riflessione dei secoli seguenti,  Cesare  rappresentò il potere politico, ogni potere politico. Dall’inizio del secondo millennio, quando le nostre collettività religiose furono organizzate al modo di un impero religioso, il detto evangelico su ciò che compete a Cesare  fu intenso come una sorta di regolamento di condominio. Due autorità, quella civile e quella religiosa, dominavano sul popolo, ed ognuna aveva i suoi diritti che non dovevano essere lesi dall’altra. Ma quella religiosa era anche plenipotenziaria, vicaria, del Cielo e sulle questioni fondamentali, così ritenevano i capi religiosi, doveva prevalere. Purché le si riconoscesse questa supremazia, essa era disposta ad accordare spazi di libertà a quell’altra, anche molto vasti, secondo l’ordine politico del feudalesimo. Quest’ultimo fu assimilato dalla nostra gerarchia del clero nell’Ottavo secolo e due secoli dopo divenne il modello della ristrutturazione in impero della nostra organizzazione religiosa. Si pretese che i feudatari  religiosi, vescovi e capi di ordini religiosi, si impegnassero alla fedeltà innanzi tutto verso l’imperatore religioso. Quello civile non fu in genere d’accordo. Da qui una serie continua di tensioni. Ancora oggi  il modello imperiale e feudale è quello prevalente, anche se, dal papa Giovanni Battista Montini, Paolo 6°, i papi cominciarono a rinunciare ad alcuni degli orpelli scenografici del potere imperiale, ad esempio alla pesante corona a tre strati ricevuta dalla tradizione storica e all’essere condotti in giro su un grande trono portato a spalla da numerosi portatori.
  Un altro modo di intendere il principio del  dare a Cesare quel che è di Cesare è quello di considerarlo l’affermazione che ogni potere umano debba avere un limite nei valori fondamentali che legano gli esseri umani al soprannaturale e che, come tali, non dipendono da come vanno le cose in una certa fase storica e dalle esigenze del momento. E’ collegato ad una convinzione che assai presto si diffuse nelle nostre prime collettività religiose, come risulta dalle Scritture che risalgono a quel periodo. C’è un limite invalicabile all’obbedienza che gli umani possono pretendere dai propri simili ed è costituito dai valori religiosi. A volte si crea un conflitto, che investe la coscienza, lì dove si decide che fare nella vita e si cerca di scegliere non tanto il meglio per sé o per i propri amici e alleati, ma il bene.  Può succedere che un potere umano comandi, ma si capisca bene che varca quel limite. Quando ciò accade il potere spesso dà spiegazioni, giustificazioni, del perché si debba fare così. Quando sono implicati dei valori, può costruire anche una ideologia, per spiegare che essi non sono veramente o permanentemente  lesi, ma solo per quella tale volta, solo verso quella tale persona o quel tale gruppo, perché si versa in stato di necessità, ed è meglio, secondo quanto ritennero i giudici del Maestro, che uno soccomba se ciò occorre per salvare molti. Se è un potere che si avvale della religione, come sono quelli religiosi, o se è un potere civile  sacralizzato, vale a dire che si propone come voluto dal Cielo, costruirà anche la teologia che gli occorre. Fattolo, accuserà di eresia i dissenzienti. A quel punto la controversia sembrerà abbandonare la Terra e raggiungere il Cielo. Ci si scambieranno anatemi e, non di rado, si passerà a vie di fatto, come ciclicamente è accaduto nella storia delle nostre collettività religiose, che, avverto, è molto peggiore di quello che generalmente si è portati a ritenere, ad uno sguardo superficiale.
  Nei primi secoli della nostra fede, piuttosto bellicosi, ci si scambiavano, tra capi religiosi, lettere di comunione, con quelli con cui si andava d’accordo, che erano però anche anatemi, lettere di esclusione ( la parola anatema deriva del greco antico anàtema, inteso come da escludere e sterminare per ragioni religiose) per quelli i quali non ne erano destinatari o che appartenevano a una diversa  cerchia di  comunione. E i deliberati dei nostri  Concili, escluso l’ultimo degli anni Sessanta,  contengono vari  anatemi. Ad esempio, ecco un anatema  lanciato durante il Concilio Vaticano 1°, iniziato nel 1869 e interrotto nel 1870, dopo la conquista di Roma da parte degli italiani del nuovo Regno d’Italia:
Se qualcuno dice che le scienze umane devono essere trattate con quella libertà, per cui le loro asserzioni, anche se contrarie alla dottrina rivelata, possono essere ritenute come vere e non essere proscritte dalla chiesa, sia anatema.
 Questo principio anatemizzante  costò la sospensione dal ministero di prete e la scomunica al filosofo Roberto Ardigò, canonico della Cattedrale di Mantova, per un suo discorso tenuto nel 1869 a seminaristi, nel quale aveva parlato della figura e dell’opera del filosofo mantovano del Quattrocento Pietro Pomponazzi, rilevando l’importanza da lui data all’esperienza e all’osservazione. Il filosofo positivista (vale a dire quello che intendeva argomentare seguendo il metodo delle scienze naturali), sosteneva Ardigò, dice tra sé: «dove sia la verità, lo saprò soltanto, quando saprò scoprirla col metodo infallibile dell’osservazione e dell’analisi». Ad avviso dell’Ardigò questo sarebbe bastato a fondare una scienza  vera  e certa per tutti, tale che bastasse conoscerla per ammetterla, e ciò a differenza delle verità scoperte per via metafisica, vale a dire senza quel metodo dell’osservazione e dell’analisi. Sappiamo che gli scienziati contemporanei non condividono la fiducia dell’Ardigò di poter trovare per via di osservazioni e di analisi una verità indiscutibile quale quella cercata inutilmente dalla metafisica. E questo sebbene il metodo delle scienze naturali venga ritenuto affidabile, credibile, fino a prova contraria, solo se fondato appunto sull’analisi e l’osservazione (1).
  Quel  principio, senza arrivare a una smentita, fu piuttosto modificato mediante integrazioni e precisazioni nei deliberati del Concilio Vaticano 2°, circa un secolo dopo. Venne riconosciuta l’autonomia  delle scienze, limitando  i poteri degli interventi censori delle autorità religiose. E’ avvertibile, in questo modo di argomentare, l’influsso dei processi democratici, che nella seconda metà del Novecento si fecero strada anche nella nostra confessione religiosa, dopo essere stati duramente contrastati.
  Il pensiero democratico moderno accoglie quell’interpretazione del dare a Cesare  come un sistema di limiti invalicabili, a cui corrispondono  diritti   inviolabili  e doveri inderogabili. Il primo limite è quello del divieto di disporre arbitrariamente dei valori religiosi. Questo comportò una desacralizzazione  di ogni potere umano e il principio, corrispondente, della  laicità  dei poteri pubblici. Nessun potere politico può pretendere di sottrarsi alla critica affermando di essere voluto dal Cielo (questa è la sacralizzazione). Senza laicità  dei poteri pubblici  non ci può essere democrazia come oggi la si intende, perché altrimenti i poteri umani si presenteranno come non sottoposti a critica negli aspetti fondamentali sotto pena di anatema religioso. Invece, in democrazia, ogni potere umano deve poter essere sottoposto a critica. Dagli anni ’60 questo processo ha investito la stessa organizzazione religiosa, vista come insieme di poteri  umani. Questo ha consentito di rivedere, rendendole più affidabili, certe concezioni storiche costruite e diffuse negli ambienti religiosi sostanzialmente a fini propagandistici, fino a giungere, approssimandosi il Grande Giubileo dell’Anno 2000, all’esortazione a procedere ad una  purificazione della memoria, alla quale nel corso dell’Anno Santo, è corrisposto un franco, anche se parziale, riconoscimento di colpe storiche della gente di fede. Si sta anche cercando, ed è la storia di questi anni, di rivedere il sistema di potere feudale ricevuto dalla storia.
  Lo sviluppo delle concezioni che ho descritto può essere apprezzato confrontando testi divulgativi di storia della Chiesa contemporanei con quelli di qualche anno fa, ad esempio tra quello di Gian Luca Potestà e Giovanni Vian, Storia del cristianesimo, Il Mulino, 2010, con un testo molto utilizzato nelle università cattoliche fino agli anni ’70, di  Ludwig Hertling, Storia della Chiesa. La penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo, Città Nuova, 1974 (l’edizione originale è del 1967).
  C’è stata quindi una critica politica, democratica, della religione, intesa come fatto sociale organizzato, non della fede e della teologia fondamentale che c’è dietro; una critica di come, in religione, viene esercitato il potere. Questo ha avuto però anche riflessi teologici, per cercare come modificare le teologie che, nel passato anche piuttosto recente, giustificarono poteri dispotici in religione, poco rispettosi delle personalità, e delle stesse vite, dei dissenzienti. E’ un processo non ancora concluso. E c’è chi addirittura lo contesta e vorrebbe tornare indietro, o pensa al nuovo come organizzato con nuove gerarchie tendenzialmente dispotiche. Solo l’obbedienza-sottomissione, pensano, garantirebbero gli assoluti della fede e, innanzi tutto, l’idea stessa di assoluto. Fa di me ciò che vuoi, sarebbe l’atto di dedizione incondizionata che occorrerebbe esprimere verso il potere religioso: esso, o la sua pretesa, sono stati all’origine dei tanti abusi sulle persone umane, anche su larga e larghissima scala, che si sono avuti nella nostra religione. Una storia orrenda. Perché bisogna avere consapevolezza di questo: praticamente tutte le accuse di disumanità che sono state rivolte ai poteri e costumi religiosi sono vere. E’ la pretesa di esercitare  poteri assoluti, senza limiti, che, in genere, ha fatto danno. Il principio democratico porta invece a relativizzare ogni potere umano, anche quello che si esercita in religione. E, innanzi tutto, ad acquisire consapevolezza di ciò che in quest’ultimo è umano, quindi fallibile e bisognoso di contenimento. Questa critica democratica dei poteri religiosi è stata ritenuta a lungo eretica, quindi deviante nei fondamenti, fino ad epoca molto recente. E ancora non si può dire che abbia piena cittadinanza in religione. Certi eccessi sono diventati impossibili, certo:  sarebbero ritenuti criminali dalle leggi penali della maggior parte degli stati contemporanei. E anche Roberto Ardigò, per quanto colpito da una durissima persecuzione morale e religiosa, cacciato dal suo ministero e dalle liturgie, squalificato platealmente come spretato e apostata, traditore del Papato nella controversia politica con il Regno d’Italia, non lo si poté più uccidere e, anzi, fu onorato dall’altra parte, con il posto di professore nell’Università di Padova, dove godette la stima di una schiera vastissima di allievi. Non visse nel secolo giusto, ma poteva andargli peggio. Ed anche dopo il Concilio Vaticano 2° una certa libertà di pensiero è costata cara, stroncando carriere ecclesiastiche e universitarie e causando l’emarginazione ecclesiale. Lo deve mettere in conto chi la voglia praticare, esercitando quella che in religione si definisce parresia, da termine greco che si può tradurre con franchezza. Sono solito sconsigliarla ai giovani preti che mi piacciono e che vorrei si facessero strada. Tocca a noi laici praticarla apertamente. Lo fece a Bologna mio zio Achille Ardigò, sociologo apertamente credente cattolico, per tanti anni ascoltato profeta, subendo una dura emarginazione, durata, così almeno mi parve, almeno per un altro anno dopo la sua morte, fino a che, in occasione dell’intitolazione a lui del Dipartimento di sociologia dell’Università di Bologna, nel 2009, si ebbe la presenza dell’Arcivescovo della città.
2. Ma, tornando a noi, alla nostra realtà parrocchiale, che ci serve sapere quello a cui ho accennato?
  I processi che ho descritto sono in atto anche tra la gente di fede del nostro quartiere, nella nostra parrocchia, anche se a volte non se ne è consapevoli.
  Il progresso umano deriva dall’acquisire consapevolezza degli errori, in modo da correggerli, se possibile, e comunque da non ripeterli. Si cerca di ottenere questo risultato anche dai sistemi di calcolo elettronico più sofisticati, in modo da realizzare qualcosa  di simile ad un’intelligenza artificiale. Perché è intelligenza il riconoscere ed emendare gli errori personali e sociali.
  Purtroppo, per carenze formative, questo progresso non ha sufficiente permeato le nostre collettività, che quindi sono portate a ripetere, spesso in buona fede, gli errori del passato. Lo sanno bene i preti con cura d’anime, in particolare quelli delle parrocchie. Loro hanno studiato, sanno, e quindi possono riconoscere i guasti quando si presentano. Si pecca d’ignoranza, di fondamentalismo, di violenza sbrigativa verso gli altri, di intolleranza verso i dissenzienti, ed anche  di sottomissione ai prepotenti. Perché talvolta si è insofferenti dei limiti per avidità di potere, ma anche per smania di dipendenza, per cavarsi dalle responsabilità. Peccano anche persone fondamentalmente buone, che però, con le migliori intenzioni, possono fare molto male. Le conseguenze, in un microcosmo parrocchiale, non sono gravi, perché uno ha sempre la scelta di mandare tutti a quel paese e di andarsene altrove. Perché farsi il sangue cattivo, se si può trarsi d’impaccio così? Magari a tre fermate d’autobus è tutto diverso. Non è come per Roberto Ardigò che, finché visse, dovunque andava, era seguito dalla condanna religiosa: apostata, apostata, apostata… e le cose peggiorarono durante i primi vent’anni del Novecento, anni duri, che distrussero più d’una grande anima per smania di persecuzione religiosa, convinti, anche qui,  che occorresse dannare i pochi che si azzardavano a dissentire  per salvare i più. Una persona, l’Ardigò che continuò sostanzialmente, fino alla sua tragica fine, a fare vita da prete. Ecco come rispose nel 1903 a chi lo accusava  di aver apostatato per la rabbia di non essere stato fatto vescovo:

«Correre il palio a chi salisse più presto i gradini della gerarchia ecclesiastica? Ma che! Una sola fu sempre la preoccupazione della mia vita: quella di avere l’agio di attendere a’ miei studi prediletti. Aspirare a fare il  Vescovo? Per carità! Piuttosto rimanere sempre, come pure sono stato da principio, un semplice maestro elementare. Ah, sì! L’Articolista non lo immagina il temperamento che sono io.
Per anni e anni a Mantova (e mi rallegro tutto a pensarvi e come a un tempo di vita proprio secondo i miei gusti) finita la scuola alle tre o alle quattro dopo il pomeriggio, e mangiato un poco a casa, io usciva dalle porte della città con un libro in tasca e carta e matita, e mi aggirava solitario, a mio agio, senza seccature attorno, fosse pure d’estate col gran caldo, sulle rive dei laghi, fermandomi talvolta in qualche insenatura ombrosa delle alture che li circondano, e preparandomi in mente il tratto del mio libro in formazione che doveva far seguito ai tratti già scritti. E sull’imbrunire, lieto del fardello delle fatte meditazioni che portava meco, tornava, tutto polveroso e inzaccherato, a casa a fare un po’ di cena, per passare al Caffè del Corso a giuocare un pajo d’ore al bigliardo. E quindi una buona dormita, e alzarmi la mattina assai per tempo a scrivere quanto aveva pensato il pomeriggio precedente, e godere così che un po’ alla volta venisse fuori un libro da lanciare al pubblico, come una sfida ai pregiudizi tradizionali: di lanciarla colla fiducia confortantissima della più salda e imperitura convinzione. Altro che il gusto di fare il vescovo!»

  Mancando una sufficiente formazione, in particolare nel campo della conoscenza storica a fini di purificazione della memoria, una persona religiosa, del tutto in buona fede, può anche incorrere in un anatema ancora pienamente vigente, ad esempio se si sentisse di sostenere  che quel tale, con nome e cognome, è dannato  o, il che è lo stesso,  non ha o non avrà la vita beata. L’anatema sulla questione lo proclamò il Concilio di Trento, nel Cinquecento. Però, per peccare veramente occorre piena coscienza e deliberato consenso, e spesso in religione ci muoviamo superficialmente, con scarsa consapevolezza, stando a ricasco dei preti o di altri ai quali riconosciamo autorità, quindi non li abbiamo, rimaniamo o ritorniamo nella condizione infantile, aspettando che qualcuno ci indichi la via o la soluzione, insomma ci dica finalmente nel dettaglio che fare, in modo di liberarci dall’onere, e dalla responsabilità, della decisione, e in modo da poterci, poi, se si fa danno,  scusarci con l’aver obbedito, un po’ come fecero, al processo internazionale di Norimberga del 1946, i gerarchi nazisti accusati.
 Un gruppo di lettura e di approfondimento che prendesse piede in parrocchia potrebbe essere un buon inizio per cominciare a cambiare. Purtroppo ci manca una biblioteca.  E non ci conosciamo ancora abbastanza bene per fidarci a tal punto gli uni degli altri, e a stimarci, tanto da programmare, ad esempio un impegno settimanale o quindicinale dedicato a questo. Ma vorremmo conoscerci meglio? Quando ci si siede insieme in una sala della parrocchia, ad esempio nell’incontro di approfondimento per piccoli gruppi che si terrà venerdì prossimo, alle 20:30, dovremmo iniziare per presentarci per nome, in modo da potere essere chiamati per nome. A quel punto non saremmo più per gli altri, quello là  o  quella lì.
  Una volta iniziato, però, bisognerebbe prendere l’abitudine di non mancare a nessun appuntamento. Bisognerebbe imparare la pervicacia che spesso ci viene a mancare.
  E’ stato osservato che la democrazia inizia come una forma di amicizia. Se ne parla nell’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium,   del 2013, quando si introduce il tema dell’amicizia sociale:

227. Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
228. In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto.

  Di certe abitudini democratiche occorre fare tirocinio, darsi ordine e metodo condivisi. Negli incontri a cui ho partecipato recentemente in parrocchia ho notato alcuni aspetti da correggere. Essenzialmente è questione di  limiti che ci si deve auto-imporre, nell’interesse comune. Ad esempio un limite di tempo quando si interviene. Il limite del tema proposto: bisogna cercare di stare in tema. Il limite dell’ascolto degli altri: si interviene non solo per dire la propria e avere consenso, ma per ascoltare. Ogni intervento dovrebbe collegarsi a quello degli altri. E’ così che poi si può creare un sentire comune, anche se non si arriva a concordare con tutti e su tutti. Lo scopo non è l’eliminazione delle differenze, ma il superamento del conflitto nello spirito dell’agàpe  religiosa. E poi c’è il limite dell’attenzione: non si cresce se non si fa attenzione agli altri. Che cosa ci lasciano? A volte sembra che potrebbero esserci o non esserci e, in fondo, non farebbe differenza; forse, a volte, si preferirebbe che certuni non ci fossero. Parlo di ciò che non va in un piccolo gruppo di approfondimento religioso, ma, badate bene, è anche quello che accade in altri ambienti, ad esempio nei gruppi di orientamento politico. Infine il limite dell’invadenza: come si fa a volte da ragazzi, si è tentati di entrare di forza nelle vite degli altri, si arriva anche a  parole grosse, ricambiati a volte, e a volte no, e questa è l’ipotesi peggiore, perché può segnalare una persona che, colpita, si ritrae umiliata in sé stessa. Nella presunzione di  ricostruire  gli altri si può fare proprio questo danno. Entra in questione l’autorità che, di fatto, si pretende di affermare sugli altri.
  I preti conoscono bene il flagello dei capetti che talvolta finiscono per rovinare i migliori progetti. Basta dare i gradi da caporale a qualcuno, che subito quello tende a degenerare. Tra gli scout, ad esempio, a cose del genere si fa molta attenzione: ogni autorità ha sempre chiari limiti ed è sottoposta a verifica: nessuna autorità è per sempre e ogni autorità è condizionata al buon esercizio. Un buon tirocinio alla democrazia. Nel mondo scout, però, il controllo e la verifica, quindi il limite, vengono dall’alto: in un mondo di pari, quale l’ambiente democratico è, essi sono materia di decisione collettive, dibattute, argomentate. E’ questo il metodo degli adulti di Azione Cattolica.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

  
(1) Chi volesse approfondire, può farlo sul WEB: http://www.academia.edu/13806050/Roberto_Ardig%C3%B2_e_Pietro_Pomponazzi._Le_radici_rinascimentali_del_positivismo