Nessuna concorrenza
Nel nostro quartiere
ci sono diversi supermercati che si fanno concorrenza. C’è n’è uno davanti alla chiesa, un altro
alla fine di via Val Padana, e, poco distanti, uno su via Conca d’Oro e
l’ultimo, il più grande, su via Prati fiscali. Che succederebbe se ce ne fosse
solo uno?
Consideriamo invece
i centri culturali e di aggregazione sociale alle Valli. Cominciamo ad
elencarli. Innanzi tutto, la parrocchia, naturalmente. Una ditta che lavora qui da noi
dagli anni Cinquanta, con un suo avviamento, quindi con una sua affezionata clientela. E’ l’unica che è autorizzata,
in base ad un’antica consuetudine, a lanciare durante il giorno uno spot sonoro, con le campane, che ora diffondono
vari carillon. Poi c’è… che cosa c’è poi? Pensateci su. A me non viene in mente altro. Lavoriamo senza concorrenza. Dal punto
di vista, come dire, commerciale, una
grande opportunità, ma, dal punto di vista civile
e religioso, anche una grande responsabilità.
Non sto a ripetermi, ma qui da noi alle Valli
per un tempo lunghissimo abbiamo diffuso una versione piuttosto semplificata
della vita religiosa che non rende ragione della grandissima ricchezza della
cultura in questo campo, non intesa solo come impegno intellettuale, ma proprio
come forme di vita sociali, costumi, etica, arte e via dicendo, perché nei due
millenni della sua storia la nostra fede ha permeato tutto in Europa, e in particolare in Italia e a Roma. Di questa profondità e completezza di formazione, a cui corrisponde una raffinata educazione, c’è sempre bisogno nelle società umane, ora come nel passato, ad ogni età, ma
maggiormente tra i più giovani, dei quali spesso ci facciamo un’immagine
caricaturale. Ma in genere ora si compra a caro prezzo, è divenuta un bene per
privilegiati, di quelli che possono mandare i figli nelle scuole migliori. Da noi viene invece offerta gratuitamente, fa parte della nostra tradizione. Qualcosa però non si può comprare, ha quindi
un valore inestimabile (e anche questo da noi è gratuito anche se richiede un maggiore impegno personale), e tuttavia è
indispensabile per la vita, ed è quello che nei discorsi che fa il Papa è
indicato come amicizia sociale o civica e che significa inserirsi in una
rete forte di solidarietà per cui non si è più soli e si
può girare per un quartiere cittadino non più da estranei ma proprio come a
casa propria. Richiede di fare, di costruire,
una comunità, perché per essere amici occorre questo, ed è appunto la via che dagli anni Sessanta si
preferisce per l’inculturazione religiosa. Questo comporta un forte
collegamento tra azione di fede e promozione della pace sociale, perché per essere amici in una comunità occorre fare pace. Si legge nell’esortazione
apostolica La gioia del Vangelo, del
2013:
226. Il conflitto non può
essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo
intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la
realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura
conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà.
227. Di fronte al conflitto,
alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano
le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in
modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle
istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa
impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al
conflitto. È accettare di sopportare il
conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo
processo. «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).
228. In questo modo, si
rende possibile sviluppare una comunione
nelle differenze, che può essere favorita solo da quelle nobili persone che
hanno il coraggio di andare oltre la
superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda.
Per questo è necessario postulare un
principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è
superiore al conflitto. La solidarietà,
intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di
costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e
gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non
significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma
alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità
delle polarità in contrasto.
Storicamente quelli
della nostra fede non sono stati molto pacifici. L’azione politica per la pace
è stata però un campo privilegiato d’azione dei cristiano-democratici e la loro
ideologia ha contribuito in maniera determinante a produrre l’Unione Europea, una grande potenza di pace, tanto che le hanno
assegnato un premio Nobel per questo, nel 2012. E’ fondata sul principio di sussidiarietà, ideato in campo
cattolico. L’impegno per la pace della nostra organizzazione religiosa è
piuttosto recente e coincide, grosso modo, con lo sviluppo del cattolicesimo
democratico, il quale ha espresso anche una componente propriamente teologica
di cui c’è traccia nei documenti dell’ultimo Concilio, svoltosi tra il 1962 e
il 1965. L’idea che la pace vada
costruita è, in fondo, nuova.
Bergoglio scrive addirittura di costruzione
della storia. Le condizioni della pace non preesistono né cadono dal Cielo.
Il rinnovamento della
catechesi negli anni ’70 si fece cercando di collegare la formazione religiosa
a comunità naturali preesistenti, innanzi tutto la famiglia ma poi anche le
realtà civiche ricevute dalla storia, di cui l’Italia in particolare è tanto
ricca: una tradizione sociale da riscoprire per sostenere l’educazione
alla fede. Ci si voleva distaccare da un modello burocratico per cui si faceva
dottrina alla gente e poi il
successo di misurava sul numero di particole distribuite alla Comunione (posto
che la quasi totalità della popolazione era battezzata). Negli anni ’80, sotto
l’impulso del Wojtyla e prendendo esempio dal modello polacco di quell’epoca,
si cercarono di valorizzare i legami nazionali ed europei: fu il tempo dell’ideologia
delle radici. Un lavoro difficile, in
Italia, in cui il papato era stato storicamente acerrimo nemico del processo di
unificazione nazionale. Il primo modello era pre-politico, il secondo politico: negli anni ’90 la dottrina
sociale si spinse a prefigurare un nuovo ordinamento democratico per l’Europa
unificata, dopo l’implosione e dissoluzione del regime sovietico e di quelli
filo-sovietici dell’Europa orientale. Lo fece in occasione della celebrazione
del centenario dalla prima enciclica sociale, Le novità, diffusa nel 1981 da Gioacchino Pecci, regnante in
religione come Leone 13°. Il nuovo manifesto ideologico fu steso nell’enciclica
Il Centenario, del 1991, diffusa dal Karol Wojtyla, regnante
come Giovanni Paolo 2°. Nel corso degli anni ’90, con il procedere dalla globalizzazione, il processo per cui in
tutto il mondo si osservano gli stessi
metodi e le stesse regole per produrre, commerciare e trasferire beni, servizi
e capitali, le realtà sociali per così dire naturali
su cui dagli anni ’70 si voleva fondare la formazione della fede andarono anch’esse
dissolvendosi. Le persone si trovarono quindi ad essere semplicemente individui e si scrisse (Zygmunt Bauman)
della solitudine del cittadino globale.
Qualche giorno fa
abbiamo festeggiato i cinquant’anni di sacerdozio di un amico che ora lavora in
Sardegna: ci ha detto che ai tempi nostri occorre puntare, nelle cose della fede, sul dialogo, perché le comunità naturali del
passato non ci soccorrono più. Ne ha parlato sulla base di una lunga esperienza
e dell’osservazione delle realtà come sono. Penso che si debba credergli.
Il dialogo è il metodo principale utilizzato dai
cristiano democratici per fare pace.
Per impararlo e praticarlo occorre una specifica formazione e un certo
tirocinio. Si tratta innanzi tutto di conoscere bene le persone con cui si
vuole dialogare. E poi anche di rispettarle nella loro dignità e anche nelle loro
diversità. Questo comporta di prendere atto delle situazioni di conflitto: “Il conflitto non può essere ignorato o
dissimulato. Dev’essere accettato.”, scrive Bergoglio in La gioia del Vangelo. E poi di superarle nel dialogo.
L’idea che guidò il rinnovamento della
catechesi negli anni ’70 e ’80 fu che le comunità
esercitassero una pressione sociale di persuasione sugli individui, man mano
che li assimilavano. Questo avrebbe sostenuto anche il processo di formazione alla fede. Si
trattava fondamentalmente di legami gerarchici, naturali in famiglia, sociali
nelle realtà nazionali. In un contesto gerarchico le situazioni di conflitto
vengono risolte su base autoritaria. Nel dialogo
è diverso, perché si parte dall’uguaglianza
in dignità dei dialoganti. La
gerarchia abolisce il conflitto di forza, imponendo una soluzione, nel dialogo si punta a risolverlo
nella persuasione. Entrambe le vie sono seguite nelle organizzazioni civili. La
nostra organizzazione religiosa ha un ordinamento fortemente gerarchico, di
tipo prettamente feudale, un sistema ereditato dalle epoche passate, ma deve
sempre più impiegare la persuasione per avere credito tra la gente. Ritiene di avere un carisma soprannaturale per farlo. Ma come
fare a non restare intrappolati nel conflitto? Chi fa il capo di comunità con lo spirito del Pastore, di solito pensa di avere le risorse per aiutare la gente in questo. Accorre dove il gregge è rimasto intrappolato.
Lascio per un momento il tema di gerarchia
e dialogo, per osservare che, a fronte del dissolversi delle comunità
tradizionali, in religione si è anche tentata la via di costruire
neo-comunità
che, isolandosi dal contesto, ricreassero legami gerarchici molto forti
presentati insieme come naturali e soprannaturali. L’isolamento era essenziale:
il contatto con l’esterno avrebbe depotenziato la neo-autorità, facendone risaltare il suo carattere artificiale. Si
trattava di un isolamento sia sociale che culturale: non incontrare, non parlare, non imparare. Ciò che era all’esterno
venne presentato come una realtà malvagia, diabolica,
nei confronti della quale ogni commercio sociale o culturale era colpevole, era
un cedimento, e solo si poteva invocare la potenza celeste perché “precipitasse nel mare cavalli e cavalieri”.
E’ una via che in religione si è tentata in maniera ricorrente, nulla di
veramente nuovo. L’isolamento ricalca la condizione dei cattolici nell’Italia
dell’Ottocento, quando, di fronte allo sviluppo del processo di unificazione nazionale,
si scelse l’intransigenza, appunto l’isolamento. Si è parlato quindi di neo-intransigentismo. La novità è che si tratta di
un processo indipendente dalla guida politica del papato romano, anzi di un
processo profondamente impolitico. La
neo-ideologia ha potuto svilupparsi solo sfruttando gli spazi di libertà
derivati dal nuovo ordine scaturito dal Concilio Vaticano 2°: nell’assetto
precedente sarebbe stata probabilmente fulminata da provvedimenti disciplinari,
proprio perché slegata dall’osservanza politica al papato. Negli ultimi anni del
Wojtyla, quelli della malattia e del pessimismo radicale, quando il sovrano
vedeva dispiegarsi nella storia un diabolico progetto di morte, quella via ebbe molto
credito al vertice. Radunava nei grandi eventi grandi masse di gente, con molti
giovani. Li si faceva convergere per dare un’immagine di popolo, che tuttavia mi parve sempre piuttosto irrealistica, perché le
neo-comunità erano un’esigua minoranza sociale, in più fortemente isolate ma anche emarginate. La loro impoliticità le condannava
all’irrilevanza sociale. Fatto sta che per trent’anni questa fu la via
preferita nella nostra parrocchia e questo si è ottenuto. La conseguenza è che non si sono sfruttate le
opportunità derivate dal fatto di agire in un regime di assenza di concorrenza
sociale: la parrocchia è divenuta un corpo estraneo nel quartiere, ma con
trecento persone circa che costituivano un corpo sociale molto coeso, con
legami interni gerarchici e ideologia esplicitamente religiosa.
Ci sono ancora opportunità nel nostro quartiere, alle Valli?
Bisognerebbe conoscerlo meglio. Certo è che, nel nuovo corso, inaugurato nell’ottobre
del 2015, la gente sta tornando e in massa. E’ stato impressionante l’afflusso
nella liturgia del Mercoledì delle Ceneri all’inizio di questa Quaresima. Si è
iniziato a praticare il metodo del dialogo,
ma c’è ancora gran parte del lavoro da fare, per costruire la pace e poi una comunità dialogante che educhi e sostenga alla fede, e
prepari al lavoro in società che oggi viene richiesto. Un atteggiamento impolitico non va più bene nel quadro degli impegni che
ci vengono richiesti nell’enciclica Laudato
si’. Ma occorre anche fare spazio a questa gente nuova che sta tornando, non pretendere che si
inchini sotto le forche caudine del passato. Questo non è facile da ottenere,
perché le neo-comunità reagiscono e cercano di mantenere quanto più è
possibile dei vecchi costumi. Si tratterebbe, come insegna Bergoglio, di non restare intrappolati nel conflitto e di realizzare una comunione di differenze. In fin dei conti la fede dovrebbe essere capace di realizzare quel miracolo per cui “l’unità è superiore al conflitto”, ma da noi non
è così. Perché, nell’ideologia delle neo-comunità che hanno preso piede qui da
noi, la fede, per come mi pare di capire, è fonte di conflitto, di
isolamento, di esclusione, di differenziazione insanabile. Bisogna essere diversi da tutti, compresi gli altri credenti, i vicini di banco a Messa, se si vuole essere persone di fede.
Ecco che, allora, si recuperano in modo immaginifico elementi tipici dell’antico
ebraismo, ma assolutamente non caratterizzanti la nostra fede, che suscitano l’orrore per la contaminazione sociale con i gentili,
vale a dire con le genti intorno: solo che nel nostro caso i gentili sarebbero anche le circa quindicimila persone di
fede del quartiere non affiliate. Solo affiliandosi sembra che si sia sicuri di essere nel giusto cammino, ma
allora ci si separa dalla gente intorno.
La materia più calda del conflitto è la Veglia Pasquale, per cui ho
parlato di Battaglia di Pasqua.
Al fondo c’è un contrasto concettuale piuttosto acceso. Non ne parlo
come di questione teologica, perché la teologia è una cosa seria e, in questo caso, siamo su un altro livello.
Mi hanno spiegato fin da piccolo che la Pasqua cristiana non è la Pasqua ebraica,
anche se fu istituita richiamandone la tradizione liturgica. Al centro della
commemorazione della Pasqua ebraica, ma correggetemi se sbaglio, c’è il ricordo dell’ira di Dio che, alla fine, colpì gli egiziani con
un’orrenda strage infantile. Gli egiziani, tramortiti dal dolore, lasciarono liberi di andarsene gli
antichi israeliti, risparmiati dall’angelo sterminatore mediante il rito del
sangue dell’agnello sulle porte di casa, poi ci ripensarono, li
inseguirono, ed è lì che l’ira di Dio colpì nuovamente gli inseguitori precipitando nel mare cavalli e cavalieri, un'altra strage. Per gli israeliti, liberati nel senso di separati dagli Egiziani, estratti dal loro dominio, da
quel momento cominciò una specie di lunghissima Quaresima, che vissero isolati dal contesto delle genti intorno, nel deserto, fino a quando giunse il momento di entrare
nella terra dove scorreva latte e miele,
che però non era solo donata, ma che
dovettero anche conquistare militarmente sterminando gli avversari e
cercando di non contaminarsi con loro, ad esempio sposando gentili o adorando i loro dei, in una serie infinita di conflitti, in cui ogni vittoria non era mai quella definitiva. Nella Pasqua cristiana si celebra invece la
salvezza definitiva di tutto il genere umano, non di questa o quella sua stirpe, la vittoria definitiva della vita sulla morte, la pace definitiva tra Cielo e terra, che è il fondamento di una pace universale. Non ci sono gentili
da cui fuggire per non contaminarsi,
non ci sono genti da sterminare o emarginare. Si celebra l’evento che stronca l’inimicizia
e le guerre. Non vengono estratte tribù, ma l’intero genere umano diventa come
un’unica famiglia, tutti sono chiamati amici e, nella diffusione della fede, dovrebbero anche diventarlo.
Se lo scopo delle nostre liturgie pasquali è quello di rinsaldare tribù religiose, estraendole dalle genti intorno, allora va bene
trasformare la Veglia Pasquale in un fatica spaventosa, in cui c’è tutto ma
anche molto di più, in modo che i pochi che riescono a resistere abbiano la
sensazione di essere sopravvissuti al passaggio del Mar Rosso. Se lo scopo è invece quello di annunciare la salvezza a tutti, allora
si cercherà di favorirne la partecipazione umanizzando la liturgia, innanzi
tutto sfrondandola del superfluo. Questa è stata la materia del difficile negoziato liturgico che si è tenuto in parrocchia, programmando la
Veglia Pasquale di quest'anno. Vedremo che cosa ne uscirà, al dunque. Sorprese ce ne possono essere (l'altr'anno
ci sono state) e si temono colpi di mano.
Il conflitto è latente, non è
assolutamente superato. La diffidenza reciproca è altissima. Un canto nostro e un canto loro, questo il criterio generale dell’accordo,
poi però i canti tra le letture della Veglia sono tutti loro. Ma quanto dureranno?
Alcuni sono interminabili. Più o meno la musica suona piuttosto uniforme e
talvolta sul contenuto si potrebbe discutere. Si faranno tutte e sette le
letture della Veglia, inframezzate da questi canti loro, e poi quattro Battesimi. Quanto durerà tutto? Io penso di
andarci quest’anno, ma non so se rimarrò proprio fino alla fine, per questioni di
resistenza fisica collegate a certi miei problemi di salute. Da fidanzato andavo alla Veglia nella parrocchia di San Saba all’Aventino, quella di mia moglie, e là si facevano
quattro letture con i canti, e tutto durava dalle 23.30 a mezzanotte e
quaranta, più o meno. Era molto bello.
La Pasqua là era molto bella. Al termine ci si salutava veramente di cuore e sembrava allora di volersi bene, di essere realmente una comunità di amici nella fede.
E’ chiaro che problemi ci sono, e piuttosto
seri. Come mai si è giunti a combattere la Battaglia di Pasqua?
Semplicemente per consentire alla gente del quartiere di partecipare. Prima,
per un tempo lunghissimo, quando le Veglie duravano dall’apparire delle prime stelle del Sabato santo all’alba di Pasqua,
partecipavano solo quelli che erano ultramotivati ad una sorta di atletica
liturgica.
Bisogna “accettare di sopportare
il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un
nuovo processo” scrive Bergoglio, ma dove trovarlo questo anello di collegamento? Ho l’impressione
che anche quest'anno si uscirà dalla Veglia guardandosi ancora in cagnesco. Per questo ho
invocato la presenza del Vescovo ausiliare di Settore. Può essere proprio lui
questo anello di collegamento. Invoco il Pastore non il burocrate religioso. Ci faccia fare pace! So che i nostri
vescovi devono occuparsi di un popolo molto numeroso e con tanti problemi,
soprattutto quelli dei più poveri ed emarginati. E sono solo esseri umani come noi. Da noi alle Valli certe
situazioni sono meno presenti, anche se c’è molta gente in difficoltà serie. Certo che la presenza del Pastore tra noi alla
Veglia Pasquale potrebbe essere determinante per impedire l’esplosione della
comunità parrocchiale: questo è il vero rischio, la disgregazione della
parrocchia con la presa d’atto che ce ne sono due in una e che esse non vogliono né possono coesistere. “Ora o mai più”, monsignore. La
situazione è questa.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in
San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli