La
radice politica dei problemi religiosi
Riporto in fondo il testo delle omelie del
Papa nella Veglia Pasquale e nella Messa nel Giorno nella solennità di Pasqua.
Eccone alcuni brani su cui vorrei iniziare
una riflessione:
“[…] se facciamo uno sforzo con la nostra immaginazione, nel volto di
queste donne [Maria di Magdala e l’altra Maria nel racconto della scoperta del
Sepolcro vuoto in Mt 28,1-8] possiamo trovare i volti di tante madri e nonne,
il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi
in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore per lo
sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il disprezzo perché sono
immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i volti di coloro il cui
sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani troppo rugose. Esse
riflettono il volto di donne, di madri
che piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso
della corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto
l’egoismo quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto
la burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino.
Nel loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la
città, vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste
donne ci sono molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro
possiamo sentirci spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose
debbano finire così.
[…]
Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi senza
accorgercene, possiamo abituarci a
convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione. Di più, possiamo
arrivare a convincerci che questa è la legge della vita anestetizzandoci
con evasioni che non fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle
nostre mani.
[…]
Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto
è ciò che ci è stato donato e che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento di
nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente ribaltato la
pietra del sepolcro, ma vuole anche far
saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei
nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre
ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di
giocare con la dignità altrui.
[…]
Ed ecco ciò che questa notte ci
chiama ad annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive!
E la Chiesa non cessa di dire alle nostre sconfitte,
ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”. Ma se il
Signore è risorto, come mai succedono queste cose? […] a nessuno di noi viene chiesto:
“Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti
questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.
[…]
In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada
dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è scartata ed è
fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in questa terra di dolore, di
tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un senso, in mezzo a tante
calamità.
[…]
La pietra scartata non risulta veramente scartata. I
sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno
un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore:
“Cristo è risorto”.
Nel proporvi queste meditazioni
faccio riferimento anche ad idee che sono diffuse in parrocchia. In sintesi: viene
rivisitato l’antico ebraismo e in qualche modo ce se ne appropria con una certa
disinvoltura. La Pasqua ebraica racconta la storia di una emigrazione di molta
gente di una certa etnia: se ne andò perché stava male nell’Egitto dominato
dalle dinastie dei Faraoni. Il problema
erano le condizioni di lavoro, è scritto,
che si erano fatte molto dure. Usciti dall’Egitto gli antichi israeliti
si trovarono a lungo nella condizioni degli attuali migranti economici: infatti, stando a quel
racconto, erano essenzialmente questo. Non avevano patria, né cittadinanza.
Riuscirono a rimanere un gruppo coeso, al modo dei nomadi, che da quelle parti
ancora ci sono. Questa condizione durò, secondo la narrazione biblica, fino a
quando non si introdussero nella terra di Canaan, dove oggi ci sono lo stato di
Israele e l’autorità palestinese, non la terra
santa da noi immaginata, e si
conquistarono militarmente un regno, poi
frammentatosi in diverse entità politiche, che dovettero difendere da molti invasori,
infine soccombendo definitivamente ai Romani. Nello sforzo di organizzare regni
giusti gli antichi israeliti colsero
chiaramente la rilevanza religiosa dei problemi politici e viceversa. Questo è
ancora molto attuale, in particolare nel nuovo ordine religioso della nostra
fede. Il nostro problema di oggi, politico, non è organizzare uno nostro stato da qualche parte, ma di riorganizzare addirittura l’ordine
politico mondiale su basi di giustizia:
esso ha valenza specificamente religiosa perché riguarda la stessa sopravvivenza
dell’umanità. Gran parte dei dominatori del mondo sono ancora oggi della nostra
fede. Questo significa che gran parte degli sfruttatori sono gente che segue la
nostra religione. L’Italia, una delle maggiori potenze industriali, è tra i dominatori del mondo. Questo comporta una
evidente responsabilità morale verso coloro che stanno peggio, dei quali il
Papa ha fatto un elenco nelle omelie che ho citato. Quelli che stanno peggio
sono gli scarti di un sistema che noi dominiamo. In religione
questo è un peccato, ma noi ci autoassolviamo sostenendo che non ci possiamo
fare nulla. E, anzi, inventandoci di sana pianta una sorta di neo-identità
ebraica, immaginiamo di essere, collettivamente, tra gli sfruttati, tra quelli
che stanno peggio e invochiamo la liberazione. Immaginiamo di essere tra gli oppressi perché
minacciati dalla contaminazione del mondo di fuori: quindi ci barrichiamo culturalmente per respingere l’attacco. In
questo modo effettivamente lasciamo fuori quelli che stanno realmente peggio e che vengono tra noi chiedendo aiuto.
Il Papa allora, e fa semplicemente il suo mestiere, ci rimprovera e noi, convinti sinceramente di essere quello che non siamo, diventiamo insofferenti delle sue tirate d’orecchi e lo invitiamo a non
impicciarsi nelle cose della nostra politica. E’ questo il succo di un discorso fatto
in Francia da un’importante personalità. Non abbiamo forse il diritto di difenderci? Ma il Papa ci ricorda che le
migrazioni di quelli che vorremmo respingere, innanzi tutto privandoli della
loro dignità umana, e ciò mentre paradossalmente vorremmo immaginarci una
dignità degli animali simile a quella
umana che neghiamo agli umani, sono un sottoprodotto, uno scarto, del sistema economico e politico di cui noi siamo i
dominatori e principali beneficiari. Riteniamo in ciò di esercitare il nostro buon diritto e siamo disposti a far guerra a chi minaccia
questo nostro stile di vita. Il Papa
parla di nostre ossessionate ricerche di
sicurezza e di smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui e le critica.
Ma non è solo il Papa a farci
questo discorso. Abbiamo da confrontarci con sempre più grilli parlanti che si rivolgono a noi, pinocchietti presuntuosi.
Uno di essi è, ad esempio,
Vladimiro Zagrebelsky, nel suo Diritti
per forza, Einaudi, uscito quest’anno, anche in e-book, che vi consiglio.
Scrive Zagrebelsky, nel capitolo Stili di vita:
“Se non si prenderà
coscienza della valenza aggressiva dei diritti accampati da chi può nei
confronti di chi non può, nel mondo che
ha un solo confine che cinge l’intera umanità, ci si disporrà ad annichilire
quanti, vivendo con noi e vicino a noi, ci sottraggono dall’interno quello che
consideriamo il nostro spazio vitale e minacciano il nostro «stile di vita». La
guerra che un tempo si faceva da parte di eserciti schierati sulle linee delle
frontiere esterne, gli uni di fronte agli altri, oggi si trasferisce all’interno,
gli uni mescolati con gli altri. Nuove frontiere si creano ormai dentro un unico spazio globale in cui non esiste più una «casa del tutto
nostra» e una «casa del tutto loro», ma tutti siamo tenuti a regolarci come in una grande casa comune.
Il motto «padroni a casa propria», con il quale si vuole negare l’evidenza
delle interdipendenza che ci avvolgono da ogni parte e si vuol respingere al di
fuori dei nostri pretesi confini esterni, restaurati con muri, filo spinato,
cannoniere e divieti legali, i fattori di con-fusione che caratterizzano il
tempo presente, è solo un patetico ricordo d’un tempo che non c’è più.”
Scrive anche, Zagrebelsky, che il mondo globalizzato è
paradossalmente divenuto più piccolo, non ha più spazi vuoti, come per certi
versi fu il West nel Nord-America, dove fuggire per sottrarsi all’oppressione
e a condizioni di vita troppo dure, come fecero gli antichi israeliti,
spingendosi nel deserto, abbandonando la civiltà egiziana. L’esercizio di ogni
nostro diritto ha un’influenza, spesso negativa, da qualche
altra parte e la globalizzazione dell’informazioni
ce lo fa capire chiaramente: nessuno può dirsi all’oscuro. Gli oppressi
rivendicano come diritto la giustizia,
i dominatori il loro piacere: è chiaro che noi, nell’Italia di oggi, consumatori innanzi tutto, siamo poco sensibili alla
giustizia, perché siamo parte dei dominatori del mondo, gelosi innanzi tutto del nostro piacere. Che ci importa, infatti, come
sono prodotti, con quale sofferenza umana, le merci e i servizi che ci danno
piacere e che vogliamo sempre nuovi, pronti all’uso, rapidamente consegnati (le
cronache segnalano che nei servizi di logistica,
di consegna merci, talvolta si notano ritmi di lavoro particolarmente duri a
fronte di paghe molto basse)? C’è un’etica da ricostruire, anche a livello
personale. Il nostro peccato sociale si manifesta innanzi tutto nel modo in cui
siamo consumatori. E’ un tema che mi pare
piuttosto trascurato nella formazione religiosa, specialmente in quella dei più
giovani, in cui, ad un certo punto, ci si sfianca (inutilmente) sulle faccende
del sesso.
Un altro dei grilli parlanti di cui dicevo è stato il sociologo Zygmunt Bauman, che ci ha lasciato tanti
testi interessanti, scritti con un linguaggio accessibile ai più e che spiegano
realisticamente ciò che dobbiamo fronteggiare.
In La società
sotto assedio, del 2002, edito da Laterza, un altro testo che vi consiglio,
scrive (pag.223-235):
“La «negazione» è la risposta a domande inquietanti
quali «come reagiamo alla nostra consapevolezza dell’altrui
sofferenza e cosa implica per noi tale
consapevolezza?» - le domanda che sorgono ogni qual volta «persone, organizzazioni o intere società acquisiscono
informazioni troppo inquietanti, minacciose o astruse per essere pienamente
assorbite o apertamente riconosciute. Questa informazioni vengono quindi in
qualche modo represse, ripudiate, accantonate o reinterpretate» [cita Stanley
Cohen].
[…] colui che perpetra
il male e colui che lo vede, lo sente, ma non muove un dito, si trovano […] entrambi esposti alla possibilità che le loro azioni (o la loro passività) gli
si possano rivoltare contro, essendo state dichiarate inique, esecrabili e
punibili […] avvertono quindi il pressante
e perenne bisogno di negare in modo enfatico e perentorio. […] Esistono molte forme di negazione della
colpa (o di rivendicazione d’innocenza, che è la stessa cosa), ma gli argomenti
impiegati sono straordinariamente simili […] Ridotti all’osso, tutti gli
argomenti rivelano l’uno o l’altro dei due modelli: «Non sapevo», o «Non
potevo farci niente». […] Nell’epoca
delle autostrade informatiche, le argomentazioni sull’ignoranza vanno rapidamente
perdendo di credibilità […] E così, l’unica scusa che ci resta è «non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». […] Lo
stratagemma del «non potevo fare di più di quanto ho fatto» dissolve la colpa - penalmente perseguibile- associata alla
perpetrazione di un misfatto nella universale e quindi esecrabile ma non punibile condizione dell’«essere spettatore». In un
mondo fatto d’interdipendenza globale, la differenza tra spettatore e
co-esecutore, complice o favoreggiatore dell’azione malvagia diventa sempre più
tenue. La responsabilità per le disgrazie umane, per quanto distanti possano
essere da chi ne è testimone, non può assolutamente essere negata, almeno in
modo convincente. Mai, quindi, la domanda di varianti sempre nuove e più
raffinate di negazione di responsabilità del tipo «non potevo farci niente» è stata
così grande e in forte espansione come oggi.
[…]
Praticamente nessuna
azione umana, per quanto localmente confinata e compressa, può essere certa che
non avrà conseguenze sul destino del resto dell’umanità, così come qualsiasi segmento dell’umanità non può
limitarsi a se stesso e dipendere totalmente solo dalle azioni dei suoi membri.
Nel commentare il
memorabile intervento del 1979 di Edward Lorenz, il cui titolo è da allora diventato
una delle frasi più note del secolo scorso («il
battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado nel Texas”),
Roberto Toscano afferma che «oggi la realtà dell’interconnessione globale impone, nelle
relazioni internazionali, standard etici che vanno ben oltre un concetto di
responsabilità strettamente legalistico. La farfalla non conosce le conseguenze di un suo battito d’ali; essa tuttavia non
può escludere quella conseguenza. Passiamo così dalla nozione di responsabilità
a un concetto simile, ma più restrittivo, quello di precauzione».
[…]
La sofferenza «come appare in TV» è nella
gran parte dei casi trasmessa attraverso le immagini dei corpi emaciati degli
affamati e dai volti sfigurati dal dolore dei malati. […] Nulla si sa e niente viene detto sulle cause della carestie e delle malattie croniche. Non un
minimo accenno alla costante distruzione dei mezzi di sussistenza causata dal commercio senza frontiere, allo
smantellamento delle reti di sicurezza sociale sotto la pressione della finanza
senza frontiere, o alla devastazione
di terreni e comunità da parte di monoculture imposte dai mercanti di semi geneticamente
modificati in stretta collaborazione con i missionari delle motivazioni
economiche della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Piuttosto,
un pervasivo e persuasivo suggerimento che «ciò che appare in TV» sia un
disastro autoinflitto abbattutosi su
tribù distanti, esotiche e «molto diverse da noi» che si sono colpevolmente
alienate una decente vita umana. E che - grazie a Dio (o alla nostra prudenza)
esistono persone fortunate e di buon cuore come noi, fortunate perché sensibili
e industriose, pronte a salvare lo sventurato dalle raccapriccianti conseguenze
della sua sfortuna e della sua condotta insensata causata da ignoranza e
indolenza.”
Alla luce delle parole di Bauman, acquista un
senso sinistro l’invito, che talvolta si fa in religione, a non pretendere troppo da sé stessi, perché
in fin dei conti siamo peccatori ma lassù siamo amati lo stesso così come siamo,
perché richiama l’argomento «non
potevo farci niente»
o «non potevo fare di più». Il punto
non sta nell’amore soprannaturale incondizionato, nonostante la
condizione di peccato, ma nel non voler pretendere troppo (abbastanza?) da noi stessi, quindi in questa autolimitazione tutto sommato arbitraria, ingiustificata, nello sforzo di essere migliori, per cui poi, in definitiva, possiamo finire per «abituarci a convivere
con il sepolcro, a convivere con la frustrazione» e «di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della
vita». Dovremmo proprio, invece, pretendere
un po’ di più da noi stessi. Ad esempio come consumatori: ci sono modi
sbagliati di esserlo. Bisogna prestare più attenzione a come viene prodotto quello che compriamo, a
quanta sofferenza ingloba.
Animati dal «palpito del Risorto» occorre invece, secondo l’esortazione del
Papa, divenire “forza trasformatrice,
come fermento di nuova umanità” e “far
saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei
nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre
ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di
giocare con la dignità altrui”. Non
è cosa che si consegue magicamente, senza un nostro impegno collettivo. Se non
ci spendiamo in questo, e innanzi tutto non ci formiamo a questo, la religione
diventa inutile, “la croce va avanti, e
la fede in Gesù viene giù.” Dobbiamo
lavorare per trasformare la realtà, con un impegno politico che ha anche un senso
per la fede, non cercare di immedesimarci in un qualche immaginifico gioco di ruolo a sfondo
religioso.
Mario Ardigò
- Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Veglia Pasquale nella Notte santa
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Sabato Santo, 15 aprile 2017
«Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di
Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro» (Mt 28,1).
Possiamo immaginare quei passi…: il tipico passo di chi va al cimitero, passo
stanco di confusione, passo debilitato di chi non si convince che tutto sia finito
in quel modo… Possiamo immaginare i loro volti pallidi, bagnati dalle lacrime…
E la domanda: come può essere che l’Amore sia morto?
A
differenza dei discepoli, loro sono lì – come hanno accompagnato l’ultimo
respiro del Maestro sulla croce e poi Giuseppe di Arimatea nel dargli sepoltura
–; due donne capaci di non fuggire, capaci di resistere, di affrontare la vita
così come si presenta e di sopportare il sapore amaro delle ingiustizie. Ed
eccole lì, davanti al sepolcro, tra il dolore e l’incapacità di rassegnarsi, di
accettare che tutto debba sempre finire così.
E se facciamo uno sforzo con la nostra
immaginazione, nel volto di queste donne possiamo trovare i volti di tante
madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il dolore
di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli
che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore per lo
sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che
sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di
famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché
hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che
piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della
corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo
quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la
burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel
loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città,
vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste donne ci sono molti
volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti
a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così. E’
vero, portiamo dentro una promessa e la certezza della fedeltà di Dio. Ma anche
i nostri volti parlano di ferite, parlano di tante infedeltà – nostre e degli
altri –, parlano di tentativi e di battaglie perse. Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi
senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere
con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la
legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro che spegnere
la speranza posta da Dio nelle nostre mani. Così sono, tante volte, i
nostri passi, così è il nostro andare, come quello di queste donne, un andare
tra il desiderio di Dio e una triste rassegnazione. Non muore solo il Maestro:
con Lui muore la nostra speranza.
«Ed ecco, ci fu un gran terremoto» (Mt 28,2).
All’improvviso, quelle donne ricevettero una forte scossa, qualcosa e qualcuno
fece tremare il suolo sotto i loro piedi. Qualcuno, ancora una volta, venne
loro incontro a dire: «Non temete», però questa volta aggiungendo: «E’
risorto come aveva detto!» (Mt 28,6). E tale è l’annuncio che,
di generazione in generazione, questa Notte santa ci regala: Non
temiamo, fratelli, è risorto come aveva detto! Quella stessa vita
strappata, distrutta, annichilita sulla croce si è risvegliata e torna a
palpitare di nuovo (cfr R. Guardini, Il Signore, Milano 1984, 501).
Il palpitare del Risorto ci si offre
come dono, come regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e che ci è chiesto
di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento di nuova
umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente ribaltato la pietra del
sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei
nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci
allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle
smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui.
Quando il Sommo Sacerdote, i capi religiosi in complicità con i romani
avevano creduto di poter calcolare tutto, quando avevano creduto che l’ultima
parola era detta e che spettava a loro stabilirla, Dio irrompe per sconvolgere
tutti i criteri e offrire così una nuova possibilità. Dio, ancora una volta, ci
viene incontro per stabilire e consolidare un tempo nuovo, il tempo della
misericordia. Questa è la promessa riservata da sempre, questa è la sorpresa di
Dio per il suo popolo fedele: rallegrati, perché la tua vita nasconde un germe
di risurrezione, un’offerta di vita che attende il risveglio.
Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad annunciare: il palpito del
Risorto, Cristo vive! Ed è ciò che cambiò il passo di Maria Maddalena e dell’altra Maria: è ciò
che le fa ripartire in fretta e correre a dare la notizia (cfr Mt 28,8);
è ciò che le fa tornare sui loro passi e sui loro sguardi; ritornano in città a
incontrarsi con gli altri.
Come con loro siamo entrati nel sepolcro, così con loro vi invito ad
andare, a ritornare in città, a tornare sui nostri passi, sui nostri sguardi.
Andiamo con loro ad annunciare la notizia, andiamo… In tutti quei luoghi dove
sembra che il sepolcro abbia avuto l’ultima parola e dove sembra che la morte
sia stata l’unica soluzione. Andiamo ad annunciare, a condividere, a rivelare
che è vero: il Signore è Vivo. E’ vivo e vuole risorgere in tanti volti che
hanno seppellito la speranza, hanno seppellito i sogni, hanno seppellito la
dignità. E se non siamo capaci di lasciare che lo Spirito ci conduca per questa
strada, allora non siamo cristiani.
Andiamo e lasciamoci sorprendere da
quest’alba diversa, lasciamoci sorprendere dalla novità che solo Cristo può
dare. Lasciamo che la sua tenerezza e il suo amore muovano i nostri passi,
lasciamo che il battito del suo cuore trasformi il nostro debole palpito.
Domenica di Pasqua della Resurrezione del
Signore
SANTA MESSA DEL GIORNO
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica di Pasqua, 16 aprile 2017
Oggi la Chiesa ripete, canta, grida: “Gesù è risorto!”. Ma come mai?
Pietro, Giovanni, le donne sono andate al Sepolcro ed era vuoto, Lui non c’era.
Sono andati col cuore chiuso dalla tristezza, la tristezza di una sconfitta: il
Maestro, il loro Maestro, quello che amavano tanto è stato giustiziato, è
morto. E dalla morte non si torna. Questa è la sconfitta, questa è la strada
della sconfitta, la strada verso il sepolcro. Ma l’Angelo dice loro: “Non è
qui, è risorto”. E’ il primo annuncio: “E’ risorto”. E poi la confusione, il
cuore chiuso, le apparizioni. Ma i discepoli restano chiusi tutta la giornata
nel Cenacolo, perché avevano paura che accadesse a loro lo stesso che accadde a
Gesù.
E la Chiesa non cessa di dire alle nostre
sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”.
Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? Come mai
succedono tante disgrazie, malattie, traffico di persone, tratte di persone,
guerre, distruzioni, mutilazioni, vendette, odio? Ma dov’è il Signore? Ieri ho
telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un ingegnere
e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: “Non ci sono spiegazioni
per quello che succede a te. Guarda Gesù in Croce, Dio ha fatto questo col suo
Figlio, e non c’è un’altra spiegazione”. E lui mi ha risposto: “Sì, ma ha
domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì. A me non è stato chiesto se
volevo questo”. Questo ci commuove, a
nessuno di noi viene chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo?
Sei disposto a portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede
in Gesù viene giù.
Oggi la Chiesa continua a dire: “Fermati, Gesù è risorto”. E
questa non è una fantasia, la Risurrezione di Cristo non è una festa con tanti
fiori. Questo è bello, ma non è questo è di più; è il mistero della pietra
scartata che finisce per essere il fondamento della nostra esistenza. Cristo è
risorto, questo significa. In questa
cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e
getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è
scartata ed è fonte di vita. E anche
noi, sassolini per terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede
nel Cristo Risorto abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità. Il senso di
guardare oltre, il senso di dire: “Guarda non c’è un muro; c’è un orizzonte,
c’è la vita, c’è la gioia, c’è la croce con questa ambivalenza. Guarda avanti,
non chiuderti. Tu sassolino, hai un senso nella vita perché sei un sassolino
presso quel sasso, quella pietra che la malvagità del peccato ha scartato”.
Cosa ci dice la Chiesa oggi davanti a tante tragedie? Questo,
semplicemente. La pietra scartata non
risulta veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella
pietra non sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa
ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”. Pensiamo un po’, ognuno
di noi pensi, ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che
qualcuno dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane e,
semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a noi
diciamo “Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho
scommesso su questo”. Fratelli e sorelle, questo è quello che ho voluto dirvi.
Tornate a casa oggi, ripetendo nel vostro cuore: “Cristo è risorto”.