Stasera,
alle ore 18:00, nei locali parrocchiali, in sala rossa: Incontro di studio e di preghiera sul Messaggio del Santo Padre per la 50° Giornata della pace (trascritto
in fondo a questo documento) e Veglia per
la pace (inizierà alle 20:30 dopo un momento conviviale, mangiando una
pizza in compagnia)
Programma
degli eventi:
-ore
18, in sala rossa: Incontro di studio e di preghiera sul Messaggio del Santo
Padre per la 50° Giornata della pace
-
incontro conviviale, mangiando una pizza in compagnia;
-ore
20:30 Veglia della pace, nella chiesa parrocchiale
|
Aldo Capitini alla prima Marcia della pace Perugia - Assisi, nel 1961 |
[da:
Aldo Capitini, Religione aperta,
1955, ora in Aldo Capitini, Le ragioni
della non violenza - Antologia di scritti, a cura di Mario Martini,
Edizioni ETS, 2004, €16,00, pag.75-77]
La non violenza
La nonviolenza non è cosa negativa, come
parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio
nel suo esser lui e non un altro, per la
sua esistenza, libertà, sviluppo. La nonviolenza non può accettare la
realtà come si realizza ora, attraverso potenza e violenza e distruzione dei
singoli, e perciò non è per la conservazione, ma per la trasformazione; ed è
attivissima, interviene in mille modi, facendo come le bestie piccole che si
moltiplicano in tanti e tanti figli. Nella società la nonviolenza suscita
solidarietà attiva e dal basso. Anche verso gli esseri non umani la nonviolenza
ha un grande valore, appunto come ampliamento di amore e di collaborazione. Non
bisogna impantanarsi nei casi e nelle ipotesi in cui sia lecita o no la violenza; anzitutto c’è una minaccia
di violenza che investirebbe tutti, la guerra, ed è contro di essa che bisogna
scegliere l’atteggiamento più religioso; e poi nei casi individuali è da tener
presente che la nonviolenza è creazione, è un valore, e che può essere sempre
svolta meglio. La non violenza ha diritto al suo posto in mezzo alle
rivoluzioni, e aggiunge principi preziosi nell’educazione.
La non violenza è amore
Non-violenza è, apparentemente, un termine negativo.
Il rifiuto della violenza è un atto positivo, che richiede volontà e molta
energia interiore. Se esaminiamo quante conseguenze importanti, quali
modificazioni di vita, quale chiarezza per giudicare tante cose, derivano
dall’impegno alla non violenza,
comprendiamo anche meglio la sua positività. Della nonviolenza si può
dare una definizione molto semplice: essa è la scelta di un modo di pensare e
di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e
particolarmente gli esseri umani.
Perché questa scelta verso l’esistenza, la
libertà, lo sviluppo di altri esseri? Per amore: ecco, vediamo subito che si
tratta di una cosa positiva, appassionata. Ma è l’amore che non si ferma a due,
tre esseri, dieci, mille (i propri
genitori, i figli, il cane di casa; i concittadini, ecc.); è amore aperto, cioè
pronto ad amare altri e nuovi esseri già conosciuti. […] nessuno abbraccia
l’astratta “non violenza”, ma compie atti particolari di non violenza in
situazioni concrete. La nonviolenza è, dunque, dire un tu ad un essere concreto
e individuato; è avere interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; è
aver gioia che esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo
la nascita; assumiamo su di noi l’atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come
madri.
[…] noi
viviamo per ogni essere, in occasione del suo incontro, l’unità così come
parlando con tante e diverse persone noi realizziamo l’unità del pensiero, del
linguaggio. La nonviolenza a vivere l’Uno-Tutti; e così salva da atteggiamenti
scadenti: quello di chi vorrebbe arrivare individualmente alla unità, per suo
conto, trascurando di aprirsi agli altri; quello di chi guarda e rimira
l’Universo, Uno-Tutto, che non è altro che un’immagine, un’idea della mente, e
trascura la concretezza dell’Uno-Tutti.
[…] chi
sceglie la nonviolenza parla col suo atto a tutti: segnala una via per tutti, e
rompe l’indifferenza o l’incantamento mentre si prepara un’altra guerra. E poi
la non violenza, quando è professata sul serio ed eventualmente con sacrificio,
è un valore, che può essere riconosciuto anche da chi non la pratica, come uno
che stima chi fa poesia, anche se si occupa d’altro. Se è un valore, fa bene intimamente a tutti,
influisce su tutti.
La morte può finire
Nell’agire secondo la nonviolenza ha grande
rilievo non uccidere, non dare la morte. Si potrebbe obiettare: quella persona
morrà ugualmente, prima o poi. Rispondiamo che anzitutto c’è una grande
differenza; e noi stiamo parlando con serietà, per cui l’atto nostro ha il suo valore
non nel fatto, ma nel proposito. E’ ben diverso
che io uccida mia madre, e che
essa muoia assistita amorevolmente da me. Sono non solo due modi di vivere
diversi, ma due mondi. Inoltre: chi ci dice che la morte sia un fatto costante,
ineliminabile? Abbiamo tentato di non dare la morte né col pensiero né con
l’atto, per vedere se la realtà ci seguisse? Che ragione abbiamo noi di
rimproverare la realtà che dà dolore e morte? Sicché chi non dà la morte,
produce due cose: in sé, tanto è l’appassionamento all’esistenza delle persone,
il senso della loro presenza anche se muoiono; e nella realtà introduce
un’iniziativa che la può trasformare. Proprio l’amore, l’amore per le persone
fino al rispetto della loro esistenza e fin sull’orlo della morte, prende su di
sé la presenza di quelle persone, quando è amore aperto a tutti. Il nostro
agire innocente sente che quelle persone, se muoiono, restano unite nell’intima
presenza; mentre l’omicida, soltanto se si pente amorevolmente, ritrova in sé
la presenza uccisa; altrimenti sente il vuoto intorno a sé.
Con la nonviolenza, dunque, s’impara
concretamente che i modi di manifestarsi attuali della realtà (tra cui la
separazione, il dolore, la morte) non sono permanenti, ma possono trasformarsi
in meglio; e perciò la nonviolenza è appello al mondo per una grande
mobilitazione dell’unità amore, con l’apertura alla trasformazione della realtà
stessa.
La
nonviolenza non per la conservazione, ma per la trasformazione
E’ perciò un errore credere che la
nonviolenza si collochi nel mondo lasciandolo com’è: più si pensa alla
nonviolenza e si cerca di attuarla, più si vede che essa ha un dinamismo tale
che non può accettare il mondo com’è, ma porta tutto verso una trasformazione:
l’umanità, la società, la realtà. Come strumento di conservazione del mondo la
nonviolenza è discutibile; come strumento di trasformazione in meglio, essa ha
un valore inesauribile, appunto perché non fa modificazioni e spostamenti in
superficie, ma va al profondo, al punto centrale.
E un altro e simile errore è credere che la
nonviolenza sia contro le violenze attuali, ma accetti quelle passate, dell’umanità,
della società, della realtà. Se fosse così, la nonviolenza sarebbe
conservatrice e accetterebbe il fatto compiuto, le prepotenze avvenute, le
oppressioni, le monarchie, gli sfruttamenti. La vera nonviolenza non accetta
nemmeno le violenze passate, e perciò non approva l’umanità, la società, la
realtà, come sono ora. Non accetta la realtà dove l’animale grande mangia l’animale
piccolo; e perciò cerca di stabilire unità amore anche verso gli animali,
appunto per iniziare il bene; non accetta che i viventi prendano il posto dei
morti; non accetta la fortuna dei forti
e dei potenti, e perciò tende a soccorrere i deboli, gli stroncati, non accetta
il potere e la ricchezza privata, e perciò tende a costituire forme di
federalismo non violento da basso e forme di aiuto e reciprocità sociale e
fruizione comune di beni sempre più
larghe. Essa ha come guida instancabile la presenza di tutti, e il principio
che ogni essere è insostituibile.
Perciò essa tenda a ridurre ed eliminare gli schemi generici e impersonali. Noi viviamo
troppo di questi schemi, e molte volte non ci curiamo d’altro; ma non esistono
gli schemi (gli amici, i nemici, gl’italiani, i religiosi, gli autisti, ecc.);
esistono i singoli individui, e la vita fondamentale è quella che li considera
nella loro singolarità insostituibile. Noi usiamo lo schema, per esempio, se
cerchiamo un autista, e poi un altro autista, un libraio, ecc. Ma il progresso
è proprio nel ridurre questo uso di schemi. La guerra invece è il mostro più
immane di questo uso di schemi, che divora le singole individualità: non ci
sono che i nostri e i nemici; è perciò sommamente diseducatrice.
[da Aldo Capitini, Il potere di tutti, (edito per la prima volta nel 1969) Guerra
edizioni, 1999, pag.94]
La ragione del pacifismo integrale non è
soltanto il fatto evidente che la guerra, un volta accettata, conduce a tali
delitti e a tali stragi, specialmente oggi, che è assurdo presumere di farla e
contenerla; ma è la vita della compresenza che si sceglie, il suo accertamento,
la sua costruzione, la sua celebrazione quotidiana. Mentre si lavora per
migliorare continuamente il rapporto di comprensione e di sacrificio verso ogni essere, non si può
interrompere tale lavoro e mutare l’apertura in chiusura.
Ma c’è una ragion di carattere organizzativo.
E’ chiaro che bisogna arrivare a moltitudini che rifiutino la guerra, che
blocchino con tecniche non violente il potere che voglia imporre la guerra. L’Europa
ha sofferto per non aver avuto queste
moltitudini di dissidenza assoluta, per es. riguardo al potere dei fascisti e
dei nazisti. L’omnicrazia [=potere di tutti] deve prendere corpo anche in
questo modo: nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti;
ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della
guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo. Se davanti alle forze
della Natura non ci si è mossi con il programma che la lotta e la loro
utilizzazione fosse per tutti, “fra sé considerati” diceva il Leopardi, si è
persa la tensione a trovare il punto della trasformazione della Natura al servizio di tutti come singoli: chi dà la
morte, non può rimproverare la Natura di preparare la nostra morte. Questo collaudo
è necessario, perché tutte le volte che gli individui si accontentassero di
ottenere qualcosa nell’ambito della
Natura, dello Stato, dell’Impresa, perderebbero l’acquistato se travolti dalla
guerra. Se nello Stato la lotta contro il potere assoluto ha ottenuto il regime parlamentare, tuttavia
è rimasta la guerra a impedire un ulteriore sviluppo democratico. Se nell’Impresa
i lavoratori sono riusciti a progredire e perfino a imporre le socializzazioni,
poi la guerra, e la sua preparazione, li
ha messi alla mercé di un potere autoritario, tutt’altro che democratico.
Biografia di Aldo Capitini
(dal Dizionario biografico Treccani on line http://www.treccani.it/enciclopedia/aldo-capitini_(Dizionario-Biografico)/
CAPITINI, Aldo
(voce redatta da Piero Craveri). - Nacque a Perugia il 23 dic. 1899 da
Enrico, campanaro del comune, e da Adele Ciambottini. Fece studi irregolari e
nel 1924 sostenne l'esame di licenza liceale. Quello stesso anno vinceva il
concorso per un posto di convittore presso la Scuola normale superiore di Pisa.
Rimase estraneo ai dibattiti politici che in
quegli anni rendevano effervescente il clima culturale della Normale intorno al
tema della palingenesi ideologica del fascismo. Tenace e laborioso, con
quell'orgoglio e quella maturità umana, se non proprio culturale, che spesso
accompagnano l'esperienza di un autodidatta, tra i tanti docenti e discenti
della scuola strinse un sodalizio spirituale con uno dei più isolati suoi
coetanei, Claudio Baglietto. Le riflessioni comuni, da un lato sulla crisi
della democrazia liberale e delle sue forze politiche di fronte al fascismo,
dall'altro sulla conciliazione tra la Chiesa e il regime fascista, che, con
intuizione precorritrice, essi avvertivano costituire un punto di rottura
decisivo dell'esperienza religiosa cattolica nel nostro paese, gettarono le
basi di un programma di ricerca intellettuale, a cui il C. avrebbe dato forma
nel volume Elementi di un'esperienza religiosa, edito da Laterza nel 1937.
Il titolo del volume venne dato dal Croce,
che se ne era fatto mallevadore, e a cui il C. era stato presentato da Luigi
Russo nel 1936. Ma l'esperienza del C. non fu propriamente
"religiosa" - anche se l'individualismo con cui fu vissuta, il
sostanziale distacco da tutte le forme concrete in cui la lotta politica
prendeva forma, la difficile storicizzazione delle sue proposizioni
intellettuali potrebbero far ritenere esatta questa definizione, ma più
generalmente "civile".
Mancano del resto nelle riflessioni contenute
in questo volumetto gli elementi essenziali di una qualsiasi esperienza
religiosa, cioè quello teologico-metafisico e quello dogmatico-rituale che sono
in parte presenti nell'esperienza modernista, a cui impropriamente qualcuno ha
voluto ricollegare il Capitini. L'accento è posto invece sul momento
etico-individuale, come "coscienza della finitezza di tutto", anche
se questa è avvertita come "atto religioso", perché percezione
dell'"infinità" della divinità, che "rende più facile
l'adorazione della molteplicità dinnanzi a noi, apertura della nostra vita, e
fa meglio avvertire la presenza di Dio al centro, monoteismo concreto" (ibid.,
p. 32). Di qui tuttavia non nasceva una problematica religiosa, la fondazione
d'un rapporto teologico-metafisico tra l'individuo e l'essenza divina di cui si
cercava la prova, ma più semplicemente l'opzione per una scelta individuale
d'ordine etico, non "naturalistica, di orgoglio, di incosciente pretesa ad
assolutezza" (p. 31). Quello del C. era in realtà il rifiuto dei valori
ideali e civili non solo dell'Italia fascista, ma anche di quella liberale, e
la conseguente ricerca di una dimensione spirituale, che fosse regola coerente
di vita, individuale, ma soprattutto "civile".
Le vicende biografiche del C. danno del resto
una testimonianza ancora più convincente dei suoi scritti circa la natura di
questi suoi orientamenti. Laureatosi in lettere e filosofia a Pisa nel 1929,
era assunto come segretario della Scuola normale. Già l'anno dopo doveva
lasciare quell'incarico per aver rifiutato l'iscrizione al Partito nazionale
fascista, mentre il suo amico Baglietto, che, ultimati gli studi alla Scuola
normale, si era recato in Germania con una borsa di studio, scriveva al Gentile
la sua intenzione di non far ritorno in Italia. Baglietto si sarebbe poi
avvicinato al partito comunista. Il C. non fece questo salto dall'impegno
civile a quello politico, l'unico possibile, - e che comunque compirono molti
della sua generazione tra il '30 e il '40 - per chi avesse svolto la propria
esperienza giovanile negli anni trionfanti del regime fascista, e la cui
protesta voleva essere anche una cesura con la tradizione politica dell'Italia
liberale da un lato, con il cattolicesimo dall'altro.
Ritiratosi a Perugia, il C. svolse tuttavia
in quegli anni un'intensa attività militante antifascista. "Ho visto più
giovani e gente io che tutti gli altri", dirà di sé, ricordando quegli
anni (Nuova
società e riforma religiosa, Torino
1950, p. 15). Fu in effetti instancabile nel compiere riunioni educative,
religiose e politiche in ogni parte d'Italia, portando alla critica del
fascismo e all'azione antifascista numerosissimi giovani.
I temi che egli svolgeva in quelle riunioni
poggiavano su una "premessa... rigidamente morale, con accentuazione o del
motivo della libertà o della religiosità, della non violenza e della
menzogna... E fu una breccia che si aprì in giovani di valore per cui apparve
la possibilità di una tensione diversa da quella fascista, di una specie di
rivolta intima e di ascesi, che metteva in prima linea la non collaborazione,
la non tessera del partito" (ibid., p. 13).
La fragilità di questa intelaiatura ideale,
con la sua assenza di concetti propriamente "politici", non
precludeva alle iniziative del C. una effettiva capacità di incidenza, nella
misura in cui esprimeva appunto un antifascismo "non politico", che
si risolveva in una congiura degli onesti e degli esclusi, tra le morte gore
della provincia fascista. Al 1936 risale la sua collaborazione con G. Calogero,
e la sua adesione alla tematica "liberal-socialista", che diede vita
ad un embrione di movimento, con gruppi costituiti, molto grazie allo stesso
attivismo del C., a Perugia, Roma, Pisa, Padova, Firenze, Ancona, Bari, Siena e
Pistoia.
Ma quando l'ipotesi
"liberal-socialista" volle uscire dall'ambito ristretto dei dibattiti
di piccole cerchie intellettuali e farsi esperienza politica, e nel maggio 1940
in un convegno ad Assisi il Calogero prese l'iniziativa di collegarsi con il
movimento, che poi divenne il Partito d'azione, il C. prese subito le distanze,
rivolgendo la sua attenzione piuttosto verso il partito socialista e il partito
comunista, senza tuttavia tradurla in una qualche forma di impegno militante.
In quegli anni di scelte politiche, egli infatti ne fece una singolare, quella
di non chiudere la sua "parentesi antifascista". Tutti i limiti e
anche i pregi della sua esperienza "civile" si evidenziarono dunque
nella continuità dei suoi atteggiamenti "metapolitici", dal fascismo
alla repubblica democratica.
Tornando sul tema del liberal-socialismo,
egli osservava che "tutti i partiti restano, ed è giusto che restino, ma
solo per presentare problemi da risolvere, forze da assimilare, problemi e
forze che il liberalsocialismo può
fare suoi" (ibid., p. 25). Con la sua
propedeutica politica egli voleva invece rimanere "in mezzo alla
moltitudine", e fare opera di pedagogia morale, che non era il
"prepartito" del Croce, con cui pure poteva avere qualche assonanza,
ma un sacerdozio senza ecclesia.
Nel 1942 il C. veniva arrestato a Firenze e
poi confinato, ma da lì a poco liberato per essere di nuovo arrestato nel 1943.
Dopo la Liberazione fondava in numerose città i Centri di orientamento sociale
(C.O.S.), sedi di libero dibattito, che nel clima del dopoguerra costituirono
per molti una tribuna aperta, e svolsero più la funzione di ricettacolo di
problemi ed esperienze diverse, che quella di orientamento ideale e politico.
L'esperienza più significativa fu quella del
C.O.S. di Firenze, dove emerse come figura di polemista quella di F. Tartaglia,
un prete sospeso "a divinis", che portava, in quell'atmosfera di
rivolgimenti civili, il lievito di una rottura religiosa, d'una tematica
ecclesiale che pretendeva essere anche problematica civile e politica. A
confronto con questa pur individuale, ma autentica esperienza religiosa, il C.,
che col Tartaglia aveva progettato "l'avvio di un movimento religioso che
collegava esperienze e iniziative anche eterogenee ma accomunate
dall'affermazione della necessità di un rinnovamento radicale e urgente"
(Cattaneo, p. 99) - e che tenne anche qualche convegno nazionale -, palesava la
genericità e la povertà del suo messaggio religioso, il valore meramente etico
del suo impegno di mediatore e di organizzatore di minoranze emarginate ed
escluse. La personalità del Tartaglia doveva infatti scomparire dalle scene nel
'48, quando tutte le fratture civili e religiose del movimento cattolico
venivano saldamente ricomposte. Vi rimase invece il C., a ricoprire il ruolo
che gli era congeniale, quello di partecipe e animatore d'una nuova stagione
"antifascista", anche se troppo distaccato dalla dinamica reale delle
forze politiche per svolgervi una funzione più che secondaria.
Nel 1952 fondava a Perugia il Centro di
orientamento religioso (C.O.R.) per conversazioni domenicali su problemi
religiosi, poi il Centro per la non violenza e la Società vegetariana italiana.
Trasferiva questi temi suoi originali della prima esperienza antifascista e
quelli nuovi della difesa delle minoranze religiose e civili sulle colonne
delle riviste laiche del tempo, dal Ponte a Belfagor, alla Riforma
della scuola, per
citarne solo alcune.
Un taglio polemico e un impegno civile che
tuttavia si stemperavano con l'esaurirsi dell'esperienza centrista tra il 1953
e gli inizi degli anni '60. Il C., anche in quest'ultima fase della vita, seppe
tuttavia, a differenza di altri, rimanere fedele a se stesso. Già nel 1961
organizzava la marcia della pace da Perugia ad Assisi, e diveniva il
mallevadore in Italia di quelle campagne civili e pacifiste che, a seguito
della caduta di tensione della guerra fredda, si sviluppavano con grande
adesione di pubblica opinione specie nel mondo anglosassone. In questo seppe
essere precursore e sostenitore - pur trasferendo in esse i limiti della sua
personale esperienza militante - di quelle campagne radicali e laiche per i
diritti civili che acquistarono uno spazio nei dibattiti della società civile
italiana alla fine degli anni '60.
Dopo la Liberazione aveva ripreso il suo
posto di segretario alla Scuola normale e, conseguita la libera docenza in
filosofia morale, ne aveva ricoperto l'incarico all'università di Pisa fino al
1956, quando vinse la cattedra di pedagogia, che insegnò prima all'università
di Cagliari, poi a quella di Perugia. Numerosi i suoi scritti su questi
argomenti, che costituiscono però più un contributo alla sua biografia che alle
rispettive discipline.
Il
C. morì a Perugia il 16 ott. 1968.
Fonti e Bibl.: Necrol. in Corriere della Sera, 22 ott. 1968 e 22 nov. 1968; B.
Razzolti, Ricordo di A. C., in Studi urbinati, n. s., XLIII (1969), pp. 456-59; M.
Melelli, in Boll. d. Dep. di st. patria per
l'Umbria, LXXIII
(1971), 2, pp. 151-169 (con bibl.); Una lotta nel suo corso, a cura di S. Contini Bonacossi-L.
Ragghianti Collobi, Venezia 1954, ad
Ind.; C. Francovich, La
Resistenza a Firenze, Firenze
1961, ad Ind.; G. Cattaneo, L'uomo della novità. Storia di un mov.
relig., in Paragone, XVIII (1947) n. 214, pp. 74 ss.; A.
Bandinelli, A. C.: la chiave antiautorit.,
in Astrolabio, 27 ott. 1968; Lettere di A. C. a D. Dolci, a cura di F. Alasia, in Il Ponte, XXV (1969), pp. 1241-78; il fascicolo
della riv. Azione non violenta, V (1968), 11-12, è a lui dedicato, con
articoli di W. Binni, E. Enriques Agnoletti, L. Borghi, A. Apponi e con ampia
bibl. delle sue opere; P. Spriano, Storia
del Partito comunista, Torino
1973, III, pp. 53, 80.
Opere (da https://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Capitini)
·
1937 Elementi
di un'esperienza religiosa, Laterza, Bari.
·
1942 Vita religiosa, Cappelli, Bologna.
·
1943 Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze.
·
1947 Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia,
Firenze.
·
1948 Esistenza e presenza del soggetto in Atti del
Congresso internazionale di Filosofia (II Vol.), Castellani, Milano.
·
1948 La realtà
di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa.
·
1949 Italia nonviolenta, Libreria Internazionale di
Avanguardia, Bologna.
·
1950 Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino.
·
1951 L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze.
·
1955 Religione
aperta, Guanda, Modena.
·
1956 Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa.
·
1958 Aggiunta religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze.
·
1958 "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria
·
1961 Battezzati non credenti, Parenti, Firenze.
·
1966 La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore.
·
1967 Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano (rist.
Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma 2009)
·
1967-1968 Educazione aperta (2 Voll.), La Nuova Italia,
Firenze.
·
1969 Il potere
di tutti, introduzione di N. Bobbio, prefazione di P. Pinna, La Nuova
Italia, Firenze
·
1992 Scritti sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, Protagon,
Perugia
·
1994 Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini,
Protagon, Perugia
·
1999 Il potere di tutti, 2 ed. riveduta e corretta, Guerra
Edizioni, Perugia
·
2003 Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza, a
cura di Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo
·
2004-2007-2016 Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli
scritti, a cura di Mario Martini, ETS, Pisa scheda
·
2007 Lettere 1931-1968, "Epistolario di Aldo Capitini,
1" - con Walter Binni, a cura di L. Binni e L. Giuliani,
Carocci, Roma (intr.di M. Martini)
·
2008 Lettere 1952-1968, "Epistolario di Aldo Capitini,
2" - con Danilo Dolci, a cura di G. Barone e S. Mazzi,
Carocci, Roma
·
2008 La religione dell'educazione: scritti pedagogici, a cura
di Piergiorgio Giacché, La
meridiana, Molfetta
·
2009 Lettere 1936-1968, "Epistolario di Aldo Capitini,
3" - con Guido Calogero, a cura di Th. Casadei e G.
Moscati, Carocci, Roma
·
2010 L'atto di educare, a cura di M. Pomi, Armando
editore, Roma
·
2011 Lettere 1941-1963, "Epistolario di Aldo Capitini,
4" - con Edmondo Marcucci, a cura di A. Martellini, Carocci, Roma
·
2011 Religione Aperta, a cura di M.Martini, Laterza, Roma-Bari
·
2012 Lettere 1937-1968, "Epistolario di Aldo Capitini,
5" - con Norberto Bobbio, a cura di P. Polito, Carocci, Roma
·
2012 Lettere familiari, "Epistolario di Aldo Capitini,
6" - a cura di M. Soccio, Carocci, Roma.
·
2016, Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968 -
a cura di L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze
·
2016, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di
tutti - a cura di L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze
*********************************
MESSAGGIO DEL SANTO
PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
50° GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2017
La
nonviolenza: stile di una politica per la pace
1. All’inizio di
questo nuovo anno porgo i miei sinceri auguri di pace ai popoli e alle nazioni
del mondo, ai Capi di Stato e di Governo, nonché ai responsabili delle comunità
religiose e delle varie espressioni della società civile. Auguro pace ad ogni
uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di
Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri
dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto,
rispettiamo questa «dignità più profonda»[1] e facciamo della nonviolenza attiva
il nostro stile di vita.
Questo è il Messaggio per la 50ª Giornata
Mondiale della Pace. Nel primo, il beato Papa Paolo VI si rivolse a tutti i
popoli, non solo ai cattolici, con parole inequivocabili: «E’ finalmente emerso
chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le
tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le
repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Metteva in guardia dal
«pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili
per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la
giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al
contrario, citando la Pacem in terris del
suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore
della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore».[2] Colpisce l’attualità di queste
parole, che oggi non sono meno importanti e pressanti di cinquant’anni fa.
In questa occasione desidero soffermarmi
sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo
a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei
nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a
guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali,
in quelli sociali e in quelli internazionali. Quando sanno resistere alla
tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i
protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace.
Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la
nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle
nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme.
Un mondo frantumato
2. Il secolo scorso è
stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia
della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi
purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è
facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo
fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che
caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più
assuefatti ad essa.
In ogni caso, questa
violenza che si esercita “a pezzi”, in modi e a livelli diversi, provoca enormi
sofferenze di cui siamo ben consapevoli: guerre in diversi Paesi e continenti;
terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai
migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che
scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto
quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti
letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”?
La violenza non è la cura per il nostro mondo
frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore
delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi
quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze
quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei
malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei
casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura
di tutti.
La Buona Notizia
3. Anche Gesù visse
in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si
affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano: «Dal di dentro infatti,
cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,21).
Ma il messaggio di Cristo, di fronte a questa realtà, offre la risposta
radicalmente positiva: Egli predicò instancabilmente l’amore
incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad
amare i nemici (cfr Mt 5,44) e a porgere l’altra guancia
(cfr Mt 5,39). Quando impedì a coloro che accusavano
l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte
prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52),
Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino
alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia
(cfr Ef 2,14-16). Perciò, chi accoglie la Buona Notizia di
Gesù, sa riconoscere la violenza che porta in sé e si lascia guarire dalla
misericordia di Dio, diventando così a sua volta strumento di riconciliazione,
secondo l’esortazione di san Francesco d’Assisi: «La pace che annunziate con la
bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori».[3]
Essere veri discepoli di Gesù oggi significa
aderire anche alla sua proposta di nonviolenza. Essa – come ha affermato il mio predecessore Benedetto XVI – «è
realistica, perché tiene conto che nel mondo c’è troppa violenza, troppa ingiustizia,
e dunque non si può superare questa situazione se non contrapponendo un di
più di amore, un di più di bontà. Questo “di più”
viene da Dio».[4] Ed egli aggiungeva con grande forza:
«La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un
modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto
dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il
male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce
il nucleo della “rivoluzione cristiana”».[5] Giustamente il vangelo dell’amate
i vostri nemici (cfr Lc 6,27) viene considerato
«la magna charta della nonviolenza cristiana»: esso non
consiste «nell’arrendersi al male […] ma nel rispondere al male con il bene
(cfr Rm 12,17-21), spezzando in tal modo la catena
dell’ingiustizia».[6]
Più potente della
violenza
4. La nonviolenza è
talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è
così. Quando Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979,
dichiarò chiaramente il suo messaggio di nonviolenza attiva: «Nella nostra
famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare
pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo
superare tutto il male che c’è nel mondo».[7] Perché la forza delle armi è
ingannevole. «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i
poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra,
un’altra, un’altra, danno la vita»; per questi operatori di pace, Madre Teresa
è «un simbolo, un’icona dei nostri tempi».[8] Nello scorso mese di settembre ho
avuto la grande gioia di proclamarla Santa. Ho elogiato la sua disponibilità
verso tutti attraverso «l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non
nata e quella abbandonata e scartata. […] Si è chinata sulle persone sfinite,
lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva
loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché
riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della
povertà creata da loro stessi».[9] In risposta, la sua missione – e in
questo rappresenta migliaia, anzi milioni di persone – è andare incontro alle
vittime con generosità e dedizione, toccando e fasciando ogni corpo ferito,
guarendo ogni vita spezzata.
La nonviolenza praticata con decisione e
coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma
Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin
Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati.
Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio,
Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di
preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto
livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.
Né possiamo dimenticare
il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le
comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e
l’azione coraggiosa. Speciale influenza hanno esercitato il ministero e il
magistero di san Giovanni Paolo II.
Riflettendo sugli avvenimenti del 1989 nell’Enciclica Centesimus annus (1991),
il mio predecessore evidenziava che un cambiamento epocale nella vita dei
popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica,
che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia».[10] Questo percorso di transizione
politica verso la pace è stato reso possibile in parte «dall’impegno non
violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere
della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere
testimonianza alla verità». E concludeva: «Che gli uomini imparino a lottare
per la giustizia senza violenza, rinunciando alla lotta di classe nelle
controversie interne ed alla guerra in quelle internazionali».[11]
La Chiesa si è
impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in
molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per
costruire una pace giusta e duratura.
Questo impegno a favore delle vittime
dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa
Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la
compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».[12] Lo ribadisco con forza: «Nessuna
religione è terrorista».[13] La violenza è una profanazione del
nome di Dio.[14] Non stanchiamoci mai di ripeterlo:
«Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la
pace è santa, non la guerra!».[15]
La radice domestica
di una politica nonviolenta
5. Se l’origine da
cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale
percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della
famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello
scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a
conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e
la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale
coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a
prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o
addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il
dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il
perdono.[16] Dall’interno della famiglia la
gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.[17] D’altronde, un’etica di fraternità
e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla
logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità,
sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in
favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi
nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca
assicurata non possono fondare questo tipo di etica.[18] Con uguale urgenza supplico che si
arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
Il Giubileo della Misericordia, conclusosi
nel novembre scorso, è stato un invito a guardare nelle profondità del nostro
cuore e a lasciarvi entrare la misericordia di Dio. L’anno giubilare ci ha
fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i
gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di
ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”,
sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono
cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana.
«L’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino ci invita alla pratica della piccola
via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un
sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Una ecologia
integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la
logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo».[19]
Il mio invito
6. La costruzione
della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con
i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le
norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni
internazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani
all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un
“manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso
della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano
il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati
i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore,
coloro che hanno fame e sete di giustizia.
Questo è anche un programma e una sfida per i
leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni
internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo:
applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità.
Una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono
responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia
rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad
ogni costo. Questo richiede la disponibilità «di sopportare il conflitto,
risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo».[20] Operare in questo modo significa
scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia
sociale. La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più
potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso.[21] Certo, può accadere che le
differenze generino attriti: affrontiamoli in maniera costruttiva e
nonviolenta, così che «le tensioni e gli opposti [possano] raggiungere una
pluriforme unità che genera nuova vita», conservando «le preziose potenzialità
delle polarità in contrasto».[22]
Assicuro che la Chiesa Cattolica accompagnerà
ogni tentativo di costruzione della pace anche attraverso la nonviolenza attiva
e creativa. Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio
dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo
sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e
della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i
bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei
conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le
vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».[23] Ogni azione in questa direzione,
per quanto modesta, contribuisce a costruire un mondo libero dalla violenza,
primo passo verso la giustizia e la pace.
In conclusione
7. Come da
tradizione, firmo questo Messaggio l’8 dicembre, festa dell’Immacolata
Concezione della Beata Vergine Maria. Maria è la Regina della Pace. Alla
nascita di suo Figlio, gli angeli glorificavano Dio e auguravano pace in terra
agli uomini e donne di buona volontà (cfr Lc 2,14). Chiediamo
alla Vergine di farci da guida.
«Tutti desideriamo la
pace; tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti e molti
soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per
costruirla».[24] Nel 2017, impegniamoci, con la
preghiera e con l’azione, a diventare persone che hanno bandito dal loro cuore,
dalle loro parole e dai loro gesti la violenza, e a costruire comunità
nonviolente, che si prendono cura della casa comune. «Niente è impossibile se
ci rivolgiamo a Dio nella preghiera. Tutti possono essere artigiani di pace».[25]
Dal Vaticano, 8 dicembre 2016
Francesco
[3] «Leggenda
dei tre compagni»: Fonti Francescane, n. 1469.
[7] Madre
Teresa, Discorso per il Premio Nobel, 11 dicembre 1979.