La pace è giustizia sociale
L’ultimo dell’anno del 1981 partecipai, qui a
Roma, a una veglia per la pace indetta dalla Diocesi. Ci si ritrovò davanti al
Colosseo e lì parlò Elio Toaff, che era rabbino capo nella città. Poi andammo
in processione fino alla basilica di San Giovanni in Laterano, dove il rito
proseguì.
Da Toaff sentii parlare per la prima volta
del nesso tra pace e giustizia. Non si può essere vera pace senza giustizia,
disse. Quell’idea mi coinvolse molto. Si costruisce la pace realizzando la
giustizia, altrimenti non ci può essere vera pace: questo il principio. Da anziano, con l’esperienza
di una vita trascorsa da allora, ho compreso che quella non è una via di pace.
Si costruisce la pace solo quando si accetta si cessare il conflitto violento e questa è
giustizia. Nessuna giustizia può mai sorgere dalla violenza. Quindi la pace
accade quando si abbandona la violenza. Questo è poi il principio di ogni
giustizia. La violenza è un modo ancestrale di entrare in relazione con gli altri
esseri viventi. Distaccarsene è anche un significativo progresso culturale.
La storia ci insegna che è andata sempre
così: la pace è venuta quando si è deciso di finirla con la violenza. Consideriamo,
ad esempio, le due guerre mondiali del Novecento. La seconda è ora considerata
solo una ripresa della prima, che non era mai finita. La seconda sarebbe potuta
continuare a lungo, ma si è decisa la pace prima che tutto ciò che veniva
considerato come giustizia sui vari fronti fosse stato raggiunto. Dalla
metà degli scorsi anni Quaranta, si decise di costruire la pace sulla pace,
quindi innanzi tutto di consolidare quello che all’inizio era solo un cessate
il fuoco, poi trasformatosi in un armistizio, con degli accordi
internazionali. La pace fu considerata quindi il valore sociale più importante.
Da quella internazionale scaturì poi quella interna agli stati che si erano
combattuti. Dunque, sorse dall’alto o
dal basso, dalla gente o dai governi? La gente era in gran parte stanca della
violenza, i governi non avevano più sufficienti risorse per continuarla, tutti
trovarono convenienza nel trattare la pace, anche se motivi per riprendere a
combattersi rimasero sempre, tanto che, poi, a proposito della situazione
europea, si parlò di guerra fredda.
La pace europea durò tanto a lungo che, negli
scorsi anni ’80, si cominciò a trattare per demolire le armi più letali e per
costruirne progressivamente sempre di meno. In Europa ne abbiamo beneficiato
tutti, sia in Occidente che in Oriente, tra i capitalisti e i comunisti, perché,
tornata la pace nel continente, le egemonie politiche internazionali si erano
polarizzate in quel modo, i capitalisti in Occidente e i comunisti in Oriente.
Questo processo ebbe in Europa importanti
sviluppi istituzionali. Nella parte occidentale si costruì l’Unione Europea
come struttura giuridica e politica artefice di una pacificazione continentale,
per forze di cose rivolta verso Oriente per sanare la frattura che si era
creata con quelli dell’altra parte. In Oriente si iniziò a modificare le
relazioni internazionali e interne in modo da creare qualcosa di simile, ma
rivolto verso Occidente. Nulla rimase uguale a ciò che era uscito dalla Seconda
guerra mondiale. Nulla di simile si produsse in Nord America.
Qualche giorno fa è stato pubblicato il libro
di Andrea Riccardi Il grido della pace, San Paolo 2023. L’autore parte
dalla considerazione che ai tempi nostri la pace è molto meno popolare che un
tempo. Questo ha creato le condizioni per il disastroso e sanguinoso conflitto
in Ucraina che ha guastato le relazioni internazionali sul continente.
L’ordine di invadere l’Ucraina è venuto dal
governo federale russo, ma le condizioni politiche per la guerra erano maturate
da anni, dall’inizio degli anni Dieci del nuovo Millennio.
Quando si decide di fare guerra? Quando ci si
arma. Tre attori internazionali avevano iniziato a farlo: gli statunitensi, gli
ucraini e i russi. Gli altri europei molto meno, tanto che, scoppiata la guerra
e ritrovaticisi coinvolti, hanno scoperto di avere arsenali obsoleti e
insufficienti. Questo perché si era deciso di mantenere la pace e non è come quel detto degli antichi romani “Se
vuoi la pace, prepara la guerra”: se si vuole mantenere la pace, occorre preparare
la pace, iniziando con il cessare di armarsi. Così si era fatto in Europa e ne
era conseguita una pace duratura, tra popoli che per secoli si erano combattuti
duramente, anche per questioni religiose (prova evidente che la religione, per
sé sola, non basta per fare pace, anzi).
Scrive Riccardi:
«[…] per noi europei, dopo il 1945, la guerra è stata
una realtà che riguardava gli altri, eccetto in conflitti balcanici (legati
alla dissoluzione della ex Jugoslavia). Abbiamo goduto di una grande pace, ma,
progressivamente, abbiamo perso il senso di una politica di pace”.
E ancora:
«Più dura una guerra e più e difficile trovare la
pace, quasi imboccando un tunnel di cui non si vede la fine».
Dicono che la guerra finirà quando la si sarà vinta,
ma questa è una sciocchezza. Serve solo per cercare di giustificare la
prosecuzione della guerra. Nessuna vittoria sarà mai capace di realizzare la pace, perché,
anzi, per vincere si moltiplicheranno le atrocità e quindi i motivi di divisione.
Riccardi osserva che, già al punto in cui
siamo, ricostruire un ordine pacificato con tra russi e ucraini sarà
estremamente difficile. La frattura si prolungherà per generazioni, nonostante
la sospensione delle ostilità violente. E la situazione peggiora di giorno in
giorno.
Scrive anche che non bisogna pensare che i movimenti
popolari per la pace siano un agitarsi inutile, perché in passato sono stati
molto importanti per spingere i governi verso accordi di pace.
Qual è la posizione dei cattolici italiani
sul tema della pace?
Storicamente la nostra religione è stata compatibile con spaventose atrocità belliche.
La nostra adesione al movimento per la pace è piuttosto recente, data dagli
scorsi anni Cinquanta, più o meno, ma non si è consolidata se non con il Concilio
Vaticano 2° (1962-1965). Lorenzo Milani, ad esempio, ebbe gravissimi fastidi
ecclesiastici per aver sostenuto la legittimità morale e, anzi, la doverosità
dell’obiezione di coscienza.
E’ ancora importante l’esempio di vita del
Maestro, come ci viene narrato nei Vangeli?
Certamente non praticò la violenza. Ma altrettanto certamente non si impegnò
per un ordine politico pacificato. Non fu un attivista politico, come pure ce n’erano
ai suoi tempi. Di fatti, nei secoli seguenti, si poté essere senza problemi cristiani
e violenti, anche stragisti e addirittura genocidi. Eppure rimane che egli non
praticò la violenza e questo vorrà pur dire qualcosa.
Dicono che non combattere è arrendersi e che
arrendersi è ingiusto. Eppure il massacro non si è rivelato l’unica
alternativa, anche in situazioni di guerra combattuta. C’è la lotta nonviolenta,
che ha cominciato ad essere praticata e poi teorizzata dal primo dopoguerra
dall’attivista indiano Mohāndās
Karamchand Gāndhī. Da noi era predicata, e praticata, da Aldo
Capitini, Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto e da altri. Anche su quell’ispirazione
è stata costruita la nostra Unione Europea come potenza di pace. E’ vero: si
sono mantenuti gli eserciti e gli armamenti, ma progressivamente con sempre
meno soldati e meno armi, fino a quando è scoppiata la guerra in Ucraina.
Ogni
tanto nei nostri ambienti ecclesiali si fa qualche manifestazione per la pace, ma
di solito si rimane sempre sulle generali, non si prende mai posizione su come
fare per fare cessare un conflitto in corso. Si rimanda ai governanti, ma
quelli, se non sono impediti da moti popolari significativi, vanno avanti finché
vi trovano la loro convenienza. Si manifesta, ma non si lotta. Tra il confitto violento, che
sempre allontana dalla pace, e lo spiritualismo devoto ma inane, c’è la lotta
nonviolenta, che rimane una forma di lotta, perché si decide di non aderire ai
comandi politici di far guerra. Scoppiata una mobilitazione generale per
scendere in guerra con le proprie armate questo è piuttosto difficile, ma
finché, come ora in Italia, ancora non si è a quel punto le cose sono alla
portata di tutti. C’è chi propone di continuare la guerra: occorre fargli
mancare il consenso politico.
Invece
sembra che la gente abbia perso fiducia nella propria capacità di influenza e,
ad esempio, in massa si astiene dal voto. Non andò così, ad esempio, al tempo
delle guerre statunitensi in Iraq: l’Italia vi fu coinvolta molto marginalmente,
anche perché si sviluppò un imponente movimento contrario. Nella successiva guerra
in Afghanistan, presentata un po’ come un’operazione militare speciale,
secondo il gergo attuale del governo russo, - non si voleva parlare di guerra,
che invece vi fu – quel movimento si era piuttosto indebolito e mandammo un
corpo di spedizione numeroso.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli.