La fine
Da quello che trapela dal Policlinico Gemelli, qui a Roma, possiamo immaginare che per il Papa si stia avvicinando la fine della vita. È molto anziano, non sorprende, e tuttavia addolora. La sua voce, i suoi scritti, i suoi gesti ci hanno guidati in religione negli ultimi dodici anni. Ci è diventato intimo, anche se la gran parte di noi non può dire di conoscerlo veramente.
Tanti anni fa, si era nel 1978 e io avevo ventun anni, mio zio Achille, professore di sociologia e persona molto religiosa, mi condusse su ponte Sisto, dal quale si vedeva uno scorcio della cupola della basilica di San Pietro. Se ne era da poco andato il papa Paolo 6º. Mi disse che il periodo di successione di un Papa era un passaggio di fase storica, la fine di un’era. A quell’epoca quel ponte aveva una sovrastruttura metallica che poi venne tolta: lo zio, con una chiave, incise sulla spalletta metallica la frase “È la fine di un’era”.
Si spera, naturalmente, che al Gemelli riescano a salvarlo anche questa volta, ma la fine verrà solo rimandata di un po’, perché noi siamo esseri viventi che per natura sono assoggettati alla fine. Il nostro organismo ne è consapevole, ma la nostra mente lo rifiuta. Se non si vuole soffrire senza necessità, avvicinandosi la fine è consigliabile rientrare in sé stessi, sopendo la mente, ma senza farle violenza. È ciò che io stesso ho sperimentato le volte che sono stato in serio pericolo di vita. È ciò che i saggi raccomandano. In quei momenti la religione non è sempre di vero conforto, se mette in campo la mente e l’immaginazione.
Si pensa che la fine di quelli che poi sono proclamati santi sia sempre santa, e i miti che ci si costruiscono sopra vogliono convincercene, ma la realtà è diversa. La fine è sempre faticosa e dolorosa, se sopraggiunge mentre si è coscienti, anche per le grandi anime. In queste cose si è sempre neofiti.Durante le mie esperienze ospedaliere sono stato vicino a molti morenti e so bene che è così. La sofferenza fisica più intensa a cui ho assistito è quella di coloro ai quali mancava il respiro, come purtroppo sembra stia accadendo al Papa.
Il fantasticare sul dopo mi è doloroso. E non possiamo che fantasticare perché quella che nella fede confidiamo essere la vita eterna non ci è stata descritta con precisione.
So quanto essa è importante nella teologia, ma ho sempre trovato eccessivamente estremistica la posizione di Paolo di Tarso sul punto, il suo aspro rimprovero ai Corinzi. Non mi pare vana la fede, anche se ci si deve limitare a sperare.
La fede nella risurrezione, quella di Cristo e quella di coloro che a lui si affidano, si affermò progressivamente, e ciascuna persona religiosa deve riconquistarla. Ma il valore personale della fede religiosa non mi pare essere tutto nel raggiungere quella certezza, che comunque rimane sempre precaria. Lo dimostra l’esperienza religiosa dell’ ebraismo contemporaneo, che non è centrato sull’aldilà, anche se in genere, ma non in tutte le sue correnti, vi confida.
Dicono che ci fu un tempo in cui la morte non esisteva e che vi fummo assoggettati per causa del peccato, ma questo dal punto di vista naturalistico è un mito. La biologia ci racconta un’altra storia. Comunque è senz’altro sperimentabile che il peccato è mortifero.
Senza la morte non potrebbe esistere la vita sul nostro Pianeta. Questo ci dice la biologia. Nel nostro mondo, in particolare, la vita mangia altre vite, è la catena alimentare, e questo sorregge l’economicità del sistema delle specie viventi: altrimenti presto non ci sarebbero più risorse sufficienti. Un mondo di vecchi eterni, non più capaci di riprodursi, finirebbe per estinguere la vita della specie.
Il mito, però, ci è indispensabile per dar senso alla vita. I miti che riceviamo dagli avi sono i più coinvolgenti, perché sono colorati dall’esperienza emotiva dell’affetto verso coloro che ci hanno trasmesso la vita. Così, la fede che ci è stata trasmessa ci insegna a sperare nella vita eterna e questa speranza dà gioia. Nella speranza si è salvati, scrisse Paolo:
La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
[dalla Lettera di Paolo ai Romani, capitolo 8, versetti da 19 a 25 – Rm 8, 19-25 – versione in italiano CEI 2008]
Non siamo tenuti, in religione, alla certezza, che non è nelle nostre forze, ma siamo esortati alla speranza, all’attesa fiduciosa e perseverante. La salvezza, in definitiva, ci verrà dall’alto. Siamo solo povere creature.
Avvicinandosi la fine si rimane soli, anche se chi ci vuol bene si sforza di rimanerci accanto per consolarci. Si comprendono quei passi dei racconti evangelici che raccontano degli apostoli che non riuscirono a vegliare con il Signore quella notte in cui soffrì fino a sudare sangue. Allora l’abitudine alla preghiera è di conforto, concentrandosi sulle parole e procedendo molto lentamente, senza fantasticare. È cosa che ho sperimentato personalmente in certe notti in ospedale.
Che ne sarà di noi senza il nostro pastore?
I tempi sono quelli che sono e nelle stanze del potere supremo si è sempre spietati e spregiudicati nelle lotte di successione, anche in quelle ecclesiastiche. In base all’esperienza storica non ci dobbiamo fare illusioni.
Dicono che c’entri lo Spirito. Anche qui: speriamo.
Ora si spera che rimanga con il sofferente e ce lo salvi.
Siamo nel bel mezzo di una riforma ecclesiale, quella sinodale, che si vuole epocale, anche se si è proceduto in mezzo a forti resistenze. Mi pare che solo la pervicacia di papa Francesco vi abbia dato fondamentale impulso.
Ma, nella nostra fede, ci è stato insegnato ad essere sempre pronti, perché non si sa né il giorno né l’ora.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa -Roma,Monte Sacro, Valli