Terre dei cristiani
Su La
lettura, il supplemento del Corriere della sera uscito domenica scorsa, c’è
la recensione di un libro di Janine Di Giovanni, La fede scomparsa. Il
tramonto del cristianesimo nella terra dei profeti, La nave di Teseo 2023.
L’articolo, di Marco Ventura, si intitola “Non c’è posto per i cristiani
nelle terre del cristianesimo”: sono molto diminuite le persone che praticano
il cristianesimo nel Vicino Oriente, in particolare in Palestina, dove, secondo
Ventura, il cristianesimo è nato, divenendo poi, per circa quattro
secoli, la religione principale.
Quando si fanno, tra cristiani, discorsi del
genere, si sente come una ingiustizia che, lì dove hanno dominato i cristiani,
ora non sia più così e che, anzi, i cristianesimi abbiano sempre meno praticanti.
Questo perché il cristianesimo aderirebbe alla terra, a quella terra, facendone
una Terra Santa.
Accade anche nella Roma dei nostri tempi,
nella quale, nonostante sia ancora piena di chiese cristiane, le statistiche
avvertono che c’è molta meno gente che pratica una religione cristiana. La
differenza è che quest’ultima non è stata sostituita da nient’altro di così
potente come furono i cristianesimi dei secoli passati.
Del resto, da
noi non sono scomparsi gli antichi culti prepagani? Perché non dovrebbe accadere
anche ai cristianesimi? Altrove, appunto
nel Vicino Oriente, è accaduto e potrebbe succedere anche da noi. Dove è
scritto che sarebbe stato garantito il radicamento perpetuo della nostra religione in una determinata terra? Anzi,
il fatto che non lo sia stato è uno degli elementi che distinse fin dalle
origini i cristianesimi dal giudaismo, suo ambiente originario, e, aggiungo,
distingue nettamente gli attuali cristianesimi da gran parte degli ebraismi
contemporanei, che fanno gran conto sullo Stato di Israele.
Da punto di vista religioso, non mi pare che
abbiamo motivo di considerare una certa terra “santa”, fosse anche la
Gerusalemme contemporanea. Non rientra tra i comandi del Maestro, né nelle promesse
soprannaturali contenute nei suoi insegnamenti. Verificate.
Ma, allora, perché tanta violenza nei secoli
passati per cercare di mantenere il controllo politico della Palestina?
Forse che i cristianesimi sono radicati in una
qualche popolazione, facendone un popolo? Il problema è che né noi né le
nostre culture siamo vegetali, pertanto non abbiamo radici, siamo immersi in
certe culture, dalle quale però possiamo sempre staccarci, come storicamente è
avvenuto continuamente.
Argomenti
molto persuasivi sul tema possono leggersi in Contro le radici. Tradizione,
identità, memoria, di Maurizio Bettini, Il Mulino 2012, disponibile anche
in e-book.
Le culture delle popolazioni cambiano secondo
le esigenze della gente, e anche per il cambiare della gente, ad esempio per modi
nuovi di vivere che derivano dal contatto con altra gente: ciò che non serve
viene abbandonato. Una religione è come una lingua, che evolve continuamente:
in questa evoluzione ogni parlante dà un suo contributo.
Personalmente non sono legato in alcun modo
all’attuale Vicino Oriente, e alla Palestina in particolare. Non ha nessun
senso religioso per me. E preferirei che a quei posti non fosse stata data nel nostro tremendo passato tutta l’importanza
che invece è stata ad esso attribuita. Le cose che riguardano il Vicino Oriente
mi interessano di più quanto alle conoscenze archeologiche e linguistiche, ma non
mi interessa andarci a pregare, tanto meno ora che sono ancora travagliati,
come nei secoli passati, da un’orrenda violenza politica.
Non credo che da quelle parti i cristianesimi
possano essere utili, per cui non mi interessa collaborare a farvi evangelizzazione.
E preferirei che, come Chiesa, mollassimo la presa che ancora pretendiamo di
mantenervi.
Mi pare che la pratica dei primi cristianesimi,
quand’ancora non erano stati strumentalizzata a fini politici, riguardasse
piccoli gruppi che cercavano di vivere la propria fede come in una grande
famiglia. Consentiva una spiritualità che non c’era negli altri culti, in particolare
nei politeismi greco-romani. Emerge anche un notevole pluralismo, al quale si
cominciò ad essere insofferenti quando si
misero di mezzo i filosofi di cultura ellenistica e, molto più tardi, coloro
che impersonavano la politica.
Non vorrei ritornare a quei primi tempi, che
avevano molti aspetti sconcertanti per la nostra mentalità, ma farne memoria ci
può essere utile per convincerci che il cristianesimo non scaturisce da una
certa terra, ma da relazioni umane. Non basta abitare da una qualche parte per
diventare cristiani.
Concludo queste riflessioni proponendo questo
tema: sia poi sicuri che “il cristianesimo”, in particolare quello che
ancora noi pratichiamo qui a Roma, sia nato nel Vicino Oriente, o addirittura in Palestina?
Da ciò che ho letto in materia di cristianesimi delle origini, penso possa
accettarsi che da quelle parti si siano diffusi alcuni cristianesimi,
che avevano alcuni elementi culturali comuni con il nostro cristianesimo, che
certamente, però, non è nato nel Vicino
Oriente, ma molto più tardi e anche molto più lontano.
Il nostro cristianesimo vive in noi. Poiché noi siamo elementi caduchi
della natura, se vogliamo che ci sopravviva dovremmo cercare di tramandarlo
alle nuove generazioni. In più si è a lavorarci, maggiore è la possibilità di
riuscita. Questo è un motivo per insistere nel veicolarlo con le nostre relazioni
sociali, nell’ambiente sociale siamo immersi. Il problema, in questo campo, è
che l’età media di chi pratica la religione si è molto alzata e questo la rende
meno attraente per le persone giovani, perché così va la natura, e noi ne
facciamo parte.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli