Programmi
Questo è un periodo dell’anno nel quale è utile fare programmi per la ripresa delle attività associative, nel prossimo ottobre. I mesi seguenti saranno caratterizzati dall’assemblea del Sinodo dei vescovi. Da poco è stato reso disponibile lo strumento di lavoro, il testo che sarà posto a base dei lavori. Tenendo conto delle esperienze passate penso che non ne uscirà granché. Vi sarà coinvolta una piccola minoranza di persone che possiamo definire come addette ai lavori, in particolare gerarchi ecclesiastici e loro collaboratori, anche se indubbiamente questa volta, per volontà del Papa, avranno modo di participare attivamente, e non solo presenziare, anche altri, ed è una significativa novità.
Ma i più sono rimasti estranei.
Si è inscenata una fase di consultazione popolare, perché così aveva voluto il Papa, ma scoraggiando il dibattito. In genere si è poco abituati a lavorare insieme, pur frequentando le stesse chiese ci si conosce poco e quindi si diffida gli uni degli altri. Quando ci si incontra si scopre di aver poco in comune a parte una patina mitologica e una certa consuetudini ad alcuni riti. Non credo quindi che da quella consultazione sia uscito molto di utile. Quella svolta nella nostra parrocchia, senza la minima preparazione, non mi ha certamente impressionato. Non si è saputo nemmeno che cosa se ne sia scritto alla Diocesi.
In genere si manifesta una consapevolezza poco profonda delle questioni implicate nella fede e si è legati a ciò che della religione si è imparato da piccoli. Le persone più anziane ne hanno dimenticato molto, i più giovani non vi danno molta importanza perché sono tutti impegnati a crescere, e non vogliono essere riportati nella condizione di bambini.
Spesso la frequentazione dei riti risulta noiosa e qualche volta avvilente, dove si insiste nel proporre un’etica insostenibile, specialmente ai più giovani.
Tutto, in chiesa, è nelle mani del clero e dei religiosi, le altre persone appaiono più che altro delle comparse per i riti.
Può accadere che si approfondiscano insieme alcune questioni di rilevanza religiosa, ma non lo si fa in chiesa, e non lo si potrebbe nemmeno fare per l’invadenza di clero e religiosi, il cui principale problema è di aver scelto di non essere persone libere. A volte chi propone una organizzazione diversa, con ruoli più partecipati, è diffamato di clericalismo, quindi sospettato di voler essere come loro, ma, in realtà, chi fa quelle proposte, al contrario, le fa proprio per non dover essere come loro.
L’ecclesialità è predicata come un sottomettersi alle gerarchie ecclesiastiche, nelle quali i più sono posti al livello più basso e passivo, e in questo modo le si rende irriformabili, mentre non si potrà crescere senza riformarle.
Naturalmente cercare di andar oltre ad una fede bambinesca e ad una religiosità passiva richiede una riflessione profonda sulla propria condizione umana, che non può riuscire rimanendosene da soli. Si tratta di questione riguardante il senso della vita ed esso scaturisce necessariamente da relazioni sociali di prossimità, e ciò per insuperabili nostri limiti fisiologici, perché siamo primati, abbiamo un cervello da primati e anche emozioni da primati.
Questo significa che il punto di partenza deve essere il lavoro in un piccolo gruppo, inteso come una collettività di una trentina di persone. Non deve esserci troppa differenza d’età, perché la comunicazione sociale intergenerazionale profonda ci è impossibile, sempre per ragioni fisiologiche, salvo, entro certi limiti, con avi e discendenti.
Si può iniziare esaminando ciò che si è e si sa. Chi va a scuola dovrebbe partire da lì. Nella formazione religiosa di base corrente è invece una esperienza che va perduta, perché se ne prescinde. Qui potrebbero aiutare gli insegnanti di professione. Le altre persone dovrebbero comunque partire dalla loro vita in società e da ciò che apprendono in essa.
Che cosa sappiamo, poi, delle questioni di fede? Riflettendoci sopra insieme si scoprirà subito quanto si sia superficiali in questo. Di solito, quando si comincia c’è sempre qualcuno che invoca il sacerdote: è una scorciatoia alla quale si deve cercare di resistere. È un momento in cui, se vogliamo salvare la Chiesa (è l’espressione usata da alcuni scrittori di questioni religiose), dobbiamo cercare di aiutare i sacerdoti ad essere diversi, non farne le stampelle per la nostra pigrizia.
Certo, siamo in un momento di difficile transizione e, approfondendo, si possono fare scoperte che sorprendono.
L’altro giorno, in televisione ho visto una trasmissione nella quale il professore bolognese Alberto Melloni ricordava un aneddoto: all’Istituto biblico di Roma (un centro di alta cultura nelle scienze bibliche) ad un noto specialista era stato affidato un corso sulla Lettera agli ebrei, che una volta veniva attribuita a Paolo di Tarso. Lo iniziava dicendo agli studenti: “Questo è il corso sulla Lettera agli ebrei di San Paolo, che non è una lettera, non fu scritta agli ebrei e non è di Paolo”. Cose del genere emergono più spesso di quanto si creda.
L’espressione religiosa della nostra fede è una costruzione sociale che sta manifestando molti limiti, in particolare nella mitologia che la connota. Il mito ci è indispensabile per comprendere, è un elemento culturale senza il quale le nostre società non potrebbero esistere, ma, in quanto elemento culturale, necessita di essere rivisto nel progredire delle esperienze sociali. Nella vita delle nostre Chiese è accaduto più volte, come emerge se solo si ha la pazienza di approfondirne la storia, lavoro che nella formazione religiosa di base in genere non si fa. Ai tempi nostri il mito che necessita di più urgente revisione nella nostra Chiesa è quello costruito nei secoli passati, e in particolare negli ultimi due secoli, dell’assolutismo dispotico gerarchico, quello per cui la gerarchia viene definita santa, che rende impossibile una reale partecipazione diffusa. Non è un lavoro per preti e religiosi, ai quali non è consentita la sopravvivenza al di fuori di quel modello e che, formatisi al suo interno, tendono anche a replicarlo.
Il tipo di lavoro che si potrebbe fare in un gruppo di Azione Cattolica come il nostro potrebbe essere ancora un buon punto di partenza, ma richiederebbe di coinvolgere più persone delle generazioni intermedie, né troppo giovani né troppo anziane, alle prime infatti manca sufficiente esperienza, alle altre mancano le forze. Così è la vita degli esseri umani. Il problema è che la vita parrocchiale risulta in genere poco consona alle generazioni che ci servirebbero maggiormente, le quali, molto impegnate nella riproduzione, nell’allevamento dei bimbi piccoli e nel lavoro, hanno poco tempo da perdere, mentre la vita religiosa a quell’età appare spesso una gran perdita di tempo. E non di rado lo è realmente.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli