DISCORSO
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL 3° INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI
Aula
Paolo VI
Sabato, 5 novembre 2016
Fratelli e sorelle buon pomeriggio!
In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di
giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti [in spagnolo: tierra, techo, trabajo. Le 3-T].
Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e
industriali dei cinque continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per
discutere ancora una volta su come difendere questi diritti che radunano.
Grazie ai Vescovi che sono venuti ad accompagnarvi. Grazie alle migliaia di
italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine di questo incontro.
Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che sono
venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani!
Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel
Dicastero; e vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano
José Mujica che è presente.
Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con
maggioranza di latinoamericani, abbiamo parlato della necessità di un
cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di strutture; inoltre di
come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento, promotori di
un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi
azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto
chiamarvi “poeti sociali”; e abbiamo anche elencato alcuni compiti
imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla
globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere l’economia al servizio dei
popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra.
Quel giorno, con la voce di una “cartonera”
e di un contadino, vennero letti, alla conclusione, i dieci punti di Santa Cruz
de la Sierra, dove la parola cambiamento era carica di gran
contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro
dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini
e le popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione
urbana per i quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della
violenza contro le donne e delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le
guerre, del crimine organizzato e della repressione; libertà di espressione e
di comunicazione democratica; scienza e tecnologia al servizio dei popoli.
Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di
vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e
il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere
bene” ciò che voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che
ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”.
Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo
non essere d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte
cose, ma certamente siamo d’accordo su questi punti.
Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove
si sono moltiplicati i dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità.
Questo è molto importante perché le soluzioni reali alle problematiche attuali
non verranno fuori da una, tre o mille conferenze: devono essere frutto di un
discernimento collettivo che maturi nei territori insieme con i fratelli, un
discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i luoghi, i tempi e le
persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio delle
astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono
belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della Pontificia Commissione per
l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il colonialismo
ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non
rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo
stesso tempo, locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese
di organizzare la folla in gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr Omelia
nella Solennità del Corpus Domini, Buenos Aires, 12 giugno 2004).
Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come
conclusione di questo terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle
discussioni su come affrontare “la disuguaglianza che genera violenza”. Tante
proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe
più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella
tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete
e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad
aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo che
questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone
che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo
radici.
Vorrei toccare alcuni temi più
specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi hanno fatto
riflettere e che ora vi riporto, in questo momento.
1. Il terrore e i muri
Tuttavia, questa germinazione, che è lenta - quella alla quale mi
riferivo -, che ha i suoi tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla
velocità di un meccanismo distruttivo che opera in senso contrario. Ci sono
forze potenti che possono neutralizzare questo processo di maturazione di un
cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro e mettere
nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella
struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può
consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come
nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce
senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti
come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.
Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura,
della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare
che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire
mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è – l’ho detto di recente – c’è un terrorismo
di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e
minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i
terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello
che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun
popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi
fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via
la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel
volo di ritorno del Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016).
Tale sistema è terroristico.
Quasi cent’anni fa, Pio
XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale
che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto
parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama “Paolo VI”, e
fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni
fa, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e
anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44).
Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei predecessori che scrutarono il
futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza
che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni
inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei
predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire,
tiranneggia e terrorizza l’umanità.
Nessuna tirannia si sostiene senza
sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni
tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle
periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei
centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i
cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa
sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano
altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora
più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per i
suoi figli?
La paura viene alimentata, manipolata... Perché la paura, oltre ad
essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci
destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza
di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli. Quando
sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada,
quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si
diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte
intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo
soffio della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura,
preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia
possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile...
richiede coraggio. Per questo Gesù ci dice: «Non abbiate paura» (Mt 14,27),
perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. E’ molto meglio
degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle
inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci
ingannare. Come avete detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti
tra i popoli, ponti che ci permettano di abbattere i muri dell’esclusione e
dello sfruttamento» (Documento Conclusivodel II Incontro mondiale dei
movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia).
Affrontiamo il terrore con l’amore.
Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore
e i ponti.
Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il
Vangelo, affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli
per un campo da semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente
si dice del “padrone” di quel campo... soggiacente è la destinazione universale
dei beni. Quello che è certo è che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità
alla dignità dei figli di Dio su un’interpretazione formalistica, accomodante e
interessata dalla norma. Quando i dottori della legge lamentarono con
indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole amore e non
sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il
sabato (cfr Mc 2,27). Affrontò il pensiero ipocrita e
presuntuoso con l’intelligenza umile del cuore (cfr Omelia, I
Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3 novembre 2006), che
dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate logiche
impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo.
E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”,
qualcosa che irritò ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano
osservando perché cercavano una scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata
di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù
restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la
dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del
lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che
siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate
il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita,
riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del
tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare
per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate
di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia
del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce
che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né mi stupisce che ai
superbi non interessi quello che voi dite.
Gesù che quel sabato rischiò la vita,
perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed erodiani (cfr Mc 3,6),
due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche l’impero, fecero i
loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano la
vita. So - e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare - che
alcuni non sono qui oggi perché si sono giocati la vita… Per questo non c’è
amore più grande che dare la vita. Questo ci insegna Gesù.
Le 3-T, il vostro grido che
faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al tempo stesso forte e
risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del
denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il
nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo
nome: Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire,
è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia
morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi”
cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi
tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano
e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto... Ma
questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità,
lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di
pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro
dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo
di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa
comune.
Un altro punto è: Bancarotta e
salvataggio.
Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri
due temi che, insieme alle “3-T” e
all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi
giorni e sono centrali in questo periodo storico.
So che avete dedicato una giornata al
dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati. Cosa fare di fronte a
questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale Turkson c’è
una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un
certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è
una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi
venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna.
Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la
sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o
violenze di ogni genere, folle esiliate – l’ho detto di fronte alle autorità di
tutto il mondo – a causa di un sistema socio-economico ingiusto e delle guerre
che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il
doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si
rifiutano di riceverli.
Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia:
«Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado
di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta”
dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria,
Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la
bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla,
ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima
parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è
diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo... molti cimiteri vicino ai
muri, muri macchiati di sangue innocente. Nei giorni di questo incontro – lo
dite nel video – quanti sono i morti nel Mediterraneo?
La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si
rifiuta di vedere il sangue, il dolore,
il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo: «Chi
ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha
visto i vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la
dignità e la libertà trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica
che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa
settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria,
Lesbos, 16 aprile 2016).
E’, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto
a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle
terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei
trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando
nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene
disprezzati, sfruttati, addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in
qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano
entrare.
Chiedo a voi di fare tutto il possibile; di non dimenticare mai che
anche Gesù, Maria e Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei
rifugiati. Vi chiedo di esercitare quella solidarietà così speciale che esiste
tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete recuperare fabbriche dai fallimenti,
riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro, coltivare la terra,
costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza sosta
come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr Lc 18,1-8).
Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e
Organizzazioni internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure
adeguate per accogliere e integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo
o per un altro, cercano rifugio lontano da casa. E anche per affrontare le
cause profonde per cui migliaia di uomini, donne e bambini vengono espulsi ogni
giorno dalla loro terra natale.
Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta
al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo
e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre
il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i
popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come
conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano
dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate
che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete
una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita
pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella
Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera
esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli
altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O
questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo
VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità,
dell’amore”.
Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i
movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio
di lasciarsi corrompere.
Primo, non lasciarsi imbrigliare,
perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le
microimprese, il progetto dei piani assistenziali... fin qui tutto bene. Finché
vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in
discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si
tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i
poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri
e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte
una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando
voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal
quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai
rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le
“macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di
indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non
ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo
sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in
piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una
formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il
popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo
destino.
Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri
settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le
democrazie che stanno attraversando una vera crisi. Non cadete nella tentazione
della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri
amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi,
disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei
popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi
profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche
di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria.
Sappiamo che «finché non si
risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia
assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause
strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in
definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort.
ap. Evangelii gaudium, 202).
Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle
mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’
soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed
anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo
di cambiamento» (Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari,
Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la Chiesa può e deve, senza
pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e agire
specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze
drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali
e la fede» (Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il
traffico di persone e il crimine organizzato, Vaticano, 3 giugno
2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi incasellare e
l’invito a mettersi nella grande politica.
Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica
non è una questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo
della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese,
c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è
corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari. E’
giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita
economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia
della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. E’ giusto
dire che tante volte si utilizzano i casi corruzione con cattive intenzioni. Ma
è anche giusto chiarire che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un
obbligo ulteriore che si aggiunge all’onestà con cui qualunque persona deve
agire nella vita. La misura è molto alta: bisogna vivere la vocazione di
servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo vale per i politici
ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto “austerità” e
vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere
una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere,
austerità nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità
morale e umana. Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se
volete, o delle scienze del mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento… Non
mi riferisco a questo, non sto parlando di questo.
A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo
specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli
abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta
succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma,
parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui che sia
affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che
non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché
farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che
ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario!
Davanti alla tentazione della
corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa austerità morale,
personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi
chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille
parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets,
di mille video su youtube. L’esempio di una vita austera al servizio
del prossimo è il modo migliore per promuovere il bene comune e il
progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di
praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai
dirigenti questa austerità, che – del resto – li farà essere molto felici.
Care sorelle e cari fratelli,
la
corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito
collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che
sostiene questo sistema iniquo.
Vorrei, per concludere, chiedervi di
continuare a contrastare la paura con una vita di servizio, solidarietà e
umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono. Potrete
sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino,
presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior
rimedio è l’amore. L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo
sulla famiglia ho scritto un documento che ha per titolo “Amoris laetitia” – la “gioia
dell’amore” - un documento sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in
quell’altra famiglia che è il quartiere, la comunità, il popolo, l’umanità. Uno
di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che contiene un frammento del
capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo consegneranno all’uscita.
E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili” per
praticare il più importante dei comandamenti di Gesù.
In Amoris laetitia cito un compianto
leader afroamericano, Martin Luther King, il quale sapeva sempre scegliere
l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni.
Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore,
della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono
i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami,
però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo
l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi
colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di
seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce
mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la
persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena
dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista
di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha
detto nel 1957.
Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza.
Desidero chiedere a Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi
riempia del suo amore e vi difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza
che ci mantiene in piedi e ci dà il coraggio per rompere la catena dell’odio:
quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore di pregare per me, e quelli
che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e mandatemi una buona onda.
Grazie.