PER FARE MEMORIA DELLA STORIA POLITICA CHE HA PRODOTTO LA LEGGE DI REVISIONE COSTITUZIONALE NON CONFERMATA AL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE 2016
Nuova edizione, integrata e ampliata, anche
con le osservazioni critiche che mi sono pervenute e la mia opinione su di esse, un capitolo delle note estese (il 28) con la valutazione sulla riforma delle autonomie regionali, un capitolo (il n.31) sul
Senato statunitense, due capitoli (i n.32 e 33) con un
bilancio complessivo sul senso della riforma costituzionale e l'ultimo capitolo, il 34, con le argomentazioni pro e contro la riforma di Stefano Ceccanti e di Roberto Scarpinato!
TUTTA la riforma costituzionale del 2016 in poche
pillole e poi anche molto di più per approfondire!
*************************************************************
Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle
istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità
della vita umana: «Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica
provoca danni ambientali» In tal senso, l’ecologia sociale è
necessariamente istituzionale e raggiunge progressivamente le diverse
dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la famiglia, fino alla vita
internazionale, passando per la comunità locale e la Nazione. All’interno di
ciascun livello sociale e tra di essi, si sviluppano le istituzioni che
regolano le relazioni umane. Tutto ciò che le danneggia comporta effetti
nocivi, come la perdita della libertà, l’ingiustizia e la violenza.
[dall’enciclica
Laudato si’, del maggio 2015, di papa Francesco, n.142]
Tutti i maggiori protagonisti dell’attuale fase politica, erano convinti
che, dalla conferma della legge di revisione costituzionale del 2016, sarebbe iniziata un’altra fase storica, sciogliendo il patto
emergenziale che era stato all’origine di quella attuale. Come accadde
nel 1991, con il referendum sulla preferenza unica, anche quest’anno un
referendum istituzionale, quello sulla riforma costituzionale, sarebbe stato alla base di un mutamento di fase della storia nazionale. Attualmente
viviamo in un fase di transizione tra la Repubblica dell’alternanza bipolare
tra coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra, durata dal 1994 al 2011,
e un altro sistema istituzionale-politico i cui contorni non sono ancora chiari, e che potrebbe essere una vera e propria Terza Repubblica. I teorici della riforma costituzionale del 2016 volevano produrre un rafforzamento della posizione del Governo verso tutti gli altri centri decisionali, in particolare per l'effetto combinato della riforma della legge elettorale per la Camera dei deputati, la quale prevedeva il dominio di quest'ultima da parte del partito del Governo, attribuendogli una solida maggioranza parlamentare nella sola Camera che, secondo la legge di revisione costituzionale avrebbe votato la fiducia. Questa riforma costituzionale trovava origine nella grave crisi
economica, politica e istituzionale prodottasi nell’autunno 2011 (sul tema
rimando al capitolo 28 degli appunti estesi che seguono).
Il recente proposito, emerso a
seguito di un accordo politico nel principale dei partiti della coalizione di
governo, di modificare, dopo il referendum, l’attuale legge elettorale per la
Camera dei deputati (che con il ballottaggio porterebbe comunque alla
maggioranza assoluta il maggiore dei partiti di minoranza, qualunque sia il
numero di voti elettorali raccolto, costituendolo partito
maggioritario, e che era un elemento fondamentale, unitamente alla revisione
costituzionale, per il cambio di fase alla Terza Repubblica) non
cambia la situazione perché:
a) l’accordo politico per la modifica di
quella legge elettorale è solo un abbozzo, non sufficientemente
dettagliato per apprezzarne gli effetti;
b) per quanto si dichiari di voler eliminare
il ballottaggio (un secondo turno elettorale tra i due
maggiori partiti di minoranza), si intende comunque mantenere un premio di
maggioranza, senza però precisarne l’entità;
c) l’accordo non è legge vigente e, essendo
stato raggiunto in uno solo dei partiti della coalizione di governo e per di
più in un partito travagliato da importanti dissensi interni, potrebbe non
essere facile tradurlo in legge, anche tenendo conto della situazione politica
piuttosto fluida.
figura 1. Siamo in una fase di passaggio ad un nuovo sistema istituzionale e politico, che potrebbe essere una Terza Repubblica. Nella vignetta la Prima Repubblica
(1948-1994) è rappresentata da una balena bianca (la Democrazia Cristiana, il
partito egemone in quella fase veniva chiamata balena bianca perché era un grande partito
capace di movimenti molto veloci e spesso non visibile in tutte le sue
dimensioni, come un balena sott'acqua. La Seconda Repubblica (1994-2011),
quella dell'alternanza bipolare tra due coalizione di opposte tendenze
politiche viene rappresentate da un uccello con due teste, sul modello
dell'aquila bicefala che figurava nello stemma degli Asburgo, gli imperatori
d'Austria. La Terza Repubblica è raffigurata da un punto interrogativo su una
figura umana stilizzata, perché non sappiamo ancora come sarà e chi ne sarà il
personaggio egemone. La fase di passaggio in cui siamo, la nicchia della storia, è
raffigurata da un'automobile che marcia verso la Terza Repubblica.
“But I can’t think for you
You’ll have to decide”
nella canzone With God
on our side (1963), di Bob Dylan (cantautore statunitense,
n.Duluth, Minnesota, Usa, nel 1941; Premio Nobel per la letteratura nel 2016)
traduzione:
“Non penso per te,
devi decidere tu”
************************************************
PILLOLE DI RIFORMA COSTITUZIONALE
L’ESSENZIALE DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2016, CON CONFERMATA DAL REFERENDUM COSTITUZIONALE DEL 4 DICEMBRE 2016, IN POCHE PAROLE
IL
NUOVO SENATO
I membri del nuovo Senato saranno 100, oltre agli ex Presidenti
della Repubblica, i quali continueranno ad essere senatori a vita di diritto,
cessati dalla carica presidenziale.
95 senatori saranno eletti su base
regionale dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle Province autonome
di Trento e Bolzano; 5 senatori saranno nominati dal Presidente della
Repubblica
I nuovi senatori eletti saranno scelti
tra i consiglieri regionali e tra i sindaci. In particolare ogni Consiglio
regionale e i Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano nomineranno
ciascuno un senatore scelto tra i sindaci dei propri territori. I
senatori-sindaci saranno 21.
I senatori scelti tra i consiglieri
regionali dovranno continuare a fare i consiglieri regioni. Se, per qualsiasi
motivo, cesseranno di essere consiglieri regionali, decadranno dalla carica di
senatori.
I senatori scelti tra i sindaci dovranno
continuare a fare i sindaci. Se, per qualsiasi motivo cesseranno di essere
sindaci, decadranno anche dalla carica di senatori.
I nuovi senatori nominati dal
Presidente della Repubblica dureranno sette anni.
I nuovi senatori non avranno uno
stipendio per il lavoro parlamentare in Senato.
Nulla cambierà, invece, per i senatori a vita di nomina presidenziale
attualmente in carica e per i senatori ex Presidenti della Repubblica.
Il nuovo Senato non durerà cinque anni
come oggi. Il nuovo Senato non avrà una data di scadenza, sarà rinnovato
continuamente, ma parzialmente, a mano a mano che scadranno i Consigli
regionali e i Consigli delle Province Autonome di Trento e di Bolzano che ne
avranno nominati i membri. In quel momento, infatti, i senatori eletti dai
Consigli uscenti decadranno dalla carica: ne dovranno essere eletti di nuovi
dai nuovi Consigli. E, comunque, quando un senatore cesserà di essere
membro del Consiglio che lo ha eletto o sindaco, ad esempio per dimissioni,
decadrà dalla carica al Senato.
Il nuovo Senato non potrà più essere
sciolto dal Presidente della Repubblica.
Il nuovo Senato non voterà più la
fiducia al Governo: la voterà solo la Camera dei deputati.
Il bicameralismo perfetto,
o paritario, che si ha quando le due Camere del Parlamento
devono deliberare sullo stesso disegno di legge che non può essere approvato
senza la decisione concorde di entrambe, non sarà abolito, ma
solo ridotto.
Dovranno continuare ad essere approvate
collettivamente dalle due Camere, come avviene attualmente, diversi tipi di
leggi, in particolare le leggi costituzionali, quelle di attuazione della
normativa europea e quelle che riguardano l'ordinamento, la legislazione
elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e
delle Città metropolitane.
Tutte le altre leggi dello Stato,
comprese quelle che invadono il campo legislativo delle Regioni in
considerazione dell’interesse nazionale, saranno approvate
definitivamente solo dalla Camera dei Deputati, ma il Senato potrà proporre
modifiche che la Camera dei deputati potrà però non accogliere, decidendo
definitivamente. Per le leggi che invadono legislativo delle Regioni, la Camera
dei deputati solo a maggioranza assoluta potrà respingere proposte di modifica
deliberate dal Senato a maggioranza assoluta.
Il nuovo Senato non potrà fare leggi
senza il concorso della Camera dei deputati. Farà meno tipi di leggi rispetto
alla Camera dei deputati, ma tutte quelle che farà dovranno essere approvate
con procedura bicamerale, come avviene attualmente.
figura 2. Camera e cameretta
RIFORMA DELL’AUTONOMIA REGIONALE
Le
Regioni svolgono funzioni che condizionano da vicino la vita della gente e
fanno anche leggi, come il Parlamento.
In Italia fin dal 1946, quando fu
costituita la prima Regione italiana, quella della Sicilia, a statuto speciale
approvato con legge costituzionale entrata in vigore prima della Costituzione,
si legifera a livello regionale e si legifera con un sistema monocamerale. Le
leggi regionali sono infatti approvate dai Consigli regionali. Per la
generalità delle Regioni a statuto ordinario, l’attività legislativa
iniziò nel 1970.
Vi sono anche due Province Autonome,
quelle di Trento e di Bolzano, istituite dallo statuto speciale della Regione
Trentino Alto Adige del 1948, successivamente modificato più volte, che
hanno potere legislativo. Saranno le uniche due Province a rimanere in Italia.
Ciascuna di queste Province Autonome nominerà un senatore-sindaco nel nuovo
senato.
I senatori-sindaci del nuovo Senato
saranno 21, su 100 senatori (95 eletti dai consiglieri regionali, dei quali 74
tra gli stessi consiglieri regionali, e 5 nominati per sette anni
dal Presidente della Repubblica), oltre ai senatori a vita ex Presidenti della
Repubblica. Il nuovo Senato sarà così collegato con le autonomie locali.
Le Regioni italiane sono venti, tra le
quali il Lazio. Hanno uno statuto speciale, quindi particolari regole di
autonomia, la Sicilia (la prima Regione ad essere stata istituita), la
Sardegna, il Trentino Alto Adige, la Valle D’Aosta e il Friuli Venezia
Giulia. Le altre Regioni sono regolate dalle norme costituzionali comuni e sono
dette a statuto ordinario. La riforma costituzionale, per la parte
che riguarda l’autonomia regionale e i rapporti tra Stato e Regioni, non
si applicherà alla Regioni a statuto speciale, salvo in quella parte che, in
alcune materie, consente di ampliare ulteriormente con legge dello Stato
l’autonomia regionale prevista nella riforma.
Le materie più importanti di cui si
occupano le Regioni, con le loro leggi, sono la sanità (come si cura la gente),
l’urbanistica e l'edilizia (dove e come si costruisce), l’edilizia
popolare (dare case a tutti), la mobilità locale (trasporti e viabilità),
l’ordinamento e funzioni degli enti locali per la parte non riservata allo
Stato. Le Regioni possono anche istituire tributi. Ma le Regioni si occupano
anche di molte altre materie. A partire dalla riforma costituzionale del 2001 è
previsto che possano fare leggi in tutte le materie non riservate espressamente
alle leggi dello Stato.
Con la riforma costituzionale approvata
quest'anno e sulla quale decideremo nel prossimo referendum amplia lo spazio
riservato alle leggi dello Stato, detto di legislazione
esclusiva, ci si è proposti di rimediare a problemi di contrasti
di competenza che si erano prodotti tra Stato e Regioni nelle materie di
legislazione concorrente, vale a dire quelle in cui potevano
legiferare sia lo Stato che le Regioni, ad esempio, e l’argomento è
purtroppo di grande attualità, la protezione civile. In quest’ultimo settore
sarà mantenuto il sistema di legislazione concorrente, perché,
nonostante che la materia sia contemplata nel campo della legislazione esclusiva,
alle leggi del Parlamento statale competerà di regolare solo il sistema
nazionale e il coordinamento del servizio della protezione civile, con
ampi spazi di intervento per la legislazione regionale. E’ stato osservato, da
alcuni esperti, che il tentativo di eliminare la legislazione concorrente,
nel riparto tra competenze legislative statali e regionali, non
appare del tutto riuscito.
La norma che dà il senso fondamentale
della riforma regionale attuata dalla legge di revisione costituzionale su cui
dovremo decidere nel prossimo referendum è quella prevista dal nuovo articolo
117, 4° comma, della Costituzione:
“Su proposta del Governo, la legge
dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione
esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della
Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale.”
Questa norma consente al
Parlamento di fare leggi nelle materie che sarebbero di competenza legislativa
delle Regioni se si ritenga che sia necessario in base all’interesse
nazionale, nel quale può ritenersi compresa l’unità giuridica
ed economica della Repubblica, un criterio assai vago. Ma il
Parlamento potrà farlo solo ad iniziativa del Governo, che pertanto
rimane in definitiva l’arbitro dell’interesse nazionale negli
affari regionali. Una legge dello Stato che invada le competenze
legislative regionali non potrà invece essere promossa, sia pure in
considerazione dell'interesse nazionale, da deputati e senatori, anche se in
numero rilevante.
Questo realizza un notevole rafforzamento
della posizione del Governo nei confronti sia del nuovo Parlamento, sia delle
Regioni. Tutta l’autonomia locale, quindi l’attività di Regioni,
Città Metropolitane, Comuni, ruoterà infatti intorno al Governo, come i pianeti
intorno ad una stella, in un sistema solare.
figura 3. Tutto ruoterà intorno al Governo,
come i pianeti intorno al sole, nel sistema solare
PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Il Presidente della Repubblica non potrà più sciogliere il
Senato.
Viene modificato il sistema per l’elezione del Presidente della
Repubblica. Decideranno deputati e senatori in seduta comune, senza più la
partecipazione dei delegati regionali. Nelle prime tre votazioni, come ora, per
eleggere il nuovo Presidente sarà necessaria la maggioranza di due terzi
dell’assemblea. La riforma stabilisce che dal quarto scrutinio sarà sufficiente
quella dei tre quinti dell’assemblea e dal settimo in poi quella dei tre quinti
dei votanti.
In caso di impedimento
del Presidente della Repubblica, lo sostituirà il Presidente della Camera dei
deputati, non, come ora, quello del Senato.
figura 4. I
senatori a vita ex Presidenti della Repubblica saranno gli unici senatori a tempo
pieno del nuovo Senato
CORTE COSTITUZIONALE
Attualmente cinque dei
quindici giudici della Corte Costituzionale sono nominati dal Parlamento in
seduta comune (dai deputati e dai senatori). Nel nuovo sistema introdotto dalla
riforma costituzionale, invece, tre giudici saranno nominati dalla Camera dei
deputati e due dal Senato.
PROVINCE
La
riforma costituzionale abolisce le Province, salvo quelle autonome di Trento e di Bolzano. Le
Province sono destinate ad essere sostituite dalle Città Metropolitane, ma
saranno necessarie altre leggi e procedure attuative piuttosto complesse. Ci
saranno sempre, quindi, enti intermedi tra Comuni e Regioni, con un proprio
personale politico. Vengono chiamati enti
di area vasta. Per la
Costituzione riformata la Repubblica sarà costituita dai Comuni, dalle Città
Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Già ora le Province erano
state profondamente modificate, avvicinandole alle Città Metropolitane: i
Consigli provinciali non erano più eletti dai cittadini. Il presidente
della Provincia e i consiglieri provinciali erano eletti dai sindaci e
dai consiglieri comunali dei Comuni della Provincia. Alcune Province con
capoluoghi grandi città erano già state sostituite dalle Città Metropolitane,
come quella di Roma. In questi casi le Città Metropolitane sono grandi quanto
le precedenti Province. Ad oggi il Sindaco metropolitano e il Consiglio
metropolitano, cioè gli organi direttivi delle Città Metropolitane che già ci
sono, non sono eletti dai cittadini, come accadeva in passato per i consigli
provinciali. Però è previsto che gli statuti delle Città metropolitane possano
stabilire l’elezione diretta, da parte dei cittadini, del Sindaco metropolitano
e del Consiglio metropolitano. Ad oggi il sindaco della Città Metropolitana è il
sindaco del capoluogo e i consiglieri metropolitani sono eletti dai sindaci e
dai consiglieri comunali dei Comuni della Città Metropolitana.
ABOLIZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DELLA ECONOMIA E DEL LAVORO -
CNEL
La riforma costituzionale
abolisce il CNEL - Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro, previsto
dall’art.99 della Costituzione. È composto da esperti e di rappresentati della
categorie produttive. E’ organo ausiliario di consulenza delle Camere e del
Governo in materia di legislazione economica e sociale, in relazione alla quale
può anche proporre leggi. Nella sua
storia ha prodotto 1.380 documenti (per informazioni più dettagliate si veda
sul WEB la pagina http://www.cnel.it/233), tra i quali diversi disegni di
legge. Iniziò a funzionare nel 1957. Ha
65 membri. Il presidente, il vicepresidente e i consiglieri percepiscono
compensi (denominati indennità, diarie di presenza e rimborsi spese)
determinati annualmente dallo stesso CNEL secondo criteri generali fissati da
un regolamento approvato dal CNEL.
******************************************************
Dialogando sulla riforma
costituzionale
In questi mesi sono stati molto importanti le occasioni di dialogo, in famiglia, nelle associazioni di varia natura, nelle parrocchie, in altri sedi comunitarie, che si sono avute sui temi della riforma costituzionale in decisione nel referendum del 4 dicembre 2016. In quel modo, confrontando le varie prospettive, si è realizzato a pieno il dialogo. Nel dialogo ciascuno non si limita a proclamare la propria verità, ma tiene anche conto
delle obiezioni e delle prospettive degli altri e adatta l’esposizione alle
esigenze degli altri, approfondendo l’argomento. Il dialogo porta quindi a una
migliore conoscenza, perché stimola ad approfondire la
questione. Come scrisse la filosofa Hannah Arendt, “Nessuno, da solo, senza
compagni, arriva ad avere una visione sufficientemente completa delle cose.”
Ecco sintetizzati nella figura che segue il metodo e i
risultati del dialogo.
figura 5. La struttura del
dialogo
Il risultato del dialogo, condotto come si deve, vale a dire nelle fasi che sono
illustrate nella figura, non è una semplice somma
delle conoscenze di ciascuno, ma è
una conoscenza più avanzata, una parola comune: non quindi A+B, ma AB!. E il punto esclamativo esprime la gioia di
poter parlare insieme, di esprimere
qualcosa di comune nel ragionare
sulla realtà. Si tratta di una conoscenza migliore,
in quanto tiene conto dei punti di vista e di tutti gli apporti degli altri
dialoganti. Nel dialogo ci si può anche correggere
e non bisogna prendersela: come disse il premio Nobel per la fisica Carlo
Rubbia, il migliore scienziato è quello che ha fatto tutti gli errori possibili
nel suo campo di ricerca, correggendoli.
Vedo che
c’è poca informazione e poco dialogo sui temi della riforma costituzionale e
molta propaganda. Di questi tempi il
compito dei politici, anzitutto, e poi degli operatori dell’informazione, e
infine di tutti quelli che ne sanno un po’ di più, per ragioni professionali o
perché alla materia si sono appassionati e hanno approfondito, dovrebbe essere
quello di non perdere occasione per spiegare alla gente intorno i temi della
riforma, perché la decisione degli cittadini chiamati al referendum sia consapevole,
informata e dunque libera, quindi democratica.
La
decisione sulla riforma costituzionale andava al di là della politica del giorno
per giorno, della questione di quanto a lungo durerà l’attuale governo: era in
questione la qualità della vita nostra e dei nostri figli e nipoti. E’ un tema
che è affrontato nell’enciclica Laudato si’ e che dunque mette
in gioco anche la nostra fede religiosa. Il disimpegno nell’informarsi e
nel cercare di capire meglio dialogando con gli altri, l’affidarsi
alla pura propaganda, è colpevole e non solo dal punto di vista civico. La
salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per la qualità
della vita umana, per cui è necessario un progresso culturale per arrivare ad una ecologia
sociale, che è necessariamente istituzionale, per raggiungere
progressivamente diverse dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la
famiglia, fino alla vita internazionale, passando per la comunità locale e la
Nazione: è scritto in quell’enciclica (n.142). Tutto ciò che danneggia le
istituzioni, come può avvenire approvando una riforma costituzionale
imperfetta, comporta effetti nocivi, fino alla perdita della libertà, all’ingiustizia e alla
violenza. L’ambiente sociale ne viene sempre pregiudicato in misura maggiore o
minore. Ecco quindi la necessità, e il dovere morale, di trovare la
voglia, il tempo e gli strumenti per capire bene ciò che
è in decisione, senza affidarsi a tutto ciò che è solo propaganda.
********************************************************************************
PRECISAZIONI E OBIEZIONI PROPOSTE DAI LETTORI
Mi sono giunte alcune osservazioni critiche
provenienti da persona molto ben informata sui processi di riforma.
L’obiezione: Sulla procedura bicamerale per le materie
riguardanti la normativa europea
Il
lettore mi ha scritto che, a suo avviso, il procedimento parlamentare bicamerale
non si applicherà a tutte le leggi di attuazione della normativa europea, ma
solo alla legge (al singolare) che
regola le procedure di partecipazione di Governo, Parlamento, Regioni, Città
Metropolitane e Comuni al processo di formazione e di attuazione della
normativa europea. Si tratta della legge n.234 del 2012 che è intitolata Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e
all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea. La legge prevede informative del Governo al
Parlamento e alle autonomie locali e atti di indirizzo del Parlamento nella
fase di formazione della normativa europea; prevede, poi, nella fase attuativa,
che il Parlamento emani una legge che delega il Governo a fare quanto serve per
attuare la normativa europea in Italia (la legge
di delegazione europea) e anche, se occorre, una legge europea per cambiare subito la normativa italiana che
contrasta con quella europea e, infine, procedure di controllo dell’attuazione
della normativa europea da parte degli enti locali, con possibilità che lo
Stato si sostituisca alle Regioni in caso di inerzia o di ritardi nel recepire
la normativa europea per la parte di loro competenza. Si tratta solo di norme
di procedura, non di tutte le leggi attuative della normativa europea.
Inoltre
la procedura parlamentare bicamerale si applicherà per le leggi di ratifica dei trattati
europei.
Nel complesso,
in materia europea, saranno rari i casi in cui si dovrà utilizzare la procedura
bicamerale. Altrimenti, effettivamente, tenuto conto del gran numero di leggi
che riguardano il recepimento della normativa europea, la gran parte delle
leggi dello Stato dovrebbero seguire la procedura parlamentare bicamerale,
quella utilizzata per tutte le leggi dello Stato prima della riforma.
Mie osservazioni
Una
cosa è ciò che il legislatore intende
produrre con una legge e altra è quello che riesce
a produrre con un testo di legge,
con la formulazione delle norme.
La norma
del nuovo art.70, 1° comma, della Costituzione non fa riferimento alle norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione
della normativa e delle politiche dell'Unione europea (il titolo della
legge che verosimilmente aveva di mira), ma alle norme
generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia
alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione
europea: nel primo caso si è
costruito un complemento di argomento,
nel secondo caso un complemento di
specificazione, aggiungendo alle norme
generali, le forme e i termini.
La seconda formulazione comprende tutta la legislazione di attuazione della normativa
europea. Per produrre l’effetto a cui mirava il legislatore, bisognava scrivere
diversamente. É questione di buona tecnica legislativa.
Scrivendo una Costituzione, destinata a durare
molto a lungo, bisognerebbe usare la migliore tecnica legislativa. Perché non
sorgano equivoci che se, come nel nostro caso, riguardano il funzionamento del
principale organo costituzionale, il Parlamento, potrebbero provocare danni
gravissimi, allo stesso modo in cui una grande autostrada non fosse chiaro che
rampa imboccare per rimanere a circolare sulla destra, non rischiando scontri
frontali.
La buona tecnica legislativa
consiglierebbe che in un testo costituzionale non si facesse riferimento a una
precisa, particolare, legge ordinaria, nel nostro caso appunto alla legge 234
del 2012, che appunto detta norme di procedura sulla partecipazione dell'Italia
alla formazione e attuazione della normativa europea. Infatti nella
revisione costituzionale non lo si è fatto, tenendosi sulle generali, inserendo
solo una parafrasi del titolo di quella legge. Purtroppo l'operazione non è
riuscita bene. C'è infatti una evidente differenza sintattica tra il titolo
della legge 234 del 212 e il testo del 1°comma del nuovo art.70 della
Costituzione, introdotto dalla legge di revisione di quest'anno, e c’è
anche qualcosa di più, le forme e i termini,
e con quella costruzione sintattica e quel di più si è aperta la porta a molto
di più, vale a dire a tutte le leggi di attuazione della normativa europea, che
sono molta parte della legislazione statale, per cui, come giustamente è stato
osservato, si avrebbe ancora un bicameralismo (quasi)perfetto.
Il
futuro legislatore si atterrà al l'intenzione dei revisori costituzionali o
alla lettera della legge? Chi lo sa? Il rischio che prenda un'altra strada c'è.
Il testo di legge, infatti, è equivoco.
L'attuale Costituzione dura da quasi 70 anni. Chi, tra 70 anni, si ricorderà
della legge 234 del 2012? Bisognava legiferare meglio nel modificare la
Costituzione. Ma l'approvazione della legge si è svolta in un clima di
concitazione, e a volte di vera e propria bagarre, poco propizio a pazienti
rifiniture sintattiche...
L’obiezione: i senatori a vita, anche gli ex Presidenti della
Repubblica, si fanno vedere poco in Senato
Mi
scrive il lettore: . Venendo a un tema più leggero, non è vero che gli ex presidenti della
Repubblica si aggireranno solitari in un Senato deserto. Semplicemente perchè
già oggi i senatori di diritto e a vita non si fanno vedere quasi mai a
Palazzo Madama...
Mie osservazioni
L’interlocutore conosce meglio di me la
situazione.
Osservo che l’unico senatore a vita ex
Presidente della Repubblica rimasto in
Senato ha svolto, da senatore a vita, un ruolo di primo piano nella
politica nazionale italiana.
Vi è
poi l’esempio della senatrice a vita Elena Cattaneo, nominata dal Presidente
della Repubblica, la quale divide il suo tempo tra il Senato e l’attività di
ricerca scientifica. Ha costituito addirittura un ufficio per il sostegno della
sua attività da parlamentare. E’ intervenuta attivamente, e con molta
efficacia, sulle materie parlamentari con attinenza ai temi scientifici,
andando spesso controcorrente rispetto alla politica nazionale. E’ accaduto, ad esempio, sul caso Stamina, dove ha sostenuto
pervicacemente l’inconsistenza scientifica di terapie mediche proposte per la
cura di una grave malattia. Nulla cambierà per la sen. Cattaneo con la riforma
costituzionale: continuerà ad essere senatrice a vita con l’indennità
parlamentare che oggi le è stata assegnata. I nuovi senatori di nomina presidenziale,
in carica per soli sette anni e senza indennità, riuscirebbero ad esprimere un
impegno simile?
********************************************************************************
Chiarimenti chiesti nelle fasi del Gioco della riforma
costituzionale
Nel corso del Gioco della riforma
costituzionale mi sono stati chiesti chiarimenti, ci siamo scambiati delle idee
e quindi siamo arrivati all’ultima fase del dialogo.
In particolare abbiamo
approfondito, nel dialogo questi temi:
Durata del nuovo Senato
- il nuovo Senato non avrà una data di
scadenza, sarà rinnovato continuamente, ma parzialmente, a mano a mano che
scadranno i Consigli regionali e i Consigli delle Province Autonome di Trento e
di Bolzano che ne avranno nominati i membri. In quel momento, infatti, i
senatori eletti dai Consigli uscenti decadranno dalla carica: ne dovranno
essere eletti di nuovi dai nuovi Consigli. E, comunque, quando un senatore
cesserà di essere membro del Consiglio che lo ha eletto o sindaco, ad
esempio per dimissioni, decadrà dalla carica al Senato;
Il
bicameralismo perfetto non sarà abolito, ma solo ridotto
- Il bicameralismo perfetto, che si ha
quando le due Camere del Parlamento devono deliberare sullo stesso disegno di
legge che non può essere approvato senza la decisione concorde di entrambe, non sarà
abolito, ma solo ridotto.
Lo dice il nuovo articolo 70 della
Costituzione, modificato dall’art.10 della legge di riforma costituzionale, che
si occupa del procedimento legislativo.
il nuovo art.70 della Costituzione
1° comma :
La
funzione legislativa è esercitata
collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali,
e soltanto per le leggi di attuazione
delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze
linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui
all'articolo 71, per le leggi che
determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo,
le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le
disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della
partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e
delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con
l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma,
80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono
comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo
comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere
abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a
norma del presente comma.
2° comma:
Le
altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
La gran parte della legislazione dello Stato riguarda l’attuazione della
normativa dell’Unione Europea: per queste leggi bisognerà seguire il
procedimento bicamerale. Ma, come potete constatare leggendo la norma di legge
riformata, molte altre leggi dovranno essere approvate con procedura
bicamerale, proprio come avviene oggi.
Le due Camere del Parlamento, Camera dei deputati e Senato,
saranno molto diverse
- Anche se le due Camere dovranno fare le
stesse cose su molti temi, quindi continueranno a legiferare con
il sistema bicamerale, in particolare in tema di Costituzione, attuazione della
normativa europea e autonomie locali, effettivamente non saranno più un doppione l’una
dell’altra, entrambe elette dai cittadini in una stessa tornata elettorale e
con sistemi elettorali molto simili, ma il Senato, che non avrà più scadenza
quinquennale come la Camera dei deputati e che non potrà più essere sciolto dal
Presidente della Repubblica, sarà più legato a prospettive regionali, essendo
composto di consiglieri regionali e di sindaci, e, venendo rinnovato
continuamente e parzialmente, man mano che i senatori eletti da un Consiglio
regionale decadranno a seguito dalla scadenza del Consigli che li ha eletti,
potrà sviluppare, verosimilmente, anche orientamenti politici diversi da quelli
della Camera dei Deputati. Questo, però, che è uno dei contenuti fondamentali
della riforma, potrà creare problemi di coordinamento tra le due Camere del
Parlamento, in particolare nelle materie in cui dovrà legiferarsi in
forma bicamerale, come avviene oggi, che sono molte, addirittura il
70% del lavoro legislativo del Parlamento è stato stimato. Con
l’aggravante che il problema non potrà più essere risolto chiamando gli
elettori a nuove elezioni politiche, in quanto il Senato non potrà più
essere sciolto dal Presidente della Repubblica. Un contrasto
in Parlamento tra le due Camere, causato dal Senato, non potrà più essere
risolto chiamando i cittadini a nuove elezioni, perché il Senato comunque non
cambierà, fino a quando, lentamente, per il parziale mutamento dei senatori,
muti anche la sua linea politica. E’ vero però che questo sistema, pur
mantenendo la Repubblica italiana una e indivisibile, come continuerà ad essere
scritto nella Costituzione, potrà avere come effetto il porre le autonomie
locali al riparo degli arbitrii delle maggioranze di governo espresse dalla
Camera dei deputati.
Il referendum costituzionale era già previsto nella Costituzione
-il referendum costituzionale non è stato
introdotto dalla legge di riforma costituzionale, ma è già previsto in
Costituzione, dall’art.138, che trascrivo di seguito:
art.138
Le leggi di revisione
della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna
Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e
sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella
seconda votazione.
Le leggi stesse sono
sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla
loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o
cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta
a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla
maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo
a referendum se la legge è stata approvata nella seconda
votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi
componenti.
La legge di riforma costituzionale sulla quale
voteremo al prossimo referendum non è stata approvata, in seconda votazione, da
ciascuna delle camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.
Pertanto, a norma dell’art. 138, 2° comma, della Costituzione poteva essere
chiesto un referendum da un quinto dei membri di una Camera, da cinquecentomila
elettori o da cinque Consigli regionali. E’ ciò che è avvenuto alla Camera dei
deputati e con una raccolta di firme promossa dai Comitati per il SI’.
Il referendum costituzionale non è un referendum abrogativo: la
legge di riforma costituzionale sulla quale voteremo non è ancora entrata in
vigore
- il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre non è un referendum
abrogativo: la legge di riforma costituzionale, infatti, non è ancora entrata
in vigore, benché sia stata approvata dal Parlamento, da ciascuna Camera a
maggioranza assoluta dei suoi componenti in seconda votazione, e sia stata
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Non è stata ancora promulgata dal
Presidente della Repubblica. Lo sarà ed entrerà in vigore solo se al referendum
costituzionale prevarranno i SI’. Il
testo del quesito sul quale dovremo rispondere SI’ o NO è infatti il seguente:
«Approvate voi il testo della legge
costituzionale concernente "Disposizioni per il superamento del
bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il
contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del
CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione"
approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.
88 del 15 aprile 2016? ».
La Repubblica italiana non uno stato federale e non lo diventerà
nemmeno se entrerà in vigore la riforma costituzionale
- La Repubblica italiana non è e non sarà uno
stato federale: né nella Costituzione com’è ora, né in quella riformata in caso
di vittoria dei SI’ al prossimo referendum, è scritto che il nostro è uno stato
federale, anche se le Regioni hanno un’ampia autonomia, anche legislativa. La
ragione è nella nostra storia nazionale. Stati come gli Stati Uniti d’America e
la Germania si sono formati dall’aggregazione di stati preesistenti. La
residua, ampia, autonomia di questi ultimi è manifestata ancora, anche a
livello centrale, federale, in genere esprimendo un Senato o Camera analoga. Lo
stato italiano si è formato, invece, mediante conquista militare dei
preesistenti regni, compreso quello dei Papi nell’Italia centrale, da parte del
Regno dei Savoia, che all’epoca di chiamava Regno di Sardegna,
quindi mediante la soppressione delle autonomie statali che c’erano. Si prese a
modello, nella costruzione dello Stato, quello, molto accentrato, francese. E’
solo dagli scorsi anni ’80 che in politica si propose di fare dell’Italia uno
stato federale, e tale orientamento nel 2005 generò una riforma costituzionale
che però venne respinta in un referendum costituzionale svoltosi nel 2006.
Nella riforma costituzionale di quest’anno l’autonomia delle regioni viene
ridotta a favore dello Stato, in quanto è stata introdotta la possibilità di
deliberare leggi statali nel campo delle materie attribuite all’autonomia
legislativa delle Regioni, se lo richieda l’interesse nazionale, ed
è stata quindi sostanzialmente abolita
la competenza legislativa residuale (per
tutte le materie non riservate alle leggi dello Stato) ma esclusiva delle
Regioni, introdotta dalla riforma costituzionale approvata nel 2001. E’ stata
formalmente abrogata anche la legislazione concorrente, vale a dire le materie in cui
legiferavano lo Stato e le Regioni, queste ultime però nel quadro di principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale
(anche se, di fatto, in diverse materie, Stato e Regioni continueranno a concorrere nel legiferare, le Regioni però sotto vincoli più stringenti da
pare delle leggi dello Stato). Il fatto che il nuovo Senato sia composto da consiglieri regionali
e sindaci non trasforma l’Italia in uno stato federale, innanzi tutto perché, a
differenza ad esempio dei senatori tedeschi, membri di un senato di uno stato
federale, i nuovi senatori lavoreranno senza vincolo di mandato,
quindi non dovranno attenersi alle decisioni dei Consigli regionali che li
hanno eletti, e poi perché il Senato è costruito come camera minore, con poteri
ridotti rispetto a quelli della Camera di deputati. La recente riforma
costituzionale, in definitiva, va nella direzione contraria alla costruzione di
una Repubblica federale, perché realizza di nuovo un certo accentramento di
poteri nello Stato, rispetto a quelli delle Regioni, per esigenze di uniformità
di trattamento dei cittadini e anche in considerazione dell'interesse nazionale. In
particolare le leggi dello Stato che invadono il campo di competenza
legislativa delle Regioni, per ragioni di uniformità di trattamento e anche
solo di interesse nazionale, saranno di competenza della Camera dei deputati,
quindi saranno approvate con procedimento legislativo monocamerale, anche se la Camera dei deputati solo a maggioranza
assoluta dei proprio componenti potrà respingere proposte di modifiche
approvate dal Senato a maggioranza assoluta dei suoi componenti (maggioranza
che potrebbe essere problematico radunare, vista la composizione del nuovo
Senato).
Perché gli ex Presidenti della Repubblica continueranno a
rimanere senatori a vita anche se entrerà in vigore la riforma costituzionale
- gli autori della riforma hanno pensato di
inserire gli ex Presidenti della Repubblica ancora nel Senato, e non alla
Camera dei Deputati come prevedeva la riforma del 2005, perché si è pensato che
con la loro autorità morale, conquistata nel corso del loro mandato
presidenziale, potessero essere un fattore di coesione in una Camera i cui
partecipanti non rappresentano più la Nazione, è scritto espressamente nella
legge di riforma che solo i deputati la rappresentano, ma prospettive
regionali. Ma avranno difficoltà a farlo in una Camera composta di gente
che fa anche un altro lavoro politico, nei Consigli regionali e come sindaci, e
che quindi starà poco a Roma, impegnata nel lavoro parlamentare nel nuovo
Senato, e che, quando ci starà, sarà sempre sul piede di partenza. In fondo,
gli unici inquilini stabili nel nuovo Senato saranno proprio gli ex presidenti
della Repubblica, in un palazzo che, pensato per oltre 315 senatori e ora
abitato saltuariamente da 100 membri, sembrerà loro troppo grande: si
aggireranno in tante stanze vuote, prevalentemente disabitate. Come e quando
potranno essere fattore di coesione, se non avranno forse nemmeno il tempo di
conoscere veramente i colleghi senatori, prima che decadano per la fine dei
Consigli regionali che li hanno eletti?
********************************************************************************
Occorre informarsi
personalmente sui temi delle riforme istituzionali, in particolare di quelle costituzionali: c siamo stati invitati a farlo dal
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana. E’ un compito che non ci
compete solo come cittadini, ma anche come persone di fede. Ha a che fare con
la politica, che significa prendersi cura della casa comune, come
indicato nell’enciclica Laudato si’. Ma richiede uno
sforzo, per andare oltre gli slogan semplicistici che vengono proposti per
convincerci a decidere in un senso o in un altro. Una buona parte di essi non
solo semplificano, ma lo fanno anche arbitrariamente,
vale a dire che sono falsi. Un politico che semplifica in
quel modo non è un buon politico. Chi lo segue non è un buon cittadino.
La prima esigenza della politica è quella della verità, ma quest’ultima va
ricercata pazientemente e conquistata, vagliando realisticamente fatti e
affermazioni. E soprattutto: il buon cittadino non accetta cambiali in bianco
dai capi politici. Gli atteggiamenti fideistici sono l’antitesi della
democrazia.
Purtroppo i fautori e gli avversari
della riforma costituzionale ci spingono proprio verso atteggiamenti
fideistici. E’ perché si tratta di valutare una legge complessa, composta di
ben 41 articoli, che modificano circa un terzo dell’attuale Costituzione, ed
anche un articolo della prima parte, quella sui diritti e doveri dei cittadini,
e precisamente il terzo comma dell'art.48, prevedendo che gli italiani
all'estero voteranno solo per la Camera dei deputati. Probabilmente si pensa
che i più non avranno il tempo e la voglia di leggerli, e soprattutto di
capirli. Questo un bel problema, perché la riforma cambierà le nostre
istituzioni fondamentali e, quindi, anche la nostra vita sociale.
I fautori della riforma sostengono
che la vittoria del “NO” provocherebbe disastri, ma senza spiegare perché:
eppure con l’attuale Costituzione abbiamo affrontato e superato gravissime
crisi, in particolare quella economica, lunghissima, che è iniziata nel 2009.
Le riforme, anche in via d’urgenza, non sono state
impedite, tanto che la stessa riforma costituzionale approvata quest’anno
è frutto della Costituzione così com’è.
Alcuni sostengono che una riforma
imperfetta è meglio di niente, ma in materia costituzionale le riforme
dovrebbero essere ben ponderate e non avere imperfezioni riconoscibili già
all’origine, come quella in discussione. Infatti gli effetti della riforma
incideranno anche sulle successive eventuali riforme costituzionali, che
dovranno essere approvate con le nuove regole. Sarà più difficile, in
particolare, correggere quelle imperfezioni che sono già evidenti ai giuristi,
ma che non vengono ritenuti tali dal Governo.
Ecco alcuni esempi di argomenti a favore
e contro la riforma che, a mio parere, non hanno motivazioni convincenti:
- altrimenti non ci saranno più riforme per
quindici, anzi trent’anni!
- ce la chiede l’Europa;
- ce la chiedono da 70 anni;
- non esistono alternative;
- meglio che niente;
- fare la riforma aiuta la ricerca e serve alla
salute, alleggerisce le bollette, serve per la sicurezza e contro il
terrorismo;
- facendola ci sarà più lavoro per tutti;
- facendola la crisi dell’Italia passerà;
- facendola saremo più forti in Europa;
- facendola verrà una dittatura;
- facendola l’attuale Governo, che l’ha
proposta e patrocinata, verrà favorito alle elezioni (i sondaggi demoscopici,
per ora, attestano il contrario).
Ecco le argomentazioni che spesso vengono
proposte nei dibattiti televisivi sulla riforma costituzionale.
Per il SÌ Per il No
Dite sempre
no!
Siete dei corrotti!
Ce la chiedevano da 70
anni!
Distruggete la democrazia!
Dite no perché tenete alle vostre
Siete voi, invece, che ci tenete!
poltrone!
Vi abbiamo rottamato e volete tornare!
I giovani sono con noi!
Mostrateli questi giovani, siete vecchi!
Votano SÌ solo i vecchi
Volete le solite pastette parlamentari! Volete che comandino i “cerchi
magici”!
Se
non si fa ora non si fa più!
Se si fa ora, poi non si potrà fare più nulla!
La
riforma è democratica La riforma non
è democratica!
Lo
ha detto anche Obama! Che cosa gli
avete dato in cambio?
Questi argomenti, però, non fanno conoscere
nessun contenuto della riforma costituzionale, sono pura propaganda.
Nel Gioco della Costituzione abbiamo provato, invece, ad informarci personalmente e a dialogare sui temi della
riforma costituzionale, sui suoi
contenuti, in modo da coinvolgere tutti, attivamente,
nell’apprendimento di una materia non facile.
Propongo di seguito il testo delle domande e
risposte della prima partita del Gioco della Riforma costituzionale e quello,
molto più lungo, dei miei appunti sulla riforma costituzionale.
*****************************************
TUTTE LE DOMANDE E TUTTE LE RISPOSTE
PRIMA PARTITA (schede 1-30)
1.Quando si terrà il referendum sulla riforma
costituzionale?
RISPOSTA:
IL REFERENDUM COSTITUZIONALE SI TERRA’
DOMENICA 4 DICEMBRE PROSSIMO
2. Quando il Parlamento ha approvato la riforma
costituzionale?
RISPOSTA:
IL PARLAMENTO HA APPROVATO LA RIFORMA
COSTITUZIONALE NELL’APRILE DI QUEST’ANNO
3. Che cos’è la riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La riforma costituzionale è una legge
che modifica o abolisce articoli della Costituzione e di alcune leggi
costituzionali
4. Di quanti articoli si compone la riforma
costituzionale?
RISPOSTA:
La riforma costituzionale è una
legge costituzionale di 41 articoli
5. Da chi è stato chiesto il referendum
costituzionale?
RISPOSTA:
Il referendum costituzionale è stato chiesto
validamente da parlamentari (oltre un quinto dei membri della Camera dei
deputati) e dai Comitati per il SI (con oltre cinquecentomila elettori). Il
Comitato per il NO non è riuscito a raccogliere adesioni sufficienti
6. Perché il referendum costituzionale sia valido,
dovrà partecipare un numero minimo di votanti?
RISPOSTA:
Il referendum costituzionale sarà valido qualunque
sia il numero dei votanti
7. Quanti articoli della costituzione vengono modificati o aboliti dalla riforma
costituzionale?
RISPOSTA:
La legge di riforma costituzionale
modifica o abolisce 50 articoli della Costituzione su 139
8. Quante leggi costituzionali vengono modificate
dalla riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La legge di
riforma costituzionale modifica 3 leggi costituzionali
9. Che cosa modifica la riforma costituzionale?
RISPOSTA:
La riforma costituzionale modifica le
istituzioni fondamentali della Repubblica
10. Quanti saranno i nuovi senatori?
RISPOSTA:
I membri del nuovo Senato saranno 100, oltre
agli ex Presidenti della Repubblica, i quali saranno senatori a vita
11. Quanti sono attualmente i membri del Senato?
RISPOSTA:
Attualmente i membri del Senato sono
315, oltre a 5 senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica e agli
ex Presidenti della Repubblica, anch’essi senatori a vita
12. Chi sceglierà i nuovi senatori?
RISPOSTA
95 senatori saranno eletti su base regionale
dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle Province autonome di Trento e
Bolzano; 5 senatori saranno nominati dal Presidente della Repubblica
13. Tra
chi saranno scelti i nuovi senatori eletti dai consiglieri regionali e di
quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano?
RISPOSTA
I nuovi senatori saranno scelti tra i
consiglieri regionali e tra i sindaci. In particolare ogni Consiglio regionale
e i Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano nomineranno ciascuno
un senatore scelto tra i sindaci dei propri territori
14. Quanto durerà il nuovo Senato?
RISPOSTA
Il nuovo Senato, a differenza della Camera dei
deputati, non avrà una scadenza. Scadranno solo i suoi singoli membri. Sarà
rinnovato continuamente e parzialmente.
15.
Quanto dureranno i senatori eletti dai consiglieri regionali e da quelli delle
Province autonome di Trento e Bolzano?
RISPOSTA
I senatori eletti dai consiglieri regionali
e da quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano dureranno quanto i
Consigli che li hanno eletti
16. Quanto dureranno i senatori nominati dal
Presidente della Repubblica?
RISPOSTA
I senatori nominati dal Presidente della
Repubblica dureranno sette anni.
17. I nuovi senatori riceveranno uno stipendio per
il lavoro che faranno in Senato?
RISPOSTA
I nuovi senatori non riceveranno uno stipendio
per il lavoro che faranno in Senato.
18. Che succederà se un senatore eletto dai
consiglieri regionali o da quelli delle Province Autonome di Trento e di Bolzano cesserà di essere consigliere
regionale o sindaco prima della scadenza del Consiglio che lo ha eletto?
RISPOSTA
Il senatore eletto dai consiglieri regionali o
da quelli delle Province Autonome di Trento e di Bolzano che cesserà di essere
consigliere regionale o sindaco prima della scadenza del Consiglio che lo ha
eletto, decadrà da senatore.
19. Il nuovo Senato avrà gli stessi
poteri di fare leggi della Camera dei deputati?
RISPOSTA
Il nuovo Senato avrà meno poteri di fare leggi
rispetto a quelli della Camera dei deputati
20. Il nuovo Senato potrà fare leggi senza il
concorso della Camera dei Deputati?
RISPOSTA
Il nuovo Senato non potrà fare leggi senza il
concorso della Camera dei deputati
21. La Camera dei deputati potrà fare
leggi senza il concorso del nuovo Senato?
RISPOSTA
La Camera dei deputati potrà fare alcuni tipi
di leggi senza il concorso del Senato
22. Il Parlamento continuerà ad essere composto
dalla Camera dei deputati e dal Senato?
RISPOSTA
Il Parlamento continuerà ad essere
composto della Camera dei deputati e del Senato
23. Il Governo dovrà ottenere la
fiducia del nuovo Senato?
RISPOSTA
Il Governo non dovrà più ottenere la
fiducia del nuovo Senato.
24. Quale Camera del Parlamento voterà la fiducia
al Governo?
RISPOSTA
La fiducia al Governo sarà votata solo
dalla Camera dei deputati
25. I cittadini elettori potranno
influire sulla scelta dei senatori eletti dai consiglieri regionali e da quelli
delle Province Autonome di Trento e Bolzano?
RISPOSTA
Nella riforma costituzionale è previsto è
previsto che quei senatori siano eletti in
conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in
occasione del rinnovo dei Consigli regionali e dei Consigli delle Province
Autonome di Trento e di Bolzano, secondo le modalità stabilite dal una legge
ordinaria che dovrà essere approvata dopo l’entrata in vigore della riforma
costituzionale.
26. Quali leggi dovranno continuare essere approvate con il concorso delle due
Camere?
RISPOSTA
Dovranno continuare ad essere approvate
collettivamente dalle due Camere molti tipi di leggi, in particolare le leggi
costituzionali, quelle di attuazione della normativa europea e quelle che
riguardano l’ordinamento e le funzioni dei Comuni e delle Città metropolitane.
27. Il nuovo Senato potrà influire
sulla formazione delle leggi di competenza esclusiva della Camera dei deputati?
RISPOSTA
Il nuovo Senato potrà proporre modifiche alle
proposte di legge discusse dalla Camera dei Deputati, che delibererà in via
definitiva accogliendole o rigettandole.
28. Il nuovo Senato potrà proporre alla
Camera dei deputati di approvare una legge nelle materie attribuite alla
competenza legislativa esclusiva dei deputati?
RISPOSTA
Il nuovo Senato potrà proporre alla Camera dei
deputati di approvare una legge nelle materie attribuite alla competenza
esclusiva dei deputati
29. I membri del Senato eletti dai
consiglieri regionali e da quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano
dovranno uniformarsi, nel lavoro in Senato, alle decisioni dei Consigli che li
hanno eletti?
RISPOSTA
I membri del Senato eletti dai
consiglieri regionali e da quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano non
dovranno uniformarsi, nel lavoro in Senato, alle decisioni dei Consigli che
li hanno eletti. Agiranno senza vincolo di mandato.
30. I nuovi senatori rappresenteranno
la Nazione?
RISPOSTA
Nella riforma costituzionale è scritto
che solo i deputati rappresenteranno la
Nazione.
Le
schede e le regole del gioco possono essere scaricate dal sito
acvivearomavalli.blogspot.it , post del 9-10-16
************************************
figura 6. Nell'infuriare della propaganda i santi cittadini studiano la riforma costituzionale.
Per iniziare a conoscere meglio la riforma costituzionale
Per contribuire a quell’informarsi a
cui tutti dobbiamo sentirci chiamati, e soprattutto per fornire materia per il
dialogo, ripubblico in un solo documento il testo dei vari interventi sulla
recente riforma costituzionale che ho pubblicato sul blog
acvivearomavalli.blogspot.it.
Si tratta di un testo lungo, di 107
pagine. Consiglio di farne il copia/incolla e di leggerlo piano piano off line.
Ho consigliato anche altri testi di approfondimento, scritti dai fautori e
dagli avversari della riforma. In queste cose è bene sentire più voci.
Indice:
0. Il contesto storico della riforma
costituzionale
1. Il
testo della riforma costituzionale
2. La
riforma a volo d’angelo
3. Servizio parlamentare come tirocinio di governo democratico
4. La Nazione
5. Tempo per fare politica
6. Degrado della politica
ed eclisse del Parlamento - parte prima
7. Degrado della
politica ed eclisse del Parlamento - parte seconda
8. Degrado della
politica ed eclisse del Parlamento - parte terza
9. Degrado della
politica ed eclisse del Parlamento - parte quarta
10. Degrado della
politica ed eclisse del Parlamento - parte quinta
11. Degrado della
politica ed eclisse del Parlamento - parte sesta
12. Il Senato come
imputato
13. Ho conosciuto uno
dei nuovi padri costituenti
14. Un Senato depotenziato: farà meno cose, ma quelle che farà
saranno quasi tutte le stesse della Camera dei Deputati
15. La riforma costituzionale e le "riforme"
16. La controriforma regionale
17. La società atomizzata, il referendum, la democrazia
18. Prendersi cura della casa comune
19. Democrazia: un sistema di potere collettivo
con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica sulla base di valori
condivisi
20. L’illusione dell’«uomo forte»
21. Come bambini
22. Non un referendum
sulla Costituzione, ma solo su una legge di revisione costituzionale
23. Capire la politica
24.Informazione
e propaganda: sui temi della riforma costituzionale manca la prima
25. Per chi vota Barak Obama?
26. Una Camera e un pezzetto.
27. Il senso della
riforma delle Regioni: un rafforzamento della posizione del Governo nei
confronti del Parlamento dell’autonomia regionale
28. Regioni ed
Unione Europea diffamate nel corso della propaganda per il referendum
29.
In una
nicchia della storia
30.
La Terza Repubblica del partito
maggioritario
31. Un
esempio di antico bicameralismo: il Senato degli Stati Uniti d’America, un
importante contrappeso contro il rischio di cambiamenti in peggio
32.
Informarsi per decidere consapevolmente e responsabilmente: un
impegno ogni giorno più urgente. Il referendum costituzionale del 4 dicembre
prossimo è l’ultimo “freno di emergenza” costituzionale
33. Una
riforma epocale e una responsabilità epocale per i cittadini
34.“Perché
SÌ” - Ceccanti -, “Perché No”- Scarpinato: due argomentazioni a confronto sul
voto al referendum sulla riforma costituzionale
- 0 -
Il
contesto storico della riforma costituzionale
Per
capire le istituzioni fondamentali di uno stato bisogna conoscere un po’ la sua
storia. In un certo senso è la storia che disegna le costituzioni. Da che
storia viene la riforma costituzionale sulla quale dovremo decidere nel
referendum del prossimo 4 dicembre?
Per conoscere la storia recente i più
giovani potranno riprendere in mano l’ultimo volume del corso di storia delle
superiori. Per i meno giovani consiglio il volume 3 del corso Nuovi
Profili Storici di Giardina - Sabbatucci - Vidotti, edizione
Laterza.
Il problema è però che la riforma
costituzionale di quest’anno non nasce molto lontano nel tempo, ma in un
periodo che non è ancor finito nei libri di storia, anche se processi di
riforma della struttura della Repubblica furono avviati dall’inizio degli anni
’80, per rispondere a quella che all’epoca veniva definita crisi di
legittimazione della politica, espressione con la quale si intendeva che la
gente non credeva più alle parole nobili della politica democratica ed era
disposta a dare consenso politico solo in cambio di una qualche partecipazione
alle risorse pubbliche ricavate essenzialmente dai tributi e dal debito
pubblico, in un processo di scambio politico. Questa
tendenza ebbe anche un risvolto regionalistico, quando si produsse un movimento
politico per limitare o eliminare del tutto il contributo di solidarietà che le
regioni più ricche davano a quelle meno ricche attraverso la politica di
perequazione dello stato. Negli anni ’90 si giunse anche a proporre la secessione delle
prime dalla Repubblica, e quindi la fine della Repubblica, o, almeno, la
ristrutturazione della Repubblica in senso federale, ampliando l’autonomia
regionale fino ad arrivare a quella degli stati federati, come in Svizzera,
Germania o negli Stati Uniti d’America, riducendo al minimo le competenze
dello stato federale.
L’attuale fase storica è molto più
recente e nasce nel 2011.
Qualche volta l’attuale Presidente
del Consiglio viene accostato al personaggio politico più significativo della
fase storica che va dal 1994 al 2011, Silvio Berlusconi, nel senso che si
colgono tratti simili nelle loro politiche e nelle loro personalità, ma il
paragone è errato. E lo è perché il Berlusconi lavorò innanzi tutto sul
Parlamento, federando forze politiche di impostazione molto diversa, facendone
una coalizione di governo, mentre l'attuale Presidente del
Consiglio segue l'ideologia del partito con vocazione
maggioritaria, di cui tratterò più avanti. Nel campo opposto, quindi
in quello del centro-sinistra, in reazione, si produsse un movimento
politico analogo e un'analoga coalizione. Questo, sotto il vigore
della legge elettorale per Camera dei deputati e Senato del 1993, creò quello
che agli inizi degli anni ’90 si pensava fosse il sistema politico migliore
sull’esempio britannico, vale a dire il bipolarismo, con due
coalizioni politiche, di centro-destra e di centro-sinistra, che si alternavano
al governo. Il bipolarismo politico nelle maggioranze di governo nazionale durò
dal 1994 al 2011, un lungo periodo, diciassette anni, che nei libri di storia
verrà detto del berlusconismo, perché l’ideologia politica e
soprattutto lo stile politico personale del leader del
centro-destra costituì in quegli anni il modello di riferimento, sia pure per
opporvisi in qualcosa, anche per i politici dello schieramento opposto. In
quegli anni i temi principali del dibattito politico furono infatti quelli
posti da Silvio Berlusconi.
La legge elettorale del 1993 prevedeva un
sistema maggioritario, con gruppi di elettori (collegi elettorali) molto
piccoli in cui veniva eletto il candidato che aveva riportato il maggior numero
di voti, temperato da una quota di parlamentari eletti con il sistema
proporzionale, come si era fatto fino al 1992. Questo fu il motore del
bipolarismo, che però non si sarebbe potuto produrre senza che la politica
creasse due grandi coalizioni di opposte tendenze politiche. Quel nuovo sistema
elettorale fu catalizzato da un referendum tenutosi nel 1991 che introdusse il
sistema della preferenza unica, rafforzando il collegamento
dell’elettore con un candidato e impedendo che, attraverso la collocazione dei
voti di preferenza sulla scheda elettorale, divenissero riconoscibili, e quindi
contrattabili in una sorta di mercato, i voti elettorali.
In definitiva nel 1991, come
verosimilmente accadrà quest'anno, un referendum istituzionale fu alla base di
un mutamento di fase della storia nazionale.
Quel sistema politico del bipolarismo
divenne instabile dopo l’entrata in vigore, nel 2005 di una nuova legge
elettorale che abolì il sistema maggioritario, introdusse le liste di candidati
bloccate, formate dai partiti e proposte agli elettori senza possibilità di
esprimere voti di preferenza, e introdusse il premio di
maggioranza, una quota aggiuntiva di parlamentari che andava alla
coalizione che, su scala nazionale per la Camera dei deputati e su scala
regionale per il Senato, avesse ottenuto il maggior numero di voti, fino ad
assegnarle una solida maggioranza assoluta di parlamentari. Questo modo di
scegliere i membri del Parlamento staccava i candidati dagli elettori e li
collegava molto più strettamente ai capi delle maggiori coalizioni. Questi
ultimi, però, trovarono sempre più difficoltà a mantenere la disciplina
politica tra i parlamentari da loro sostanzialmente nominati. Si
manifestò in maniera crescente un problema che era stato caratteristico del
sistema politico liberale della prima fase del Regno d’Italia, dal 1861
all’emergere dei grandi partiti politici di massa, dopo la Prima Guerra
Mondiale, quello del trasformismo, quindi di
parlamentari che cambiavano con una certa libertà gli schieramenti politici. E,
soprattutto, il differente sistema di attribuzione del premio di maggioranza
tra Camera dei Deputati e Senato creò un’asimmetria tra le due Camere, per cui
le maggioranze di governo furono molto meno solide al Senato rispetto alla
Camera dei Deputati. L’esperienza di questo problema spiega anche il perché
nell’ultima riforma ci si sia tanto occupati di riformare il Senato. Con la
legge elettorale del 2005 fu sempre più difficile produrre e, soprattutto,
mantenere stabile il bipolarismo. Ideata dal centro-destra, nelle
elezioni politiche del 2006 la riforma favorì, contro le aspettative, il
centro-sinistra. Ma quest’ultimo entrò rapidamente in crisi e alle
elezioni politiche anticipate del 2008 vinse la coalizione di centro-destra,
che però a sua volta entrò in crisi terminale dopo soli tre anni, nel 2011,
passando la mano, a seguito dei problemi creati dalla durissima fase di depressione
economica globale manifestatasi proprio a partire dal 2008, con inizio
negli Stati Uniti d’America per il crollo del valore di prodotti finanziari
collegati al mercato immobiliare, e nonostante che la coalizione di governo
potesse ancora contare su una maggioranza parlamentare di governo piuttosto
solida. Questo dimostra che non basta rafforzare, per così dire artificialmente,
agendo sui sistemi elettorali, le maggioranze di governo, per avere governi
stabili e politiche di governo di lungo periodo. E’ appunto nel
2011 che inizia l’attuale fase politica, caratterizzata da una eclisse del
Parlamento e dall’intento di fare del Governo il cardine dell’intero sistema
costituzionale.
Nel 2011 l’impotenza di fatto dimostrata dalla
maggioranza parlamentare di governo produsse anche la crisi del governo da essa
espresso. Bisogna ricordare che nelle dinamiche della crisi incise anche un
pronunciamento nel settembre 2011, invocato anche da diversi organi di stampa,
del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, che richiamava
l’attenzione della politica sulla questione morale [testo
in http://www.focl.it/index2.php?option=com_docman&task=doc_view&gid=198&Itemid=9
]. Al vertice della Repubblica rimaneva integra, in definitiva, un’unica
istituzione fondamentale ancora capace di indirizzo politico ed era la
Presidenza della Repubblica. Quest’ultima scelse ed accreditò, con la nomina a
senatore a vita, quindi al di fuori di elezioni politiche, un nuovo Presidente
del Consiglio dei ministri, a capo di un governo tecnico, con il
limitato compito di fronteggiare l’emergenza economica, sostenuto da entrambi i
maggiori schieramenti politici, ma non sulla base di un accordo organico di
lungo periodo tra di essi. È in questo periodo che iniziarono i processi di riforma
costituzionale che hanno portato nell’aprile di quest’anno all’approvazione
della più estesa revisione costituzionale dal 1948, con la modifica di 50
articoli su 139. Prima fu nominata, dal Presidente della Repubblica, una
commissione di esperti composta da Valerio Onida, Mario Mauro, Gaetano
Quagliarello e Luciano Violante, con il compito di dare indicazioni su una
riforma costituzionale. Sotto il successivo Presidente del Consiglio, nel
giugno 2013, il Governo, che ancora fondava la sua autorità essenzialmente
sull’autorità del Presidente della Repubblica in quanto dalle elezioni
politiche del 2013 era scaturita una maggioranza politica parlamentare
instabile, nominò poi una Commissione per le riforme costituzionali di 35
esperti non parlamentari, con un comitato di redazione di sette
professori di diritto. Da questo momento la riforma costituzionale entrò nel
programma di governo e ebbe nel Governo il suo primo motore. L’attuale
Presidente del Consiglio, in carica dal febbraio 2014 sulla base di un accordo
politico con il leader del centro-destra
denominato Patto del Nazareno che prevedeva nel programma di
governo la riforma costituzionale, ha mantenuto questa impostazione, vale a
dire di considerare la revisione costituzionale come un affare essenzialmente
del Governo, dando un forte impulso ai processi parlamentari di deliberazione,
conclusisi nell’aprile di quest’anno, con l’approvazione della legge di riforma
costituzionale da parte del Parlamento in seconda votazione, secondo la
procedura prevista dall’art.138 della Costituzione.
- 1 -
Il testo della riforma costituzionale
CAMERA DEI DEPUTATI
Testo di legge costituzionale
approvato in seconda votazione a maggioranza
assoluta, ma inferiore ai due terzi dei
membri di ciascuna Camera, recante: «Disposizioni
per il superamento del bicameralismo paritario, la
riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi
di funzionamento delle istituzioni, la
soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della
parte II della Costituzione». (16A03075)
(Gazzetta Ufficiale n.88 del 15-4-16)
Avvertenza:
Il testo della legge
costituzionale è stato approvato dal Senato della Repubblica, in
seconda votazione, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti,
nella seduta del 20 gennaio 2016, e dalla Camera dei deputati, in seconda
votazione, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, nella
seduta del 12 aprile 2016.
Entro tre mesi dalla pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale del testo seguente, un quinto dei membri
di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque Consigli
regionali potevano domandare che si proceda al
referendum popolare. Ciò è avvenuto. Il prossimo 4 dicembre si svolgerà
il referendum sulla riforma costituzionale.
Capo I
MODIFICHE AL TITOLO I DELLA PARTE II DELLA
COSTITUZIONE
Art. 1.
(Funzioni delle Camere).
1. L'articolo 55 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 55. – Il Parlamento si compone della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Le leggi che stabiliscono le modalità di
elezione delle Camere promuovono l'equilibrio tra donne e uomini nella
rappresentanza.
Ciascun membro della Camera dei deputati
rappresenta la Nazione.
La Camera dei deputati è titolare del rapporto
di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la
funzione legislativa e quella di controllo dell'operato del Governo.
Il Senato della Repubblica rappresenta le
istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli
altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all'esercizio della funzione
legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché
all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti
costitutivi della Repubblica e l'Unione europea. Partecipa alle decisioni
dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche
dell'Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche
amministrazioni e verifica l'impatto delle politiche dell'Unione europea sui
territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo
nei casi previsti dalla legge e a verificare l'attuazione delle leggi dello
Stato.
Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei
membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione».
Art. 2.
(Composizione ed elezione del Senato della
Repubblica).
1. L'articolo 57 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 57. – Il Senato della Repubblica è
composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni
territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente
della Repubblica.
I Consigli regionali e i Consigli delle Province
autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra
i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei
Comuni dei rispettivi territori.
Nessuna Regione può avere un numero di senatori
inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha
due.
La ripartizione dei seggi tra le Regioni si
effettua, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, in
proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall'ultimo censimento
generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.
La durata del mandato dei senatori coincide con
quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti,
in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri
in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite
dalla legge di cui al sesto comma.
Con legge approvata da entrambe le Camere sono
regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del
Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la
loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o
locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della
composizione di ciascun Consiglio».
Art. 3.
(Modifica all'articolo 59 della Costituzione).
1. All'articolo 59 della Costituzione, il
secondo comma è sostituito dal seguente:
«Il Presidente della Repubblica può nominare
senatori cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Tali senatori durano in
carica sette anni e non possono essere nuovamente nominati».
Art. 4.
(Durata della Camera dei deputati).
1. L'articolo 60 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 60. – La Camera dei deputati è eletta per
cinque anni.
La durata della Camera dei deputati non può
essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra».
Art. 5.
(Modifica all'articolo 63 della Costituzione).
1. All'articolo 63 della Costituzione, dopo il
primo comma è inserito il seguente:
«Il regolamento stabilisce in quali casi
l'elezione o la nomina alle cariche negli organi del Senato della Repubblica
possono essere limitate in ragione dell'esercizio di funzioni di governo
regionali o locali».
Art. 6.
(Modifiche all'articolo 64 della Costituzione).
1. All'articolo 64 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«I regolamenti delle Camere garantiscono i
diritti delle minoranze parlamentari.
Il regolamento della Camera dei deputati
disciplina lo statuto delle opposizioni»;
b) il quarto comma è sostituito dal seguente:
«I membri del Governo hanno diritto, e se
richiesti obbligo, di assistere alle sedute delle Camere. Devono essere sentiti
ogni volta che lo richiedono»;
c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«I membri del Parlamento hanno il dovere di
partecipare alle sedute dell'Assemblea e ai lavori delle Commissioni».
Art. 7.
(Titoli di ammissione dei componenti del Senato della
Repubblica).
1. All'articolo 66 della Costituzione è
aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Il Senato della Repubblica prende atto della
cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente
decadenza da senatore».
Art. 8.
(Vincolo di mandato).
1. L'articolo 67 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 67. – I membri del Parlamento esercitano
le loro funzioni senza vincolo di mandato».
Art. 9.
(Indennità parlamentare).
1. All'articolo 69 della Costituzione, le
parole: «del Parlamento» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei
deputati».
Art. 10.
(Procedimento legislativo).
1. L'articolo 70 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata
collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e
le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle
disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche,
i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71,
per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli
organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città
metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei
Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini
della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della
normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i
casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui
all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto
comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e
nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132,
secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere
abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a
norma del presente comma.
Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente
trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di
un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni
successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione
del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva.
Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all'esame o
sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei
deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata.
L'esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione
all'articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla
data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati
può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a
maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione
finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
I disegni di legge di cui all'articolo 81,
quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato
della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici
giorni dalla data della trasmissione.
I Presidenti delle Camere decidono, d'intesa tra
loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei
rispettivi regolamenti.
Il Senato della Repubblica può, secondo quanto
previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché
formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera dei
deputati».
Art. 11.
(Iniziativa legislativa).
1. All'articolo 71 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Il Senato della Repubblica può,
con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti,
richiedere alla Camera dei deputati di procedere all'esame di un disegno di
legge. In tal caso, la Camera dei deputati procede all'esame e si pronuncia
entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della
Repubblica»;
b) al secondo comma, la parola: «cinquantamila»
è sostituita dalla seguente: «centocinquantamila» ed è aggiunto, in fine, il
seguente periodo: «La discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte
di legge d'iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei
limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari»;
c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Al fine di favorire la partecipazione dei
cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge
costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari
propositivi e d'indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle
formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le
modalità di attuazione».
Art. 12.
(Modifica dell'articolo 72 della Costituzione).
1. L'articolo 72 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 72. – Ogni disegno di legge di cui
all'articolo 70, primo comma, presentato ad una Camera, è, secondo le norme del
suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che
l'approva articolo per articolo e con votazione finale.
Ogni altro disegno di legge è presentato alla
Camera dei deputati e, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una
Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e
con votazione finale.
I regolamenti stabiliscono procedimenti
abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l'urgenza.
Possono altresì stabilire in quali casi e forme
l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni,
anche permanenti, che, alla Camera dei deputati, sono composte in modo da
rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi, fino
al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso
alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto
della Commissione richiedono che sia discusso e votato dalla Camera stessa
oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni
di voto. I regolamenti determinano le forme di pubblicità dei lavori delle
Commissioni.
La procedura normale di esame e di approvazione
diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in
materia costituzionale ed elettorale, per quelli di delegazione legislativa,
per quelli di conversione in legge di decreti, per quelli di autorizzazione a
ratificare trattati internazionali e per quelli di approvazione di bilanci e
consuntivi.
Il regolamento del Senato della Repubblica
disciplina le modalità di esame dei disegni di legge trasmessi dalla Camera dei
deputati ai sensi dell'articolo 70.
Esclusi i casi di cui all'articolo 70, primo
comma, e, in ogni caso, le leggi in materia elettorale, le leggi di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e le leggi di cui agli
articoli 79 e 81, sesto comma, il Governo può chiedere alla Camera dei deputati
di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge
indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto
con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via
definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla
deliberazione. In tali casi, i termini di cui all'articolo 70, terzo comma,
sono ridotti della metà. Il termine può essere differito di non oltre quindici
giorni, in relazione ai tempi di esame da parte della Commissione nonché alla
complessità del disegno di legge. Il regolamento della Camera dei deputati
stabilisce le modalità e i limiti del procedimento, anche con riferimento
all'omogeneità del disegno di legge».
Art. 13.
(Modifiche agli articoli 73 e 134 della
Costituzione).
1. All'articolo 73 della Costituzione, il primo
comma è sostituito dai seguenti:
«Le leggi sono promulgate dal Presidente della
Repubblica entro un mese dall'approvazione.
Le leggi che disciplinano l'elezione dei membri
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere
sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di
legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso
motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei
deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro
dieci giorni dall'approvazione della legge, prima dei quali la legge non può
essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di
trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione
della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge
non può essere promulgata».
2. All'articolo 134 della Costituzione, dopo il
primo comma è aggiunto il seguente:
«La Corte costituzionale giudica altresì della
legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l'elezione dei membri
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica ai sensi dell'articolo
73, secondo comma».
Art. 14.
(Modifica dell'articolo 74 della Costituzione).
1. L'articolo 74 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 74. – Il Presidente della Repubblica,
prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere
chiedere una nuova deliberazione.
Qualora la richiesta riguardi la legge di
conversione di un decreto adottato a norma dell'articolo 77, il termine per la
conversione in legge è differito di trenta giorni.
Se la legge è nuovamente approvata, questa deve
essere promulgata».
Art. 15.
(Modifica dell'articolo 75 della
Costituzione).
1. L'articolo 75 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 75. – È indetto referendum popolare per
deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente
forza di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli
regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie
e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare
trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti
gli elettori.
La proposta soggetta a referendum è approvata se
ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se
avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime
elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti
validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del
referendum».
Art. 16.
(Disposizioni in materia di decretazione d'urgenza).
1. All'articolo 77 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «delle Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «disposta con legge»;
b) al secondo comma, le parole: «alle Camere
che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono» sono
sostituite dalle seguenti: «alla Camera dei deputati, anche quando la funzione
legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere. La Camera dei
deputati, anche se sciolta, è appositamente convocata e si riunisce»;
c) al terzo comma:
1) al primo periodo sono aggiunte, in fine, le
seguenti parole: « o, nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia
chiesto, a norma dell'articolo 74, una nuova deliberazione, entro novanta
giorni dalla loro pubblicazione»;
2) al secondo periodo, le parole: «Le Camere
possono» sono sostituite dalle seguenti: «La legge può» e le parole: «con
legge» sono soppresse;
d) sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:
«Il Governo non può, mediante provvedimenti
provvisori con forza di legge: disciplinare le materie indicate nell'articolo
72, quinto comma, con esclusione, per la materia elettorale, della disciplina
dell'organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle
elezioni; reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e
regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare
l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte
costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al
procedimento.
I decreti recano misure di immediata
applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.
L'esame, a norma dell'articolo 70, terzo e
quarto comma, dei disegni di legge di conversione dei decreti è disposto dal
Senato della Repubblica entro trenta giorni dalla loro presentazione alla
Camera dei deputati. Le proposte di modificazione possono essere deliberate
entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di
conversione, che deve avvenire non oltre quaranta giorni dalla presentazione.
Nel corso dell'esame dei disegni di legge di
conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee
all'oggetto o alle finalità del decreto».
Art. 17.
(Deliberazione dello stato di guerra).
1. L'articolo 78 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 78. – La Camera dei deputati delibera a
maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari».
Art. 18.
(Leggi di amnistia e indulto).
1. All'articolo 79, primo comma, della
Costituzione, le parole: «di ciascuna Camera,» sono sostituite dalle seguenti:
«della Camera dei deputati,».
Art. 19.
(Autorizzazione alla ratifica di trattati
internazionali).
1. All'articolo 80 della Costituzione, le
parole: «Le Camere autorizzano» sono sostituite dalle seguenti: «La Camera dei
deputati autorizza» ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le leggi che
autorizzano la ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia
all'Unione europea sono approvate da entrambe le Camere».
Art. 20.
(Inchieste parlamentari).
1. L'articolo 82 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 82. – La Camera dei deputati può disporre
inchieste su materie di pubblico interesse. Il Senato della Repubblica può
disporre inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le
autonomie territoriali.
A tale scopo ciascuna Camera nomina fra i propri
componenti una Commissione. Alla Camera dei deputati la Commissione è formata
in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La Commissione
d'inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le
stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria».
Capo II
MODIFICHE AL TITOLO II DELLA PARTE II DELLA
COSTITUZIONE
Art. 21.
(Modifiche all'articolo 83 della Costituzione in
materia di delegati regionali e di quorum per l'elezione del Presidente della
Repubblica).
1. All'articolo 83 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) il secondo comma è abrogato;
b) al terzo comma, il secondo periodo è
sostituito dai seguenti: «Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei
tre quinti dell'assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza
dei tre quinti dei votanti».
Art. 22.
(Disposizioni in tema di elezione del Presidente della
Repubblica).
1. All'articolo 85 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, le parole: «e i delegati
regionali,» sono soppresse e dopo il primo periodo è aggiunto il seguente:
«Quando il Presidente della Camera esercita le funzioni del Presidente della
Repubblica nel caso in cui questi non possa adempierle, il Presidente del
Senato convoca e presiede il Parlamento in seduta comune»;
b) al terzo comma, il primo periodo è sostituito
dal seguente: «Se la Camera dei deputati è sciolta, o manca meno di tre mesi
alla sua cessazione, l'elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione
della Camera nuova».
Art. 23.
(Esercizio delle funzioni del Presidente della
Repubblica).
1. All'articolo 86 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «del Senato» sono
sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati»;
b) al secondo comma, le parole: «il Presidente
della Camera dei deputati indice» sono sostituite dalle seguenti: «il
Presidente del Senato indice», le parole: «le Camere sono sciolte» sono
sostituite dalle seguenti: «la Camera dei deputati è sciolta» e la parola:
«loro» è sostituita dalla seguente: «sua».
Art. 24.
(Scioglimento della Camera dei deputati).
1. All'articolo 88 della Costituzione, il primo
comma è sostituito dal seguente:
«Il Presidente della Repubblica può, sentito il
suo Presidente, sciogliere la Camera dei deputati».
Capo III
MODIFICHE AL TITOLO III DELLA PARTE II DELLA
COSTITUZIONE
Art. 25.
(Fiducia al Governo).
1. All'articolo 94 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «delle due Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati»;
b) al secondo comma, le parole: «Ciascuna Camera
accorda o revoca la fiducia» sono sostituite dalle seguenti: «La fiducia è
accordata o revocata»;
c) al terzo comma, le parole: «alle Camere» sono
sostituite dalle seguenti: «innanzi alla Camera dei deputati»;
d) al quarto comma, le parole: «di una o
d'entrambe le Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei
deputati»;
e) al quinto comma, dopo la parola: «Camera»
sono inserite le seguenti: «dei deputati».
Art. 26.
(Modifica all'articolo 96 della Costituzione).
1. All'articolo 96 della Costituzione, le
parole: «del Senato della Repubblica o» sono soppresse.
Art. 27.
(Modifica all'articolo 97 della Costituzione).
1. Il secondo comma dell'articolo 97 della
Costituzione è sostituito dal seguente:
«I pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento,
l'imparzialità e la trasparenza dell'amministrazione».
Art. 28.
(Soppressione del CNEL).
1. L'articolo 99 della Costituzione è abrogato.
Capo IV
MODIFICHE AL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA
COSTITUZIONE
Art. 29.
(Abolizione delle Province).
1. All'articolo 114 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «dalle Province,»
sono soppresse;
b) al secondo comma, le parole: «le Province,»
sono soppresse.
Art. 30.
(Modifica all'articolo 116 della Costituzione).
1. All'articolo 116 della Costituzione, il terzo
comma è sostituito dal seguente:
«Ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia, concernenti le materie di cui all'articolo 117, secondo comma,
lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, m),
limitatamente alle disposizioni generali e comuni per le politiche sociali, n),
o), limitatamente alle politiche attive del lavoro e all'istruzione e
formazione professionale, q), limitatamente al commercio con l'estero, s) e u),
limitatamente al governo del territorio, possono essere attribuite ad altre
Regioni, con legge dello Stato, anche su richiesta delle stesse, sentiti gli
enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119, purché la
Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio
bilancio. La legge è approvata da entrambe le Camere, sulla base di intesa tra
lo Stato e la Regione interessata».
Art. 31.
(Modifica dell'articolo 117 della Costituzione).
1. L'articolo 117 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
«Art. 117. – La potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle
seguenti materie:
a) politica estera e rapporti internazionali
dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e
condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione
europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni
religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato;
armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati
finanziari e assicurativi; tutela e promozione della concorrenza; sistema
valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei
bilanci pubblici; coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi
elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa
dello Stato e degli enti pubblici nazionali; norme sul procedimento
amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l'uniformità sul territorio
nazionale;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione
della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali;
ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale; disposizioni generali e comuni per la tutela
della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare;
n) disposizioni generali e comuni
sull'istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e
programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica;
o) previdenza sociale, ivi compresa la
previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro;
politiche attive del lavoro; disposizioni generali e comuni sull'istruzione e
formazione professionale;
p) ordinamento, legislazione elettorale, organi
di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane;
disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e
profilassi internazionale; commercio con l'estero;
r) pesi, misure e determinazione del tempo;
coordinamento informativo statistico e informatico dei dati, dei processi e
delle relative infrastrutture e piattaforme informatiche dell'amministrazione
statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
s) tutela e valorizzazione dei beni culturali e
paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali
e comuni sulle attività culturali e sul turismo;
t) ordinamento delle professioni e della
comunicazione;
u) disposizioni generali e comuni sul governo
del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile;
v) produzione, trasporto e distribuzione
nazionali dell'energia;
z) infrastrutture strategiche e grandi reti di
trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di
sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale.
Spetta
alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza delle
minoranze linguistiche, di pianificazione del territorio regionale e mobilità
al suo interno, di dotazione infrastrutturale, di programmazione e
organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di promozione dello sviluppo
economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese
e della formazione professionale; salva l'autonomia delle istituzioni
scolastiche, in materia di servizi scolastici, di promozione del diritto allo studio,
anche universitario; in materia di disciplina, per quanto di interesse
regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali,
culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione regionale del
turismo, di regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito
regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione
per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza
pubblica, nonché in ogni materia non espressamente riservata alla competenza
esclusiva dello Stato.
Su
proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non
riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità
giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse
nazionale.
Le
Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti
normativi dell'Unione europea e provvedono all'attuazione e all'esecuzione
degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto
delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato, che disciplina le
modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza.
La potestà regolamentare spetta allo Stato e
alle Regioni secondo le rispettive competenze legislative. È fatta salva la
facoltà dello Stato di delegare alle Regioni l'esercizio di tale potestà nelle
materie di competenza legislativa esclusiva. I Comuni e le Città metropolitane
hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel rispetto della legge
statale o regionale.
Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che
impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale,
culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini
alle cariche elettive.
La legge regionale ratifica le intese della
Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni,
anche con individuazione di organi comuni.
Nelle materie di sua competenza la Regione può
concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro
Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato».
Art. 32.
(Modifiche all'articolo 118 della Costituzione).
1. All'articolo 118 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, la parola: «Province,» è
soppressa;
b) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Le funzioni amministrative sono esercitate in
modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell'azione
amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli
amministratori»;
c) al secondo comma, le parole: «, le Province»
sono soppresse;
d) al terzo comma, le parole: «nella materia
della tutela dei beni culturali» sono sostituite dalle seguenti: «in materia di
tutela dei beni culturali e paesaggistici»;
e) al quarto comma, la parola: «, Province» è
soppressa.
Art. 33.
(Modifica dell'articolo 119 della Costituzione).
1. L'articolo 119 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 119. – I Comuni, le Città metropolitane e
le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto
dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza
dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione
europea.
I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni
hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri e
dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al
loro territorio, in armonia con la Costituzione e secondo quanto disposto dalla
legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario.
La legge dello Stato istituisce un fondo
perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità
fiscale per abitante.
Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi
precedenti assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei
Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni. Con legge dello Stato sono
definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono
condizioni di efficienza nell'esercizio delle medesime funzioni.
Per promuovere lo sviluppo economico, la
coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e
sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato
destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di
determinati Comuni, Città metropolitane e Regioni.
I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni
hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i princìpi generali determinati
dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all'indebitamento solo per
finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di
ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione
sia rispettato l'equilibrio di bilancio. È esclusa ogni garanzia dello Stato
sui prestiti dagli stessi contratti».
Art. 34.
(Modifica all'articolo 120 della Costituzione).
1. All'articolo 120, secondo comma, della
Costituzione, dopo le parole: «Il Governo» sono inserite le seguenti: «,
acquisito, salvi i casi di motivata urgenza, il parere del Senato della
Repubblica, che deve essere reso entro quindici giorni dalla richiesta,» e sono
aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e stabilisce i casi di esclusione dei
titolari di organi di governo regionali e locali dall'esercizio delle
rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto
finanziario dell'ente».
Art. 35.
(Limiti agli emolumenti dei componenti degli organi regionali ed
equilibrio tra i sessi nella rappresentanza).
1. All'articolo 122, primo comma, della
Costituzione, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e i relativi
emolumenti nel limite dell'importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni
capoluogo di Regione. La legge della Repubblica stabilisce altresì i princìpi
fondamentali per promuovere l'equilibrio tra donne e uomini nella
rappresentanza».
Art. 36.
(Soppressione della Commissione parlamentare per le questioni
regionali).
1. All'articolo 126, primo comma, della
Costituzione, l'ultimo periodo è sostituito dal seguente: «Il decreto è
adottato previo parere del Senato della Repubblica».
Capo V
MODIFICHE AL TITOLO VI DELLA PARTE II DELLA
COSTITUZIONE
Art. 37.
(Elezione dei giudici della Corte costituzionale).
1. All'articolo 135 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) il primo comma è sostituito dal seguente:
«La Corte costituzionale è composta da quindici
giudici, dei quali un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo
dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, tre dalla Camera dei
deputati e due dal Senato della Repubblica»;
b) al settimo comma, la parola: «senatore» è
sostituita dalla seguente: «deputato».
Capo VI
DISPOSIZIONI FINALI
Art. 38.
(Disposizioni consequenziali e di coordinamento).
1. All'articolo 48, terzo comma, della
Costituzione, le parole: «delle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della
Camera dei deputati».
2. L'articolo 58 della Costituzione è abrogato.
3. L'articolo 61 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 61. – L'elezione della nuova Camera dei
deputati ha luogo entro settanta giorni dalla fine della precedente. La prima
riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dall'elezione.
Finché non sia riunita la nuova Camera dei
deputati sono prorogati i poteri della precedente».
4. All'articolo 62 della Costituzione, il terzo
comma è abrogato.
5. All'articolo 73, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei
propri componenti, ne dichiarano» sono sostituite dalle seguenti: «Se la Camera
dei deputati, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, ne dichiara».
6. All'articolo 81 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, le parole: «delle Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati» e la parola:
«rispettivi» è sostituita dalla seguente: «suoi»;
b) al quarto comma, le parole: «Le Camere ogni
anno approvano» sono sostituite dalle seguenti: «La Camera dei deputati ogni
anno approva»;
c) al sesto comma, le parole: «di ciascuna
Camera,» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati,».
7. All'articolo 87 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al terzo comma, le parole: «delle nuove
Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della nuova Camera dei deputati»;
b) all'ottavo comma, le parole: «delle Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati. Ratifica i trattati
relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, previa
l'autorizzazione di entrambe le Camere»;
c) al nono comma, le parole: «dalle Camere» sono
sostituite dalle seguenti: «dalla Camera dei deputati».
8. La rubrica del titolo V della parte II della
Costituzione è sostituita dalla seguente: «Le Regioni, le Città metropolitane e
i Comuni».
9. All'articolo 120, secondo comma, della
Costituzione, dopo le parole: «, delle Province» sono inserite le seguenti:
«autonome di Trento e di Bolzano».
10. All'articolo 121, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «alle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «alla
Camera dei deputati».
11. All'articolo 122, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «ad una delle Camere del Parlamento» sono sostituite
dalle seguenti: «alla Camera dei deputati».
12. All'articolo 132, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «della Provincia o delle Province interessate e» sono
soppresse e le parole: «Province e Comuni,» sono sostituite dalle seguenti: «i
Comuni,».
13. All'articolo 133 della Costituzione, il
primo comma è abrogato.
14. Il comma 2 dell'articolo 12 della legge
costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e successive modificazioni, è sostituito
dal seguente:
«2. Il Comitato di cui al comma 1 è presieduto
dal Presidente della Giunta della Camera dei deputati».
15. Alla legge costituzionale 16 gennaio 1989, n.
1, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) l'articolo 5 è sostituito dal seguente:
«Art. 5. – 1. L'autorizzazione prevista
dall'articolo 96 della Costituzione spetta alla Camera dei deputati, anche se
il procedimento riguardi altresì soggetti che non sono membri della medesima
Camera dei deputati»;
b) le parole: «Camera competente ai sensi
dell'articolo 5» e «Camera competente», ovunque ricorrono, sono sostituite
dalle seguenti: «Camera dei deputati».
16. All'articolo 3 della legge costituzionale 22
novembre 1967, n. 2, al primo periodo, le parole: «da questo in seduta comune
delle due Camere» sono sostituite dalle seguenti: «da ciascuna Camera» e le
parole: «componenti l'Assemblea» sono sostituite dalle seguenti: «propri
componenti»; al secondo periodo, le parole: «l'Assemblea» sono sostituite dalle
seguenti: «di ciascuna Camera».
Art. 39.
(Disposizioni transitorie).
1. In sede di prima applicazione e sino alla
data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma,
della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge
costituzionale, per l'elezione del Senato della Repubblica, nei Consigli
regionali e della Provincia autonoma di Trento, ogni consigliere può votare per
una sola lista di candidati, formata da consiglieri e da sindaci dei rispettivi
territori. Al fine dell'assegnazione dei seggi a ciascuna lista di candidati si
divide il numero dei voti espressi per il numero dei seggi attribuiti e si
ottiene il quoziente elettorale. Si divide poi per tale quoziente il numero dei
voti espressi in favore di ciascuna lista di candidati. I seggi sono assegnati
a ciascuna lista di candidati in numero pari ai quozienti interi ottenuti,
secondo l'ordine di presentazione nella lista dei candidati medesimi, e i seggi
residui sono assegnati alle liste che hanno conseguito i maggiori resti; a
parità di resti, il seggio è assegnato alla lista che non ha ottenuto seggi o,
in mancanza, a quella che ha ottenuto il numero minore di seggi. Per la lista
che ha ottenuto il maggior numero di voti, può essere esercitata l'opzione per
l'elezione del sindaco o, in alternativa, di un consigliere, nell'ambito dei
seggi spettanti. In caso di cessazione di un senatore dalla carica di
consigliere o di sindaco, è proclamato eletto rispettivamente il consigliere o
sindaco primo tra i non eletti della stessa lista.
2. Quando, in base all'ultimo censimento
generale della popolazione, il numero di senatori spettanti a una Regione, ai
sensi dell'articolo 57 della Costituzione, come modificato dall'articolo 2
della presente legge costituzionale, è diverso da quello risultante in base al
censimento precedente, il Consiglio regionale elegge i senatori nel numero
corrispondente all'ultimo censimento, anche in deroga al primo comma del
medesimo articolo 57 della Costituzione. Si applicano in ogni caso le
disposizioni di cui al comma 1.
3. Nella legislatura in corso alla data di
entrata in vigore della presente legge costituzionale, sciolte entrambe le
Camere, non si procede alla convocazione dei comizi elettorali per il rinnovo
del Senato della Repubblica.
4. Fino alla data di entrata in vigore della
legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato
dall'articolo 2 della presente legge costituzionale, la prima costituzione del
Senato della Repubblica ha luogo, in base alle disposizioni del presente
articolo, entro dieci giorni dalla data della prima riunione della Camera dei
deputati successiva alle elezioni svolte dopo la data di entrata in vigore
della presente legge costituzionale. Qualora alla data di svolgimento delle
elezioni della Camera dei deputati di cui al periodo precedente si svolgano
anche elezioni di Consigli regionali o dei Consigli delle Province autonome di
Trento e di Bolzano, i medesimi Consigli sono convocati in collegio elettorale
entro tre giorni dal loro insediamento.
5. I senatori eletti sono proclamati dal
Presidente della Giunta regionale o provinciale.
6. La legge di cui all'articolo 57, sesto comma,
della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge
costituzionale, è approvata entro sei mesi dalla data di svolgimento delle
elezioni della Camera dei deputati di cui al comma 4.
7. I senatori a vita in carica alla data di
entrata in vigore della presente legge costituzionale permangono nella stessa
carica, ad ogni effetto, quali membri del Senato della Repubblica.
8. Le disposizioni dei regolamenti parlamentari
vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale
continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, fino alla data di entrata in
vigore delle loro modificazioni, adottate secondo i rispettivi ordinamenti
dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica, conseguenti alla
medesima legge costituzionale.
9. Fino all'adeguamento del regolamento della
Camera dei deputati a quanto previsto dall'articolo 72, settimo comma, della
Costituzione, come modificato dall'articolo 12 della presente legge
costituzionale, in ogni caso il differimento del termine previsto dal medesimo
articolo non può essere inferiore a dieci giorni.
10. In sede di prima applicazione dell'articolo
135 della Costituzione, come modificato dall'articolo 37 della presente legge
costituzionale, alla cessazione dalla carica dei giudici della Corte
costituzionale nominati dal Parlamento in seduta comune, le nuove nomine sono
attribuite alternativamente, nell'ordine, alla Camera dei deputati e al Senato
della Repubblica.
11. In sede di prima applicazione, nella
legislatura in corso alla data di entrata in vigore della presente legge
costituzionale, su ricorso motivato presentato entro dieci giorni da tale data,
o entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui
all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla
presente legge costituzionale, da almeno un quarto dei componenti della Camera
dei deputati o un terzo dei componenti del Senato della Repubblica, le leggi
promulgate nella medesima legislatura che disciplinano l'elezione dei membri
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere
sottoposte al giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La Corte
costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni. Anche ai fini di
cui al presente comma, il termine di cui al comma 6 decorre dalla data di
entrata in vigore della presente legge costituzionale.
Entro novanta giorni dalla data di entrata in
vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione,
come modificato dalla presente legge costituzionale, le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano conformano le rispettive disposizioni
legislative e regolamentari a quanto ivi stabilito.
12. Le leggi delle Regioni adottate ai sensi
dell'articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, nel testo vigente
fino alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale,
continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle leggi
adottate ai sensi dell'articolo 117, secondo e terzo comma, della Costituzione,
come modificato dall'articolo 31 della presente legge costituzionale.
13. Le disposizioni di cui al capo IV della
presente legge costituzionale non si applicano alle Regioni a statuto speciale
e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei
rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province
autonome. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge
costituzionale, e sino alla revisione dei predetti statuti speciali, alle
Regioni a statuto speciale e alle Province autonome si applicano le disposizioni
di cui all'articolo 116, terzo comma, ad esclusione di quelle che si
riferiscono alle materie di cui all'articolo 117, terzo comma, della
Costituzione, nel testo vigente fino alla data di entrata in vigore della
presente legge costituzionale e resta ferma la disciplina vigente prevista dai
medesimi statuti e dalle relative norme di attuazione ai fini di quanto
previsto dall'articolo 120 della Costituzione; a seguito della suddetta
revisione, alle medesime Regioni a statuto speciale e Province autonome si
applicano le disposizioni di cui all'articolo 116, terzo comma, della
Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale.
14. La Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée
d'Aoste esercita le funzioni provinciali già attribuite alla data di entrata in
vigore della presente legge costituzionale.
Art. 40.
(Disposizioni finali).
1. Il Consiglio nazionale dell'economia e del
lavoro (CNEL) è soppresso. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
della presente legge costituzionale, il Presidente del Consiglio dei ministri,
su proposta del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione,
d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, nomina, con proprio
decreto, un commissario straordinario cui è affidata la gestione provvisoria
del CNEL, per le attività relative al patrimonio, compreso quello immobiliare,
nonché per la riallocazione delle risorse umane e strumentali presso la Corte
dei conti e per gli altri adempimenti conseguenti alla soppressione. All'atto
dell'insediamento del commissario straordinario decadono dall'incarico gli
organi del CNEL e i suoi componenti per ogni funzione di istituto, compresa
quella di rappresentanza.
2. Non possono essere corrisposti rimborsi o
analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica
in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali.
3. Tenuto conto di quanto disposto dalla
presente legge costituzionale, entro la legislatura in corso alla data della
sua entrata in vigore, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica
provvedono, secondo criteri di efficienza e razionalizzazione, all'integrazione
funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante servizi comuni, impiego
coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra forma di collaborazione.
A tal fine è istituito il ruolo unico dei dipendenti del Parlamento, formato
dal personale di ruolo delle due Camere, che adottano uno statuto unico del
personale dipendente, nel quale sono raccolte e coordinate le disposizioni già
vigenti nei rispettivi ordinamenti e stabilite le procedure per le
modificazioni successive da approvare in conformità ai princìpi di autonomia,
imparzialità e accesso esclusivo e diretto con apposito concorso. Le Camere
definiscono altresì di comune accordo le norme che regolano i contratti di
lavoro alle dipendenze delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento,
previste dai regolamenti. Restano validi a ogni effetto i rapporti giuridici,
attivi e passivi, instaurati anche con i terzi.
4. Per gli enti di area vasta, tenuto conto
anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi
agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori
disposizioni in materia sono adottate con legge regionale. Il mutamento delle
circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della
Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione.
5. Fermo restando quanto stabilito dall'articolo
59, primo comma, della Costituzione, i senatori di cui al medesimo articolo 59,
secondo comma, come sostituito dall'articolo 3 della presente legge
costituzionale, non possono eccedere, in ogni caso, il numero complessivo di
cinque, tenuto conto della permanenza in carica dei senatori a vita già
nominati alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale. Lo
stato e le prerogative dei senatori di diritto e a vita restano regolati
secondo le disposizioni già vigenti alla data di entrata in vigore della
presente legge costituzionale.
6. I senatori della Provincia autonoma di
Bolzano/Autonome Provinz Bozen sono eletti tenendo conto della consistenza dei
gruppi linguistici in base all'ultimo censimento. In sede di prima applicazione
ogni consigliere può votare per due liste di candidati, formate ciascuna da consiglieri
e da sindaci dei rispettivi territori.
Art. 41.
(Entrata in vigore).
1. La presente legge costituzionale entra in
vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale successiva alla promulgazione. Le disposizioni della presente legge
costituzionale si applicano a decorrere dalla legislatura successiva allo
scioglimento di entrambe le Camere, salvo quelle previste dagli articoli
28, 35, 39, commi 3, 7 e 11, e 40, commi 1, 2, 3 e 4, che sono di immediata
applicazione.
- 2 -
La riforma costituzionale a volo d'angelo
Esaminare
il testo e capire i contenuti della riforma costituzionale oggetto del
prossimo referendum è impegnativo per chi sa di diritto e molto di più per chi
non ne è pratico. Occorrerebbe avere almeno dei rudimenti di educazione civica,
al livello delle scuole medie inferiori di oggi. Si tratta di una legge che
incide profondamente nella Costituzione, in particolare in quella parte, la
seconda, che disciplina la struttura e il funzionamento delle istituzioni di
vertice della Repubblica. Da essa però dipendono la difesa e lo sviluppo dei
principi e valori civili che sono trattati nella prima parte della
Costituzione.
La campagna per il referendum, fatta in
genere per slogan, sul modello della pubblicità commerciale, non aiuta. Gli
argomenti che principalmente vengono proposti o sono superficiali o sono
parzialmente fuorvianti.
Il risparmio di denaro pubblico che
si conseguirà sarà poca cosa rispetto all'intero bilancio pubblico. Si è calcolato
che, quanto alle spese per il Senato, potrebbe aggirarsi intorno ad un 10%, ma
avremo meno senatori e soprattutto senatori a mezzo servizio, perché dovranno
fare anche i consiglieri regionali e i sindaci. La semplificazione delle
procedure parlamentari sarà anch'essa poca cosa, sia per il fatto che in molte
materie le leggi dovranno continuare ad essere approvate da entrambe le Camere,
sia perché il nuovo Senato potrà comunque deliberare di chiedere alla Camera
dei Deputati modifiche delle leggi di competenza esclusiva di quest'ultima, sia
perché, data la non chiarissima formulazione delle nuove norme, è prevedibile
che insorgano controversie interpretative che, coinvolgendo organi di vertice,
non saranno di facile soluzione. La riforma non garantirà "le"
riforme alle quali spesso si accenna genericamente e che si dice siano
indispensabili per la ripresa dell'economia nazionale. Si tratta infatti di una
legge che modifica o abolisce organi dello Stato, quindi che non incide
direttamente sulla società. Se e come fare le riforme dipenderà dalla
formazione di una sufficiente forza politica riformatrice e la riforma
costituzionale oggetto del referendum è in un certo senso indifferente
rispetto alla successiva azione riformatrice nella società, in altre parole non
garantisce riforme "buone", e non è detto neanche che garantisca
riforme più celeri.
Stanno uscendo diversi libri divulgativi per
orientarsi nella riforma costituzionale. L'altro giorno ho indicato quello di
Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale", "Loro
diranno, noi diciamo", edito da Laterza, orientato in senso negativo alla
riforma. Della medesima opinione sono Luigi Ciotti, Alessandra Agostino, Tomaso
Montanari e Livio Pepino nel libro "Io dico no", pubblicato dalle
Edizioni Gruppo Abele. Favorevoli alla riforma sono due professori universitari
di diritto che da giovani furono presidenti della FUCI, gli universitari
cattolici: Stefano Ceccanti, in "La transizione e (quasi finita)"
edito da Giappichelli, e Giovanni Guzzetta, in "Italia, si cambia",
edito da Rubettino. Guzzetta fin da liceale fu per qualche tempo nel gruppo
romano della Fuci di cui facevo parte anch'io, ma iniziò precocemente a
collaborare nella presidenza dell'organizzazione, perché era un ragazzo molto
capace. Ceccanti è fonte particolarmente affidabile in quanto è
considerato uno dei "Padri", vale a dire degli ideatori e autori,
della riforma; ha fatto parte della commissione di saggi nominata dal
Presidente della Repubblica Napolitano per formulare proposte per la riforma
dello stato. Altro testo scritto da esperti autorevoli è "Perché è saggio
dire no", pubblicato da Rubettino è scritto da Valerio Onida, ex
presidente della Corte Costituzionale, e da Gaetano Quagliarello, professore
universitario, costituzionalista e già membro della menzionata commissione di
saggi. Informarsi su uno di questi testi, o su uno degli altri analoghi che
stanno uscendo di questi tempi, è utile perché radio e televisione, le fonti
informative più utilizzate dagli italiani espongono prevalentemente le ragioni
favorevoli alla riforma e lo fanno in modo superficiale e soprattutto
indicando, in genere, quelle sul risparmio di spesa pubblica e sulla
velocizzazione delle procedure parlamentari che abbiamo visto prestare il
fianco a diverse e serie obiezioni, che però in genere non vengono esposte. Le
ragioni dei contrari alla riforma vengono presentate, quando lo sono, come dei
partiti presi. Non si entra mai nel merito. E soprattutto non viene trattato
l'argomento che mi appare quello che realmente ha motivato la riforma e che ho
letto esposto in un sito web politico del Trentino, vale a dire quello di
potenziare la capacità di azione del Governo, in modo che non sia un
"governicchio". Questo effetto sicuramente si otterrebbe con la promulgazione
della riforma costituzionale, perché tutti i governi che si sono succeduti dal
'94 ad oggi, compreso quello attuale, hanno avuto difficoltà e dispiaceri nel
cercare di ottenere la "fiducia" dal Senato e il nuovo Senato non
sarà più competente a dare questa fiducia.
All'inizio di questi appunti sulla riforma
costituzionale, trovate il testo della legge costituzionale oggetto del
prossimo referendum. Essa è stata approvata dal Parlamento, con le speciali
modalità previste dalla Costituzione, quindi con una doppia deliberazione
conforme di Camera dei Deputati e Senato, ma entrerà in vigore, con la
promulgazione del Presidente della Repubblica, solo se otterrà il consenso dei cittadini
elettori nel prossimo referendum costituzionale.
La legge si compone di 41 articoli, che
cambiano il testo della Costituzione della Repubblica. L'importanza della
riforma è evidente se si tiene conto che la Costituzione ha 139 articoli e 18
disposizioni transitorie e finali.
Il cuore della riforma è nella modifica della
struttura, modalità di elezione e funzioni del Senato, delle funzioni della
Camera dei Deputati, e del riparto del potere di fare leggi tra lo Stato e le
Regioni. Innova però anche in altre materie: sulle leggi di iniziativa popolare
e sul referendum abrogativo delle leggi; sulle modalità di elezione e sulle
funzioni del Presidente della Repubblica, sulle modalità di nomina dei giudici
della Corte Costituzionale e sulle funzioni della Corte, sui poteri del Governo
di emanare decreti legge, limitandoli; sull'attività della pubblica
amministrazione, introducendo i criteri costituzionali di trasparenza e
semplificazione. Infine abolisce le Province, tranne quelle, con statuto
particolare, di Trento e Bolzano, e il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro,
organo ausiliario previsto dalla Costituzione che si è dimostrato scarsamente
produttivo nella sua storia, anche dopo la riforma che di esso è stata attuata
nel 1986.
Una prima osservazione che faccio è che la
legge costituzionale oggetto del referendum contiene non una ma varie riforme e
che il giudizio su ciascuna di esse, ad esempio quello sulla modifica del
Senato e quello sul l'abrogazione del CNEL, potrebbe essere diverso, ma che
dovremo pronunciarci, al referendum, con un sì o un no complessivo: si dovrà
tener conto quindi delle parti più importanti, quelle che costituiscono il
"cuore" della legge ed è un peccato, perché, se prevarrà il no,
saranno pregiudicate anche riforme sulle quali, se presentate separatamente, ci
sarebbe stato un consenso molto largo.
- 3 -
Servizio parlamentare come tirocinio di governo
democratico
Prima di
ragionare sulla riforma costituzionale recentemente approvata dal Parlamento e
su cui tra pochi mesi dovremo dire la nostra in un referendum, come cittadini e
secondo modalità di sovranità popolare, è utile scrivere qualcosa sul servizio
parlamentare. Di questi tempi lo sento spesso descrivere come un privilegio
inutile alla società, utile solo a chi riesce ad aggiudicarsi i ricchi stipendi
parlamentari e i molti servizi gratuiti ad essi connessi. In ambienti religiosi
non aiuta certamente la struttura non democratica dell'organizzazione delle
nostre collettività di fede. In religione siamo governati da una
oligarchia, un sistema di potere in cui i pochi dominano sui più, cooptata,
vale a dire scelta da gerarchi di livello superiore. Sopra tutti governa uno
solo, il cui potere è configurato come quello di un imperatore religioso. In
realtà, come può immaginarsi che una sola persona possa veramente dominare
diverse centinaia di milioni di persone, quante sono quelle che seguono la
nostra confessione? E in effetti i nostri imperatori religiosi confessano
qualche volta di sentirsi come prigionieri nella cittadella vaticana, centro
del loro potere. È più verosimile pensare che al vertice vi siano oligarchie
autoreferenziali, quali, ad esempio, si manifestano nel collegio
cardinalizio.
Dunque, il servizio parlamentare sarebbe uno
spreco, una fonte di spesa non produttiva. Un sovrano illuminato, competente, o
meglio oligarchie illuminate e competenti farebbero meglio e con minor
dispendio di denaro pubblico, che viene raccolto prelevando una quota dei
redditi dei cittadini.
Del resto l'economia delle nostre società,
quella che produce i beni essenziali della vita, è organizzata per oligarchie
cooptate: è la struttura delle imprese capitalistiche. Di fronte ad esse
l'altra gente assume due ruoli, quello di lavoratore e quello di consumatore.
Finché essi furono rivestiti dalla stessa gente, in un unico contesto nazionale,
tutto è andato, in fondo, per il meglio. Infatti le imprese, per avere
consumatori, dovevano anche fornire ai propri lavoratori retribuzioni che
consentissero di spendere per i consumi. Nel mondo contemporaneo, invece, in
cui la produzione economica e il commercio sono globalizzati, e ciò significa
che le imprese e il capitale in esse investito non hanno più frontiere davanti
a sé sia nella produzione come nel commercio, la situazione è diversa. Si
produce dove costa meno produrre e si vende dove si possono fare i prezzi più
alti. In Italia la gran parte degli oggetti di uso quotidiano (verificate) sono
prodotti in Asia. I costi di produzione più bassi hanno comportato anche prezzi
più bassi al consumo, da noi, per cui i lavoratori italiani, da consumatori,
hanno beneficiato dei salari più bassi pagati ai lavoratori asiatici. Alla
lunga, però, lo spostamento delle produzioni all'estero ha comportato una
riduzione dell'occupazione in Italia. Le imprese potrebbero ritornare a
produrre in Italia? Certo, se a loro convenisse. Se le condizioni di lavoro e
le retribuzioni diventassero più simili a quelle asiatiche. Da qui, Italia, un
progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro, che si sono fatte più
precarie, e delle retribuzioni. Così l'occupazione in Italia è in lenta ripresa
in alcuni settori, per la stessa ragione per cui, ad esempio, avvenne la stessa
cosa in Romania, al tempo in cui le produzioni italiane vennero "de-localizzate",
vale a dire trasferite in quello stato. Perché costa di meno produrre. Questo
processo ê stato assecondato negli ultimi anni dalla nostra politica
nazionale. Ma i lavoratori italiani hanno perso qualcosa, rispetto ai
tempi dei loro genitori. Sebbene siano in maggioranza nella Repubblica, sui
loro interessi hanno prevalso quelli dei pochi che, in oligarchie private,
dominano produzione e commercio. In definitiva, si vede che le oligarchie non
funzionano tanto bene quando devono fare gli interessi dei più. Sono
insofferenti dei limiti posti nell'interesse generale e di fronte ad esse i
lavoratori/consumatori sembrano, e in effetti sono, impotenti, salvo che si
elevino alla cittadinanza, alla sovranità politica di massa, ciò che richiede
di uscire dal proprio micromondo familiare o aziendale e farsi carico,
collettivamente, della politica generale. Questo richiede un tirocinio, è
cosa che si impara, non è innata. È una conquista culturale che va rinnovata di
generazione in generazione. Non basta studiarla sui libri. I luoghi dove
si fa questo tirocinio sono gli organi collegiali elettivi delle istituzioni
pubbliche, il Parlamento in primo luogo. In Parlamento, se si fa il servizio
parlamentare come si deve, si cresce, in umanità, sapienza, competenza,
capacità di sviluppare una politica democratica. È quello che è appunto accaduto
negli anni della nostra Repubblica: la creazione e il mantenimento, dopo il
ventennio del fascismo storico, di una classe dirigente politica di derivazione
popolare, che ha "reso presenti", questo appunto significa
"rappresentanza parlamentare", gli interessi dei più. E che, nelle
gravi emergenze che l'Italia ha vissuto, in particolare negli scorsi anni '70,
hanno salvato pace politica e democrazia.
In un sistema di democrazia di popolo, come
il nostro vuole ancora essere, non si dovrebbe arrivare a dirigere un governo
nazionale senza aver fatto quel tirocinio parlamentare. Eppure, come è stato
osservato e come si può facilmente verificare, oggi le figure di riferimento
dei due maggiori partiti politici nazionali non l'hanno svolto. In un certo
senso la recente riforma costituzionale riguardante il Parlamento è opera di
neofiti nel lavoro parlamentare, di persone che solo da poco hanno fatto
esperienza parlamentare, o addirittura mai. E questo anche che se si sono
serviti di consulenti costituzionalisti. La decisione finale, tra le diverse
forme parlamentari possibili, è stata però loro, hanno avuto l'ultima parola.
Non è stato così, in fondo, si potrebbe ribattere, anche nel 1946 e 1947, in
quell'anno e mezzo in cui fu scritta la nostra Costituzione, da persone molte
delle quali molte, in particolare quelle più giovani, erano neofite nel lavoro
Parlamentare? È vero, fu così. Ma tra quei tempi e quelli nostri c'è una grande
differenza: dopo l'esperienza della dittatura fascista, c'era negli anni
Quaranta una gran voglia di Parlamento, visto come il più importante antidoto
alla ripresa del totalitarismo, che solo da pochissimo era stato vinto è
abbattuto. Oggi il clima è un altro, come tutti possono accorgersi.
Nei sessantacinque anni della storia
parlamentare della nostra Repubblica gli interessi dei più, tre generazioni di
italiani, che sono state compresenti e nel tempo si sono succedute, tra morti e
viventi forse un centinaio di milioni di persone o giù di lì, sono stati
rappresentati da circa 15.000 parlamentari, 900 ogni quattro anni in media
tenuto conto delle legislature chiuse anticipatamente, che si sono succeduti
nel servizio parlamentare. Davvero li possiamo considerare troppi o inutili?
Tenuto conto che da essi è dipesa la nostra vita sociale, quasi tutta, ogni
nostra libertà e il benessere e la pace.
- 4 -
La Nazione
Nella Costituzione vigente si fa
riferimento al concetto di nazione in tre punti, e in due di essi si parla di
"Nazione", con l'iniziale maiuscola. È scritto che i
"parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la
"Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della
"Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l'
"unità nazionale" (art.87).
Con la riforma costituzionale i senatori non
rappresenteranno più la "Nazione". Nel commento alla riforma
preparato dall'Ufficio studi della Camera dei Deputati si ricorda che questa
modifica è tra i principi fondanti della riforma, prevista nell'iniziale
disegno di legge costituzionale del Governo e non oggetto di successive
modifiche. Si vuole infatti che il Senato sia espressione delle autonomie
locali. Questa modifica è stata oggetto di aspre critiche tra i
costituzionalisti.
Che cosa è la "Nazione"? La
Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione, perché
esse non possono essere fattori di particolare connotazione della Repubblica:
lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in campo
culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che
significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in
particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.
La storia della nostra costruzione nazionale
è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche resistenze
politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato, nell'Ottocento.
Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu osservato. Da un certo
punto di vista, l'Italia unita, politicamente organizzata intorno alla
monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna con una propria storia
particolare, una propria lingua e una propria cultura. L'Italiano era solo
lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente francese e piemontese.
La gran parte della gente era analfabeta e quindi confinata nelle culture
particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci riferisce alla Nazione,
si intende una realtà che si è venuta costruendo nell'arco di circa un secolo
tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla base dell'ideologia politica di
Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che volle vivere insieme, per non
essere "calpesti e derisi", e lo eravamo perché non eravamo popolo,
perché eravamo divisi, proprio come si canta nell'inno nazionale. L'unità
culturale italiana fu conseguita però, veramente, solo nel secondo dopoguerra,
in particolare per le vie dell'istruzione pubblica di massa e di radio e
televisione. È a partire da questa epoca che veramente la Nazione si manifestò.
Ed è significativo l'abbandono dei progetti secessionistici che ebbero corso
negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai popoli ma tra i popoli italiani
ebbero un limitato seguito. Tuttavia ogni processo storico-culturale lascia
sempre qualche strascico. Togliere ai senatori la rappresentanza della
"Nazione" può essere considerato uno di essi. Proprio nella riforma
che si propone di fare del Senato una sede di "raccordo" (viene
utilizzato proprio questo termine, piuttosto criticato da alcuni esperti perché
non tecnico, impreciso) tra Stato e autonomie locali, si toglie dai riferimenti
ideali del nuovo Senato uno dei più potenti motori ideologici unificanti,
quello di Nazione come comunanza di storia di progressivo avvicinamento delle
diverse culture italiane e di pacifica e solidale convivenza.
Come si sentiranno, è stato osservato, nel
nuovo Senato gli ex Presidenti della Repubblica, il cui titolo di onore per
essere senatori è quello di aver rappresentato l'unità nazionale? E i cinque
senatori di nomina presidenziale per aver "illustrato la Patria"? Che
c'entreranno con gli altri senatori? Ma soprattutto che c'entra nel Parlamento
un gruppo di parlamentari che non ha più riferimento alla Nazione? Si è voluto
"raccordare" ma sembra, è stato osservato dai critici della riforma,
che si sia introdotto un forte elemento di potenziale divisione, nel cuore
della Repubblica.
- 5 -
Tempo per fare politica
Chi sostiene la recente riforma
costituzionale sulla quale, nel prossimo referendum di autunno, dovremo
pronunciarci, elenca, tra gli argomenti a favore, la riduzione di due terzi dei
senatori, da oltre trecento (compresi gli ex Presidenti della Repubblica
e i membri di nomina presidenziale) a cento, e il fatto che i senatori non
avranno stipendio per il loro lavoro parlamentare. In effetti i senatori
saranno eletti tra i consiglieri regionali e sindaci e avranno solo lo
stipendio che già spetterà loro negli enti locali di appartenenza. Sarà
difficile però non riconoscere loro un rimborso spese, in particolare per
quelli che risiedono fuori Roma. Li pagheremo meno, ma saranno, per così dire,
a mezzo servizio. Continueranno infatti ad essere consiglieri regionali e
sindaci e, cessando da quegli incarichi cesseranno anche di essere senatori.
Come si farà a sostituirli lo deciderà una futura legge. Sarebbe stato meglio
approvarla con la riforma costituzionale, per darci un'idea più completa della
nuova istituzione. Ci conviene avere, in un ruolo così importante gente a
mezzo servizio? Avranno il tempo sufficiente per occuparsi dello Stato e,
insieme, degli enti locali di appartenenza? Con un solo stipendio dovranno fare
un doppio lavoro. Ma ci daranno anche meno tempo.
La riduzione del numero dei parlamentari non
è, in sé, un fatto positivo. Significa meno gente che fa tirocinio nel servizio
parlamentare. Ma anche un servizio parlamentare meno intenso, visto che lo si
fa a mezzo servizio. E soprattutto con meno autonomia, visto che la
carica di senatore viene a dipendere, per i senatori elettivi, da come vanno le
cose negli enti locali di appartenenza. È un vantaggio, tenendo conto che i
senatori avranno voce in capitolo negli affari di stato più importanti, nella
nomina del Presidente della Repubblica e nella nomina dei giudici
costituzionali?
Occuparsi dello Stato richiede tempo.
Nell'antica Atene, dove originò la cultura democratica, solo gli uomini liberi,
la piccola minoranza dei cittadini che non lavoravano essendo i lavori
necessari alla vita quotidiana affidati alla grande maggioranza degli schiavi,
facevano politica. L'elevazione di tutti il popolo alla cittadinanza è
stato possibile solo con il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, che
hanno avuto tempo, istruzione e libertà per la politica. Ma la formazione di
una ceto di politici di derivazione popolare in Parlamento ha richiesto la
liberazione dei parlamentari da ogni altro lavoro al di fuori della politica
democratica: a questo servono gli stipendi dei parlamentari.
Suo sito www.camera.ti,, scheda
"documenti"' poi "temi dell'attività parlamentare" e
"il testo di legge della riforma costituzionale" trovate il testo
della riforma comparato con la Costituzione vigente, un sunto della riforma e
un commento articolo per articolo. Leggeteli tutti, cercate di comprenderli
bene, e vedete quanto tempi vi serve. Pensate quanto tempo ci è voluto per
ideare e scrivere la riforma. Sono cose che possiamo affidare a gente a mezzo
servizio?
I nuovi senatori finiranno per essere
parlamentari di complemento, ma potranno essere decisivi su questioni molto
importanti.
- 6 -
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento
- parte prima
Nel corso dei passati anni '90 si
cominciò a presentare il Parlamento come un'istituzione troppo affollata,
inutilmente complicata, troppo lenta nel decidere, troppo costosa, e i
parlamentari come un ceto parassitario. La ragione può essere individuata nel
degrado della politica che si era manifestato nel corso del decennio
precedente. Esso era dipeso fondamentalmente dalla degenerazione della politica
controllata dai partiti, che si presentarono platealmente, nel corso di
inchieste giudiziarie svolte con una certa sistematicità dal 1992, come minati
dalla corruzione. Essi infatti avevano preso a finanziarsi pretendendo una
quota del denaro pubblico erogato per appalti pubblici da chi aveva assunto gli
appalti. E influivano sulla scelta degli appaltatori, facendo preferire
illegalmente quelli che avevano accettato di versare quel tributo. I partiti
avevano preso consapevolezza di questi fatti molto prima che emergessero in
sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta si iniziò a parlare di "
questione morale" e si faceva riferimento proprio al fatto che i partiti
avevano iniziato a controllare a proprio beneficio, non nell'interesse
pubblico, ogni settore della vita nazionale in cui venivano spese risorse
pubbliche.
Ma la corruzione pubblica non fu l'unica
ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione del
sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella
contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le
istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più
forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un
potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di
partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in
particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza
dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi
della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena attuazione
dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica irriducibile,
colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti si opponevano a
tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una più attenta
selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli affari di
stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non ebbe lo
stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo
statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse
addirittura di una "fine della storia". In Italia l'idea di
sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle
ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le
basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo
corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la
formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche
formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo
ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università
religiose.
Che c'entrano i partiti con il Parlamento?
La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del progressivo minor
credito dell'istituzione tra la gente?
In realtà, nel sistema istituzionale
disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, approvata
dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori svolti dalla
metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era fondamentale per
realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico in cui le masse
avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il popolo che i
costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da individui
atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti, attraverso i
quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare la politica
nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano stati infatti
i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro l'ultimo
fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e ideologiche
della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere la
guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche le
basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e
proposte in seno ai partiti.
Il faticoso processo di elevazione del
popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso nei partiti di
popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di popolo, che si
proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo democratico fu una
conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata dal fatto che la
democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era stata un fatto
elitario, essenzialmente espressione di una borghesia illuminata, in una
situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del 10% della
popolazione.
Il primo grande partito politico di massa
italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza, la Chiesa
cattolica e fu antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale.
- 7 -
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento -
parte seconda
Ho scritto
di degrado della politica come origine della crisi dei partiti, trattando della
riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum, perché si tratta di
fatti collegati. Più precisamente, la riforma indebolisce il Parlamento come
espressione della sovranità popolare, in quanto istituisce un Senato come
espressione di un ceto politico di apparato, del governo locale. Può essere
considerata come un'eclisse del Parlamento. Essa è conseguita ad una crisi dei
partiti provocata dal degrado della politica.
L'affermazione della democrazia di popolo fu
storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei partiti di massa
e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi democratici.
Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che determinò
la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al popolo
collegata in maniera vitale.
Il primo partito politico italiano popolare,
di massa, fu la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come realtà di rilevanza
sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti dalla teologia.
Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa particolarmente come
fedeli e cittadini italiani.
Bisogna ricordare che la Chiesa cattolica
ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto
precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a
cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente,
dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente
politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più
feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento,
agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli
solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per
accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si
strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa
configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur
dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo
(1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in
concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano
e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento,
quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo
piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri
sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del
laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per
sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle
loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di
movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito
politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera
dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del
Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo
molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a
favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioacchino
Pecci, diffusa nel 1891, fu il suo manifesto ideologico. Essa è tutta in
polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando loro una copertura teologica,
molti degli ideali. In particolare diede il via libera all'attivismo sociale
nelle masse con finalità di elevazione sociale.
Altri partiti di massa furono il Partito
socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia mazziniana,
fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse il divieto
per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale nell'attività
parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don Luigi Sturzo
e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati il Partito
Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati
all'esperienza socialista, in quanto il primo originò per scissione dai
socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi
esponenti del socialismo italiano, il suo "Duce", vale a dire
il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942,
sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani
intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in
particolare nella FUCI (gli universitari cattolici), nel Movimento Laureati
e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia Cristiana, la
quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali esponenti. Infine, nel
1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista fondarono il Movimento
Sociale Italiano, partito che ebbe un seguito popolare significativo, in
particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito cittadino, e che, pur
nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi della nuova
democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo storico, in
particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un Governo
nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale basata
sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista, un
ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il
conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
Ecco dunque descritti i principali attori
dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del secolo
scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul
Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni
Novanta. La recente riforma costituzionale può essere considerata una
manifestazione di questa crisi. Essa infatti allontana il popolo dal Parlamento
introducendo in quest'ultimo un'anomalia, elevando alla sovranità esponenti
politici locali svincolati dal dovere di considerare, nell'occuparsi delle
questioni di stato, gli interessi della Nazione.
- 8 -
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento -
terza parte
Per
valutare la recente riforma costituzionale occorre avere a portata di
mano il libro di storia dell'ultimo anno delle scuole superiori: infatti essa
scaturisce, come tutti i fatti politici, da un lungo processo storico e
sociale, che per chi ha meno di cinquant'anni è iniziato prima della sua
partecipazione consapevole alla vita civile. Non basta quindi leggere e cercare
di capire i quarantuno articoli della legge costituzionale di riforma e
confrontare la Costituzione vigente con quella progettata. E non basta neanche
cercare di immaginare come funzionerà la nuova Costituzione. Poiché la riforma
scaturisce da un processo storico, le cose tenderanno ad evolvere nella
direzione che hanno preso, salvo che si decida di correggerne il movimento, ciò
che appunto si può fare nel prossimo referendum costituzionale, che si terrà il
prossimo 4 dicembre. E' necessario quindi comprendere il senso del movimento in
atto.
La riforma incide profondamente nella
struttura della Repubblica, in particolare in quella del Parlamento e delle
autonomie locali, ma ha riflessi importanti anche sulla Presidenza della
Repubblica e sulla Corte Costituzionale. E i principi costituzionali sono
sostanzialmente nelle mani di chi svolge quelle funzioni, o nella fase
normativa o in quella attuativa.
Il processo storico dal quale è scaturita la
riforma è quello di una crisi della politica. La riforma ne è il rimedio o una
delle manifestazioni?
La politica italiana è entrata in crisi
negli scorsi anni '70.
Nel secondo dopoguerra si era prodotto in
Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione
economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro.
Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a
favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del
partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della
Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche
movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le
tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un
improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi
per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni
colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i
partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di
provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine
d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di
società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti
di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro
politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito
Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più
autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece
degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in
termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si
produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una
conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo
bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di
governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che
forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le
comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva
nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso
della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a
costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era
quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di
formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di
consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso
politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato
preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso"
elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza
parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti
i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati
dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita
dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in
un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa
non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione
che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le
realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
L'attuale riforma costituzionale si inserisce
nei tentativi di rendere il governo più indipendente dalla base sociale,
realizzando così quella "governabilità" di cui si iniziò a discutere
molto nel corso degli anni '80, in particolare sulle sollecitazioni del
politico di governo più connotante quel periodo storico, il neo- socialista
Bettino Craxi. Essa va letta insieme alla recente riforma del sistema
elettorale della Camera dei Deputati, che consente alla formazione politica che
"vince" le elezioni, raggiungendo anche solo una maggioranza
"relativa", vale a dire inferiore al 50%, ed essendo preferita nel
"ballottaggio" tra le due formazioni che hanno avuto il maggior
numero di voti, di avere una solida e sicura maggioranza parlamentare,
sufficiente anche per modificare la Costituzione.
Negli anni della Repubblica democratica,
caratterizzati da intensi scontri ideologici e politici, il Parlamento, con le
sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si attendeva, vale a dire ha
garantito la stabilità democratica, nella progressiva attuazione della Costituzione,
pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il sistema fu "bloccato"
fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i partiti che si riconoscevano
nell'ideologia dell'Occidente democratico e capitalista avevano convenuto di
lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i suoi legami culturali con il
fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano, per quelli con l'Unione
Sovietica, fuori delle coalizioni di governo. Tuttavia il lavoro
parlamentare aveva consentito di accogliere, traducendole in norme di legge,
alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione comunista e di dare
comunque voce a quella "missina" ( come venivano chiamati gli
aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle attese aveva
riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera
"alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno
Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come
l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva
garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli
anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i
candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come
membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini
nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva
rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il
Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, anche se i
costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di
specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice
"doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu
mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la
viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica",
che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al
governo e, insieme, la politica parlamentare iniziò ad essere considerata una
perdita di tempo.
- 9 -
Degrado della politica e degrado del parlamento -
parte quarta
Coloro che
condividono la riforma costituzionale, sulla quale il prossimo 4 dicembre
dovremo decidere come cittadini in un referendum, sostengono che essa ridurrà i
costi dell'attività parlamentare e che renderà più veloce il procedimento
legislativo. Sono questi i soli argomenti che dovrebbero indurci a dare il
nostro consenso alla riforma? In realtà la riduzione dei costi si limiterà agli
stipendi dei nuovi senatori, che però saranno, per così dire, a mezzo servizio,
perché dovranno occuparsi anche di altro. Sarà difficile però non riconoscere
loro rimborsi spese e indennità di partecipazione ai lavori parlamentari, in
particolare per quelli che non risiedono a Roma. Il Senato non viene abolito e
richiederà l'impiego dei dipendenti che attualmente vi prestano servizio, così
come di disporre degli immobili, molti di gran pregio e quindi di costosa
gestione, in cui ha sede. Quanto alle procedure parlamentari, le nuove norme
contemplano molti e importanti casi in cui le due Camere esercitano
collettivamente la funzione legislativa e inoltre è previsto che il
Senato possa richiedere modifiche ai disegni di legge approvati dalla Camera
dei Deputati, con necessità, in questi casi, di tre delibere parlamentari
(Camera dei Deputati>Senato>Camera dei deputati, in via definitiva).
Infine la formulazione dell'elenco delle materie di competenza legislativa
bicamerale appare imprecisa e lascia molti margini di dubbio, per cui si può
immaginare un contenzioso costituzionale in merito. Insomma, quanto a costi e a
velocità del procedimento legislativo i vantaggi non appaiono poi così
eclatanti. Come controindicazioni vi sono il fatto che i nuovi senatori non
saranno eletti dal popolo, ma dalla classe politica locale, che ha manifestato
molti problemi di adeguatezza negli anni passati, ed inoltre il fatto che
saranno parlamentari a mezzo servizio con la conseguente difficoltà a
impratichirsi nelle questioni di stato e di sviluppare reti di relazioni con i
colleghi e l'assai problematica rappresentatività delle autonomie locali
regionali di rispettiva appartenenza, tenuto conto che i nuovi senatori
lavoreranno senza vincolo di mandato e anche in considerazione della procedura
per la loro elezione (non è detto infatti che siano scelti gli esponenti
dai quali dipende l'indirizzo politico delle autonomie regionali),
Alle obiezioni che precedono, i fautori
della riforma riconoscono i difetti della riforma segnalati, ma ritengono che
sia stato comunque un grande risultato abolire il Senato come è attualmente.
Eppure l'esperienza costituzionale dal 1948 dimostra che il Parlamento
bicamerale così com'è oggi ci ha consentito di superare molte brutte
esperienze, tempi difficili. I regolamenti parlamentari e la tradizione
parlamentare, che si è tramandata da ufficio di presidenza ad ufficio di
presidenza, hanno consentito di affinare i procedimenti legislativi, risolvendo
nella pratica molte questioni controverse. Sostituire a ciò che c'è e funziona
norme che gli stessi loro artefici riconoscono per lo meno come perfettibili,
costituisce un bel rischio. Ma è poi vero che il problema che ha oggi la
politica risiede nel bicameralismo "perfetto", in un Parlamento con
due Camere che fanno le stesse cose e che per produrre leggi devono approvare
testi normativi identici? La mia tesi, basata innanzi tutto sulla mia
esperienza di cittadino, è che non è così. Il principale problema della
politica è il suo progressivo degrado e, quando parlo di politica, non mi
riferisco solo a quella espressa dalla classe dei politici, ma innanzi tutto
alla politica che è manifestata, consapevolmente o non, da noi cittadini.
Questa è una storia molto più lunga e complessa e, innanzi tutto, è storia.
A che servono gli anziani, dei quali dal
gennaio prossimo inizierò a fare parte raggiungendo i sessant'anni? Servono
proprio a fare memoria della storia dei quali sono stati partecipi e
responsabili.
Scrivendo di storia, ho accennato agli anni
'70 e '80, dove risiedono gli inizi del degrado della politica di oggi. Il
mondo, e anche l'Italia, cambiò improvvisamente tra le elezioni politiche
italiane del 1987 e del 1994...
- 10 -
Degrado della politica ed
eclisse del Parlamento - parte quinta
Com'è che, cercando di ragionare sulla
recente riforma costituzionale per arrivare preparato al prossimo referendum
che si farà per decidere se bloccarla o farla diventare parte della
Costituzione, ho cominciato a scrivere del degrado della politica e di
educazione alla democrazia? È perché sono argomenti collegati e la riforma
costituzionale è concepita anche come una soluzione al degrado della politica
democratica. È la soluzione giusta o essa stessa è manifestazione di quel
degrado?
Che cosa è la democrazia e, in particolare,
la democrazia di popolo che si è voluto attuare con la Costituzione
repubblicana progettata e approvata dai membri dell'Assemblea Costituente tra
il 1946 e il 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948? Sarebbe importante
discuterne in parrocchia, nel quadro di attività di autoformazione alla
politica democratica. E questo perché la Chiesa cattolica è oggi in Italia
uno dei più importanti attori politici e l'unico ad aver mantenuto
un'organizzazione di educazione alla politica analoga a quelle dei partiti
politici "forti" e "solidi" che ebbero corso in Italia fino
alla fine degli anni '80, quando il mondo improvvisamente cambiò.
Si sostiene che democrazia è quando decide
la maggioranza, ma, in realtà, nella concezione contemporanea e, in
particolare, nelle democrazie popolari è molto più di questo: è un sistema
molto esteso di valori e di procedure che servono a proteggerli e che
impediscono quello che fu definito fin dal Settecento, agli albori del pensiero
democratico moderno, il "dispotismo" delle maggioranze. Tra i valori
più importanti e fondativi vi è quelli della partecipazione di tutti, e di
ognuno, alla sovranità, vale a dire alle decisioni più importanti per una
collettività, anche quando si tratta di vita o di morte. In una democrazia di
popolo si vorrebbe che tutti, e ognuno, fossero re: questo richiede di essere
re giusti, non come gran parte dei re della storia dell'umanità, che furono dei
despoti e predarono e mantennero il potere con l'arbitrio e la violenza,
pretendendo anche di sacralizzare il loro potere di despoti. La via della
democrazia come oggi la concepiamo e uno sforzo per essere virtuosi, che si
vorrebbe coinvolgesse tutti. Nell'antichità si pensò invece che la democrazia,
proprio perché "potere di tutti", quindi espressione delle masse, non
fosse la migliore forma di organizzazione politica perché le masse non sanno
essere virtuose. Si pensò che lo stato dovesse essere diretto da
"illuminati", che si ritenne di volta in volta di individuare nei
filosofi, in certi sovrani, in certi capi religiosi ai quali si volle
riconoscere la virtù soprannaturale dell'infallibilità. La democrazia moderna
sorge quando si ritenne possibile "illuminare" le masse. Essa ne
richiede l'elevazione e questo fu uno di principali obiettivi sia del socialismo
storico che della dottrina sociale. Zagrebelsky nel libro "La difficile
democrazia" critica questo obiettivo, perché in tal modo il potere non
sarebbe più in mano al popolo, ma, con pretesto di fare gli interessi del
popolo, in mano, di nuovo, a un gruppo di sedicenti "illuminati".
Su questo non mi sento di poter essere d'accordo con lui. E questo sulla
base innanzi tutto della mia storia personale di cittadino: non si è cittadini
"democratici" per natura, anzi è il contrario. Come scrisse
pessimisticamente il grande giurista romano Marco Tullio Cicerone nel suo libro
intitolato "Lo Stato", la gente, specie se inserita in una massa di
individui, può assumere aspetto e abitudini di belva. E dalle belve noi tutti,
in fondo, discendiamo. La democrazia è una faticosa conquista culturale e un
fatto sociale, per cui ognuno, nello sforzo per attuarla, deve sentirsi maestro
e discepolo. In questo consiste l'autoformazione. È impegno di illuminazione
interiore che, in un certo senso, richiede di emanciparsi dagli "illuminati"
che pretendano di avere il monopolio della dottrina democratica. In questo
senso è anche azione di liberazione. Questa la rende sospetta ai gerarchi
sociali in carica.
- 11 -
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento -
parte sesta
Il nuovo art.57 della Costituzione, sostituito
dalla legge costituzionale che entrerà in vigore se al prossimo
referendum costituzionale i Sì saranno più dei No, prevede che il Senato sia
composto da novantacinque membri (ora i senatori elettivi sono trecentoquindici)
nominati dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle Provincie autonome
di Trento e di Bolzano scegliendoli, su base regionale, tra i consiglieri
regionali e i sindaci. A questi si aggiungono cinque senatori che il Presidente
della Repubblica può nominare scegliendoli tra i cittadini che abbiano
"illustrato la Patria" e che durano in carica sette anni, senza
possibilità di nuova nomina, ( ora è prevista la nomina di cinque senatori a
vita) e gli ex Presidenti della Repubblica (che rimangono gli unici senatori a
vita, unitamente ai senatori a vita di nomina presidenziale in carica al
momento di entrata in vigore della riforma). I senatori eletti tra i membri
degli enti locali e i nuovi senatori di nomina presidenziale non avranno
stipendio. A parte gli ex Presidenti della Repubblica, i nuovi senatori saranno
a mezzo servizio, perché quelli scelti negli enti locali dovranno anche fare il
loro lavoro di consiglieri regionali e di sindaci e quelli di nomina
presidenziale avranno il proprio lavoro, a meno che non siano scelti tra i
pensionati. I senatori scelti tra i membri di enti locali dureranno in carica
quanto i relativi consigli regionali e comunali. Se cesseranno di essere
consiglieri regionali o sindaci decadranno anche dalla carica di senatori. Le
modalità di elezione dei senatori scelti tra i consiglieri regionali e i
sindaci saranno stabilite da una futura legge approvata da entrambe le Camere.
La deliberazione delle due Camere del
Parlamento, quindi della Camera dei Deputati e del Senato, sarà necessaria,
come ora, per molti tipi di leggi, in particolare per quelle più importanti e
riguardanti i massimi principi della Repubblica, come le leggi di revisione
della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per quelle concernenti l'ordinamento
degli enti locali e, soprattutto, per quelle che riguardano i rapporti tra la
Repubblica e l'Unione Europea e l'attuazione della normativa europea, vale a
dire, si è stimato, circa il 70% delle leggi dello Stato. In queste decisioni i
senatori però non rappresenteranno la Nazione, come è scritto per i deputati,
ma le "istituzioni territoriali". Però decideranno senza vincolo di
mandato, vale a dire che non saranno semplici portavoce degli enti locali di
appartenenza. Dovrebbero "raccordare" lo Stato e gli "altri
elementi costitutivi della Repubblica". Ma come assicurarsi che questo
raccordo si effettivo? E se ad un certo punto decidessero di fare di testa
propria? Ed è possibile occuparsi degli affari di stato senza tener conto della
Nazione?
L'idea che senatori a mezzo servizio,
eletti a suffragio ristretto da membri di altri organi pubblici e non
direttamente dal corpo elettorale, potessero andare bene per occuparsi degli
affari di stato al massimo livello sarebbe apparsa stravagante in altre ere
della storia della Repubblica. Ad certo punto gli stessi riformatori
costituzionali hanno avuto qualche remora e hanno introdotto nel nuovo testo
dell'art.57 della Costituzione un quarto comma in cui, in un testo zoppicante
dal punto di vista sintattico, sembra che i consiglieri regionali destinati ad
essere eletti senatori debbano essere indicati dal corpo elettorale in
occasione della loro nomina a consiglieri regionali. Ho scritto
"sembra", perché il testo non è chiaro e, soprattutto, non dà un'idea
di come sarà la procedura di scelta dei nuovi senatori in modo da tener conto
della volontà del corpo elettorale. Tutto è rinviato a una legge ordinaria.
Quel comma è stato introdotto per realizzare un accordo politico con chi voleva
che, nella scelta dei nuovi senatori, si tenesse conto della volontà del
cittadini. Il testo costituzionale poco chiaro si rifletterà sul giudizio di
costituzionalità della nuova legge elettorale sul nuovo Senato, rendendolo
problematico.
Per inciso: le norme costituzionali dovrebbero
essere scritte in modo chiaro, in buona lingua italiana sotto il profilo
sintattico e grammaticale. La legge di riforma costituzionale oggetto del
prossimo referendum non sembra essere stata sottoposta a revisione sotto questo
aspetto, come invece lo fu il testo della Costituzione repubblicana entrata in
vigore nel 1948. Anche la cattiva qualità sintattica e grammaticale delle norme
può essere considerata una manifestazione del degrado della politica.
Concepire i consigli eletti dal corpo
elettorale come istituzioni inutili, dispendiose e fonti di complicazioni
ingiustificate è un'altra manifestazione del degrado della politica
democratica. In parte si tratta di pregiudizi ingiustificati, in parte della
constatazione del reale scadimento del personale della politica. Si tratta di
un fenomeno che può ricondursi alla crisi della forma sociale dei partiti
politici che, originata verso la metà degli anni '70, è giunta ad uno stadio
per così dire terminale a seguito della riforma della legge elettorale del 2005
( quella che ha previsto liste bloccate ed elevato premio di maggioranza alla
coalizione vincente), dichiarata incostituzionale nel 2014 sia con riferimento
al premio di maggioranza sia in quanto negava ai cittadini elettori la
possibilità di esprimere preferenze per i candidati. La crisi ha cominciato a
prodursi al momento del passaggio del controllo della politica democratica
dalla generazione che aveva partecipato alla Resistenza contro il fascismo
storico e l'occupazione nazista alle generazioni successive di politici. Ha
trovato storicamente terreno fertile tra i partiti di governo nel potere sul
sistema, un tempo molto più vasto di oggi, delle industrie pubbliche, gestite
direttamente o mediante partecipazione al loro capitale sociale. Non ha riguardato
solo il personale politico, ma anche il corpo elettorale. Il consenso politico
iniziò ad essere contrattato sulla base delle elargizioni fatte alle diverse
categorie sociali, le cui pretese sono andate crescendo. I partiti politici
iniziarono a prelevare una quota crescente di denaro pubblico come pezzo della
mediazione sociale. Il personale della politica iniziò ad essere
autoreferenziale, perdendo il contatto vitale con, le formazioni sociali dalle
quali era emerso: iniziò a concepire sé stesso come un insieme di
"tecnici" della politica, quasi al modo dei "manager", dei
capi delle imprese industriali, e a pretendere corrispondenti gratificazioni
economiche. Si produsse in tal modi una crisi di legittimazione della politica,
fatta, di disprezzo reciproco tra cittadini e personale della politica, che i
sociologi iniziarono a segnalare a partire dagli anni '80. In quel decenni si
tentò di porvi rimedio occupandosi nuovamente di formazione alla politica:
furono gli anni delle "scuole di politica" (famosa quella creata in
Sicilia dai padri gesuiti Pintacuda e Sorge). A cavallo tra gli anni '80 e '90
i partiti politici italiani cambiarono volto a seguito del crollo del comunismo
sovietico e della fine della "guerra fredda" a sfondo ideologico tra
gli alleati degli statunitensi e gli alleati dei sovietici. Il Partito
Comunista Italiano, storicamente legato al comunismo sovietico, cambio nome e
struttura, completando la sua trasformazione in partito di tipo occidentale e
rinunciando alla sua particolare diversità ideologica. Correlativamente, si
trasformarono anche i partiti che gli si opponevano, in particolare la
Democrazia Cristiana, partito-federazione di molte componenti eterogenee che
presero a dividersi. In quella fase emerse in sede giudiziaria l'immane
corruzione della politica organizzata dai partiti. Ciò accrebbe enormemente il
discredito di questi ultimi, che divennero instabili e più simili a comitati
elettorali catalizzati da singole personalità. Venute meno molte delle risorse
di un tempo, alcuni dei maggiori partiti entrarono in crisi economica e
dovettero chiudere le loro grandi sedi e licenziare gran parte del loro
personale, a favore del quale nel 1993 vennero anche disposti ammortizzatori
sociali. Il collegamento con la base sociale di cittadini si fece episodico,
generalmente solo in occasione delle elezioni. Conseguito il risultato
elettorale, chi aveva "vinto" si aspettò di avere le mani libere fino
alle successive elezioni. A quel punto, concentrata la direzione politica intorno
alle segreterie nazionali dei partiti si perse il senso dell'utilità
degli organi collegiali elettivi, vista la sempre più ridotta autonomia
degli eletti, i quali sempre più spesso vennero scelti per il loro potenziale
richiamo verso gli elettori, ad esempio tra il personale dello spettacolo, a
prescindere dal loro legame vitale con i cittadini e della reale disponibilità
di tempo per la politica.
La prima manifestazione di politici a mezzo
servizio si ebbe, tra il 2011 e il 2015, con l'abolizione dei consigli provinciali
eletti dai cittadini, sostituiti da consigli eletti dai sindaci e dai
consiglieri comunali dei comuni compresi nella provincia. Per le 14 città
metropolitane che sostituirono altrettante province, nelle province in cui
erano comprese le più grandi città italiane, si provvide nello stesso modo. Con
la legge di revisione costituzionale oggetto di referendum anche le residue
province verranno soppresse e le loro funzioni sono destinate ad essere svolte
da città metropolitane.
Con la riforma del senato si è seguita la
stessa logica.
Come per province e città metropolitane si
avrà una riduzione del personale della politica e politici che dovranno
occuparsi contemporaneamente di problemi su scala diversa. Questo può essere
considerato un vantaggio solo se si pensa che la politica non sia redimibile,
che non possa recuperare un rapporto vitale con i cittadini e che meno politici
ci sono meglio è. In questo modo però la politica diventerà sempre più
questione di apparato, autoreferenziale. Verrà ridotta l'autonomia del
personale della politica, che dipende dall'esistenza di quel rapporto vitale.
Le organizzazioni di partito e le stesse istituzioni pubbliche di derivazione
elettiva diverranno sempre più simili alle organizzazioni delle imprese
industriali, in cui sono egemoni le oligarchie dei dirigenti d'azienda, che
pretendono di essere obbediti. Come faranno i cittadini, a prescindere dagli
eventi elettorali, a concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale, come prevede L'art.49 della Costituzione? E, soprattutto lo
vogliono ancora fare?
- 12 -
Il Senato come imputato
Dietro la riforma costituzionale vi è l’accusa al Senato di
costituire un inefficiente, inutile e costoso fattore di rallentamento
dell'attività parlamentare. Questa è l'accusa che, secondo gli ideatori e i
fautori della recente riforma costituzionale, ne ha comportato, come urgenza
prioritaria, la metamorfosi (non l'abolizione).
Una delle qualità più apprezzabili in chi fa
politica è una certa veridicità nell'esporre i propri programmi.
Può sembrare ovvio raccontarla giusta agli
elettori, ma se consideriamo le vicende della nostra vita privata possiamo
convincerci facilmente del contrario. Molto spesso prima prendiamo una certa
decisione e poi cerchiamo di giustificarla di fronte al prossimo che ce ne
chiede ragione. A volte accade che anche i politici facciano così.
Di fronte alle accuse mosse al Senato
dovremmo cercare di immedesimarsi nel lavoro di un giudice, che vaglia con
imparzialità gli argomenti, cercando di capirne il fondamento, non
determinandosi per sentito dire, superficialmente, o per simpatie o fedeltà
personali.
È fondata l'imputazione?
E la soluzione proposta è adeguata a
risolvere il problema?
Quando il Senato com'è organizzato
attualmente è stato d'impaccio alla realizzazione delle più importanti riforme
della Repubblica? Quando si cerca di andare nei particolari, di ricevere
risposte precise, non se ne esce mai soddisfatti. In effetti dagli anni '90
l'Italia è cambiata moltissimo mediante riforme legislative prodotte da
Parlamento com'è ora. Da un'economia controllata in larga parte dallo Stato si
è passati ad una privatizzazione spinta. Il sistema elettorale per il
Parlamento è cambiato non una, ma due volte. Non c'è stato praticamente nessun
settore delle attività pubbliche e della vita sociale su cui non abbiano inciso
leggi approvate dal Parlamento com'è ora. Ad esempio è stato abolito il
servizio militare di leva, sono cambiate le norme in materia di igiene e
sicurezza del lavoro, quelle in materia di ambiente, in materia di commercio e
industria, quelle in materia di formazione del bilancio dello stato, quelle in
materia di banche e assicurazioni, quelle in materia di adozione, stato
giuridico dei figli e poteri e responsabilità dei genitori e via seguitando,
fini all'approvazione di due riforme fortemente controverse come quelle sulla
disciplina dei contratti di lavoro, detta "Jobs act" e quella sulle
unioni civili delle persone omosessuali e sulle convivenze. Sono state anche
approvate due importanti ed estese leggi di modifica della costituzione, nel
2001 e nel 2006, entrambe sottoposte a referendum costituzionale, con esito
positivo per la prima e negativo per la seconda. La riforma del 2006,
bocciata nel referendum costituzionale, prevedeva un senato
"federale", con competenze limitate a certe materie che riguardavano
le autonomie locali, che possiamo considerare il modello della riforma sulla
quale si svolgerà il prossimo referendum costituzionale. Nel sistema ideato nel
2006 i senatori erano però eletti direttamente dal corpo elettorale, anche se
contemporaneamente all'elezione dei consiglieri regionali. E, con scelta più
coerente dal punto di vista logico-istituzionale, si prevedeva, una volta
trasformato il senato in una "camera delle autonomie locali", che i
"senatori a vita" divenissero "deputati a vita". Dunque il
Parlamento com'è ora non ha impedito di cambiare l'Italia per via legislativa.
Ha certamente impedito, in particolare nel corso dei lavori delle Commissioni
bicamerali a cui si vollero affidare poteri in qualche modo simili a quelli
dell'Assemblea costituente del 1946, che la Costituzione fosse riformata in
senso sostanzialmente presidenziale, secondo il desiderio di alcune parti
politiche. Ma possiamo considerarla una colpa? Dal 1990,comunque, i poteri del
Consiglio dei ministri e dei singoli ministri sono stati comunque notevolmente
incrementati, sia prevedendo che il dettaglio delle maggiori riforme fosse
deciso dal Governo, all'interno di principi generali dettati dal Parlamento con
leggi delega, sia attraverso una estesa opera di "delegificazione",
affidando ai poteri normativi del Governo, attuati con regolamenti, materie che
prima erano regolate da leggi dello Stato.
Ragionando sugli argomenti che ho sopra proposto,
come trovate il Senato: colpevole o innocente?
Concludo osservando che può essere
individuata facilmente una ragione di marcata inimicizia tra i Governi, di
opposta tendenza, succedutisi dal 1994 ad oggi e il Senato com'è ora. Il
motivo risiede proprio nel fatto che il Senato non è un "doppione"
della Camera dei deputati: a causa della sua elezione su base regionale, ha
prodotto, sia vigente la legge elettorale proposta dall'allora deputato
Mattarella con cui votammo dal 1994, sia vigente quella proposta dal senatore
Calderoli con cui abbiamo votato dal 2008, forze parlamentari leggermente
differenti tra Camera dei deputati e Senato. Proprio come i Costituenti avevano
voluto e previsto, Con la conseguenza che i Governi hanno avuto più difficoltà
ad ottenere la fiducia e a far approvare i loro disegni di legge in Senato.
Questo ha costretto i Governi a trattative per cercare di consolidare e
allargare le loro maggioranze parlamentari, facendo concessioni nel
quadro di questi accordi. Questo inconveniente (dal punto di vista governativo
naturalmente), sicuramente si è verificato: ma lo possiamo veramente
considerare un male? Non si è trattato semplicemente del fatto che il
Senato ha svolto la funzione che i Costituenti del '46/'47 gli avevano assegnato,
vale a dire di essere un limite a governi tendenzialmente troppo
autosufficienti e di garantire una migliore ponderazione dei temi in
discussione e delle decisioni proposte?
Il nuovo Senato non avrà più la funzione di
votare la fiducia ai Governo. Un impedimento di meno dal punto di vista
governativo. I Governi, sula base della nuova legge elettorale per la Camera
dei deputati approvata l'anno scorso, potranno contare su una solida
maggioranza nelle questioni in cui è implicata la "fiducia", anche se
dovessero essere espressione di un singolo partito che non riesca ad ottenere
la maggioranza assoluta dei voti, ma almeno il 40% dei voti, una maggioranza
"relativa". Nel nuovo Senato, comunque, a causa della procedura di
nomina dei suoi membri, è prevedibile un risultato simile: i nuovi senatori
saranno prevalentemente espressione della maggioranza in Consiglio regionale.
Non sappiamo se e in che modo le minoranze potranno avere comunque una loro
rappresentanza: la legge che disciplina i dettagli della elezione dei nuovi
senatori ancora non c'è. Quindi un risultato sicuramente sarà conseguito con la
riforma costituzionale: un rafforzamento della posizione dei governi. Dopo le
elezioni non solo si saprà subito chi ha vinto, ma anche chi governerà e sarà
più difficile per i cittadini condizionare democraticamente l'azione di
governo. I governi avranno quindi le mani più libere. Governi con le mani più
libere potrebbero trasformare a loro immagine e somiglianza le istituzioni
chiave dello Stato. È un'opportunità o un rischio? Abbiamo avuto presidenti del
Consiglio dei ministri della levatura di De Gasperi e di Moro, ma siamo anche
la nazione in cui fu capo del Governo Mussolini. E qualche lezione sul tema
potremmo trarre dalla storia politica degli ultimi venti anni, in cui il
Parlamento, nelle sue due Camere, ha avuto un ruolo molto attivo nel sindacare
l'azione governativa.
- 13 -
Ho conosciuto uno dei nuovi Padri Costituenti
Su un
numero del settimanale L'Espresso si è
scritto di uno dei nuovi Padri Costituenti, uno degli artefici della riforma
costituzionale sulla quale saremo chiamati a pronunciarci come cittadini in un
referendum, ed è un professore universitario che fu presidente della FUCI,
l'organizzazione degli universitari cattolici dei miei tempi di gioventù: lo
conobbi allora e l'ho incontrato nuovamente in eventi organizzati dal MEIC, il
Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, come si chiama ora l'antico
Movimenti Laureati. È un po' più giovane di me. Negli anni '80 in FUCI si
discuteva di una "nuova" politica. Il suo impegno è stato quello di
una vita. È stato anche parlamentare, senatore.
Un po' meglio ho conosciuto altri due
antichi fucini, che furono rispettivamente presidente della FUCI e condirettore
di "Ricerca" nei miei tempi da universitari e che ora sono
rispettivamente senatore e deputato. Hanno avuto un ruolo importante
nell'elaborazione e approvazione della recente riforma costituzionale. Con il
secondo partecipai, all'inizio degli anni '80, alla fondazione di un gruppo
politico di giovani cattolici catalizzati da Paolo Giuntella, un giornalista
che fu uno straordinario formatore di coscienze giovanili. All'inizio fu
chiamato "setta" e poi "Rosa Bianca", richiamandosi
all'omonimo gruppo di resistenti tedeschi sotto il regime nazista, ed esiste
ancora. Organizza scuole di politica. Le prime, a cui partecipai, furono a
Limone sul Garda e a Malcesine. Io poi smisi di frequentare quel gruppo, per il
dovere di imparzialità inerente all'ufficio pubblico che presi a svolgere dall'
'85.
Quei tre antichi fucini sono a favore della
riforma costituzionale, della quale, a diverso titolo, sono stati tra gli
artefici.
Ho ricordato quelle biografie per
evidenziare una continuità di impegno politico democratico che è andata
dall'esperienza fucina, e la FUCI all'epoca era ancora una organizzazione di
Azione Cattolica, alla politica parlamentare. L'Azione Cattolica fu anche
scuola di politica democratica e, soprattutto, sede di tirocinio democratico.
Fu in FUCI che quei Padri Costituenti di oggi iniziarono, ad esempio, a
organizzare e a presiedere assemblee deliberanti, a scrivere regolamenti e
statuti, a dirigere amministrazioni, ad avere relazioni internazionali con
altre organizzazioni giovanili simili.
Mi stupisce sempre chi propone di insegnare
ad occuparsi di "bene comune" senza far svolgere tirocinio
democratico, gestendo tutto da autocrate. E, a ben vedere, purtroppo questo è
in genere il modo in cui lo si fa in molte parrocchie. Individuare e promuovere
il "bene comune" richiede processi democratici e la democrazia la si
impara studiando ma soprattutto facendone tirocinio. La democrazia è una
conquista culturale, non si è democratici "per natura". È stata una
conquista culturale (recente) anche nelle nostre organizzazioni religiose,
nelle quali se ne continua comunque a diffidare. E per questa diffidenza che
non se ne consente il tirocinio, quindi di metterla in pratica e ciò anche nei
processi decisionali in piccoli gruppi. Affidare il potere al
"popolo" è ancora considerato rischioso. Perché il popolo che
si ha intorno non appare ancora pronto a ragionare in termini di bene comune.
Ma soprattutto perché sembra troppo superficiale, volubile e influenzabile dal
punto di vista ideologico. E in religione la teologia corrente ci spinge a dipendere
da "pastori", Però poi si tralascia di lavorare per elevarlo alla
democrazia. Che quindi rimane sempre una "difficile democrazia", il
titolo di un bel libro divulgativo di formazione alla democrazia scritto da
Gustavo Zagrebelsky nel 2010 e disponibile anche come e-book. Ve lo consiglio.
Lo stesso autore ha pubblicato quest'anno anche un libro sulla recente riforma
costituzionale: "Loro diranno, noi diciamo", edito da Laterza: l’ho
letto e l’ho trovato un ottimo strumento per informarsi. Entrambi i testi sono
disponibili su e-book: acquistandoli in questo formato, li potrete leggere
anche su un telefono cellulare avanzato, uno smart phone.
14
Un Senato depotenziato: farà meno cose, ma quelle che farà saranno
quasi tutte le stesse della Camera dei Deputati
1. Una delle critiche al Parlamento com'è ora è
che è composto di due Camere, la Camera dei Deputati e il Senato, che fanno le
stesse cose.
Con la riforma costituzionale approvata
quest'anno ( dal Parlamento com'è ora), la situazione cambierebbe?
Sì e no.
È vero che, nel Parlamento riformato, il
Senato farebbe meno cose della Camera dei Deputati, ma le cose
che farebbe sarebbero le stesse della Camera dei Deputati,
salvo, principalmente, tre: l'elaborazione e approvazione (con delibera
dell'assemblea del Senato) del proprio regolamento (che stabilisce le procedure
parlamentari e altro), la richiesta di modifica a leggi approvate solo dalla
Camera dei Deputati e l'elaborazione e presentazione (anche in questi
casi con delibera dell'Assemblea del Senato) di disegni di legge alla Camera
dei Deputati. La maggior parte di queste attività, e in particolare quelle più
importanti, sarebbero svolte dal nuovo Senato, come ora, collettivamente con
la Camera dei Deputati, quindi con necessità di deliberazioni conformi del
Senato e della Camera dei Deputati. In nessuna delle materie attribuite dalla
riforma costituzionale alla legislazione statale il Senato delibererebbe senza
il concorso della Camera dei Deputati, anche se quest'ultima in alcune potrebbe
deliberare senza il concorso del Senato, il quale tuttavia potrebbe richiedere,
con propria deliberazione assembleare, modifiche, sulle quali la Camera dei
Deputati dovrebbe effettuare una ulteriore deliberazione, pronunciandosi in via
definitiva.
Di seguito riassumo le varie funzioni che
la Costituzione riformata attribuirebbe al nuovo Senato.
Vi invito a verificare personalmente la
correttezza della mia esposizione, utilizzando i testi della Costituzione
attualmente vigente e di quella riformata che potete leggere accostati, in
quella che viene definita "sinossi", per un più agevole confronto,
nel documento in formato PDF pubblicato sul sito WEB della Camera dei Deputati,
nella sezione "Documenti", sottosezione "riforma costituzionale".
2. Dunque il nuovo Senato delibererebbe
collettivamente con la Camera dei Deputati su:
- leggi di revisione costituzionale e altre leggi
costituzionali,
- leggi attuative delle disposizioni
costituzionali riguardanti le minoranze linguistiche, i referendum popolari e
le altre forme di consultazione popolare previste dalla Costituzione;
- leggi sull'ordinamento, elezioni, organi di
governo e funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e sulle
disposizioni di principio sulle associazioni di Comuni;
- leggi sulle norme generali riguardanti forme e
termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e attuazione della
normativa e della politica dell'Unione Europea;
- leggi sull'ineleggibilità e incompatibilità
relative all'ufficio di senatore, previste dall'art.65,1^ comma della
Costituzione;
- elezione del Presidente della Repubblica (in
seduta comune con la Camera dei Deputati);
- elezione di otto membri del Consiglio Superiore
della Magistratura (in seduta comune con la Camera dei Deputati);
- concorso nel dare pareri a nomine di competenza
del Governo;
ed inoltre sulle leggi statali riguardanti:
-l'attribuzione dei seggi senatoriali alle
Regioni, l'elezione dei senatori e la loro sostituzione a seguito di cessazione
delle cariche negli enti locali (art.57, 6^ comma, Costituzione);
- ratifica dei trattati sull'appartenenza
dell'Italia all'Unione Europea (art.80, 2^ periodo, Costituzione);
- ordinamenti di Roma Capitale ( art. 114, 3^
comma, Costituzione);
- ulteriore forme e condizioni particolare di
autonomia delle Regioni (art.116, 3^ comma, Costituzione);
- poteri delle Province autonome di Trento e di
Bolzano in materia di attuazione ed esecuzione di accordi internazionali e di
atti dell'Unione Europea e competenza delle Regioni in materia di accordi con
altri stati e con enti territoriali di altri stati (art.117, commi 5 e 9,
Costituzione);
- principi generali in materia di patrimoni dei
Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni (art.119, 6^ comma,
Costituzione);
- poteri del Governo di sostituirsi agli organi
degli enti locali (art.120, 2^ comma, Costituzione);
- principi fondamentali in materia di elezione e
ineleggibilità del presidente e dei componenti delle Giunte regionali e dei
consiglieri regionali, durata degli organi elettivi delle Regioni, equilibrio
tra uomini e donne nella rappresentanza in tali organi, determinazione degli
stipendi dei componenti della Giunta regionale e dei consiglieri regionali nel
limite di quelli dei sindaci dei Comuni capoluogo di Regione (art.122, 1^
comma, Costituzione);
- spostamento di un Comune da una regione
all'altra (art.132, 2^ comma, Costituzione).
Il Senato delibererebbe senza il concorso
della Camera dei Deputati su:
- richiesta di modifica di disegni di legge
approvati solo dalla Camera dei Deputati e presentazione di disegni di legge
alla Camera dei Deputati (art. 70, 3^ comma, e 71,2^ comma, Costituzione)
- nomina di due giudici della Corte Costituzionale
(art.135, 1^ comma, Costituzione. È un potere analogo a quello esercitato dalla
Camera dei Deputati, che nominerà tre giudici costituzionali);
- approvazione del proprio regolamento, che
disciplinerebbe anche le limitazioni alla elezione e nomina di senatori in
ragione dell'esercizio di funzioni di governo negli enti locali (art. 63, 2^
comma, Costituzione);
- presa d'atto della decadenza dei propri membri
nel caso di cessazione di carica elettiva regionale o locale (art.66, 2^ comma,
Costituzione);
- ricorso di almeno 1/3 dei senatori per
promuovere un giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali
riguardanti il Senato e la Camera dei Deputati ( art. 73,2^ comma,
Costituzione);
- attività conoscitive, osservazioni su atti e
documenti all'esame della Camera dei Deputati (art.70, ultimo comma,
Costituzione), inchieste su materie di pubblico interesse riguardanti gli enti
locali (art.82,1^ comma, Costituzione; è un potere analogo a quello più ampio
attribuito alla Camera dei Deputati).
Il nuovo Senato, in particolare, non avrebbe
più competenza a deliberare la fiducia al Governo e in materia di bilancio e
rendiconto consuntivo (atti elaborati e presentati dal Governo). Questo
eliminerebbe complicazioni (dal punto di vista governativo) che i Governi hanno
incontrato nell'attuale sistema parlamentare bicamerale su quei temi.
3. Le materie attribuite dalla riforma
costituzionale al nuovo Senato non riguardano solo problemi locali. Comprendono
principi e funzioni fondamentali in una società democratica e, in particolare,
quello compresi nella Costituzione.
Che cosa rende il Senato riformato, composto
in massima parte da consiglieri regionali e sindaci eletti senatori da
consiglieri regionali proprio in quanto membri di quegli organi di enti locali,
più idoneo, o almeno egualmente idoneo, del Senato com'è attualmente a
occuparsi anche di quei delicati affari di stato, oltre che delle questioni
locali?
Il nuovo Senato ci costerà un po' meno
(hanno calcolato circa il 10% in meno ogni anno), in quanto i suoi membri
eletti dai consiglieri regionali e i nuovi membri di nomina presidenziale non
avranno uno stipendio da parlamentari (ma sarà difficile non riconoscere loro,
in particolare a quelli che non abitano a Roma, un qualche rimborso spese e
anche altri sussidi che oggi integrano in maniera significativa gli stipendi
dei senatori). Ma questo nuovo Senato, che ci costerà un po' di meno,
funzionerà almeno con lo stesso livello di qualità di quello attuale, o
addirittura meglio?
Dipenderà naturalmente dalla qualità degli
eletti, che saranno molto meno di oggi. La scelte dei parlamentari oggi dipende
da due fattori: il lavori dei partiti per l'individuazione dei candidati alle
elezioni e un giudizio dei cittadini che compongono il corpo elettorale, quelli
che hanno diritto di voto per la Camera dei Deputati e per il Senato. Nel
Senato riformato avranno un ruolo preponderante le componenti regionali, quindi
locali, dei partiti politici, in quanto i senatori elettivi saranno scelti
mediante una procedura che coinvolgerà essenzialmente un ceto politico
concentrato sui problemi locali e i cui membri eletti senatori continueranno a
occuparsi di quelle materie. Saranno infatti senatori a mezzo servizio. È vero
che una disposizione introdotta nel faticoso percorso di deliberazione della
riforma costituzionale, per superare forti riserve espresse dai parlamentari ad
una Camera svincolata da un giudizio dei cittadini, prevede che, con modalità
che gli stessi costituzionalisti hanno difficoltà ad immaginare e che dovranno
essere previste da una legge ordinaria successiva, i candidati consiglieri
regionali destinati, in caso di loro elezione, ad essere anche senatori siano
indicati dal corpo elettorale chiamato ad eleggere il consiglio regionale, ma,
comunque, l'ultima parola sulla scelta dei nuovi senatori tra i consiglieri
regionali eletti l'avranno i consiglieri regionali, i nuovi senatori
emergeranno dal loro stesso ceto politico locale. Quest'ultimo li selezionerà
principalmente in vista dell'esercizio di funzioni locali, che i senatori
continueranno ad esercitare contemporaneamente a quelle parlamentari. E, comunque,
la scelta dei senatori scelti tra i sindaci non vedrà coinvolto il corpo
elettorale, ma solo i consiglieri regionali. Ma i senatori in Parlamento non
dovranno occuparsi di questioni relative alle autonomie locali, ma di affari di
stato fondamentali, come le questioni costituzionali e quelle relative ai
rapporti della Repubblica con l'Unione Europea, ad esempio se si dovesse
decidere l'uscita dell'Italia dall'organizzazione, come taluni chiedono.
Parteciperanno alla elezione del Presidente della Repubblica e alla nomina di
otto membri del Consiglio superiore della magistratura; nominando due giudici
della Corte Costituzionale influiranno sugli equilibri di questo
importantissimo organo dello Stato, e quest'ultima funzione eserciteranno
senza il concorso dei colleghi deputati.
Pagheremo meno per il nuovo Senato, che
però avrà molti meno membri e per di più a mezzo servizio e farà meno cose.
Tenuto conto che lavorerà con senatori a
tempi parziale e scelti principalmente per occuparsi di questioni locali, si
può seriamente temere che la qualità del servizio reso dal nuovo Senato possa
non essere all'altezza di quello fornito dall'attuale Senato. Dunque è
possibile che si paghi di meno, ma per un servizio peggiore.
Storicamente il Senato fu istituito nel 1848
nel Regno di Sardegna, poi divenuto Regno d'Italia nel 1861 e poi Repubblica
italiana dal 1946, come organo costituzionale, a fianco di una Camera dei
Deputati elettiva (a suffragio estremamente ristretto, si calcola inferiore al
10% della popolazione e solo con voti di uomini), composto da membri
particolarmente qualificati (ad esempio deputati di lungo corso, ministri, alti
magistrati, ufficiali, vescovi cattolici e anche persone che avessero
"illustrato" la Patria) e di età superiore ai quarant'anni, nominati
a vita dal Re. Il nuovo Senato repubblicano, eletto nel 1948 a suffragio
elettorale universale e diretto maschile e femminile sulla base della nuova
Costituzione entrata in vigore quello stesso anno, si caratterizzò formalmente
rispetto alla Camera dei deputati solo per un minor numero di membri (315
invece dei 630 dell'altra Camera), per un'età minima dei senatori più elevata
(venne mantenuta quella di quarant'anni) e anche per un'età minima più elevata,
venticinque anni, per partecipare alle elezioni. Tuttavia il Senato
repubblicano conservò, per consuetudine dei partiti politici, il carattere di
"Camera alta", in quanto i candidati al Senato furono scelti, almeno
fino a qualche anno fa, tra gli esponenti più qualificati della politica
nazionale. Questa connotazione venne avvalorata dalla partecipazione al
l'organo, come senatori a vita, degli ex Presidenti della Repubblica e dei
senatori di nomina presidenziale per aver "illustrato la Patria".
Progressivamente questa caratteristica si venne perdendo con il nuovo corso
istituzionale inaugurato nel 1994, con le prime elezioni politiche svolte con
una nuova legge elettorale che introdusse un sistema parzialmente
maggioritario, che poi produsse, come si voleva, l'alternanza al Governo di due
contrapposte coalizioni politiche. Poiché il sistema elettorale del Senato era
strutturato su base regionale, si ebbe, come conseguenza non prevista, che la
forza parlamentare della maggioranza di governo era minore al Senato che alla
Camera dei deputati, per cui i Governi incontrarono più difficoltà ad ottenere
la "fiducia" in Senato. Si ebbe allora sempre più di vista,
nell'individuare i candidati al Senato, il consenso elettorale che essi
potevano riscuotere, più che la qualità e la costanza del lavoro parlamentare
che essi potevano garantire. L'autorevolezza del Senato finì per esserne
coinvolta, come mai prima, anche se continuarono indubbiamente ad essere elette
persone significative. Questo processo può essere considerato l'ambiente
in cui è maturata l'idea di un Senato come "Camera minore",
depotenziata in particolare della competenza sulla "fiducia" al
Governo, espressione di interessi locali, destinati a cedere dinanzi a un
indefinito "interesse nazionale" ( criterio introdotto dalla riforma
costituzionale per consentire l'ingerenza statale negli affari regionali)
rappresentato sostanzialmente dalla sola Camera dei deputati, i cui membri, e
solo loro, diverranno appunto rappresentanti della "Nazione".
Ma lo stesso collegamento del Senato con gli
interessi locali appare piuttosto problematico, in quanto l'azione parlamentare
dei senatori eletti dai consiglieri regionali non sarà determinata
meccanicamente dagli enti locali di appartenenza, ma sarà decisa autonomamente
dai senatori, senza vincolo di mandato. I primi commentatori tra i
costituzionalisti hanno notato che essi verosimilmente decideranno secondo le
indicazioni dei dirigenti locali di partiti politici di riferimento, quindi del
ceto politico locale da cui emergeranno, più che secondo quelle delle loro
comunità politiche locali, e che, date le modalità della loro elezione, saranno
poi più sensibili alle pressioni del ceto politico locale, quello in cui negli
ultimi anni si sono manifestati problemi molto seri in materia di etica
pubblica, evidenziati in diversi casi giudiziari venuti all'attenzione delle
cronache. Ciò tanto più in quanto provocando la crisi politica degli enti di
appartenenza, lo scioglimento dei consigli regionali e le dimissioni dei
sindaci senatori, sarà possibile provocare la decadenza dei senatori eletti.
Nel dibattito referendario sulla riforma
costituzionale si è poi presa consapevolezza che, in ragione dei tempi diversi
di elezione di deputati e senatori (la durata di quelli elettivi coinciderà con
quella dei consigli regionali che li eleggeranno e i senatori elettivi
decadranno da senatore cessando dalla carica regionale o locale in base alla
quale vennero individuati; i senatori di nomina presidenziale dureranno sette
anni) si potranno avere maggioranze politiche sensibilmente diverse alla Camera
dei deputati e al Senato, con paralisi dei lavori parlamentari nelle questioni
più importanti, quelle in cui le Camere devono deliberare collettivamente. Una
situazione molto peggiore dell'attuale.
In definitiva gli unici effetti veramente
importanti della riforma costituzionale sicuramente ottenibili saranno quelli
di rendere più agevole e veloce al Governo di ottenere la fiducia, di far
approvare il bilancio (che è il presupposto indispensabile perché il Governo
possa manovrare i fondi statali) e di varare nuove normative in materia di
economia e lavoro e dell'organizzazione della pubblica amministrazione statale,
giustizia compresa, appunto ciò che si intende quando si allude genericamente
alle "riforme". Il risparmio di spesa sarà invece modesto con
conseguenze temibili, però, sulla qualità del lavoro parlamentare, mentre la
semplificazione delle procedure parlamentari è piuttosto dubbia, potendo
prodursi addirittura una più grave paralisi del Parlamento, non rimediabile con
lo scioglimento del Senato, che non rientrerà più tra i poteri del Presidente
della Repubblica (nuovo art.88, 1^ comma, Costituzione).
- 15 -
La riforma costituzionale e le "riforme"
Esaminando
la parte della recente riforma costituzionale che riguarda la struttura e le
funzioni del Senato, emerge che le motivazioni proposte dai fautori delle nuove
norme e riguardanti il risparmio di denaro pubblico e la semplificazione delle
procedure parlamentari non convincono del tutto. Infatti, a un modesto
risparmio negli stipendi dei parlamentari corrisponderà una Camera, il Senato,
con molti meno membri, e per di più a mezzo servizio, scelti tra persone
individuate principalmente per occuparsi di affari locali, non delle più
delicate questioni di stato, con un prevedibile decrementi della qualità del
lavoro parlamentare, che sarà inoltre più sensibile alle influenze dei partiti
di appartenenza dei nuovi senatori.
D'altro canto, il collegamento che anche la
riforma costituzionale prevede tra il lavoro della Camera dei Deputati e quello
del nuovo Senato, mentre mantiene il bicameralismo "perfetto", vale
dire paritario con necessità di deliberazione conforme delle due Camere, per un
buona parte del lavoro legislativo, e in particolare per quella più importante
consentirà comunque al nuovo Senato, con la presentazione di disegni di legge
(sui quali la Camera dei deputati dovrà deliberare) e con la richiesta di
modifiche di leggi approvate solo dall'altra Camera, di provocare ulteriori
deliberazioni della Camera dei deputati, anche nelle materie attribuite alla
competenza legislativa esclusiva di quest'ultima. Una situazione che potrebbe
addirittura sfociare in una vera e propria paralisi del Parlamento, in
particolare nelle materie più importanti, qualora, come potrebbe accadere con
buona probabilità, si creassero maggioranze parlamentari di diverso
orientamento nelle due Camere. Questo accade già nell'attuale Parlamento, per
le diverse modalità di elezione delle due Camere, ma potrebbe verificarsi
in maniera molto maggiore perché, a seguito della riforma costituzionale, le
due Camere si rinnoveranno in tempi diversi e con modalità completamente
diverse. In particolare, il nuovo Senato sarà un organo a rinnovamento
"parziale e continuo", come osservato nella relazione dell'Ufficio
studi della Camera dei deputati che potrete trovare sul Web, all'indirizzo
<www.camera.it>, sezione " documenti", sottosezione
"riforma costituzionale".
Dunque, sotto questi profili, mentre i
vantaggi economici sarebbero modesto, i problemi presentati dall'attuale
Parlamento potrebbero addirittura aggravarsi.
Abbiamo anche notato che uno degli effetti,
solitamente non evidenziato dai sostenitori della riforma costituzionale, che
effettivamente si produrrebbe secondo le intenzioni degli artefici delle nuove
norme sarebbe un rafforzamento dei poteri del Governo rispetto al Parlamento (e
alle Regioni, come in seguito si dirà), in quanto, nel nuovo ordinamento, è
previsto che sarà solo la Camera dei deputati a deliberare la
"fiducia" al Governo, legittimando l'azione politica e
amministrativa. A questo va aggiunto che sarà solo la Camera dei deputati a
legiferare in via definitiva si una serie di materie, in sintesi nei campi
dell'economia e lavoro, pubblica amministrazione e giustizia, tributi, che, nel
complesso, inquadrano lo spazio di quelle che i sostenitori della riforma
costituzionale definiscono genericamente come "le riforme", che a
loro avviso sarebbero indispensabili e urgenti per lo sviluppo nazionale. Essi
presentano la riforma costituzionale oggetto del referendum come lo strumento
per approvare quelle ulteriori riforme. In questo senso la riforma
costituzionale è stata presentata come parte molto importante dell'attuale
programma di Governo, anche se non è detto che essa, se approvata con il
referendum, servirà ad approvare proprio le riforme alle quali pensa il Governo
attualmente in carica: dipenderà da quale partito politico avrà il controllo
della maggioranza della forza parlamentare alla Camera dei deputati. Infine, in
quelle stesse materie delle "riforme", L'art.72, 6° comma, della
Costituzione, nel testo introdotto dalla riforma costituzionale, prevede che il
Governo possa ottenere dalla Camera dei deputati l'esame prioritario, con
termini procedurali abbreviati, di disegni di legge indicati come essenziali
per l'attuazione del suo programma.
Il rafforzamento della posizione del
Governo, in particolare nelle materie concernenti le "riforme",
risulta ancora maggiore se si tiene conto dell'effetto della nuova legge
elettorale per l'elezione della Camera dei deputati. In base ad essa, un
partito, non la coalizione di partiti, di sola maggioranza relativa, vale
a dire uno che ottenga alle elezioni per la Camera dei deputati un numero di
voti superiore agli altri sebbene non superiore al 50%, potrebbe vedersi
attribuita una forza parlamentare, quindi in numero di deputati, ampiamente
superiore al 50%, quindi la maggioranza assoluta. Con questa maggioranza
parlamentare, quel partito potrebbe votare la fiducia al Governo da esso
espresso e far approvare, con la sola deliberazione della Camera dei deputati,
le "riforme" di cui sopra.
Questo, del rafforzamento della posizione
del Governo, viene considerato dai critici della riforma costituzionale il
principale effetto delle nuove norme, che ne evidenziano le temibili
controindicazioni. Ma, in fondo, sono della stessa opinione i sostenitori della
riforma, quando dichiarano che la riforma costituzionale aprirà la strada alle
"riforme" che rientrano nel programma di governo.
Il problema, evidenziato da diversi
commentatori della riforma, è che al centro del successivo movimento
riformatore non sarà più, in effetti, il Parlamento, ma, in definitiva, il
partito di governo e il Governo da esso espresso.
Infatti in Senato riformato non avrà più
competenza in quei campi in cui l'attuale Governo vuole riformare, mentre la
Camera dei deputati sarà dominata da una forza parlamentare espressa dal
partito di governo. Va aggiunto che, negli ultimi anni, vi è stata la tendenza
ad attribuire la direzione del Governo, quindi la presidenza del Consiglio dei
ministri, al principale esponente del partito egemone della maggioranza di
governo, segretario o presidente che fosse a seconda degli statuti di quel
partito, in ciò volendosi ispirare alle consuetudini inglesi. Questo per
evitare che la posizione della coalizione di governi potesse differenziarsi
politicamente dal Governo da essa espresso, come storicamente era accaduto
durante l'egemonia politica della Democrazia Cristiana. Con la coincidenza del
capo del Governo e del capo del partito politico di governo si potrebbe
verificare il caso di una maggioranza parlamentare di governi controllata dal
Governo da essa sostenuto, invece del contrario. Ciò comporterebbe una eclisse
del Parlamento.
Quel processo di declino del Parlamento ha
cominciato in realtà a manifestarsi in un'epoca recente della storia nazionale
particolarmente travagliata, precisamente dagli ultimi mesi del 2011, quando, a
fronte di serie difficoltà di Governo e Parlamento a far fronte ad una grave crisi
economica internazionale, che richiedeva anche importanti aggiustamenti nella
gestione della finanza pubblica, le forze politiche nazionali convennero per
affidare la direzione politica del Governo ad una persona ritenuta autorevole
individuata dall'allora Presidente della Repubblica, che ne rafforzò l'immagine
pubblica e politica nominandolo senatore a vita. A differenza però degli altri
senatori a vita, nominati per aver "illustrato la Patria" ma con una
funzione tutto sommato marginale nel lavoro parlamentare, quel particolare
senatore a vita ebbe affidata dal Presidente della Repubblica una missione
prettamente politica di altissimo livello. Egli riuscì poi, da Presidente del
Consiglio dei ministri incaricato, a coalizzare una maggioranza politica di
governo, diversa da quella che aveva espresso il precedente governo e
risultante da un accordo politico di emergenza tra forze politiche di opposto
orientamento, e ad attuare in tempi brevi varie riforme, in particolare in
materia economica, che incisero significativamente nelle prestazioni rese alla
pubblica amministrazione ai cittadini, ad esempio in materia pensionistica.
L'obiettivo fu principalmente quello di riportare sotto controllo la spesa
pubblica, finanziata in misura crescente mediante debito pubblico dipendente
dalle condizioni dei mercati finanziari internazionali, non solo con, le
"tasse", in modo che crescesse mercati finanziari la fiducia nei
titoli del debito pubblico italiano, con conseguente discesa dei tassi di
interesse da pagare agli acquirenti di tali titoli, portandolo più vicini a
quelli offerti dalle nazioni europee più forti, in particolare la Germania.
Ora, le "riforme" che poi, dalla
fine del 2012, sono state attuate dai successivi governi "politici",
detti così per distinguerli da quello "tecnico" di quel senatore a
vita, sono andate più o meno nella stessa direzione. L'idea dei sostenitori
della riforma costituzionale è che, continuando ad attuarle, riducendo gli
"sprechi" e liberando l'iniziativa privata da ostacoli burocratici,
non solo potranno essere ottenute in sede europea deroghe ai limiti rigidi
all'indebitamenti pubblico, ma anche si libereranno risorse mediante le quali
l'economia privata inizierà un ciclo positivo, di sviluppo e di espansione,
anche con un aumento dell'occupazione;
in quest'ottica sono stati considerate ostacoli da rimuovere anche le
norme limitative dei licenziamenti individuali. Esse sono star modificate per
quanto riguarda i rapporti di lavoro privati, ma le si vuole modificare anche
in quelli pubblici.
Un politico di primo piano dei nostri tempi,
a chi gli proponeva obiezioni al suo progetto riformatore basate sulla
sofferenza sociale che l'attuazione delle "riforme" aveva e avrebbe
ancora prodotto ha replicato che l'era delle ideologie politiche del benessere
portato dalle strutture pubbliche è finita e che il mercato si è mangiato
tutto. Dunque, in definitiva, si vorrebbe che il Governo avesse le mani più
l'onere per varare riforme che assecondino le dinamiche di mercato. Questa
direzione riformistica è però antitetica a quella inaugurata con quella che può
essere considerate la "riforma delle riforma", la più importante di
tutte le riforme, vale a dire con la Costituzione repubblicana entrata in
vigore nel 1948. Essa infatti prevede che il mercato non abbia l'ultima parola,
ma che le istituzioni pubbliche intervengano per correggerne le dinamiche dove
limitino la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo
della persona umana (art.3, 2° comma, della Costituzione, uno dei principi
costituzionali fondamentali). Si tratta di proteggere da dinamiche distorte di
mercato beni come il lavoro, la salute, l'istruzione, la previdenza sociale, la
libertà sindacale, la partecipazione di tutti attraverso i partiti a
determinare la politica nazionale, e si assicurare il coordinamento
dell'economia pubblica e privata perché possa essere indirizzata a fini
sociali. Nella Costituzione, dunque, il mercato non è il legislatore supremo, e
l'iniziativa economica privata, seppure libera, non può svolgersi in contrasto
con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e
alla dignità umana (art.41 della Costituzione).
Dal '48 all'inizio degli anni '90 il
movimento riformatore è stato indirizzato dai principi sociali costituzionali
ed ebbe come criterio fondamentale la giustizia sociale. Esso fu promosso da
due agenti sociali: il Parlamento, nel quale le istanze di promozione sociale
dei lavoratori proposte dalle opposizioni socialiste e comuniste furono accolte
dal partiti di governo, in particolare quando i socialisti divennero parte
delle maggioranze di governo, e la Corte costituzionale, la quale,
prevista dalla Costituzione ma funzionante solo dal 1956, svolse un lavoro di
rimozione dalla legislazione delle norme contrastanti con quelle
Costituzionali, promuovendo anche una corrispondente cultura giuridica di alto
livello.
In concomitanza con le crisi economiche
ricorrenti verificatesi dall'inizio degli anni '90, il criterio di riferimento
di invece sempre più quello dello sviluppo, nella convinzione, in particolare,
che le conquiste sociali dei decenni precedenti fossero troppo onerose per le
finanze pubbliche, comportando tributi e costi del lavoro troppo onerosi per il
sistema delle imprese, con la conseguenza che essi, venendo computati nel
prezzo delle merci praticato ai consumatori, rendevano le merci prodotte in
Italia meno competitive sul mercato. Con la fine delle tensioni politiche
determinato dalla contrapposizione dei sistemi economici capitalisti e comunisti,
a seguito della dissoluzione del comunismo di tipo sovietico e la profonda
metamorfosi di quello cinese, e con la creazione di un mercato globale della
produzione e commercio in cui le imprese di tipo capitalistico potevamo
produrre e vendere in ogni parte del mondo, la produzione venne trasferita
nelle nazioni in cui il costo del lavoro e i tributi erano più bassi e la
vendita dei prodotti nei mercati dove i consumatori erano disposti ad accettare
di pagare prezzi più alti. Quindi, ad esempio, imprese europee trasferirono le
produzioni in Asia, vendendo però i prodotti in Occidente. Questo comportò una
forte diminuzione dei posti di lavoro in Europa, ma anche una diminuzione dei
prezzi al consumo. I governi occidentali assecondarono questa dinamica, nella
convinzione che, alla fine, uniformandosi le condizioni di lavoro sui mercati
mondiali, si sarebbe tornato a produrre in Occidente. In realtà questo effetto
non si verificò mai, perché, da un lato, i governi delle nazioni in cui il
costo del lavoro e i tributi erano più bassi non lavorarono per cambiare questa
situazione, in particolare migliorando le condizioni dei lavoratori mediante
prestazioni sociali finanziate, come in Occidente, con tributi più alti,
dall'altro lato, mente alle imprese era consentito di muoversi
liberamente nel mondo "globalizzato", altrettanto non era consentito
ai lavoratori, come quotidianamente possiamo constatare nell'Europa
contemporanea: si cerca infatti, con misure di polizia, e addirittura militari,
di fermare le migrazioni di forza lavoro dall'Asia e dall'Africa, dove i salari
sono più bassi o addirittura inesistente l'occupazione, all'Europa. Le
politiche di governo basate sullo sviluppo assecondando le dinamiche
dell'economia capitalistica di mercato hanno comportato invece modesti
risultati sul fronte dell'occupazione, in particolare a causa della crescente
automazione delle lavorazioni, e un marcato peggioramento delle condizioni di
lavoro, sia sotto il profilo salariale che della stabilità dei rapporti di
lavoro. Di questi giorni è la pubblicazione di statistiche economiche secondo
le quali i livelli di benessere delle famiglie dei lavoratori italiani sono
regrediti più o meno a quelli di diversi decenni addietro.
Si è pensato che assecondando le dinamiche
di mercato si sarebbero ottenuto lo sviluppo economico e, con questo, la
giustizia sociale. Tuttavia le aspettative sono andate deluse nell'uno e
nell'altro campo. In particolare, per quanto si siano attuate misure che sempre
più hanno inciso sulla giustizia sociale, ad esempio in materia di stabilità
dei rapporto di lavoro, non si è riusciti ad innescare lo sviluppo. I redditi
delle famiglie sono diminuiti e la stessa possibilità di costituirsi una
famiglia e di progettare una prole ne è risultata pregiudicata, per la
difficoltà di trovare lavoro, per l'instabilità crescente dei rapporti di
lavoro, per le retribuzioni insufficienti (in contrasto con quanto previsto
dall'art 36 della Costituzione) per la difficoltà di trovare, a prezzi
commisurati alle retribuzioni lavorative, appartamenti adatti per famiglie con
figli. Giorgio La Pira, politico cattolico di primo piano ispirato alla
dottrina sociale, disse che "Il lavoro è sacro, il pane è sacro, la casa è
sacra", principi che ispirarono la legislazione sociale Italiana fino agli
anni '90. "Sacro" significa che si tratta di bene che non può essere
lasciato alle dinamiche di mercato perché ha un valore correlato alla dignità
della persona umana. È evidente che si tempi nostri si ragiona diversamente.
I fautori della riforma costituzionale hanno
dato la colpa dell'insuccesso delle politiche degli anni passati basate
sull'idea di sviluppo al Senato elettivo, per le complicazioni derivate dal
fatto che era sostanzialmente in doppione della Camera dei deputato, e l'hanno soppresso.
In realtà, a ben vedere, le difficoltà che sono derivate dagli anni '90 ai
riformatori che intendevano assecondare le dinamiche di mercato dipendevano
proprio dal fatto che il Senato NON era un doppione della Camera dei deputati e
il Governo ha incontrato maggiori difficoltà ad ottenere la fiducia al Senato.
Se la riforma costituzionale verrà approvata al prossimo referendum questo non
accadrà più perché la fiducia sarà votata solo alla Camera dei deputati dove il
partito di governo, per l'effetto della nuova legge elettorale per tale Camera,
disporrà di una solida maggioranza assoluta. Il Governo, non è detto che sia
sempre quello attualmente in carica, avrà mano libera per le
"riforme".
Perché però occorre affidarsi a questa
riforma di struttura per ottenere il consenso politico ad un'azione
riformatrice la cui necessità i sostenitori delle nuove norme reputano ovvia,
indiscutibile? Non dovrebbero tutte le forze politiche concordare con il
progetto riformatore. Il problema è che le riforme che vengono indicate come
necessarie allo sviluppo incidono sul benessere dei più e favoriscono le
imprese, controllate dalla minoranza della gente che sta meglio. È questo il
problema: andare contro gli interessi di una maggioranza del popolo, per
favorire una minoranza. Si suppone che, però, favorendo le imprese queste
creeranno sviluppo e occupazione, dei quali beneficerà anche la maggioranza.
Bisogna però ricordare che la riforma
costituzionale modifica solo strutture, procedure e funzioni di organi
costituzionali e di enti territoriali locali della Repubblica, ma non consiste
delle "riforme" che attraverso di essa ci si propone di facilitare,
né ne indica la direzione: rispetto ad esse è, per così dire, neutrale. Così,
studiando la riforma costituzionale, non si può avere un'idea precisa di come
saranno le successive "riforme". Esse dipenderanno dalle idee di chi
conquisterà il Governo, che poi avrà le mani più libere. E i partiti che si
contendono il Governo in genere rimangono piuttosto sul vago, quando si tratta
di rendere un'idea precisa delle "riforme" che hanno in progetto di
varare. Questo dovrebbe essere un segnale di allarme, soprattutto per la
maggioranza di chi dalle passate riforme (tutte attuare dal Parlamento com'è
ora) ci ha rimesso in benessere.
In merito agli effetti della riforma
costituzionale in discussione si può dire quanto segue.
Con un Senato depotenziato come quello
riformato, e sostanzialmente nelle mani dei partiti egemoni nelle Regioni più
popolose, il partito che, con i meccanismi di premio di maggioranza introdotti
anche negli enti locali come per la Camera dei deputati, riuscisse a
controllare maggioranze parlamentari omogenee nelle due Camere, avrebbe a
disposizione del suo virtuosismo riformatore l'intera Costituzione, anche nei
suoi principi fondamentali, che oggettivamente costituiscono ostacoli
all'assecondamento delle leggi di mercato.
In caso contrario, di maggioranze
parlamentari non omogenee nelle due Camere, si aprirebbe una lunga stagione di
conflitti tra le due Camere, con l'impossibilità di legiferare nelle materie
più importanti, quelle che ancora richiederanno una deliberazione conforme
delle due Camere, aggravati dalle incertezze interpretative sulle norme sulla
competenza delle due Camere e sul riparto di competenza legislativa tra Stato
Regioni causate dalla non ottimale formulazione delle modifiche costituzionali
(eclatante il caso del nuovo art.70 della Costituzione, veramente di difficile
lettura).
Insomma, con la riforma costituzionale si
aprirà verosimilmente una stagione di riforme di iniziative
governativa, ma non si può sapere dove esse andranno a parare, quali
conseguenze avranno per la vita della maggioranza della gente, che dipende per
il proprio benessere da prestazioni sociali pubbliche, e neanche quale Governo
cercherà di attuarle. La riforma costituzionale agevolerà la via al Governo,
qualunque esso sia, nei confronti del quale, una volta che abbia conseguito il
controllo politico delle due Camere, o anche della sola Camera dei deputati,
per l'effetto dei meccanismi elettorali maggioritari stabiliti dalle leggi
vigenti, sarà più difficile esercitare un'azione politica diretta a incidere
sui suoi progetti. Un'azione politica del genere, possibile nel Parlamenti
com'è ora, ha invece moderato l'azione riformatrice dispiegatasi dall'inizio
degli anni '90 ad opera di Governi di opposte tendenze, ad esempio nel campo
della giustizia, quando la giustizia diventò materia di scontro politico.
Sulla valutazione dell'incidenza delle
dinamiche di mercato sui valori fondamentali inerenti alla dignità delle
persone umane, e sui compiti dei pubblici poteri in merito, a livello nazionale
e internazionale possono leggersi pagine significative, specialmente per
persone religiose, nell'enciclica papale Laudato si', del 2015, che potete
leggere sul Web sul sito <www.vatican.va>.
- 16 -
La controriforma regionale
Oltre che della struttura e delle
funzioni del Senato, la recente riforma costituzionale si occupa delle Regioni,
dei Comuni e delle Città metropolitane, enti questi ultimi che andranno a
sostituire le Province (come già avvenuto per quattordici Province, tra le
quali quella di Roma). La parte riguardante le Regioni è in realtà una
"controriforma", perché limiterà significativamente l'autonomia legislativa
e amministrativa regionale rispetto alla disciplina introdotta nella
Costituzione nel 2001.
L'istituzione delle Regioni come enti
territoriali con governo di natura politica espresso da un consiglio di origine
elettiva venne prevista dalla Costituzione fin dalla sua entrata in vigore, nel
1948, ma iniziarono a funzionare solo nel 1970. Tuttavia solo dal 1979
l'adeguamento della normativa e dell'amministrazione statali consenti alle
Regioni di operare realmente nelle materie che la Costituzione attribuiva alla
loro competenza. Dagli anni '80 si svilupparono movimenti politici che
reclamavano una maggiore autonomia della Regioni, fino a fare della Repubblica
italiana uno stato federale. Si prendeva come riferimento talvolta gli Stati
Uniti e la Repubblica federale di Germania, ma anche, sopratutto nella fase
drammatica della sua dissoluzione, negli anni '90, la Federazione Iugoslava. Il
regionalismo settentrionale si pose talvolta l'obiettivo della secessione dalla
Repubblica Italiana, proponendosi la creazione di un nuovo stato nel Nord
Italia, a settentrione del fiume Po, individuato culturalmente, storicamente e
sociologicamente come "Padania". L'esigenza di una maggiore autonomia
regionale venne ampiamente condivisa dalle forze politiche nazionali, che però erano
in contrasto tra loro sulle modalità concrete della sua attuazione, portando
nel 2001 a una revisione costituzionale in quella direzione, confermata da un
referendum popolare analogo a quello che si terrà il prossimo autunno.
Fin dall'inizio le Regioni si occuparono di
materie molto importanti: tra di esse l'urbanistica (in particolare dei
"piani" che disciplinano le costruzioni di edifici), la sanità, le
strade, i trasporti e i lavori pubblici locali, l'agricoltura e foreste.
Dovevano però operare secondo principi fondamentali fissati da leggi dello
Stato e, sopratutto, senza entrare in contrasto con l' "interesse
nazionale". Quest'ultimo costituiva quindi, con quello dei principi
fondamentali, uno dei principali criteri per valutare la legittimità costituzionale
della legislazione regionale.
Con la revisione costituzionale del 2001 la
competenza regionale venne molto aumentata. Quella statale divenne residuale.
Alcune materie erano riservate allo Stato, come la politica estera, la difesa,
la moneta, il sistema tributario, la giustizia, la previdenza sociale, la
legislazione elettorale, la tutela dell'ambiente e dei beni culturali. In altre
la legislazione regionale doveva svolgersi nel quadro di principi fondamentali
fissati da leggi dello Stato: ad esempio in materia di sanità, professioni,
sicurezza sul lavoro, istruzione, protezione civile, banche locali. Tutte le
altre materie divennero di competenza regionale. Venne tolto il limite
dell'interesse nazionale e fu attribuito alle Regioni, ma anche agli altrimenti
territoriali quindi ai Comuni, alle Città Metropolitane e alle Province, il
potere di stabilire tributi propri. Il nuovo sistema costituzionale delle
autonomie locali creò dei problemi perché le Regioni presero a contestare
davanti alla Corte Costituzionale le leggi dello Stato, lamentando che avevano
invaso illegittimamente la competenza regionale. Tensioni tra Stato e Regioni
si crearono in particolare dove i movimenti secessionisti ebbero più seguito.
Divenne più difficile assicurare l'uniformità di certe prestazioni
pubbliche sul territorio nazionale, ad esempio in materia sanitaria. Alcune
Regioni funzionarono meglio, altre peggio.
Nel 2005 il Parlamento approvò una legge di
revisione costituzionale che aumentava ulteriormente la competenza legislativa
e amministrativa delle Regioni, avvicinandola a quella delle istituzioni
territoriali costitutive degli stati federali, introducendo però un potere di
ingerenza governativa nel caso lo richiedesse l'interesse nazionale: il
governo, dopo aver inutilmente richiesto modifiche alla disciplina regionale,
poteva ottenere una deliberazione del Parlamento in seduta comune per annullare
la legge regionale ritenuta contrastante con l'interesse nazionale. Questo
meccanismo giuridico si ritrova sostanzialmente nella revisione costituzionale
oggetto del prossimo referendum, con la differenza che l'ultima parola l'avrà
solo la Camera dei deputati. Questa riforma non entrò in vigore perché non
confermata dal referendum costituzionale svoltosi nel 2006.
L'idea di fare della Repubblica italiana uno
stato federale contrasta con il processo storico con cui si realizzò l'unità
d'Italia. Quest'ultima non avvenne per aggregazione degli stati in cui l'Italia
era divisa ad inizio Ottocento, ma per conquista militare da parte del Regno di
Sardegna, che nel 1861 divenne il Regno d'Italia. Le attuali Regioni, salvo la
Toscana, non corrispondono agli stati italiani precedenti l'unità
nazionale. Ricalcano invece circoscrizioni amministrative definite dal Regno d'Italia,
con una certa arbitrarietà, sulla base di affinità linguistiche e territoriali.
Lo stato liberale e poi quello fascista, fortemente accentratori, si proposero
di destrutturare le autonomie statali precedenti l'unità d'Italia, al fine di
"fare gli italiani". Ci riuscirono.
Grosso modo gli stati in cui l'Italia era
divisa prima dell'unità nazionale comprendevano Piemonte, Liguria e Sardegna,
sotto la monarchia dei Savoia; il Lombardo-Veneto sotto dominazione austriaca;
il Granducato di Toscana; l'Italia centrale sotto il dominio pontificio, e
l'Italia meridionale sotto il dominio della monarchia dei Borboni. Le città di
Parma, Piacenza, Guastalla, Modena e Reggio erano governate da monarchie
locali, costituite in ducati. Il Regno dei Savoia si espanse nelle altre
regioni d'Italia, destituendo le altre monarchie locali, compresa quella romana
del Papa, e annettendosi il lombardoveneto sotto dominazione austriaca.
L'autonomia politica di queste regioni italiane venne annientata: bisogna
considerare che la partecipazione politica del popolo agli stati abbattuti era
limitata ai ceti dei nobili e dei borghesi.
L'Italia conserva ancora una marcata
diversità culturale sul suo territorio, in particolare linguistica, e forti
diversità di struttura economica. Pensare, ad esempio, ad un Settentrione
omogeneo è superficiale. L'idea proposta dai
federalisti/secessionisti italiani "nordisti" dagli anni
'80 era che le regioni del nord Italia, con economie più ricche, non fossero
più onerate del sostegno di quelle delle altre parti d'Italia. Le economie del
centro-meridionali venivano presentate come parassitarie. In realtà la storia
economica d'Italia evidenzia che le regioni settentrionali, durante la fase
dello statalismo liberale e fascista, furono maggiormente sostenute dallo
stato, anche attraverso il sistema delle commesse pubbliche e delle
partecipazioni statali. Solo dalla caduta del fascismo in avanti, quindi dal
1945, si cominciarono ad attuare politiche di sviluppo nel Centro e Meridione
d'Italia. In questo quadro vennero delineate nella Costituzione entrata in
vigore nel 1948 le nuove autonomie regionali. Queste ultimi erano sostenute in
particolare dal democratici cristiani. La destre e i social-comunisti erano
diffidenti. Favorevoli anche i repubblicani e gli azionisti (del Partito
d'Azione, che ora non c'è più). Si temeva l'impossibilità di attuare politiche
nazionali, in caso di divergenze di quelle regionali. Come detto, solo nel 1970
le nuove Regioni italiane iniziarono ad operare, ma solo alla fine degli anni
'70 furono loro trasferite realmente gran parte delle funzioni che la
Costituzione attribuiva loro.
Il regionalismo del secondo dopoguerra
riteneva che lo sviluppo locale sarebbe stato più efficacemente realizzato da
una classe politica più vicina ai problemi del territorio. Nei primi anni
dell'esperienza regionale questo obiettivo fu limitato dall'assenza di risorse
proprie delle Regioni, le cui risorse erano fornite sostanzialmente da
trasferimenti statali. A ciò si rimediò con la revisione costituzionale del
2001.
Con la revisione costituzionale approvata
quest'anno e oggetto del prossimo referendum costituzionale, la competenza
regionale viene limitata. Nel tentativo di limitare motivi di contrasto si è
soppresso il comma dell'art.117 della Costituzione che prevedeva la cosiddetta
legislazione concorrente, vale a dire le materie in cui le Regioni potevano
legiferare nel quadro di principi fondamentali fissati da una legge statale.
Tuttavia è stato osservato che anche la nuova formulazione di quell'articolo
prevede ancora, sostanzialmente, una legislazione concorrente analoga, con la
conseguenza che sono prevedibili gli stessi problemi di competenza del passato.
Ma la novità più importante è che si è introdotto, sulla scia della precedente
riforma del 2005 non confermata dal referendum costituzionale dell'anno
seguente, il potere esclusivo del Governo di ottenere che la Camera dei
deputati legiferi nelle materie di competenza regionale sulla base del criterio
dell' "interesse nazionale", quanto mai generico. In mano ad un
Governo autoritario, che per l'effetto della nuova legge elettorale
maggioritaria controllasse la Camera dei Deputati, ciò potrebbe portare ad una
compressione significativa dell'autonomia regionale. Queste leggi di supremazia
in base all'interesse nazionale sono soggette ad una procedura di approvazione
"rafforzata", nel senso che la Camera dei deputati dovrà pronunciarsi
a maggioranza assoluta dei propri componenti, qualora non intenda accogliere
modifiche proposte a maggioranza assoluta dei propri componenti dal nuovo
Senato. La disposizione che prevede questa procedura, il nuovo articolo 70, 4°
comma, della Costituzione, è formulata in modo impreciso e lascia spazi a
molti dubbi interpretativi, come evidenziato nel commento preparato
dall'Ufficio studi della Camera dei deputati. Comunque, tenendo conto
dell'effetto della legge elettorale maggioritaria sulla composizione della
Camera dei deputati, può prevedersi che il Governo non avrà difficoltà a far
approvare leggi invasive della competenza regionale.
In conclusione: la legge di revisione
costituzionale di quest'anno realizza un notevole rafforzamento dei poteri del
Governo anche in materia di autonomia regionale. In questo senso si tratta di
una "controriforma".
- 17 -
La società atomizzata, il referendum,
la democrazia
Che cosa è
in ballo nel prossimo referendum costituzionale?
E’ credibile che possa aprire la strada ad
una dittatura?
Se ne è discusso ieri in radio e
televisione. L’argomento è affrontato anche sui giornali di oggi. Infatti ieri
un politico di primo piano, in un breve messaggio telematico, ha paragonato
l’esperienza politica dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri a
quella del dittatore militare Augusto Pinochet, il quale nel 1973 in Cile
capeggiò un colpo di stato militare destituendo il governo socialista del
presidente Salvator Allende, e rimanendo poi al potere, come capo di
stato, fino al 1990, attuando un governo autoritario e antidemocratico. Alla
gente fu vietata la politica e l’azione degli oppositori al regime venne
repressa con misure di polizia non rispettose della dignità e incolumità delle
persone e senza possibilità di reale difesa in sede giudiziaria. Si legge
in http://www.treccani.it/scuola/tesine/dittature_extraeuropee_degli_anni_70/2.html in
un articolo sintetico sul colpo di stato di Pinochet dedicato agli studenti
delle scuole la cui lettura consiglio a tutti: “Dal
1973 al 1990 in Cile sparirono oltre trentamila persone, uccise e torturate
barbaramente”.
Vanno sottolineate alcune importanti
differenze del caso italiano rispetto alla svolta cilena degli anni ’70.
L’attuale presidente del Consiglio è il
capo di un partito politico, non un capo militare. Egli governa con la fiducia
di una maggioranza parlamentare. Il suo è un partito che ingloba parte della
sinistra politica nazionale e non ha propositi reazionari, di restaurazione
contro una politica socialista. Il suo è e rimarrà un potere costituzionale, in
un contesto costituzionale democratico. Quindi, anche in caso di conferma della
revisione costituzionale sottoposta al referendum, rimarranno gli altri partiti
e sarà possibile cambiare linea con elezioni politiche. Per quanto infatti la
revisione costituzionale rafforzi molto la posizione del Governo nei confronti
degli altri poteri dello stato, essa non dà tutto il potere al capo del
Governo, né al Presidente della Repubblica. Continueranno a svolgersi elezioni
politiche e amministrative, a seguito delle quali il Parlamento sarà rinnovato.
Per il nuovo Senato si adotterà un metodo diverso di elezione dei suoi membri,
che verranno scelti dai consiglieri regionali e non più, direttamente, dal
corpo elettorale, vale a dire da tutti i cittadini elettori. Ma comunque i
consiglieri regionali saranno scelti dagli elettori. I diritti fondamentali
delle persone continueranno ad essere rispettati, perché la riforma riguarda
solo parte dell’organizzazione degli organi fondamentali dello stato.
Va infine notato che l’esperienza politica
di Pinochet ebbe fine proprio a seguito di un referendum costituzionale
celebrato nel 1988.
Ciò posto è vero che il prossimo referendum
è in grado di modificare molte cose nella nostra vita, molte di più di quelle
che sono scritte nel testo della riforma costituzionale.
Innanzi tutto, in un testo di legge come la
nostra Costituzione le varie parti che lo compongono influenzano l’insieme, non
sono indipendenti le une dalle altre. Modificando l’assetto del Parlamento e
delle Regioni in modo da aumentare la sfera di influenza del Governo si produrranno
conseguenze, ancora difficili da immaginare in tutta la loro estensione,
sui diritti politici dei cittadini, vale a dire su quella che viene
definita sovranità popolare e che è la partecipazione dei cittadini
al governo d della nazione. Sarà diverso il modo in cui i cittadini
potranno concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale, secondo l’espressione che troviamo nell'art. 49 della
Costituzione. Questo però non solo per l’effetto delle modifiche
costituzionali sottoposte a referendum ma di esse e della
nuova legge elettorale per l’elezione della Camera dei deputati. E’
l’associazione delle nuove norme costituzionali e di quelle, ordinarie,
elettorali che rafforzerà molto l’azione del Governo nei confronti degli altri
organi costituzionali dello Stato: Parlamento, Presidente della Repubblica,
Corte Costituzionale. Infatti la nuova legge elettorale, che riguarda
l’elezione della Camera dei deputati, la quale in molte materie, in particolare
ad esempio in materia di economia e lavoro, avrà l’ultima parola, consegna una
solida maggioranza parlamentare al partito che, o avendo
raggiunto il 40% dei voti alle elezioni o anche non avendo raggiunto tale
soglia di voti ma avendo vinto il ballottaggio tra i due
partiti che hanno raggiunto più voti, abbia vinto le
elezioni. Quindi un solo partito, anche non raggiungendo la
maggioranza assoluta (oltre il 50% dei voti) alle elezioni, e addirittura
rimanendo molto lontano da essa (nel caso si proceda al ballottaggio) potrebbe
esprimere un governo, accordandogli la fiducia, e cambiare profondamente la
vita sociale, con meno possibilità per la gente di opporvisi efficacemente e
rapidamente. In alcune materie, in particolare nelle riforme costituzionali, è
previsto però che si legiferi con il concorso delle due Camere, quindi anche
del Senato. Tuttavia bisogna considerare che anche l’elezione dei consiglieri
regionali e dei sindaci, tra i quali saranno scelti i nuovi senatori, si svolge
con procedure che prevedono premi di maggioranza: quindi è possibile che un
medesimo partito di maggioranza solo relativa, non assoluta, e
anche piuttosto esigua, in termini di voti elettorali, ma di maggioranza
assoluta in termini di membri nelle assemblee regionali e nei consigli
comunali, come anche alla Camera dei Deputati, arrivi a controllare l'intero il
Parlamento. A quel punto sarebbe nelle sue mani l’intera Costituzione, anche
nei suoi principi fondamentali. Se poi si trattasse di un partito controllato
da una o da una cerchia di poche persone, come è accaduto e accade nella
politica italiana contemporanea, fortemente personalizzata intorno al leader di
partito (si parla di partiti personali), è possibile che
tutta la vita dello stato e i suoi principi fondamentali finiscano per essere
determinati da oligarchie (i cerchi magici) piuttosto ristrette,
senza reale possibilità per la gente di influire sul corso politico. E’ vero
che si saprà subito chi ha vinto, ma potrebbe non essere
tanto bello scoprirlo. Dipenderà dai progetti politici di chi ha vinto e qui,
oggi, sorgono dei problemi. Perché sembra difficile alle parti politiche che
attualmente si contendono il potere precisare i dettagli delle loro proposte
politiche. Si parla sempre di riforme, ma, al dunque, come saranno
queste riforme non si sa. Sembra quasi che si proponga agli
elettori di accettare una cambiale in cui lo spazio
relativo all'importo è lasciato in bianco, per cui non si sa
bene che cosa attendersi dal futuro.
Una persona decisa, determinata, con una
certa fascinazione popolare, come ne sono nate in Italia in passato, potrebbe
utilizzare gli effetti dell’associazione tra riforma costituzionale e nuova
legge elettorale per la Camera dei deputati per rafforzare un proprio potere
personale e cambiarci la vita profondamente? Senz'altro sì. Potrebbe
essere in meglio o in peggio, naturalmente. Ma se fosse in peggio sarebbe
più difficile contrastarlo. Questo perché controllando una maggioranza
parlamentare significativa il Governo espresso da un solo partito, il partito
del suo leader, avrebbe anche mano libera nel cercare controllare
l’informazione pubblica, attraverso la quale i cittadini si formano opinioni
politiche. E avrebbe buone possibilità di successo. Le elezioni, a quel punto,
ci sarebbero ancora, periodicamente, ma sarebbe più difficile per la gente
capire che cosa sta succedendo e reagire. Ed è stato notato che, già ora, in
televisione le ragioni dei contrari alla riforma costituzionale sottoposta a
referendum hanno poco spazio e che le informazioni sull'attività del
Governo hanno la preponderanza. Verificate: in
base all'informazione che avete avuto dalle televisioni, siete
riusciti a farvi un’idea di che cosa precisamente tratti la riforma
costituzionale sottoposta a referendum?
E’ stato osservato (Bauman) che
viviamo in una società atomizzata, in cui ognuno sta per sé e tutti sono contro
tutti. I legami tra di noi si fanno più labili. Le conseguenze si sono fatte
sentire, ad esempio, sulla stabilità delle famiglie. Ma è cosa che si può
constatare facilmente in tutte le realtà sociali, ad esempio in una parrocchia
come la nostra. Ci si stanca facilmente degli impegni di lunga durata. E quando
se ne assume uno, subito sembra troppo oneroso e si pensa come liberarsene.
I più giovani vivono una parte importante
della loro vita interagendo telematicamente sul WEB. Lì uno può illudersi di
essere onnipotente, di poter cancellare la realtà, ed anche le persone,
pigiando sull’icona “elimina”. Si può rapidamente uscire da un gruppo ed
entrare in un altro. La realtà virtuale è un gioco che possiamo costruire,
interamente nelle nostre mani. Ma la realtà sociale, quella dalla quale
dipendono le nostre vite, la casa, il lavoro, il pane, non è così. Certe
scelte che si fanno non possono poi essere cambiate tanto facilmente. Quindi,
affrontare il referendum costituzionale con lo stesso spirito con cui si
interagisce sul WEB è pericoloso.
Se, riflettendoci, si capisce che sarà
difficoltoso cambiare gli effetti di una nostra decisione, si cerca di
ragionarci su bene. E’ quello che si dovrebbe fare, ad esempio, sposandosi,
decidendo di fare o di non fare un figlio, di aderire ad una fede religiosa o
di lasciarla, o scegliendo un corso di studi superiori o un lavoro. Il
tasto elimina in queste cose non c’è.
E’ lo stesso per una riforma costituzionale:
cambierà la società che ci consente di vivere. Potremo poi sognarne un’altra
giocando sul WEB, ma quest’ultima rimarrà sempre un sogno.
Mentre gli effetti di un’elezione politica
di solito si esauriscono entro le successive elezioni, quelli di una riforma
costituzionale sono di lunga durata. Anche senza dover fare un colpo di stato
alla Pinochet e senza brutalizzarci ammazzandoci, un pugno gente decisa, a cui
noi abbiamo aperto la strada, potrebbe cambiarci molto la vita. E bloccarla, cambiando
nuovamente la Costituzione, potrebbe divenire molto, molto difficile, se non
impossibile, se lo si dovesse fare mediante maggioranze parlamentari
controllate proprio da quelli che si vorrebbe contrastare e con un’informazione
pubblica da loro controllata.
Concludo osservando che, se è vero che
la svolta politica (l’avvio delle riforme) che si
prefiggono i fautori della revisione costituzionale si
produrrà dall'associazione degli effetti della
riforma costituzionale e di quelli della riforma elettorale attuata con
legge ordinaria, il quesito proposto agli elettori non è completo, riguardando
solo la riforma costituzionale. Infatti se la legge elettorale per la
Camera dei deputati fosse diversa ci si potrebbe determinare diversamente anche
sulla riforma costituzionale. E ancora: indipendentemente da come andrà il
referendum, gli effetti della riforma costituzionale potrebbero essere cambiati
cambiando la legge elettorale per la Camera dei deputati. Non sarebbe stato
meglio inserire anche nella riforma costituzionale qualcosa sul sistema
elettorale della Camera dei deputati, tenendo conto, in particolare, che una
precedente legge elettorale, quella del 2005, è stata dichiarata parzialmente
incostituzionale nel 2014? In modo da dare modo ai cittadini di
esprimere un giudizio completo su tutta la materia di questa che è proposta
come la riforma delle riforme, la riforma che
dovrebbe aprire la strada a tutte le altre riforme, che però,
allo stato, non si sa quali saranno, sia perché i capi dei partiti non ce
lo precisano sia perché dipenderanno da chi riuscirà a conquistare la
maggioranza parlamentare e quindi il governo della nazione.
Di questi tempi ci cominciamo a rendere
conto che la società atomizzata, quella fatta da individui che si ritengono onnipotenti
e che pensano che la realtà intorno a loro possa essere cancellata con una
specie di tasto “elimina”, non produce una buona politica. Da che cosa e,
soprattutto, da chi dipende la politica in democrazia? Dipende da tutti noi,
non come singoli però, ma nei legami che riusciamo a creare e a mantenere con
gli altri. E’ infatti una realtà sociale, vera non virtuali, che
richiede di stringere e rafforzare legami effettivi e stabili tra le persone e
i gruppi. Bisogna conoscere altra gente, imparare a dialogare con gli altri, ad
esaminare le questioni realisticamente e razionalmente. La nostra vita non si
svolge in un video-gioco. E’ cosa a cui siamo stati chiamati anche in
religione: è questo il senso, in realtà piuttosto misconosciuto in genere, degli
argomenti proposti nell'enciclica Laudato si’. Ecco che
l’Azione Cattolica ha quindi progettato un percorso formativo specifico fin dai
suoi piccolissimi. Ne ho scritto nei precedenti interventi.
Dovremmo forse sentirne la necessità anche in una realtà sociale come la
parrocchia. Tra le cose in ballo, nelle possibili riforme, ci sono
anche i diritti religiosi. Ma, nonostante il grande impegno dei sacerdoti,
sembra tanto difficile raccogliere gente che abbia ancora voglia di impegnarsi
in attività come questa. E questo nonostante il ruolo importantissimo che il
movimento politico espresso da nostre persone di fede ed ispirato alla dottrina
sociale ha avuto nella storia repubblicana dal secondo dopoguerra.
- 18 -
Prendersi cura della casa comune
L’enciclica Laudato si’, dell’anno
scorso, ha come sottotitolo: “sulla cura della casa comune”. Si
tratta di un testo che non ha precedenti nella dottrina sociale. Questo risulta
in modo evidente in particolare dalle note di citazione, che fanno pochi
riferimenti a precedenti documenti analoghi. Vi sono invece molte citazioni di
documenti di conferenze episcopali. Vi sono citazioni di documenti dei papi
regnanti dagli anni ‘70, ma con molti testi diversi dalle encicliche,
contenuti in discorsi e messaggi. Di documenti conciliari vi sono tre
citazioni e riferimenti tratti tutti dalla Costituzione La gioia e la
speranza, del Concilio Vaticano 2° (nota 50, sull’autonomia delle realtà
terrene; nota 100, sull’uomo quale autore, centro e fine di tutta la vita
economico-sociale; nota 122, sul concetto di bene comune come l’insieme delle
condizioni delle vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli
di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente). Ma è
la prospettiva che viene proposta che è molto diversa da quella dei precedenti
insegnamenti della dottrina sociale e anche dalla teologia francescana, a cui
pure si fa riferimento come principio ispiratore. Non basta rispettare e
contemplare la natura, e riconoscervi l’opera del Creatore: occorre averne
cura. Non si tratta solo di soggiogare e sfruttare senza
inaridire le risorse, lasciando ciò che serve alle generazioni successive:
occorre anche mantenere, e ove occorre ristabilire, l’armonia del creato, di
cui gli stessi esseri umani sono parte. Occorre un’azione comune, collettiva,
che non è più riferita, come nei precedenti documenti che trattavano il tema,
solo ai governanti, ma a tutti. Questo richiede una conversione su
larga scala, la giustizia sociale tra le generazioni, un nuovo spirito civico e
nuove politiche. E’ in questione uno stile di vita. Ma anche il sistema
economico che regge le società contemporanee. Si parla di ecologia,
parola che significa studio dell’ambiente, ma l’ambiente a
cui si fa riferimento non è solo quello naturale, ma in primo luogo quello
sociale. Perché sono gli esseri umani ad essere chiamati a prendersi
cura della creazione. Si è chiamati ad una rivoluzione
culturale:
114. Ciò che sta accadendo
ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione
culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare
dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e
possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle
caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in
un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo
stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza
megalomane.
Passare da una civiltà
della crescita illimitata e dello spreco ad una della sobrietà e della cura
dell’ambiente richiede un lavoro specificamente politico, che nella Laudato
si’ è specificamente indicato come compito di tutti.
178. Il dramma di una politica
focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste,
rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi
elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con
misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio
investimenti esteri. 179. […
] Poiché il diritto, a volte, si dimostra
insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica
sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi non
governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare
normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano
il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è possibile un
contrasto dei danni ambientali. 181. […] Occorre dare maggior spazio a
una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone
pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
Una politica in cui il popolo abbia
parte è una politica democratica. E’ la prima volta che in un’enciclica
vi è un così forte appello al popolo per una politica democratica. In passato
appelli del genere erano rivolti ai governanti. Si tratta di un portato
della difficile accettazione dei processi democratici da parte della dottrina
sociale, che si è avuta compiutamente piuttosto recentemente, solo con
l’enciclica Il centenario, del 1991, di Karol Wojtyla. Questo
documento fu pubblicato in un anno in cui tutto iniziò a cambiare molto
velocemente in Europa: fu l’anno della dissoluzione del comunismo sovietico in
Russia. In Europa il processo politico era iniziato nel 1989. Si trattò di
sviluppi che in Occidente non si erano previsti e che, quindi, sorpresero non
poco. Si produsse, nell’Europa Orientale dominata dal comunismo
sovietico, una rivoluzione di sistema. Molto più, quindi, di una rivoluzione
politica, che comporta un cambio di chi comanda in politica. A quell'epoca si
volle fondare, progettare e stabilire un nuovo sistema sociale, economico e
politico insieme. E allora il Wojtyla condusse i fedeli verso la democrazia,
nei confronti della quale, fino ad allora, vi erano state sempre molte riserve,
e ancora per certi versi vi sono, tanto che essa viene poco praticata
nell’organizzazione religiosa e viene riservata a quella civile.
Wojtyla fu tra i pochi, e il solo tra i
grandi della Terra, a prevedere il cambiamento dei sistemi politici integrati
dell’Europa orientale, che tenevano sostanzialmente prigioniere le Chiese di
quelle regioni, e in particolare la Chiesa polacca nella quale egli si era
formato. Egli intuiva la fragilità di quei governi nazionali. Ma, con il senno
del poi, possiamo riconoscere che non aveva veramente capito i moventi della
rivoluzione in corso. Egli si illudeva che fossero spirituali, che i popoli
dell’Europa orientale volessero rientrare nuovamente nel consesso delle genti
della fede che era alle radici della cultura civica europea.
Furono strani moti rivoluzionari, quelli che
cambiarono l’Europa in quegli anni. Ci fu poca violenza. Non ci fu una classe
contro l’altra. Non insorsero i ceti più poveri. Si osservò che le piazze si
riempirono di giovani e di professionisti, di gente dei ceti più elevati della
società. I governi, dinanzi a quelle piazze, e a volte solo addirittura alla
minaccia di raduni di piazza, mollarono tutto, come convinti della propria
inesistenza, come fu scritto. E’ stato osservato (Zygmunt Bauman) che fu
l’anelito al consumismo, alla libertà di creare e di soddisfare sempre nuovi
bisogni, che motivò gran parte delle folle che manifestarono in piazza. Nella
Germania orientale, dove, nel novembre 1989 si produsse l’evento che viene
denominato Crollo del muro di Berlino, e che, in realtà, non
comportò alcun crollo, ma solo l’apertura, su ordine del Governo
della Repubblica Democratica Tedesca, della frontiera che all’epoca divideva in
due la città di Berlino, non furono assaltati i palazzi della politica, ma la
gente si accalcò alla frontiera per andare in Occidente, vedere che c’era, fare
acquisti, incontrare parenti che da decenni non vedeva, però poi facendo
ritorno a casa attraverso la medesima frontiera.
Nei sistemi economici e politici comunisti
era vietato non lavorare e tutti avevano una casa. Tutti potevano studiare e
curarsi gratuitamente. Tutti avevano a basso costo di che vivere. C’era tempo
libero e venivano organizzati gratuitamente svaghi e vacanze. Ma lo stato
pretendeva di controllare i bisogni della gente, di
decidere quali erano meritevoli di soddisfazione e quali no. E non
riusciva neppure a soddisfare tutti i bisogni che riconosceva come degni. Per
cui nei negozi di stato c’era poca roba e, quando c’era, occorreva spesso fare
lunghe file per acquistarla. C’era il costume di comprare, ai bassi costi che
venivano praticati dallo stato, anche cose che non servivano al momento, ad
esempio scarpe di una taglia diversa da quella propria, per farne poi baratto.
Tutti i maggiori sforzi dello stato venivano dedicati all’industria pesante,
non a quella che produceva beni di consumo, per sorreggere i bisogni dell’apparato
militare. Infatti i governi di quel mondo vivevano in un perenne clima di
assedio, come agli esordi della rivoluzione bolscevica (quella che poi produsse
lo stato sovietico russo), nel 1917. E nell’industria si aveva di mira innanzi
tutto lo sviluppo sempre più rapido e imponente, non la sostenibilità
ambientale. Fu il desiderio di più beni di consumo la molla principale che
indusse le stesse classi dirigenti dei sistemi comunisti dell’Europa orientale
a cambiare politica, producendo una rivoluzione di sistema. A tutto ciò gli
strati meno ricchi, meno colti e più anziani delle popolazioni, infatti anche
in quelle società l’egualitarismo non era completo, rimasero sostanzialmente
estranei. Furono i più giovani e i ceti colti il motore di quelle rivoluzioni.
Un indizio significativo della dinamica che
ho descritto può essere visto in un fatto di cronaca avvenuto proprio a Roma.
Nel 1991, venne in visita di stato in Italia il nuovo presidente della
Russia, Boris Eltsin. Sua moglie, mentre il marito si intratteneva in colloqui
politici, fu portata in visita per la città e, in particolare, nella Basilica
di Santa Maria Maggiore, che è in una zona della città non particolarmente
elegante, si tratta infatti di un quartiere popolare come il nostro, anche se situato
in centro. Uscendo dalla Basilica, la signora Eltsin vide lì di fronte un
supermercato popolare, che ancora c’è, volle entrare, lo girò tutto e fece
anche acquisti, sotto lo sguardo sbalordito delle commesse. Ne fu entusiasta.
Fu criticato e preso in giro questo suo ingenuo entusiasmo per un supermercato
popolare. Fu osservato che non aveva mostrato lo stesso entusiasmo durante la
visita allo storico chiesone. Era questo profluvio di merce che c’era nei
supermercati occidentali il sogno degli europei orientali.
[Cronaca dell'evento all'indirizzo WEB:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/25/quella-prima-volta-di-eltsin-in-italia.html ]
Ora tutta l’Europa sta di fronte alla
sostenibilità del suo modello di sviluppo consumistico, quello che è stato uno
dei moventi più importanti delle rivoluzioni nell’Europa orientale. Non ce n’è
per tutti. L’induzione di sempre nuovi bisogni genera spreco di risorse. Per
cui mentre c’è chi non ha di che vivere, ci sono quelli che consumano molto di
più di ciò che ragionevolmente sarebbe loro sufficiente per stare molto bene.
Tutto è concentrato nella soddisfazione dei bisogni individuali di chi è
riuscito a integrarsi nel sistema economico, mentre per i bisogni sociali, ad
esempio per i servizi pubblici e per le pensioni sembra che, nelle nostre
società straricche dell’Occidente, manchino sempre le risorse. Il sistema
economico non è stabile, perché, per sostenersi, ha necessità di crescere sempre.
Ma può crescere solo soddisfacendo i bisogni dei sempre meno che hanno di che
pagare certi prezzi. Così, sembra che più aumenta la capacità di soddisfare
bisogni più diminuisca il numero di chi può pagare e, dunque, più sia in
pericolo la crescita costante. Il lavoro diventa
precario perché la sua stabilità è uno di quei costi per i quali non si trovano
mai le risorse. Divenendo precario viene retribuito meno, e quindi diminuisce
la capacità di spesa delle masse. Quindi diminuiscono i consumi e la gente si
indebita per consumare. E’ stato osservato che il debito privato impone un
pesante servaggio alle persone, così come l’entità del debito pubblico ,ora che
la si vuole tenere sotto controllo, limita la spesa sociale con decremento del
benessere collettivo. E’ un modello di sviluppo squilibrato e fondamentalmente
irrazionale, tanto che riesce difficile anche ad istituzioni sovranazionali
come l’Unione Europea tenerlo sotto controllo. Nelle crisi, poi, ognuno pensa
che la soluzione sia di liberarsi dall’onere della solidarietà verso gli altri.
Ci si rinchiude nuovamente nei confini nazionali, e, all’interno di essi,
dentro quelli regionali o comunali, e infine nel proprio privato. Ognuno
vuole tenersi il suo. Spendere ciò che produce. Il grido che sorge dalle masse
è, in fondo: “Meno tasse!”. Chi oggi si adatterebbe ad uno stile di
vita più sobrio? Chi rinuncerebbe al miraggio della crescita costante?
Scrive Bergoglio nella Laudato si’:
222. La spiritualità
cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e
incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire
profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante accogliere un
antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e anche nella
Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il costante
cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare
ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti serenamente davanti
ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre molte più possibilità
di comprensione e di realizzazione personale. La spiritualità cristiana propone
una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un ritorno
alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose, di
ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che
abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo. Questo richiede di evitare
la dinamica del dominio e della mera accumulazione di piaceri.
Vedete come ragionando sulla Laudato
si’ ci si è messa di mezzo tanta storia recente? E
come sono venuti in primo piano argomenti politici? Siamo invitati a
costruire un nuovo modello di sviluppo, a realizzare nell’Europa finalmente (ma
per quanto ancora?) unita un nuovo modello di civiltà, una rivoluzione
sistemica analoga a quelle che cambiarono il nostro continente a cavallo tra
gli anni ’80 e ’90.
E' perché lo vuole, lo ordina, un papa?
Le encicliche sociali sono state sempre un
lavoro collettivo, anche se poi è il sovrano religioso che le firma. Ci sono
sempre stati molti redattori. Per la Laudato si’, per
ciò che si è saputo, non è andata proprio così. C’è effettivamente proprio il
pensiero, e addirittura il lessico, del Papa. Ma le idee che Bergoglio propone
non sono in gran parte sue originali, bensì sono state sviluppate in tutto il
mondo da un movimento politico - religioso molto vasto, come dimostrano le
tante citazioni da testi di Conferenze episcopali. C’è insomma, un popolo che
reclama un nuovo modello di sviluppo. Noi, da che parte stiamo?
Si tratta, come è chiaro, di un lavoro
che coinvolge innanzi tutto la sfera di azione dei laici di fede. La cura
della casa comune compete in primo luogo a loro.
Ecco dunque l’esigenza di una specifica
formazione, che va molto oltre quella catechistica e che deve essere potenziata
in particolare a partire da quella post Cresima. C’è necessità di
studiare e di fare esperienze. Di incontrare gente, anche al di fuori
dell’Italia. Conoscere per progettare il cambiamento. Di imparare a praticare
il metodo democratico nella discussione e nelle decisioni. Perché bisogna
decidersi in masse e solo la democrazia consente di farlo. Un’organizzazione
che bisognerebbe creare anche a livello parrocchiale: è da qui che la gente di
fede deve essere educata ad andare oltre, in particolare a ragionare su scala
europea e mondiale. A essere consapevole della prospettiva storica dei
problemi.
Nella nostra parrocchia siamo ancora ai
primi passi e la dispersione della biblioteca parrocchiale non aiuta.
- 19 -
Democrazia: un sistema di potere collettivo con
limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica sulla base di valori condivisi
Se
consideriamo la storia recente dell’umanità, possiamo constatare facilmente che
qualsiasi sistema di potere che abbia voluto correggere la società introducendo
limiti basati sull’idea di giustizia sociale, quindi di valori e diritti
fondamentali delle persone incomprimibili dai sovrani e dall’economia, ha
dovuto far ricorso a livelli vari di violenza politica, per costringere la gente
ad adattarsi ai nuovi comandi. Anche la dottrina sociale della nostra fede non
ha fatto eccezione. I livelli più intensi di violenza politica a fini di
giustizia sociale furono senz’altro espressi dal comunismo sovietico. Ma anche
la legislazione sociale democratica è stata presidiata sia dal potere
giudiziario che da quello amministrativo, anche con misure coercitive. La
legge, anche in un regime democratico sociale, è tale se ci sono autorità
che riescono a farla rispettare.
Se noi guardiamo all’esperienza politica
sovietica, ci rendiamo conto che la rivoluzione che essa espresse fu violenta
all’origine, e quindi fu attuata anche mediante la soppressione e
incarceramento di avversari ideologici, comprese persone che appartenevano ad
diversi filoni del socialismo rivoluzionario, ma che la violenza politica, con
assassinii su larga scala intesi addirittura come decimazioni di
etnie che si ritenevano resistere al potere centrale organizzato dal partito
comunista sovietico, si intensificò nel corso del dominio assoluto espresso da
Giuseppe Stalin, nativo della Georgia, dal 1924
al 1953. Questi assassini politici sono apprezzabili addirittura nelle indagini
demografiche perché portarono a un decremento della popolazione inspiegabile
con altre cause (ad esempio epidemie, guerre ecc.). Fin dall’inizio della
rivoluzione sovietica fu organizzato un sistema di deportazione e di lavoro
forzato dei condannati politici in appositi campi, chiamati Gulag.
Esso rimase in vigore fino al 1987, venendo soppresso durante il dominio
politico di Mikhail Gorbaciov, dal 1985 al 1991, durante il quale il sistema
politico sovietico si dissolse a seguito di processi democratici inaspettati in
Occidente. Durante il dominio politico degli ucraini Nikita Krusciov, dal 1955
al 1964, e Leonida Breznev, molto più lungo, dal 1964 al 1982, lo
sterminio sistematico di coloro che venivano individuati come nemici politici
cessò, ma non cessò la persecuzione politica, amministrativa e giudiziaria,
punendo i dissidenti anche con l’esilio in Occidente e la revoca
della cittadinanza.
Della violenza politica sovietica fecero le
spese molti gruppi sociali, considerati nemici politici, e anche esponenti di
alto livello dello stesso partito comunista. In particolare furono colpite le
Chiese cristiane e i loro fedeli. La manifestazione della fede cristiana spesso
portava all’emarginazione sociale e politica. Nell’Unione sovietica e in altre
nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio la religione non era
proibita, ma veniva promossa una propaganda di ateismo: le religioni e il clero
venivano considerati infatti come strumenti di oppressione della classe operaia
e di quella contadina.
Con tutto ciò l’Unione Sovietica e le
nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio ebbero Costituzioni molto
avanzate, con affermazione di diritti sociali che nel resto d’Europa
cominciarono ad essere proclamati, in genere, dopo la Seconda guerra mondiale
(se si eccettua la costituzione della repubblica tedesca detta di Weimar,
corrente tra il 1919 e il 1933).
Ecco, ad esempio il catalogo dei diritti
fondamentali contenuto nella Costituzione sovietica del 1936, fatta
approvare da Stalin, quando l’Italia era ancora sotto il dominio del fascismo
mussoliniano:
118. I cittadini dell’URSS hanno diritto al
lavoro, cioè diritto di ricevere un lavoro garantito e retribuito secondo la
quantità e la qualità [delle loro prestazioni].
Il diritto al lavoro è assicurato
dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale,
dall’aumento incessante delle forze produttive
della società sovietica, dall’eliminazione della possibilità di crisi
economiche e dalla liquidazione della disoccupazione.
119. I cittadini dell’URSS hanno diritto al
riposo.
Il diritto al riposo è assicurato dalla riduzione
della giornata lavorativa fino a 7 ore per l’immensa maggioranza degli operai,
dall’istituzione di congedi annuali per gli operai e gli impiegati con
mantenimento del salario, e dalla predisposizione di un’ampia rete di sanatori,
case di riposo e club, posta al servizio dei lavoratori.
120. I cittadini dell’URSS hanno diritto
all’assistenza materiale durante la vecchiaia, nonché in caso di malattia e di
perdita della capacità lavorativa.
Questo diritto è assicurato dall’ampio sviluppo
dell’assicurazione sociale degli operai e degli impiegati a carico dello Stato,
dall’assistenza medica gratuita ai lavoratori, e dall’ampia rete di stazioni di
cura messa a disposizione dei lavoratori.
121. I cittadini dell’URSS hanno diritto alla
istruzione. Questo diritto è assicurato dall’istruzione elementare, generale ed
obbligatoria, dal carattere gratuito dell’istruzione, compresa
l’istruzione superiore, da un sistema di borse di studio statali per l’immensa
maggioranza degli studenti delle scuole superiori, dall’insegnamento scolastico
nella lingua materna e dall’organizzazione dell’insegnamento professionale,
tecnico e agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine, nei
sovchoz, nelle stazioni di macchine e trattori e nei kolchoz.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS diritti
uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica, statale,
culturale e socio-politica.
La possibilità di esercitare questi diritti è
assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto dell’uomo al
lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione sociale e
all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi della madre
e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla donna, con
mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità, di nidi e di
giardini d’infanzia.
123. L’uguaglianza giuridica dei cittadini
dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi
della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o indiretta dei
diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi diretti o
indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità alla quale
appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale o nazionale,
ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
124. Allo scopo di assicurare ai cittadini la
libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola
dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di
propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
125. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini
dell’URSS è garantita dalla legge:
a) la libertà di parola;
b) la libertà di stampa;
c) la libertà di riunione e di comizi;
d) la libertà di cortei e manifestazioni di
strada.
Questi diritti dei cittadini sono assicurati
mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le
tipografie, le scorte di carta, gli edifici sociali, le strade, i mezzi di
comunicazione e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio.
126. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di sviluppare l’autonomia organizzativa e l’attività
politica delle masse popolari, è assicurato ai cittadini dell’URSS il diritto
di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, consorzi cooperativi,
organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa,
associazioni culturali, tecniche e scientifiche, mentre i cittadini più attivi
e più coscienti provenienti dalle file della classe operaia e da altri strati
di lavoratori si riuniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, che è
il reparto d’avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento
e lo sviluppo del regime socialista, e che rappresenta il nucleo direttivo di
tutte le organizzazioni dei lavoratori, sia sociali che statali.
127. Ai cittadini dell’URSS è assicurata
l’inviolabilità della persona. Nessuno può essere sottoposto ad arresto se non
in base a sentenza(postanovlenie) di un tribunale o con la conferma del
procuratore.
128. L’inviolabilità del domicilio dei cittadini e
il segreto della corrispondenza epistolare sono tutelati dalla legge.
129. L’URSS accorda il diritto di asilo ai
cittadini stranieri perseguitati per avere difeso gli interessi dei lavoratori,
o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte di
liberazione nazionale.
130. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto ad
osservare la Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche,
ad eseguire le leggi, ad osservare la disciplina del lavoro, a comportarsi con
onestà nei confronti del dovere sociale e a rispettare le regole della
convivenza socialista.
131. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto a
salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale socialista, come base sacra
e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della
patria, fonte di vita agiata e civile per tutti i lavoratori.
Coloro che attentano alla proprietà sociale,
socialista, sono nemici del popolo.
E’ chiaro che, tuttavia, la gran parte dei
diritti di incolumità sociale e libertà rimasero solo proclamazioni formali nei
sistemi sovietici e in quelli che ad essi si ispiravano, perché nei fatti
veniva repressi e negati. Nell’Europa occidentale cominciarono ad essere
proclamati e attuati nel secondo dopoguerra, dopo la caduta dei regimi
nazifascisti. Un esempio di ciò è stata storicamente la Repubblica
italiana.
In particolare, nei sistemi sovietici e di
ispirazione sovietica, non era ammessa l’iniziativa economica privata, se non
su minima scala. I regimi comunisti si proponevano di selezionare i bisogni
degni di essere soddisfatti e di soddisfarli con una propria organizzazione
produttiva. In realtà non si riuscì mai a conseguire questo scopo e la vita
nelle nazioni governate da regimi comunisti appariva significativamente più
misera di quella delle popolazioni degli stati Occidentali. Anche l’arte e la
scienza ne risentirono. Il penetrante controllo politico ne limitò l’efficacia
e l’originalità.
L’attuazione dei diritti sociali
fondamentali nell’Europa Occidentale si sviluppò con procedure democratiche dal
secondo dopoguerra, dalla metà degli anni ‘40. Questo consentì di ottenere
risultati importanti con il minor grado di coercizione possibile. Infatti in
democrazia si fa conto sull'adesione volontaria alle decisioni collettive, a
prescindere da sanzioni. La nuova Europa dei nostri tempi, che affratella anche
nazioni che si liberarono dai regimi comunisti a cavallo tra gli anni ’80 e
’90, segue ancora questo metodo. La democrazia comporta che non possano
esistere poteri pubblici o privati illimitati: ogni potere deve averne un altro
che lo limiti e lo controlli. Il problema dei nostri tempi è l’eclissi dei
diritti sociali sotto l’aggressione dei sistemi di potere privati globalizzati,
in grado di condizionare interi stati. Gli stati e le istituzioni
sovranazionali, come l’Unione Europea, non si trovano a dover combattere poteri
che loro esplicitamente si oppongano, ma si trovano a dover soggiacere ad
un sistema economico e sociale al quali essi stessi partecipano, trovandone
risorse per i programmi pubblici. I problemi economici appaiono quindi come
provocati da una sorta di fenomeni naturali, come i terremoti, contro i quali
c’è poco da fare, in particolare per indirizzare a fini sociali, come la nostra
Costituzione ancora prevede, l’iniziativa economica privata, che è libera, ma
anch’essa, in quanto potere privato, ha dei limiti, in particolare nella
sicurezza, libertà e dignità umana e nei programmi e controlli pubblici perché
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (così è
scritto nell’art.41 della Costituzione). Possiamo dire che questi obiettivi
siano raggiunti, oggi, in Italia?
Mantenere una via democratica
all’affermazione dei diritti fondamentali sociali nelle società avanzate
Occidentali contemporanee è il grande problema dei nostri tempi.
La dottrina sociale è piena di proclamazione
di grandi diritti sociali, come gli articoli della costituzione sovietica che
ho sopra trascritto, ma renderli vivi tra la gente richiede che ci si addestri
nel metodo democratico, perché è esso che fa funzionare i poteri pubblici
nell’Europa di oggi: non c’è da attendersi da nessun uomo forte che
produca il risultato a cui si mira. I governi, anzi, appaiono deboli di fronte
alle temperie economiche globali che minacciano i diritti fondamentali della
gente. Ecco dunque che devono essere incalzati dalla gente, appunto con metodo
democratico.
E’ quanto siamo invitati a fare nella Laudato
si’:
178. Il dramma di una politica focalizzata sui
risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende
necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi
elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con
misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio
investimenti esteri.
179. [… ] Poiché il diritto, a volte, si
dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una
decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società,
attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare
i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i
cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e
municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali.
181. […] Occorre dare maggior spazio a una sana
politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche, che
permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
Ecco perché la formazione e soprattutto il
tirocinio alla democrazia dovrebbe rientrare in quella alla vita di fede, in
particolare per il laico.
- 20 -
L’illusione dell’«uomo forte»
C’è sempre,
nell’esperienza sociale, la tentazione di affidare la realizzazione del bene
comune all’azione di un “uomo forte”. C’è in politica, come in religione
e in tutti gli altri campi della vita umana in cui certi risultati possono
ottenersi solo con un lavoro collettivo.
Che cos’è il bene comune? Se ne sono date
molte definizioni. Si parte sempre, però, dall’idea che gli esseri umani per
essere felici dipendono dagli altri. La loro felicità dipende dall’ambiente in
cui sono inseriti. E non basta l’appagamento dei bisogni: è esperienza comune
che anche i ricchi soffrono. Tanto più che nell’era contemporanea l’economia
delle società più ricche sembra dipendere dalla creazione incessante di nuovi
bisogni e, quindi, su un costante loro inappagamento. E infatti nelle
straricche società occidentali l’esperienza della gioia, del sentimento di
appagamento interiore, è rara. Si può concludere che viviamo in un ambiente
sociale che non favorisce la felicità, che è difficile da raggiungere
nonostante ognuno nella propria vita si sforzi di farlo. Bisognerebbe
introdurre delle modifiche, ma trattandosi lavorare su una società, c'è
da fare un lavoro collettivo. Ci siamo però disabituati a svolgerlo: esso
è propriamente la politica. Ognuno tende a fare per sé, a sviluppare una
propria idea di società che gli consentirebbe di essere felice. Così ci sono
moltissime idee di società felici, ma poi la società corre come abbandonata a
sé stessa, perché non ci si riesce a mettere d’accordo su come modificarla.
Bisognerebbe infatti tener conto anche delle aspirazioni alla felicità altrui.
Ma c’è sempre il sospetto che ciascuno voglia fare solo gli affari
propri. E spesso esso risulta fondato. Così manca la fiducia nel prossimo e
quindi la possibilità di svolgere un lavoro comune. E’ difficile fare unità
dalla molteplicità delle nostre vite. E’ in questo momento che sorge la
tentazione dell’ “uomo forte”: una persona a cui affidare tutte le nostre
speranze e che, con autorità non più contestabile, ponga fine alle discordie e
decida una linea. Trattandosi di una persona sola, sia pure con molta autorità,
pensiamo che sia più facile liberarsene, quando non ci andrà più bene.
Nell’immaginazione comune i molti prevalgono sui singoli. Temiamo di più i
molti, per di più anarchici, senza una forza che li tenga a bada e ci protegga
da loro, che la singola autorità personalizzata. Questo però è un grave errore.
Prendendo consapevolezza della storia dell’umanità possiamo facilmente
convincerci che nulla è più stabile, nelle società umane, dei poteri molto
personalizzati, come erano quelli dei monarchi assoluti che dominarono l’Europa
fino al faticoso emergere delle democrazie, dalla fine del Settecento. O come
furono i despoti sovietici che ho ricordato in un post di
due giorni fa: Giuseppe Stalin, Nikita Krusciov, che pure dichiarò
di voler liberare la politica da quello che chiamò il culto della
personalità, Leonida Breznev (del fondatore del comunismo sovietico, Lenin,
non possiamo dire se sarebbe divenuto un despota, perché regnò solo per sette
anni, mentre l’ultimo capo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov non volle
più essere un despota, ma, a quel punto, il sistema sovietico si dissolse). O,
in Italia, il capo del Governo in epoca fascista, Benito Mussolini, che
chiamammo Duce, il condottiero di un’intera nazione, un padre della
patria, in tutti i sensi il modello a cui noi italiani pensiamo subito quando
parliamo di “uomo forte”. Egli ebbe nelle sue mani l’Italia per un
ventennio. E anche in religione, nella nostra fede, noi facciamo molto conto su
“uomini forti”: le nostre collettività religiose sono infatti organizzati,
almeno formalmente, sotto il potere assoluto di un’unica persona, la cui
autorità è stata storicamente costruita come quella di un imperatore religioso:
questo sistema di governo dura ormai da mille anni.
Nel corso della campana per il referendum
costituzionale, si è evocata, a proposito dei possibili effetti della riforma
costituzionale che tra poco sarà oggetto di un referendum, l’esperienza
politica dispotica del capo di stato Augusto Pinochet, che dominò il suo popolo
dal 1973 al 1990. Ma il paragone con l’esperienza cilena è improprio ed
esagerato, se riferito all’attuale situazione politica italiana, che si muove
ancora saldamente entro procedure democratiche. Tuttavia, dall’inizio degli
anni ’90, di fronte all’apparente disgregazione e dispersione della politica
nazionale, si seguì la via di personalizzare molto il
confronto politico, creando quelli che vengono definiti partiti
personali, quelli che fanno riferimento ad un preciso capo politico, del
quale spesso viene inserito in nome nel simbolo di partito. I maggiori partiti
politici nazionali sono attualmente organizzati come partiti personali. Se si
pensa a quelle formazioni non viene in mente un preciso programma politico, ma
la persona del capo di riferimento. E’ questo il metodo migliore per capire se
un partito è o non è personale. I capi dei partiti personali reclamano
poi mano libera, e chiedono la fiducia in questo la fiducia di chi li
vota. Così spesso i cittadini elettori sono posti nelle condizioni di coloro
che firmano cambiali completamente in bianco.
Tutti i capi dei partiti personali parlano
di riforme. Quali saranno precisamente? Non lo dicono. Ci
assicurano che ci cambieranno la vita in meglio. Ma come facciamo a valutarne
l’affidabilità senza che ci vengano esposte nel dettaglio? Quando però viene
fatto, emergono tanti problemi e soprattutto ciascuno capisce che, quando ci
viene detto che le riforme sono necessarie ma dolorose,
non è solo agli altri che recheranno dolore. Rimanendo sul vago
questo problema viene superato. Ognuno pensa al bene comune che
ha in mente, e non viene contraddetto dagli aspiranti riformatori, i
quali spesso sono in buona fede perché neppure loro hanno in testa un preciso
progetto di riforme, e può prevedere che il dolore sarà
solo a carico di altri.
E’ stato osservato che la recente riforma
costituzionale riduce di molto il peso del Senato nelle decisioni che il
Parlamento deve prendere in seduta comune, vale a dire riunendo deputati
e senatori e facendoli votare. E questo perché il Senato passa da
trecentoquindici membri, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della
Repubblica) e quelli di nomina presidenziale (per aver “illustrato” la Patria),
a cento membri, compresi nomina presidenziale, oltre ai senatori a vita (gli ex
presidenti della Repubblica). Tenendo conto che il sistema elettorale per la
Camera di deputati assegna al partito che riesca a conseguire
il 40% dei voti validi degli elettori o riesca a vincere il ballottaggio tra
i due più forti partiti di minoranza una solida maggioranza assoluta, e tenuto
conto dell’analogo effetto che viene prodotto dai sistemi elettorali regionali
e comunali e dunque sulla composizione dei consigli regionali (che, secondo la
riforma costituzionale, nomineranno i senatori) e sulla scelta dei sindaci (tra
i quali verranno scelti alcuni senatori), possiamo prevedere che probabilmente,
quando il Parlamento deciderà in seduta comune, il partito che esprime il
Governo avrà la possibilità di far approvare le sue scelte. Il Parlamento,
secondo la riforma costituzionale, nominerò in seduta comune il
Presidente della Repubblica e un terzo (otto membri) dei componenti del
Consiglio superiore della magistratura. Poiché può prevedersi che, nell’attuale
scenario politico, i partiti che avranno la possibilità di vincere le
elezioni politiche saranno partiti personali, ecco che si può
temere che il capo del partito personale vincitore
avrà la possibilità di far approvare le sue scelte personali in
materia. Dunque che la più importante istituzione di garanzia costituzionale,
la Presidenza della Repubblica, finisca ad essere assegnato a persona di
fiducia del capo del partito personale. E che l’influenza del medesimo
capo politico sulla magistratura, dalla quale dipende l’attuazione dei diritti
dei cittadini, in modo che non rimangano solo sulla carta come begli enunciati
formali, aumenti di molto rispetto alla situazione attuale, incidendo
sull’indipendenza dei giudicanti dal potere di governo. Anche sotto questo
profilo la riforma costituzionale va verso un maggior potere personale di
governo. Del resto è proprio questa la soluzione che i capi politici
contemporanei propongo in Italia: un potere personale, di un uomo forte
(i capi personali dei maggiori partiti politici sono attualmente
uomini), per superare lo stallo che in politica è determinato che non ci si
riesce a mettere d’accordo, quindi dal fatto che, in definitiva, la gente non
sa più fare politica. Infatti la politica non è fatta solo di chiacchiere,
in cui ognuno dice la propria e rimane della propria opinione, che
risulta poi incomponibile con quella degli altri, ma si costruisce sul dialogo, che
significa tener conto anche delle ragioni degli altri e proporsi di arrivare ad
un’intesa. Dal dialogo poi scaturiscono decisioni condivise.
Un’ultima considerazione: gli uomini
forti degradano rapidamente. Un potere senza sufficienti e
autorevoli contrappesi, innanzi tutto nella politica democratica espressa dalla
base dei cittadini, tende all’abuso e all’eccesso. Per ricordare l’esempio
sovietico, viene riferito che Leonida Breznev, il quale dominò un immenso
impero socialista per circa un ventennio, sviluppò una
passione personale per le automobili più costose prodotte in Occidente, che
amava guidare personalmente: ne aveva una vasta collezione e, personalmente,
non vi trovava alcuna contraddizione con gli ideali socialisti proclamati. E’
questa una dinamica che si riscontra, in genere, nella gran parte degli uomini
forti, papi compresi (se si eccettua quelli, molto più sobri in questo,
degli ultimi due secoli). L’orgoglio di uomo forte grida
veramente sfacciato, ad esempio, dal frontone del grande chiesone
vaticano. Leggere per credere. Dice sostanzialmente: "L'ho
fatto io!".
- 21-
Come bambini
Diventare come bambini?
Non in tutto è bene proporselo.
E’ scritto anche che quando si è bambini si
ragiona da bambini, ma quando si è adulti…
In particolare: negli affari di stato è un
atteggiamento giusto ragionare e agire come bambini?
Perché educare la
gente se poi, ad esempio in politica, deve tornare bambina?
L’anti-politica, che poi sarebbe
meglio chiamare non-politica, si basa proprio su questo
rimbambimento della gente, per cui ci si decide senza tanto pensarci su, per
ripicca, per contrapposizione superficiale, e, soprattutto, in opposizione
ai grandi.
Che succederebbe se ai bambini riuscisse di
controllare i grandi? Proverebbero a farlo, poi però, non sapendo
che fare senza di loro, e vedendo rapidamente degradare l’ambiente intorno, li
riporterebbero al potere. Un bambino fatalmente dipende dai grandi,
proprio perché è bambino e ha dei limiti. Può anche giocare a fare l’adulto
e allora questo è un modo di imparare a crescere, ma se tutto fosse affidato a
lui andrebbe rapidamente in malora.
Il principale problema politico oggi in
Italia è che molta gente, nelle questioni di stato, ragioni e agisca da
bambina. La pratica della rete telematica, i rapporti via WEB, incoraggia a
farlo. Sul WEB una persona si può sentire onnipotente, come nei videogiochi.
Toccando l’icona “CANCELLA” si può ripartire da
capo. E’ più facile seguire la corrente e non c’è tanto bisogno di
studiare sui problemi. Può sembrare strano, ma la vita sul WEB induce molto
conformismo: si tende a fare come gli altri. Del resto non c’è tempo per
riflettere. Le decisioni devono essere immediate: “SI’” o “NO”. Si sa subito
chi ha vinto. E ricomincia la partita.
Bisogna però considerare che certe
decisioni politiche sono difficilmente reversibili. Una scelta sbagliata può
peggiorare la vita di un popolo molto rapidamente e molto a lungo. In
particolare questo accade quando si modificano i principi fondamentali che
reggono la struttura degli stati, quelli contenuti nelle costituzioni. E’
appunto quello che sta per accadere in Italia, in una data che non si sa ancora
quando sarà ma che sarà a breve, entro il prossimo dicembre. Quando voteremo al
referendum sulla recente riforma costituzionale.
I fautori della riforma dicono che essa non
riguarda diritti e doveri delle persone, ma solo l’organizzazione dei
principali organi dello stato. Essa tuttavia può potenzialmente incidere su
quei diritti e doveri, perché, riformando Parlamento, Presidenza della
Repubblica e Corte Costituzionale, incide sugli organi ai quali compete
la formulazione e tutela dei principi costituzionali. Se si mettono
questi tre organi costituzionali potenzialmente nelle mani di una minoranza,
nella specie del maggiore dei partiti di minoranza, e questo potrebbe essere
l’effetto della riforma costituzionale combinata con quella precedente del
sistema elettorale della Camera dei deputati, tutta la
Costituzione potrebbe rapidamente cambiare, anche nei principi fondamentali, ad
esempio nel principio di uguaglianza e nel diritto al lavoro e alla
salute, e nel breve periodo non ci si potrebbe fare nulla. Non c’è un tasto
“CANCELLA” in queste cose.
In precedenti interventi ho
analizzato la riforma costituzionale sotto vari aspetti.
Voglio qui segnalare che essa, come detto,
riguarda anche la Corte Costituzionale. Attualmente un terzo dei suoi membri,
cinque, vengono eletti dal Parlamento in seduta comune. Anche dopo la
riforma in alcuni casi le Camere decideranno in seduta comune: per la nomina
del Presidente della Repubblica e per la nomina di otto membri del Consiglio
superiore della magistratura, l’organo che è alla base dell’indipendenza dei
giudici da ogni altro potere dello stato e, quindi, dell’indipendenza della
giurisdizione dall’influsso degli altri poteri. In questa sede il nuovo Senato
conterà molto meno perché avrà due terzi di membri in meno. Possiamo
immaginare, quindi che la decisione del partito di minoranza relativa, quello
che secondo la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati avrà vinto le
elezioni, e lo si saprà subito, conseguendo la maggioranza assoluta dei
deputati, conterà molto di più in quelle decisione.
Per quanto riguarda la scelta dei giudici
costituzionali, invece, il Senato, quel Senato piuttosto depotenziato che
uscirà della riforma, scaturito da una classe politica locale in genere
controllata dai partiti egemoni a livello nazionale, conterà invece molto di
più. Pur avendo un sesto dei membri rispetto a quelli della Camera dei
deputati, nominerà due giudici costituzionali su cinque. Perché? Non è ben
chiaro la ragione di questa scelta, che potenzialmente può pesantemente
incidere sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale e quindi
sull’attuazione dei diritti della gente.
Possono immaginarsi tre scenari.
Il primo: sfruttando le possibilità offerte
dai sistemi maggioritari vigenti per le elezioni regionali e comunali un
partito riesce a controllare la maggioranza delle Regioni. A quel punto esso
controllerà anche la nomina dei due giudici costituzionali da parte del Senato.
Ma, poiché la nomina di quei giudici si farà in molto meno senatori di oggi,
sarà più facile controllarla. Controllare i novantacinque persone, quanti
saranno i nuovi senatori nominati dai consiglieri regionali, sarà più facile
che controllarne trecentoquindici, quanti sono oggi i senatori. Ma,
soprattutto, poiché la carica di senatore dipenderà da quella come consigliere
regionale e sindaco, sarà più facile controllare i senatori con la minaccia di
provocare in sede locale una crisi politica che porti alla decadenza anche
dalla carica in Senato.
Il secondo: per le procedure di nomina dei
senatori, che con la riforma non saranno più contestuali con quelle dei
deputati, in quanto il nuovo Senato si rinnoverà parzialmente ad ogni elezione
regionale, ci potrebbe essere una marcata divergenza politica tra Camera dei
deputati e nuovo Senato. In questo caso la nomina dei giudici costituzionali
fatta dal Senato potrebbe essere fatta dalla maggioranza di controllo del
Senato per organizzare una resistenza contro la maggioranza che controlla la
Camera di deputati. Questo inciderebbe sull’unitarietà e sullo spirito di
collaborazione nel collegio dei giudici costituzionali. Potrebbero essere molto
di più di oggi le decisioni prese con esigue maggioranze.
Il terzo: il Senato potrebbe cadere in mano
a politiche centrate su particolarismi locali, secondo i quali ad esempio
che ogni Regione debba fare da sé, con le proprie risorse, senza poter contare
sulla solidarietà delle Regioni più ricche. In questo caso questa tendenza si
rifletterà sulla giurisprudenza costituzionale attraverso i membri nominati dal
Senato.
I riformatori costituzionali sono ben
consapevoli di quei problemi, come anche degli altri che nei precedenti
interventi ho segnalato. Ritengono che, comunque, si debba procedere perché una
riforma imperfetta è pur sempre meglio che nessuna
riforma. Questo però non è condivisibile, trattandosi di una riforma costituzionale.
Come tale essa sarà difficilmente reversibile e potrebbe produrre, sotto
l’azione di minoranze spregiudicate favorite dai sistemi elettorali
maggioritari vigenti per le elezioni nazionali e locali, ulteriori importanti
effetti sul sistema dei diritti e doveri dei cittadini: del resto è proprio a
questo che si punta, quando si dice che la riforma costituzionale aprirà la
strada alle riforme. Di queste ultime si sa poco, perché chi
ne parla non fornisce di solito particolari. Di solito quelle recenti sono
state dolorose per le masse dei lavoratori: hanno ridotto le
prestazioni di stato sociale. E’ stato osservato che,
paradossalmente, le prestazioni di stato sociale, l’intervento dello stato a
sostegno di componenti della società in difficoltà, sono state mantenute, e
incrementate solo per i ceti più ricchi. Il principio “Meno
tasse!” e il sostegno alle banche ne sono stati espressione.
Una riforma imperfetta, che è tale fin dall'inizio,
che nasce imperfetta, funzionerà in maniera imperfetta. Essendo
una riforma costituzionale essa influirà sul complessivo funzionamento dello
stato, rendendolo imperfetto. La sua imperfezione renderà
difficile correggerla, perché le riforme della riforma
imperfetta dovranno farsi proprio con le procedure
costituzionali della riforma imperfetta che ci si
propone di riformare.
Le riforme costituzionali devono essere fatte bene, molto bene, fin dall'inizio,
pena grossi guai.
Come funzionerà una riforma imperfetta? A volte è difficile
prevederlo. Proprio la sua imperfezione la rende
imprevedibile. Alcuni costituzionalisti pronosticano gravi problemi di
coordinamento tra le istituzioni di vertice. Hanno osservato, ad esempio, che,
al posto dell'unica procedura per fare le leggi, dopo la riforma ce ne saranno
una decina.
Bisogna anche tener presente che non è vero
che il sistema costituzionale attualmente vigente abbia impedito riforme, anche
costituzionali. Gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo millennio, ad
esempio, sono stati epoche di intense riforma. Tra l’altro anche la riforma
costituzionale attualmente in questione è stata approvata dal Parlamento com’è
oggi. Quello che in genere si è riusciti a impedire è la prevaricazione di
maggioranze risicate ma intraprendenti. Nel nuovo sistema, tutto rischia
addirittura di essere posto nelle mani della maggiore tra le minoranze
politiche.
La riforma costituzionale in questione
cambia una parte significativa della Costituzione vigente e tratta quindi molte
materie. Studiare i problemi costa tempo e fatica. E la decisione con un “SI’”
o un “NO” non rende le cose più semplici, anzi. Tende a ridurre tutto a
qualcosa come un videogioco. E genera la tendenza a decidersi sulla base della
fiducia che si ha in uno dei capi dei partiti personali di
oggi.
La riforma è stata approvata su impulso
dell’attuale Governo e allora si potrebbe pensare di avere un’idea dei suoi
effetti tenendo conto del programma politico del suo attuale capo. Ma, una
volta approvata la riforma, non è sicuro che sarà proprio lui a beneficiarne. E
le statistiche, infatti, segnalano che il suo partito, se si votasse oggi per
l’elezione dei deputati, non vincerebbe le elezioni. Sarà la maggiore delle
minoranze, anzi il maggiore dei partiti di
minoranza, a controllare la Camera dei deputati e, probabilmente, prima o
poi, man mano che lo si rinnoverà di elezione regionale in elezione regionale,
anche il Senato.
Se i bambini potessero scegliere,
quali grandi vorrebbero avere per genitori? Se glielo si
chiede, in genere, pensano che i loro attuali genitori siano i migliori per
loro. I bambini in genere sono piuttosto conservatori. Oppure, se in un certo
momento sono in urto con i genitori, magari dicono di volere come genitori
dei grandi che li assecondino in tutto. Ma non sempre,
in realtà, i genitori che hanno sono i migliori che si possano pensare per loro
e sicuramente un genitore che assecondi in tutti i suoi figli da bambini non è un
buon genitore. Per i bambini la capacità realistica di giudizio sui grandi e
poi l'acquisizione della piena cittadinanza, sviluppando la medesima
capacità di giudizio, sono conquiste culturali che dovrebbero raggiungere
crescendo, all’interno di un processo educativo. Alla fine non ragionano più
come bambini. Perché il ragionamento dei bambini è imperfetto, insufficiente.
Com’è che gli adulti, talvolta, di fronte a
scelte cruciali per la vita della nazione, sembrano ragionare come bambini? Si
può pensare che non si sia curata sufficientemente la loro formazione politica
permanente, per cui poi essi si siano lasciati andare, o siano regrediti, si
siano lasciati trascinare dalla corrente, abbiano dimenticato l’educazione
civica ricevuta a scuola, e in definitiva ora non sappiano più fare altro che
ragionare e comportarsi come i bambini.
Del resto, lo vediamo in parrocchia: quando
mai nella formazione religiosa, che dovrebbe comprendere anche la
consapevolezza e la pratica dei principi della dottrina sociale, si è trattato
del modo in cui si deve fare il cittadino in una nazione democratica come la
nostra, in cui il voto è decisivo per imprimere svolte alla vita pubblica? I
cattolici hanno dato un grandissimo contributo alla costruzione della Repubblica
democratica e li troviamo anche tra gli ideatori dell’attuale riforma
costituzionale. Il problema però non è nelle classi colte, negli elementi di
punta dei cattolici italiani, ma nelle masse cattoliche, quelle stesse che,
negli anni Venti del secolo scorso, assecondarono l’avvento del fascismo
mussoliniano.
L’Azione Cattolica, in ACR, sta svolgendo
un progetto di formazione alla politica fin dai bambini più piccoli. Possiamo
immaginare che tra una decina d’anni avremo adulti di fede più consapevoli e maturi.
Ma è oggi che, per certi versi, si decide il loro futuro.
Vivranno infatti nello stato che scaturirà dal prossimo referendum
costituzionale.
- 22 -
Non un referendum sulla Costituzione, ma solo su una legge di
revisione costituzionale
Nel settembre 2016 il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza
Episcopale Italiana, ha invitato gli italiani a informarsi personalmente in
merito al prossimo referendum sulla Costituzione. Avverto però che
quello del prossimo 4 dicembre non sarà, in realtà, un referendum sulla
Costituzione, ma solo su una legge di revisione costituzionale che, benché
piuttosto estesa, comunque lascia immutata la gran parte del testo
costituzionale. I diritti e di doveri dei cittadini nei rapporti civili, etico
sociali, economici, politici non vengono mutati. Non cambieranno il
principio di eguaglianza tra i cittadini e il riconoscimento dei diritti
inviolabili degli esseri umani. Tuttavia è vero che, incidendo sulla struttura
e il funzionamento del Parlamento, sulla nomina e poteri del Presidente della
Repubblica e sulla nomina dei giudici della Corte Costituzionale, vale a dire
sugli organi di vertice della Repubblica nelle cui mani è affidata l’intera
Costituzione, la riforma è suscettibile di avere riflessi importanti anche
sulle parti non formalmente modificate. La Costituzione potrebbe cambiare
rapidamente anche in quelle parti, sotto l’impulso di un processo riformatore del
governo che è la principale finalità che si propongono i fautori della riforma.
Infatti la riforma costituzionale è presentata come il passo necessario per
arrivare a riforme in grado di risolvere i problemi italiani.
Quali saranno queste riforme non si sa bene, i riformatori sono
piuttosto vaghi e, soprattutto, volubili in merito. Ecco che, ad esempio, solo
qualche settimana fa, nell’emozione del terremoto dell’Italia centrale,
pensavano di avviare un programma di messa in sicurezza dal punto di vista
sismico di tutti gli edifici sul territorio, che richiederebbe ingentissime
risorse pubbliche, e ieri invece hanno rispolverato il progetto di un ponte
sospeso sullo stretto di Messina, che si presenta anch’esso costosissimo:
questo mentre il Governo si dibatte tra gravi difficoltà di bilancio, non
avendo di che finanziare progetti molto meno costosi e addirittura l’ordinario,
come le pensioni e la sanità, e proponendosi, per di più, di ridurre le tasse.
Ho
analizzato nel dettaglio la riforma costituzionale oggetto del referendum. Essa
è fortemente controversa tra i partiti politici. E’ stata ideata e approvata
sotto l’impulso dell’attuale Governo, che ne ha fatto uno dei principali punti
del suo programma. L’approvazione della riforma, come notato da diversi
commentatori, ha visto delle forzature, nella specie delle restrizioni, del
dibattito parlamentare mediante procedure di eliminazione degli emendamenti. Si
è proceduto, insomma, a tappe forzate. E di questa fretta, inusuale in un
dibattito su una riforma costituzionale, per di più così estesa come l’attuale,
si è anche data la colpa all’«Europa», presentando la riforma come qualcosa che
ci veniva chiesta in sede europea. In realtà non è così. La riforma è
integralmente un prodotto nazionale. E’ patrocinata dall’attuale Governo perché
rafforzerebbe la posizione del Governo nel quadro costituzionale. E questo in
particolare per l’effetto di un’altra riforma, attuata con legge ordinaria,
quella sul sistema elettorale per la Camera dei deputati. Quest’ultima mette la
maggioranza assoluta della Camera dei deputati nelle mani del maggiore dei
partiti di minoranza, anche se piuttosto piccolo: poiché gli attuali maggiori
partiti sono partiti personali, vale a dire egemonizzati da
una singola figura politica, ciò significa mettere la Camera dei deputati nelle
mani di quella singola persona egemone. E la riforma Costituzionale assegna
alla competenza esclusiva della Camera dei deputati le materie che si fanno
rientrare in quelle da riformare, l’ambito della cosiddette
future riforme. Va anche detto che la maggioranza assoluta
assegnata dalla nuova legge elettorale della Camera dei deputati al maggiore
dei partiti di minoranza è piuttosto prossima ai due terzi dei componenti:
basterebbe al partito favorito ottenere l’alleanza con una formazione minore
per raggiungerla. A quel punto, veramente, l’intera Costituzione sarebbe nelle
mani della maggioranza politica egemonizzata da un partito personale e,
in definitiva, dalla persona egemone.
Purtroppo la nuova legge elettorale per la
Camera dei deputati non è oggetto del prossimo referendum. In questi
giorni molti vorrebbero cambiarla: come non si sa bene. Di fatto gli effetti
della riforma costituzionale dipenderanno molto da che tipo di legge elettorale
sarà in vigore per l’elezione della Camera dei deputati. Vigente quella
approvata recentemente, gli effetti saranno quelli che ho sopra ricordato. Però
essi potrebbero cambiare se mutasse il sistema elettorale per la Camera dei
deputati. Si ha quindi il paradosso di una riforma costituzionale i cui effetti
dipenderanno da una legge ordinaria. Questo non dovrebbe mai avvenire. E’ un
segno della frettolosa e non sufficientemente meditata stesura della riforma
costituzionale, che anche in altre parti, come ho ricordato nei
precedenti post, reca le tracce evidenti di una tecnica legislativa
insufficiente. Trattandosi di materia costituzionale sarebbe stato meglio
rifletterci in modo più approfondito: ma è appunto il tempo per farlo che è
mancato a causa delle strozzature del dibattito parlamentare, della fretta
di fare quello che ci chiedeva l’Europa. Salvo poi scoprire che
nessuna istituzione europea ha mai chiesto all’Italia ciò che si è voluto
realizzare.
Informarsi sulla riforma richiede tempo e
una certa fatica. Incide su una materia molto estesa e piuttosto tecnica. Sulla
struttura del Parlamento, sui poteri parlamentari, su quelli del Governo e
della Presidenza della Repubblica, sul bilanciamento di poteri tra Stato e
Regioni.
Nei giorni passati si è dibattuto aspramente
sul testo del quesito referendario sul quale dovremmo esprimerci con un “Si’” o
con un “No”. Esso riporta il titolo della legge di
riforma, che, a sua volta, richiama gli scopi dei riformatori. In particolare
fa riferimento alla riduzione dei costi del funzionamento delle istituzioni: i
contrari alla riforma pensano che la gente, leggendo questo, sia spinta
emotivamente a confermare la riforma. E potrebbe essere così, visto il generale
discredito di molte nostre istituzioni e, in particolare, della “politica”. Ma
non ci si può fare nulla, se non aiutare la gente a informarsi meglio. E’ vero che
viene ridotto il numero dei parlamentari, ma questo rafforza la posizione del
Governo a scapito del Parlamento. Ci conviene? I costi della politica
risulteranno ridotti, ma di quanto? I calcoli che si fanno realisticamente indicano un risparmio piuttosto modesto,
perché, in particolare, il Senato, con palazzi e dipendenti, non sarà abolito,
e le Province lo saranno ma saranno sostituite da organizzazioni analoghe, le
Città metropolitane.
Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del
Lavoro, con i suoi sessantacinque membri, sarà effettivamente abolito, con un
risparmio, ho letto, di circa otto milioni di euro all’anno. Doveva consentire
alla categorie produttive, alle forze del lavoro, di contribuire
all’elaborazione della legislazione economica e sociale. Di fatto il suo
contributo è stato sempre insufficiente. Perché? Fondamentalmente perché la
legislazione economica e sociale è stata sempre monopolizzata dal partito di
governo. Ma anche perché i suoi membri, in maggioranza scelti tra le categorie
produttive non hanno dimostrato una sufficiente autonomia rispetto alle forze
politiche e sindacali nazionali. Abolire il CNEL comporterà un risparmio, ma
verrà anche meno una importante, anche se mai veramente colta, opportunità per
le forze produttive di incidere sulla politica nazionale.
Spenderemo un po’ di meno, per Parlamento,
autonomie locali e CNEL, ma avremo anche di meno. Un Senato e Città
metropolitane composti da membri a mezzo servizio, non più eletti dai
cittadini. Si ridurrà il ceto politico rappresentativo dei cittadini a
vantaggio del Governo, che verosimilmente sarà espresso da uno dei
partiti personali che vanno per la maggiore. Si ridurranno le
occasione per partecipare a determinare la politica nazionale.
Un’ultima notazione. Si dice che con la nuova
legge elettorale per la Camera dei deputati si saprà subito chi
ha vinto. Però scoprirlo potrebbe non essere tanto bello.
L’attuale Governo, ad esempio, pensa di
beneficiare della riforma costituzionale e di essere il Governo che, dopo
la riforma, procederà alle successive riforme.
Tuttavia i sondaggi demoscopici non confermano questa previsione. Così,
non potendosi prevedere realisticamente chi gestirà le riforme,
non è possibile nemmeno avere un’idea di come esse saranno. E questa
incertezza riguarda anche materie molto importanti. Infatti il capo di uno
degli attuali partiti personali che risultasse egemone in
politica grazie agli effetti combinati della riforma costituzionale e di quella
per l’elezione della Camera dei deputati avrebbe la concreta possibilità di
cambiare rapidamente il volto della Repubblica, senza che i cittadini possano
fare granché. E’ appunto ciò che la Costituzione approvata nel 1947 intendeva
evitare, essendo all'epoca ancora viva la memoria recente e dolorosa dell’esperienza
politica del fascismo mussoliniano, l’archetipo, il primo e fondamentale
modello, dei partiti politici personali italiani.
- 23 -
Capire
la politica
Informarsi sulla legge di revisione della
Costituzione sulla quale voteremo al referendum del prossimo 4 dicembre
richiede di sforzarsi di capire la politica. In Italia le masse delle persone
di fede sono state protagoniste della politica dalla fine del Settecento e,
sotto certi aspetti, lo sono ancora. La differenza rispetto al passato è che lo
sono in modo molto meno consapevole e convinto. Del resto è un problema che
riguarda più in generale la democrazia italiana, come anche quella europea.
Ognuno è spinto nel proprio privato e i capi politici pensano di poter influire
sulla gente, raccogliendone il consenso, non innescando processi collettivi, ma
raggiungendo le persone, ad una ad una, in quei piccoli mondi separati in cui
si sono recluse. Questo impedisce di ragionare insieme sulle cause sociali dei
problemi della gente. Si tratta di un atteggiamento deresponsabilizzante, sia
per i capi politici sia per le masse. E' l'antipolitica, il contrario della
politica: politica è ragionare e programmare insieme agli altri, consapevoli di
vivere in quella che è stata definita recentemente, con un bella immagine, la
"casa comune". Le soluzioni proposte dalla politica ne risentono. Si
cerca di venire incontro al privato della gente, senza tener conto della
coerenza dell’insieme, in particolare della sostenibilità economica delle
misure progettate. Si cerca di sollecitare dai cittadini atteggiamenti
fideistici, insomma l’accettazione di cambiali sociali in bianco. Si propone
come positivo il cambiamento per il cambiamento, come se la direzione del
cambiamento non fosse importante, soprattutto quando si tratta di riformare le
fondamenta dello stato. Si propone una riduzione della classe politica che, a
ben vedere, comporta anche un suo degrado, meno autonomia di giudizio, meno
collegamenti con i cittadini elettori. Si tace che si cerca di ottenere la
coerenza dell’azione di governo sostituendo una classe politica pluralista,
rappresentativa delle varie componenti della società, con una di stretta
osservanza partitica, scelta da capi autoreferenziali. E i maggiori partiti
nazionali sono oggi partiti personali, vale a dire centrati
sulla figura di un capo carismatico, e i loro capi non sono parlamentari. In un
certo senso quello che negli anni ’70 fu una anomalia limitata, una
politica extraparlamentare, oggi è diventata la normalità.
L’eclisse del Parlamento, che è il senso della riforma costituzionale
sulla quale voteremo al prossimo referendum, è la manifestazione di una grave
crisi della politica nazionale, la presa d’atto che non è possibile fondare una
nuova politica democratica, che coinvolga nuovamente la partecipazione
informata, consapevole, responsabile delle masse.
Capire la politica richiede uno sforzo e,
innanzi tutto, la volontà di essere parte dei processi democratici. Una vita di
fede persa dietro fantasie neobibliche e spiritualismi vari, centrata su
neocomunità fortezza timorose di tutto ciò che si muove intorno a loro nella
società e pronte a vedervi l’azione del demonio, non è l’ambiente giusto. Non
basta l’invito autorevole a informarsi personalmente. Come
e dove farlo? Bisogna creare le occasioni sociali per approfondire questioni
che sono tanto rilevanti anche per la vita di fede. Se non se ne è capaci anche
la fede può essere facilmente strumentalizzata al servizio della politica
egemone. Si vorrebbe, secondo la fede, aiutare gli altri e invece si finisce
per respingerli, convinti del proprio buon diritto di farlo per salvare una
qualche propria identità. E sempre risorge la malattia clericale, che si
sviluppa poi nel clerico-moderatismo, il quale storicamente è stato, in Italia,
l’ambiente favorevole per ogni tendenza politica reazionaria e per lo stesso
fascismo storico. Così il cambiamento per il cambiamento rischia di riproporre
un tremendo passato, che appare nuovo solo perché se ne
è persa la memoria storica.
24
Informazione e propaganda: sui temi della riforma costituzionale
manca la prima
Esclusi gli addetti ai lavori, ad esempio i
professori e gli studenti di diritto, gli avvocati e alcuni funzionari
pubblici, la gran parte della gente non conosce ancora, a meno di due mesi dal
referendum costituzionale, la riforma costituzionale sulla quale dovranno
decidere tracciando un SI’ o un NO sulla scheda che sarà loro consegnata alle
urne. Come lo so? Ho un riscontro pratico: quando cerco di spiegare la riforma,
faccio prima qualche domanda sui suoi temi ed è raro ottenere una risposta
corretta.
Sui mezzi di comunicazione di massa infuria,
e questo verbo dà un’idea precisa del clima, la propaganda per il referendum
costituzionale. Vale a dire che si cerca di tirare i cittadini dalla propria
parte: i fautori del referendum mettendo in luce i propositi della riforma, ad
esempio la riduzione delle spese mediante la riduzione dei senatori e
l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro - CNEL; gli
avversari della riforma spiegando i loro
timori sugli effetti negativi sugli effetti della riforma. Ma chi spiega il
contenuto della riforma? Ecco, questa che sarebbe informazione,
è molto carente. Non se ne occupa, in particolare, l’ente radiotelevisivo di
stato. Certo, come le altri emittenti, manda in onda tribune referendaria, vale a
dire trasmissioni dove studiosi e
politici di opposti schieramenti si confrontano tra loro, con giornalisti o con
il pubblico, ma non ha programmato una informazione sistematica sui temi del
referendum. Pochi stanno veramente facendo informazione
sistematica. In genere si propone propaganda. In questo modo però i
cittadini non sono messi in condizione di scegliere consapevolmente, perché:
-non basta conoscere
gli scopi della riforma;
-non basta conoscere i timori degli
avversari della riforma, occorrerebbe prima conoscere
la riforma.
Negli
anni ’60, a fronte di un analfabetismo ancora molto diffuso nella popolazione
soprattutto tra le fasce degli adulti, l’ente radiotelevisivo di stato programmò
sistematicamente dei corsi di istruzione elementare in televisione affidandoli
al maestro elementare Alberto Manzi. La rubrica si chiamava Non è mai troppo tardi. Io la ricordo
perché guardavo quelle trasmissioni. Non riguardavano solo il leggere e lo scrivere
e il far di conto, ma si parlava anche di un po’ di educazione civica.
Conoscere, in effetti, è la base della cittadinanza consapevole. Ora, di fronte
ai temi del prossimo referendum, penso che la maggior parte degli italiani
chiamati al voto sia un po’ nella condizione degli analfabeti a cui si
rivolgeva Non è mai troppo tardi, ma
pochi si occupano veramente di un’istruzione popolare. Ognuno dovrebbe fare da sé, ad esempio
comprando uno dei libri che sono usciti sul tema. Ma quanti l’hanno fatto, quanti
lo faranno? Mancano meno di due mesi al referendum. Tra un po’ potrebbe essere troppo tardi. Allora, molti
probabilmente decideranno in base a quanto sentiranno nell’ultima settimana
prima del referendum, quando veramente si farà solo propaganda. O addirittura, emotivamente, il giorno stesso del
referendum. Gli esperti di sondaggi demoscopici avvertono che il tempo
meteorologico influenza il voto. Il giorno dell’elezione piove e molta gente si
sente più triste? Questo si rifletterà sui risultati elettorali.
In questo modo, però, con un voto non
realmente consapevole, coloro che andranno a votare si assumeranno la
responsabilità storica di una riforma che potrebbe effettivamente cambiare
l’Italia decidendo praticamente ad occhi chiusi. Che cosa succederebbe se
adottassimo lo stesso criterio guidando un’automobile? Per prendere la patente
di guida si fanno degli esami, per verificare se il candidato conosce il codice
della strada, il funzionamento del motore, ha requisiti psicofisici minimi e,
soprattutto, sa guidare una macchina. Guidare un’automobile è un’attività molto
meno importante del voto ad un referendum costituzionale: si può vivere bene
anche senza guidare, ma non si vive bene con una cattiva Costituzione.
Propongo di seguito alcuni esempi per spiegare
un esempio di come dovrebbe svolgersi un confronto informato tra sostenitori
del SI’ e del NO, vale a dire la
differenza tra informazione e propaganda.
I fautori del referendum sostengono che
riducendo il numero dei senatori da 315 a 95 e privandoli dello stipendio si
spenderà di meno. E questo è credibile.
Gli avversari della riforma replicano:
-
quando si tratta di occuparsi degli affari fondamentali dello stato, vale a
dire di ciò da cui dipende il benessere e la felicità di tutti, è giusto
risparmiare?
- anche volendo ridurre il numero dei
senatori, perché non continuare a farli eleggere direttamente dai cittadini e
farli invece scegliere dai consiglieri regionali, vale a dire da una classe
politica locale, e tra gli stessi consiglieri regionali e i sindaci? In questo
modo è possibile che i politici, in particolare quelli selezionati per un
lavoro locale, conteranno di più e i cittadini di meno.
I fautori della riforma rispondono che è proprio perché i senatori saranno, e in primo
luogo, anche consiglieri regionali e sindaci che si è
potuto decidere di non dar loro uno stipendio, stabilendo che debbano
accontentarsi di quello che prendono per le loro cariche locali.
Gli avversari della riforma, allora,
osservano, che i risparmi fatti con le nuove norme, che si stimano intorno al
10% della spesa attuale (infatti il Senato non viene abolito), non possono
giustificare l’esclusione dei cittadini
dalla scelta dei senatori: si spenderà di meno, ma si avrà anche di
meno, anzi molto di meno, troppo di meno.
I fautori della riforma, però, osservano che
nella legge di riforma c’è un comma del nuovo articolo 57 della Costituzione
che prevede che la scelta dei senatori tra i consiglieri regionali si faccia in
conformità delle scelte dei cittadini, fatte al momento delle elezioni per il
rinnovo dei Consigli regionali.
Chi è per il NO replica che è difficile
immaginare come si farà a far contare le scelte dei cittadini, visto che,
secondo la riforma, i senatori saranno eletti dai consiglieri regionali, e poi
che, comunque, le scelte dei cittadini al momento delle elezioni regionali non
potranno dare indicazioni sulla scelta dei senatori tra i sindaci, e i
senatori-sindaci saranno ben 21 sui 95 eletti. Tutto è comunque rinviato a una
futura legge ordinaria: sarebbe stato meglio inserire indicazioni più precise
nella Costituzione. Non è corretto far dipendere gli effetti di una norma
costituzionale da una legge ordinaria.
I fautori della riforma inseriscono tra i
benefici del nuovo Parlamento il fatto che le due Camere, la Camera dei
deputati e il Senato, non faranno più le stesse cose.
I sostenitori del NO replicano che non è così
in quanto:
-il
nuovo Senato potrà fare meno tipi di leggi della Camera dei deputati, ma le
leggi che farà le potrà fare solo insieme alla Camera dei deputati e saranno la
maggior parte delle leggi, comprendendo, oltre alle leggi costituzionali,
quelle di attuazione della normativa europea;
-
il nuovo Senato continuerà ad occuparsi anche delle leggi che saranno approvate
solo dalla Camera dei deputati, potendo proporle e proporre modifiche a quella
già approvate.
In definitiva le due Camere
continueranno ad occuparsi delle stesse cose. In particolare non ci saranno
leggi che una Camera potrà fare senza il concorso o, comunque, l’interlocuzione
con l’altra Camera. E, in particolare, il Senato non potrà approvare da solo,
in via definitiva, alcuna legge.
I fautori della riforma sostengono che, con
le nuove norme, non avverrà più che Camera dei deputati e Senato si blocchino a
vicenda essendo dominati ciascuno da maggioranze parlamentari diverse.
I sostenitori del NO rispondono che non è
prevedibile che andrà sempre così. Infatti, mentre la Camera dei deputati
continuerà a rinnovarsi ogni cinque anni, il Senato non avrà più una scadenza e
si rinnoverà continuamente e parzialmente ogni volta che, scadendo i Consigli
regionali che avranno eletto i senatori, decadranno anche i senatori eletti dai
consigli uscenti. Quindi è prevedibile che, nel caso di tempeste politiche come quelle che portarono
alle elezioni del 2013 a un notevole ricambio del ceto parlamentare, i
cambiamenti si riflettano prima su una Camera e poi sull’altra, e al Senato più
lentamente che alla Camera dei deputati. Quindi è ancora prevedibile che alla
Camera e al Senato possano crearsi maggioranze parlamentari diverse: questo si
rifletterà sull’approvazione delle leggi che ancora le due Camere dovranno
deliberare collettivamente. Con l’aggravante che il Presidente della Repubblica
non potrà più sciogliere il Senato, ma solo la Camera di deputati.
Senza
vera informazione non c’è una decisione
consapevole, vale a dire libera. La
verità rende liberi, è scritto. Ma se una persona non è messa in condizione di
conoscere? Allora quello che dovrebbe essere un esercizio della sovranità
popolare, la partecipazione di tutti i cittadini al governo della Repubblica,
si trasforma nel suo contrario, vale a dire nel seguire il capo politico di
riferimento, accettando da lui una bella cambiale in bianco che non si sa se
potrà mai onorare. Ma il referendum di dicembre non si farà per scegliere il
capo politico a cui consegnare le sorti dell’Italia, ma per decidere come
cambiare 50 articoli della Costituzione e 3 leggi costituzionale, vale a dire
l’ordinamento delle istituzioni fondamentali della Repubblica. La fiducia in un
capo politico conta poco o nulla: conta capire come si pensa di far funzionare
quelle istituzioni fondamentali.
Spesso mi sento chiedere, quando spiego i temi
della riforma, se bisogna votare SI’ o NO. Io rispondo che ciascuno deve
rispondere in coscienza da sé, come in tutte le decisioni che implicano un
responsabilità morale, e quella sulla riforma è tra quelle, innanzi tutto conoscendo la riforma e poi vagliando gli argomenti a
favore e contro e cercando di prevedere i risultati dei cambiamenti proposti. Nessuno può scaricarsi della responsabilità
civile del voto referendario facendo riferimento all’autorità di un altro.
Infatti in questa materia lasciarsi ingannare è altamente colpevole.
La cittadinanza politica si esercita a mente ed occhi aperti. Il merito o la
colpa degli effetti della riforma costituzionale sarà comunque tutta nostra,
davanti alla storia nazionale, davanti alle generazioni future.
25
Per chi vota Barak Obama?
Il 19 ottobre
2016, ricevendo nella capitale statunitense il nostro Presidente del Consiglio
accompagnato da un gruppo di personaggi pubblici italiani, il presidente
statunitense Barak Obama, per come hanno riferito i mezzi di comunicazione di
massa, ha dichiarato che gli Stati Uniti d’America “sostengono il
referendum, per un sistema politico più responsabile”. Ma che
significa “sostenere il referendum”? Si è inteso che Obama si
riferisse al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, nel quale si
può votare SÌ o No, quindi approvare la riforma costituzionale e farla entrare
in vigore o non approvarla, in modo che non entri in vigore. Obama è per il SÌ
o per il NO? Poiché ha caldamente apprezzato il lavoro del nostro attuale
Presidente del Consiglio e quest’ultimo vorrebbe che la riforma costituzionale,
che è stata un elemento importante del suo programma di governo, entrasse in
vigore, si è inteso che Obama fosse per il SÌ al referendum, quindi perché la
riforma entri in vigore. Che ne sa Obama della riforma costituzionale?
Gli unici elementi che abbiamo per capirlo sono le sue parole, riportate dai
mezzi di comunicazione di massa. Ha proposto due argomenti: la riforma
ammoderna le istituzioni italiane e consentirà al governo di muoversi più
velocemente. Si tratta, come è evidente, di effetti previsti della
riforma, non della riforma. Obama, nell'argomentare, non ha
esaminato e valutato alcun contenuto della riforma. Alcuni commentatori
sostengono che non ne sa nulla, al di là di quello che ne ha saputo parlando
con il nostro Presidente del Consiglio e dalle brevi note dei suoi
collaboratori in preparazione dell’incontro con gli italiani. Infatti non è
entrato nei dettagli. In che senso la riforma costituzionale ammoderna le
istituzioni? E, soprattutto, le ammoderna in meglio o in
peggio? La modernità non è sempre in meglio, come a tutti è chiaro. Il fascismo
italiano, ad esempio, si proponeva come fautore di modernità rispetto al vecchio regime
liberale, ma possiamo considerare la sua modernità come
positiva? Ma come fare a giudicare la bontà della modernità della
riforma, se non si esaminano i suoi contenuti perché non li si conosce o
non li si conosce a sufficienza? Ma difficilmente un presidente statunitense
può occuparsi, nella sue convulsa giornata di lavoro, di una faccenda come
questa, riguardante un particolare aspetto della politica italiana. Che cosa lo
ha spinto a intervenire sul tema? Questa è un problema importante. Lo ha fatto
di sua iniziativa o è stato sollecitato a farlo? E se lo ha fatto di sua
iniziativa, perché lo ha fatto? Dal contesto dell’evento della visita degli
italiani, è risultato chiaro che Obama volesse esprimere un apprezzamento per
la politica del nostro attuale Presidente del Consiglio. Lo considera il capo
di un governo amico. E' stato scritto che vorrebbe dagli italiani un impegno
militare più intenso su diversi fronti caldi, ad esempio nella guerra in Libia,
oltre che un'intesa sui problemi europei e su quelli dell'immigrazione verso
l'Europa, e probabilmente si attende, su questi temi, una comune prospettiva
con l'Italia, e in particolare con il suo Governo. “Patti chiari,
amicizia lunga” ha detto in italiano: non so se si sia reso conto che
la frase, nella lingua italiana, ha un senso minaccioso. Che patti sono
stati fatti? E questi eventuali patti, che i governi talvolta
possono lasciare segreti, c’entrano qualcosa con l’appoggio di Obama alla
politica del nostro attuale Presidente del Consiglio? Sono domande che per ora
non hanno avuto risposta. Probabilmente ci vorrà del tempo perché l’abbiano, ci
dovranno lavorare su gli storici, quando l’attuale fase politica sarà conclusa
e ci sarà tempo per vagliare più serenamente, senza l'assillo dell'attualità
dello scontro politico e in dettaglio le varie fonti disponibili. E questo momento
potrebbe non essere molto lontano, comunque vada il referendum. Potremo essere
in un'epoca in cui sta maturando quello che gli storici chiamano un cambio
di fase, come si ebbe all'inizio degli anni '90 a seguito del
referendum sulla preferenza unica nelle elezioni politiche che poi fece
maturare una nuova legge elettorale, a seguito della quale si produsse il bipolarismo,
l'alternanza al governo tra due opposte coalizioni. C’è chi sostiene
infatti che in caso di entrata in vigore della riforma l’anno prossimo ci
saranno elezioni anticipate e, per l’effetto congiunto della riforma e della
nuova legge elettorale per la Camera dei deputati, ci sarà una diversa
maggioranza di governo, stando ai sondaggi attualmente diffusi. Nel caso che,
invece, la riforma non entri in vigore, l’attuale Presidente del Consiglio sarà
probabilmente costretto, nelle dinamiche congressuali del suo partito, a
ridimensionare il suo ruolo politico, scegliendo se fare il segretario di
partito o il presidente del Consiglio.
Gli Stati Uniti d’America hanno sempre cercato
di influenzare la politica italiana, fin dalle origini della Repubblica. E i
Presidenti del Consiglio italiani hanno sempre cercato di accreditarsi presso i
presidenti statunitensi, considerando un successo essere ricevuti da loro.
Sembra che in Italia non si possa presiedere un governo senza il favore degli
statunitensi. Ma, a mia memoria, non c’era mai stato un intervento esplicito
come quello di Barak Obama nelle questioni politiche italiane, durante una campagna
per elezioni politiche o referendum e nel corso della visita di un nostro
Presidente del Consiglio. Per certi versi le parole del presidente statunitense
possono suonare umilianti per un elettore italiano. Gli Stati Uniti d’America
sono tanto orgogliosi e gelosi della loro autonomia nazionale da avere in
costituzione una regola per cui chi non è nato negli Stati Uniti non può
diventare Presidente. Ed ora un Presidente statunitense si ingerisce
pesantemente nella riforma della nostra Costituzione, nonostante
non siano in questione i principi fondamentali, ad esempio il carattere
democratico dello stato. Non mi figuro un De Gasperi, un Fanfani, un Moro, nel
ruolo che, nel corso della recente visita di stato negli Stati Uniti d’America,
ha impersonato il nostro Presidente del Consiglio. Se al referendum vinceranno
i favorevoli alla riforma, si dirà che sarà anche merito di Obama, di un capo
di stato straniero, e la nostra Repubblica potrebbe essere considerata a
sovranità limitata, come lo furono a lungo alcuni stati del Centro America. E
che accadrebbe se, sostituito Obama con un altro Presidente come accadrà tra
poco, il nuovo arrivato avanzasse altre pretese politiche nei nostri confronti?
Ma, soprattutto, spiace che l’appoggio politico
di Obama non sia stato fondato su argomenti ricavati dai contenuti della
riforma. Si è trattato, in definitiva, solo di propaganda, senza
alcun vero riferimento al merito della complessa legge costituzionale in
decisione nel referendum. E questo è avvenuto alla presenza del nostro
Presidente del Consiglio, il quale non ha mosso obiezioni. Eppure il compito
dei politici, in questo frangente, dovrebbe essere quello di non perdere
occasione per approfondire i temi della riforma, perché la decisione degli
cittadini chiamati al referendum sia consapevole, informata e
dunque libera.
La
decisione sulla riforma costituzionale va al di là della politica del giorno
per giorno, della questione di quanto a lungo durerà l’attuale governo: è in
questione la qualità della vita nostra e dei nostri figli e nipoti. E’ un tema
che è affrontato nell’enciclica Laudato si’ e che dunque mette
in gioco anche la nostra fede religiosa. Il disimpegno nell’informarsi e
nel cercare di capire meglio dialogando con gli altri, l’affidarsi
alla pura propaganda, è colpevole e non solo dal punto di vista civico. La
salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per la qualità
della vita umana, per cui è necessario un progresso culturale per arrivare ad
una ecologia sociale, che è necessariamente istituzionale, per
raggiungere progressivamente diverse dimensioni che vanno dal gruppo sociale
primario, la famiglia, fino alla vita internazionale, passando per la comunità
locale e la Nazione: è scritto in quell’enciclica (n.142). Tutto ciò che danneggia
le istituzioni fondamentali di uno stato, come può avvenire approvando una
riforma costituzionale imperfetta, può comportare effetti nocivi, sempre gravi,
fino anche ad arrivare alla perdita della libertà, all'ingiustizia e alla
violenza. L’ambiente sociale ne viene pregiudicato. Ecco quindi la necessità,
e il dovere morale, di trovare la voglia, il tempo e gli strumenti
per capire bene ciò che è in decisione, senza affidarsi
a tutto ciò che è solo propaganda, anche se proposta dall'uomo
considerato finora quello più potente della Terra, e dal suo amico italiano.
In che cosa consiste l’ammodernamento che
viene proposto con la riforma costituzionale? E’ una modernità buona
o cattiva? E questo ammodernamento può funzionare bene?
I rapporti tra le istituzioni fondamentali della Repubblica sono organizzati in
modo da non creare conflitti insolubili o da non rendere più debole o meno
efficiente il sistema di garanzie e contrappesi che
distingue una democrazia, il regime della sovranità di tutti, da
una oligarchia, il regime in cui comandano in pochi? E’
vero che la riforma costituzionale rafforzerà la posizione del Governo, che
quindi potrà intervenire più velocemente, come sostiene Barak Obama? In quale
parte della riforma ci sono norme che realizzano questo effetto? E, se vi sono,
come in effetti vi sono perché è previsto che il Governo possa accelerare
l’esame di suoi disegni di legge alla Camera dei deputati, questo risultato non
si poteva ottenere anche incidendo di meno sull'assetto costituzionale delle
istituzioni fondamentali dello Stato? O il rafforzamento della
posizione del Governo è più intenso di quello che è prevedibile dalle
sole norme della riforma costituzionale e dipende, come sostengono alcuni,
dall'effetto congiunto di un’altra riforma, quella del sistema elettorale della
Camera dei deputati, che dà al maggiore dei partiti di minoranza, qualunque sia
l’entità del suo consenso tra gli elettori, la possibilità di ottenere una
solida maggioranza di controllo alla Camera dei deputati, quella che dovrà
votare la fiducia al Governo e che sarà una Camera maggiore,
dominante, in molte materie importanti? Ed è giusto che
l’effetto reale di una riforma costituzionale, in particolare questa posizione
molto rafforzata del governo, dipenda da una legge
ordinaria, mentre dovrebbe essere quest’ultima a dipendere da quella
costituzionale? Ed è giusto che gli elettori siano stati chiamati a
pronunciarsi su una riforma costituzionale, ma non su quella legge ordinaria
che influirà molto sugli effetti di quella costituzionale, tanto che la Corte
Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità della nuova
legge elettorale per la Camera dei deputati, ha inteso differire la decisione a
data successiva a quella del referendum? Non sarebbe stato meglio, in
considerazione dell'importanza degli effetti della legislazione elettorale su
quelli della riforma costituzionale, integrare la riforma con norme
più dettagliate sui sistemi elettorali per le due Camere, in modo di ridurre la
discrezionalità del legislatore ordinario e di dare modo ai cittadini di
pronunciarsi anche su questo tema nel referendum costituzionale?
26
Una
Camera e un pezzetto
Una camera e
un pezzetto
In questi giorni cerco di spiegare alla gente che incontro la riforma
costituzionale su cui dovremo decidere nel referendum che si terrà il prossimo
4 dicembre. Le persone con cui parlo, però, sono impazienti. Mi pare che prendano esempio dai dibattiti
sul tema che vedono in televisione. Vorrebbero che prendessi posizione e
argomentassi parlando di tutto meno che della riforma, ad esempio:
Per il SÌ
Per il No
Dite sempre
no!
Siete dei corrotti!
Ce la chiedevano da 70
anni!
Distruggete la democrazia!
Dite no perché tenete alle vostre
Siete voi,
invece, che ci tenete!
poltrone!
Vi abbiamo rottamato e volete tornare!
I giovani sono con noi!
Mostrateli questi giovani, siete vecchi!
Votano
SÌ solo i vecchi
Volete le solite pastette parlamentari! Volete che comandino i “cerchi
magici”!
Se
non si fa ora non si fa più!
Se si fa ora, poi non si potrà fare più nulla!
La
riforma è democratica La riforma
non è democratica!
Lo
ha detto anche Obama! Che cosa gli
avete dato in cambio?
Questi argomenti non vi fanno conoscere nessun
contenuto della riforma costituzionale, sono pura propaganda. Diffidate di chi
ve li propone. Il politico che li usa, infatti, non è un buon politico. Il
giornalista che li usa non fa informazione: la propaganda non è informazione, e ora ci occorre quest’ultima.
Come considerereste il commerciante che vi proponesse di acquistare merce a
scatola chiusa e senza darvi nessun dettaglio su che cosa c’è dentro, anzi
cercando di distogliere la vostra attenzione dall’argomento?
Certo, conoscere la riforma richiede impegno,
è un testo lungo, di 41 articoli che modificano 50 articoli della Costituzione
e cambiano profondamente le istituzioni fondamentali dello Stato, in
particolare la struttura e il funzionamento del Parlamento che è l’organo in
cui si esprime la sovranità popolare, vale a dire il potere di tutti i
cittadini di partecipare al governo della Repubblica.
Senza un Parlamento espresso dai cittadini non
c’è sovranità popolare e non c’è democrazia, e cambiando la struttura e le
funzioni del Parlamento cambia il modo in cui il potere di tutti si può
esprimere, vale a dire che cambia la democrazia.
In questione, il prossimo 4 dicembre, non ci sono solo questioni di
riduzione della burocrazia e di risparmio di spesa pubblica, ma c’è la
democrazia repubblicana. Siatene consapevoli. Sentite il dovere morale, civico
e anche religioso, come parte importante del prendersi cura della casa comune per costruire e mantenere un
ambiente sociale buono, di informarvi
personalmente sui contenuti della
riforma su cui dovremo decidere, e di farlo anche dialogando veramente con gli
altri, senza riversarsi addosso slogan propagandistici, secondo il pessimo
esempio che ci viene dalla politica di oggi.
Nel post di sabato 22 ottobre scorso potete trovare
molto materiale per informarsi i e dialogare. Nel post del 9 ottobre scorso
trovate le schede della prima partita e le regole del Gioco della Costituzione: giocando potete iniziare a informarvi e a dialogare divertendovi.
Il Parlamento. E’ vero che sarà abolito il
bicameralismo perfetto, che è quando
le due Camere devono decidere sulle stesse cose e non si può decidere nulla
senza una decisione di entrambe?
Che ne pensate?
Il bicameralismo perfetto non sarà abolito, ma solo ridotto.
Lo dice il nuovo articolo 70 della Costituzione,
modificato dall’art.10 della legge di riforma costituzionale, che si occupa del
procedimento legislativo.
il nuovo art.70 della Costituzione
1° comma :
La
funzione legislativa è esercitata
collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali,
e soltanto per le leggi di attuazione
delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze
linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui
all'articolo 71, per le leggi che
determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo,
le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le
disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le
forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e
all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di
ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui
all'articolo 65, primo comma, e per le leggi
di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma,
116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo
comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna
con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in
forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.
2° comma:
Le altre
leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
La gran parte della legislazione dello Stato riguarda l’attuazione della
normativa dell’Unione Europea. Ma, come potete constatare leggendo la norma di
legge riformata, molte altre leggi dovranno essere approvate con procedura
bicamerale, proprio come avviene oggi.
Dovranno essere approvate con procedura
bicamerale le leggi “di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo
periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119,
sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma.” Riuscite a capire, dal testo del nuovo
articolo 70 della Costituzione, di che cosa si tratta? Non potete farlo: dovete
andare a leggere, nella nuova Costituzione, gli articoli richiamati. Questa
tecnica legislativa, che crea difficoltà alla comprensione del testo, è stata
molto criticata dagli specialisti. Non dovrebbe mai essere usata in un testo
costituzionale, che dovrebbe essere facilmente e rapidamente comprensibile da
tutti, anche da chi non ha studiato legge e non ha dimestichezza con articoli e commi.
Tutta la riforma è piena di imperfezioni simili. Del codice civile varato
nell’Ottocento dall’imperatore Napoleone Bonaparte, il modello anche degli
attuali codici civili dell’Europa continentale, si diceva che fosse scritto
tanto bene, con tanta cura linguistica, che studiandolo si poteva imparare un
buon francese. Della Costituzione riformata non si potrà sicuramente dire lo
stesso. Del resto la riforma costituzionale è stata approvata con molta
concitazione, a colpi di maggioranza, comprimendo il dibattito parlamentare,
che, del resto, si è manifestato subito di scarso livello, con continue
ragazzate nelle aule che dovrebbero essere sacre per la nostra democrazia
repubblicana. Un clima generale poco favorevole a rifiniture linguistiche. Ma
la scarsa cura letteraria ha provocato in più punti incertezze interpretative
che già ora si manifestano, ancora prima dell’entrata in vigore della
riforma. L’altro giorno, ad esempio, su La Repubblica, un professore di diritto
ha detto che la conversione dei decreti leggi la farà solo la Camera dei
Deputati, anche nelle materie in cui dovrebbe seguirsi la procedura bicamerale,
in cui quindi Camera dei Deputati e Senato dovrebbero decidere insieme come
ora, mentre altri professori e l’Ufficio studi della Camera dei Deputati sono
di diversa opinione e ritengono che, presentato alla sola Camera dei Deputati i
disegno di legge di conversione del decreto legge, la procedura legislativa
continuerà ad essere sempre monocamerale o bicamerale a seconda della materia
trattata.
Un’incertezza
interpretativa nel procedimento legislativo parlamentare significa la
possibilità di contrasti al vertice dello Stato. Contrasti che non sarà più
possibile risolvere sciogliendo le Camere, perché il Senato non potrà più
essere sciolto dal Presidente della Repubblica.
Quanto
alla struttura del nuovo Parlamento, colpisce, ad un primo sguardo, la
sproporzione numerica tra Camera dei Deputati e Senato. Il Senato ha circa un
sesto dei membri della Camera dei deputati. E non sarà più eletto direttamente
dai cittadini: eppure dovrà occuparsi di questioni importantissime, come le
leggi costituzionali. In più sarà composto, a parte gli ex Presidenti della
Repubblica, di parlamentari per così dire a mezzo servizio, perché dovranno fare
anche i consiglieri regionali e i sindaci. Avranno molto meno tempo per
informarsi sulle questioni da trattare, che non saranno solo quelle che
riguardano le autonomie locali. Ho ricordato che gli unici inquilini stabili
del Senato saranno gli ex Presidenti della Repubblica: oggi ne è rimasto uno
solo, il senatore a vita Giorgio
Napolitano. Che cosa comporta tutto questo per la democrazia repubblicana?
27
Il senso della riforma delle Regioni: un
rafforzamento della posizione del Governo nei confronti del Parlamento dell’autonomia
regionale
La
riforma costituzionale sulla quale dovremo decidere nel prossimo referendum
costituzionale contiene alcune norme importanti sulle Regioni. Di solito,
quando si parla della riforma, ci si occupa di come cambierà il nuovo Senato. Ma
le modifiche riguardanti le Regioni sono altrettanto rilevanti. Questo perché
le Regioni svolgono funzioni che condizionano da vicino la vita della gente e
fanno anche leggi, come il Parlamento. Possiamo dire che, in effetti, in Italia
fin dal 1946, quando fu costituita la prima Regione italiana, quella della
Sicilia, a statuto speciale approvato con legge costituzionale entrata in
vigore prima della Costituzione, si legifera a livello locale e si legifera con
un sistema monocamerale. Per la generalità delle Regioni a statuto ordinario,
l’attività legislativa iniziò nel 1970. Ma in Italia vi sono anche due
Province Autonome, quelle di Trento e di Bolzano, istituite dallo statuto
speciale della Regione Trentino Alto Adige del 1948, successivamente modificato
più volte, che hanno potere legislativo. Saranno le uniche due Province a
rimanere in Italia. Ciascuna di queste Province Autonome nominerà un
senatore-sindaco nel nuovo senato. I senatori-sindaci del nuovo Senato saranno
21, su 100 senatori (95 eletti dai consiglieri regionali, dei quali 74 tra gli
stessi consiglieri regionali, e 5 nominati per sette anni dal
Presidente della Repubblica), oltre ai senatori a vita ex Presidenti della
Repubblica.
Le Regioni italiane sono venti, tra le
quali il Lazio. Hanno uno statuto speciale, quindi particolari regole di
autonomia, la Sicilia (la prima Regione ad essere stata istituita), la
Sardegna, il Trentino Alto Adige, la Valle D’Aosta e il Friuli Venezia
Giulia. Le altre Regioni sono regolate dalle norme costituzionali comuni e sono
dette a statuto ordinario. La riforma costituzionale, per la parte
che riguarda l’autonomia regionale e i rapporti tra Stato e Regioni, non
si applicherà alla Regioni a statuto speciale, salvo in quella parte che, in
alcune materie, consente di ampliare ulteriormente con legge dello Stato
l’autonomia regionale prevista nella riforma.
Le materie più importanti di cui si
occupano le Regioni, con le loro leggi, sono la sanità (come si cura la gente),
l’urbanistica e l'edilizia (dove e come si costruisce), l’edilizia
popolare (dare case a tutti), la mobilità locale (trasporti e viabilità),
l’ordinamento e funzioni degli enti locali per la parte non riservata allo
Stato. Le Regioni possono anche istituire tributi. Ma le Regioni si occupano
anche di molte altre materie. A partire dalla riforma costituzionale del 2001 è
previsto che possano fare leggi in tutte le materie non riservate espressamente
alle leggi dello Stato. La riforma costituzionale approvata quest'anno e sulla
quale decideremo nel prossimo referendum amplia lo spazio riservato alle leggi
dello Stato, per cui, rispetto alla riforma costituzionale del 2001, questa è
una controriforma, vale a dire una riforma che va in direzione
opposta. Ci si è proposti di rimediare a problemi di contrasti di
competenza che si erano prodotti tra Stato e Regioni nelle materie di
legislazione concorrente, vale a dire quelle in cui potevano
legiferare sia lo Stato che le Regioni, ad esempio, e l’argomento è
purtroppo di grande attualità, la protezione civile. La gran parte di questi
problemi si erano creati perché lo Stato aveva voluto incidere sull’autonomia
regionale oltre quello che le Regioni ritenevano essere consentito, non
viceversa. In realtà rimarranno molte aree di competenza legislativa concorrente,
in cui quei problemi potranno riproporsi.
Tuttavia la norma che dà il senso
fondamentale della riforma regionale attuata dalla legge di revisione
costituzionale su cui dovremo decidere nel prossimo referendum è quella
prevista dal nuovo articolo 117, 4° comma, della Costituzione:
“Su proposta del Governo,
la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione
esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della
Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale.”
Questa norma consente al Parlamento
di fare leggi nelle materie che sarebbero di competenza legislativa delle
Regioni se si ritenga che sia necessario in base all’interesse nazionale,
nel quale può ritenersi compresa l’unità giuridica ed
economica della Repubblica, un criterio assai vago. Ma il Parlamento
potrà farlo solo ad iniziativa del Governo, che pertanto rimane in
definitiva l’arbitro dell’interesse nazionale negli affari
regionali. Una legge dello Stato che invada le competenze legislative
regionali non potrà invece essere promossa, sia pure in considerazione
dell'interesse nazionale, da deputati e senatori, anche se in numero rilevante.
Questo realizza un notevole rafforzamento della
posizione del Governo nei confronti sia del Parlamento, sia delle Regioni.
Questa nuova disciplina, in particolare, può essere considerata espressione di
quella che ho chiamato eclisse del Parlamento a favore
del Governo, il cui attuale presidente, e leader del maggiore partito italiano,
non è (ancora) parlamentare, così come non lo sono i leader degli altri due
maggiori partiti nazionali.
28
Regioni ed Unione Europea diffamate nel corso della propaganda per
il referendum
Nel corso della propaganda per il referendum, Le Regioni e l'Unione
Europea sono sbrigativamente diffamate dal populismo emergente.
E si confonde il principio
dell'equilibrio di bilancio, che anche le Regioni dovranno seguire, con quello
del pareggio tra entrate e spese di cassa. Invece sono cose diverse. Si
applicano quindi a entità macroeconomiche, al funzionamento di grandi enti
territoriali, ragionamenti che
funzionano solo su scala microeconomica, nell’economia delle famiglie. Le
Regioni e i Comuni vengono sospettati di scialacquare risorse pubbliche e la
realtà è invece che si pretende da loro
troppo in rapporto al denaro che hanno a disposizione. Le istituzioni
dell’Unione Europea sono accusate
accusata di dispotismo finanziario perché pretendono il rispetto del
principio dell’equilibrio di bilancio, in base a decisioni delle quali anche
l’Italia è stata partecipe e consenziente, e invece quel principio vuole
indurre una politica virtuosa, tra chi governa le istituzioni ma anche tra i
cittadini, nel senso che occorre limitare l’indebitamento, che va a carico
delle generazioni future.
La polemica contro le Regioni e l’Unione
Europea manifesta l’intenzione di rafforzare il Governo nazionale italiano. Con
la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati e con la revisione
costituzionale oggetto del prossimo referendum è appunto questo l’effetto che
si vuole proporre: un Governo più forte.
L'integrazione politica,
sociale ed economica europea si è basata sul principio di sussidiarietà. Questo
ha portato ad una riduzione dei poteri degli stati nazionali e soprattutto dei
governi nazionali, storicamente responsabili di tutte le carneficine europee
dal Seicento alla metà del Novecento. Ma, contemporaneamente, anche all'affermazione
delle autonomie locali, in particolare di quelle regionali. Un esempio chiaro
di come si fa la pacificazione tra popoli potenziando le autonomie locali
è quello del Trentino Alto Adige. Il particolare assetto di Regione e
Province da quelle parti dipende anche da accordi di pacificazione tra Italia e
Austria. L'integrazione europea ha concluso l'opera. Ricordo la grande emozione
del giorno in cui furono smontate le barriere ai posti di frontiera tra
le due nazioni. Tutto questo è cancellato nella polemica populista di questi
tremendi ultimi giorni di campagna elettorale. Ragionamenti analoghi possono
farsi per tutte le Regioni a statuto speciale, le più diffamate tra le
Regioni.
L'autonomia regionale
è recente. Risale al secondo dopoguerra. I governi liberali della prima
fase del Regno d'Italia e quello fascista furono fortemente accentratori e
governavano mediante burocrazie statali. L'autonomia regionale era
nell'ideologia cristiano sociale e di non molte altre componenti della politica
italiana. Le Regioni a statuto ordinario, previste nella Costituzione entrata
in vigore nel 1948, iniziarono a funzionare solo nel 1970 e furono una grande e
positiva novità. L'idea fu quella di avvicinare la soluzione dei problemi alla
loro origine. Nella campagna per le prime regionali si faceva l'esempio dei
lavori pubblici locali: bisognava sempre "informare il Parlamento"
che spesso rispondeva tardi e/o male. Il successo delle nuove Regioni fu
travolgente. Furono palestra di nuova politica, ad esempio in Emilia -
Romagna. Alcune Regioni, in particolare, si distinsero per la buona
amministrazione. Le Regioni consentivano la programmazione a livello locale. Il
Servizio Sanitario Nazionale nacque, in particolare, su scala regionale. In
precedenza la sanità pubblica era governata per enti. Erano enti le
"mutue", gli istituti previdenziali che garantivano l'assistenza
sanitaria ai lavoratori e alle loro famiglie, non a tutti i cittadini, ed erano
enti, spesso di derivazione religiosa e con statuti particolari, gli ospedali.
Mancava la programmazione. Lo straordinario sviluppo del sistema sanitario
pubblico negli anni '70-'90 del secolo scorso, che ha portato a prolungare di
molto la speranza di vita e a successi enormi nella cura delle malattie gravi,
è avvenuto su scala regionale, in particolare per effetto della programmazione
sanitaria. La programmazione regionale ha consentito infatti di strutturare le
sanità locali secondo i bisogni della popolazione. Ci sono state
amministrazioni regionali meno virtuose? Certo. Ma nello stesso periodo ci sono
stati anche governi con alcuni loro esponenti, diciamo così, piuttosto
chiacchierati, e mi esprimo senza calcare la mano. E le compagini
ministeriali risultarono a volte pesantemente permeate da fattori di corruzione
e, per quanto ne so, non sono mai state considerate prodigi di
efficienza.
La revisione costituzionale
in decisione al referendum limita significativamente l'autonomia locale, in
particolare quella regionale. Materie tipiche delle autonomie locali come la sanità
e l'urbanistica vengono trasferite nella competenza esclusiva dello Stato, sia
pure con riferimento ai principi generali. Ma i governi, con la cosiddetta
clausola di supremazia, che consentirà loro di promuovere leggi invadendo la
competenza regionale sulla base di criteri piuttosto elastici, ad esempio sulla
base dell'interesse nazionale, possono completare l'opera. Governi accentratori
e populisti, basati sull’idea di una persona sola al comando, come quelli che
la revisione costituzionale rende possibili, possono ridurre l'autonomia locale
a stato larvale. La cosa strana è che il nuovo Senato (delle autonomie locali),
che continuerà come ora a legiferare collettivamente con la Camera dei deputati
(procedimento legislativo bicamerale) in materie molto importanti come le
riforme costituzionali e i trattati europei, non potrà farlo proprio
nelle materie riguardanti le autonomie locali. Lì dominerà la Camera dei
deputati, la quale, a maggioranza assoluta, potrà superare ogni resistenza del
nuovo Senato. E, per effetto della nuova legge elettorale, la Camera dei
deputati sarà dominata da una solida maggioranza assoluta del partito di
governo. E' stato osservato che, quindi, per quanto riguarda le autonomie
locali, la riforma è in realtà una controriforma. Il costituzionalista De
Siervo ha osservato che le Regioni potrebbero finire in balìa delle
burocrazie ministeriali: nelle mani di governi ardimentosi, diciamo così,
potrebbero divenire solo enti strumentali dello Stato, con un’autonomia molto
limitata. Le venti "capitali della libertà" come le definì lo
scrittore Manganelli, nell'epoca d'oro del nostro regionalismo! Ma che cosa ci
garantisce che i Governi nazionali saranno veramente più virtuosi ed efficienti
su scala locale di quelli regionali? In passato certe volte non lo sono stati.
E l'incredibile degrado della politica nazionale, manifestato nella
sconcertante propaganda referendaria di questi giorni (e purtroppo c'è da
temere che vada ancora peggio di ora in ora), non lascia tranquilli in merito.
Il populismo di matrice trumpiana impera, più o meno in tutti i maggiori
partiti politici: tutti sembrano fare a gara a spararle grosse, senza più
informare la gente sui contenuti della riforma costituzionale. Le Regioni,
tutte, quelle ben amministrate e quelle amministrate meno bene, saranno messe
nelle mani di questa politica, anzi, meglio, della burocrazia ministeriale
dominata da questa politica, di capi dipartimento e direttori generali.
La riforma regionale
del 2001. Ha cambiato il sistema costituzionale delle autonomie locali. Anche
questa è imprudentemente diffamata. La si accusa di aver generato
conflittualità tra lo Stato e le Regioni. Nella pratica ha presentato aspetti
critici, certo. La Corte costituzionale è dovutaintervenire ripetutamente per
risolvere conflitti tra Governi e amministrazioni regionali. Ma, ricorda il
costituzionalista Zagrebelsky, il più delle volte è accaduto per l'ingerenza
dei Governi nazionali, che con la riforma costituzionale avranno
sostanzialmente mano libera. In particolare avranno il completo controllo
dell'autonomia tributaria locale. In passato la politica dei Governi è stata
quella di limitare le risorse delle autonomie locali aumentando però i loro
compiti. Il regionalismo secessionista, animato da destra, reagì cercando di
mantenere a livello locale tutte le risorse prodotte in ciascuna Regione,
rifiutando di aiutare le Regioni meno ricche e sostanzialmente pretendendo che
fossero lasciate a loro stesse. Senza però
considerare che non è un caso che in Italia le Regioni più ricche siano
al Nord: è dipeso dal modo con cui si è realizzata l'unità nazionale e dalle
politiche accentratrici del Regno d'Italia. Si è fatto fatica a contenere il
regionalismo secessionista, che arrivò a minacciare espressamente l’unità nazionale.
La riforma approvata nel 2001, in un clima emergenziale, ha cercato impedire
che questo disegno secessionista fosse portato alle estreme conseguenze. La
riforma del 2005, abortita a seguito di referendum costituzionale, andava molto
oltre nel senso del regionalismo separatista Di tutto questo, però, sembra
essersi persa memoria. Il paradosso è
che il populismo referendario grida e strepita contro le Regioni e poi mette
sostanzialmente nelle mani della classe politica regionale il nuovo Senato,
ridotto povera larva di Camera parlamentare, cameretta di precari senatori.
29
In
una nicchia della storia
Per capire le istituzioni fondamentali di uno
stato bisogna conoscere un po’ la sua storia. In un certo senso è la storia
che disegna le costituzioni. Da che storia viene la riforma costituzionale
sulla quale dovremo decidere nel referendum del prossimo 4 dicembre?
Per conoscere la storia recente i più
giovani potranno riprendere in mano l’ultimo volume del corso di storia delle
superiori. Per i meno giovani consiglio il volume 3 del corso Nuovi
Profili Storici di Giardina - Sabbatucci - Vidotti, edizione
Laterza.
Il problema è però che la riforma
costituzionale di quest’anno non nasce molto lontano nel tempo, ma in un
periodo che non è ancor finito nei libri di storia, anche se processi di
riforma della struttura della Repubblica furono avviati dall’inizio degli anni
’80, per rispondere a quella che all’epoca veniva definita crisi di
legittimazione della politica, espressione con la quale si intendeva che la
gente non credeva più alle parole nobili della politica democratica ed era
disposta a dare consenso politico solo in cambio di una qualche partecipazione
alle risorse pubbliche ricavate essenzialmente dai tributi e dal debito
pubblico, in un processo di scambio politico. Questa
tendenza ebbe anche un risvolto regionalistico, quando si produsse un movimento
politico per limitare o eliminare del tutto il contributo di solidarietà che le
regioni più ricche davano a quelle meno ricche attraverso la politica di
perequazione dello stato. Negli anni ’90 si giunse anche a proporre la secessione delle
prime dalla Repubblica, e quindi la fine della Repubblica, o, almeno, la
ristrutturazione della Repubblica in senso federale, ampliando l’autonomia
regionale fino ad arrivare a quella degli stati federati, come in Svizzera,
Germania o negli Stati Uniti d’America, riducendo al minimo le competenze
dello stato federale.
L’attuale fase storica è molto più
recente e nasce nel 2011.
Qualche volta l’attuale Presidente
del Consiglio viene accostato al personaggio politico più significativo della
fase storica che va dal 1994 al 2011, Silvio Berlusconi, nel senso che si
colgono tratti simili nelle loro politiche e nelle loro personalità, ma il
paragone è errato. E lo è perché il Berlusconi lavorò innanzi tutto sul
Parlamento, federando forze politiche di impostazione molto diversa, facendone
una coalizione di governo, mentre l'attuale Presidente del
Consiglio segue l'ideologia del partito con vocazione
maggioritaria, di cui tratterò più avanti. Nel campo opposto, quindi
in quello del centro-sinistra, in reazione, si produsse un movimento
politico analogo e un'analoga coalizione. Questo, sotto il vigore
della legge elettorale per Camera dei deputati e Senato del 1993, creò quello
che agli inizi degli anni ’90 si pensava fosse il sistema politico migliore
sull’esempio britannico, vale a dire il bipolarismo, con due
coalizioni politiche, di centro-destra e di centro-sinistra, che si alternavano
al governo. Il bipolarismo politico nelle maggioranze di governo nazionale durò
dal 1994 al 2011, un lungo periodo, diciassette anni, che nei libri di storia
verrà detto del berlusconismo, perché l’ideologia politica e
soprattutto lo stile politico personale del leader del
centro-destra costituì in quegli anni il modello di riferimento, sia pure per
opporvisi in qualcosa, anche per i politici dello schieramento opposto. In
quegli anni i temi principali del dibattito politico furono infatti quelli
posti da Silvio Berlusconi.
La legge elettorale del 1993 prevedeva un
sistema maggioritario, con gruppi di elettori (collegi elettorali) molto
piccoli in cui veniva eletto il candidato che aveva riportato il maggior numero
di voti, temperato da una quota di parlamentari eletti con il sistema
proporzionale, come si era fatto fino al 1992. Questo fu il motore del
bipolarismo, che però non si sarebbe potuto produrre senza che la politica
creasse due grandi coalizioni di opposte tendenze politiche. Quel nuovo sistema
elettorale fu catalizzato da un referendum tenutosi nel 1991 che introdusse il
sistema della preferenza unica, rafforzando il collegamento
dell’elettore con un candidato e impedendo che, attraverso la collocazione dei
voti di preferenza sulla scheda elettorale, divenissero riconoscibili, e quindi
contrattabili in una sorta di mercato, i voti elettorali.
In definitiva nel 1991, come
verosimilmente accadrà quest'anno, un referendum istituzionale fu alla base di
un mutamento di fase della storia nazionale.
Quel sistema politico del bipolarismo
divenne instabile dopo l’entrata in vigore, nel 2005 di una nuova legge
elettorale che abolì il sistema maggioritario, introdusse le liste di candidati
bloccate, formate dai partiti e proposte agli elettori senza possibilità di
esprimere voti di preferenza, e introdusse il premio di
maggioranza, una quota aggiuntiva di parlamentari che andava alla
coalizione che, su scala nazionale per la Camera dei deputati e su scala
regionale per il Senato, avesse ottenuto il maggior numero di voti, fino ad
assegnarle una solida maggioranza assoluta di parlamentari. Questo modo di
scegliere i membri del Parlamento staccava i candidati dagli elettori e li
collegava molto più strettamente ai capi delle maggiori coalizioni. Questi
ultimi, però, trovarono sempre più difficoltà a mantenere la disciplina
politica tra i parlamentari da loro sostanzialmente nominati. Si
manifestò in maniera crescente un problema che era stato caratteristico del
sistema politico liberale della prima fase del Regno d’Italia, dal 1861
all’emergere dei grandi partiti politici di massa, dopo la Prima Guerra
Mondiale, quello del trasformismo, quindi di
parlamentari che cambiavano con una certa libertà gli schieramenti politici. E,
soprattutto, il differente sistema di attribuzione del premio di maggioranza
tra Camera dei Deputati e Senato creò un’asimmetria tra le due Camere, per cui
le maggioranze di governo furono molto meno solide al Senato rispetto alla
Camera dei Deputati. L’esperienza di questo problema spiega anche il perché
nell’ultima riforma ci si sia tanto occupati di riformare il Senato. Con la
legge elettorale del 2005 fu sempre più difficile produrre e, soprattutto,
mantenere stabile il bipolarismo. Ideata dal centro-destra, nelle
elezioni politiche del 2006 la riforma favorì, contro le aspettative, il
centro-sinistra. Ma quest’ultimo entrò rapidamente in crisi e alle
elezioni politiche anticipate del 2008 vinse la coalizione di centro-destra,
che però a sua volta entrò in crisi terminale dopo soli tre anni, nel 2011,
passando la mano, a seguito dei problemi creati dalla durissima fase di
depressione economica globale manifestatasi proprio a partire dal 2008,
con inizio negli Stati Uniti d’America per il crollo del valore di
prodotti finanziari collegati al mercato immobiliare, e nonostante che la
coalizione di governo potesse ancora contare su una maggioranza parlamentare di
governo piuttosto solida. Questo dimostra che non basta rafforzare, per così
dire artificialmente, agendo sui sistemi elettorali, le maggioranze
di governo, per avere governi stabili e politiche di governo di lungo
periodo. E’ appunto nel 2011 che inizia l’attuale fase politica,
caratterizzata da una eclisse del Parlamento e dall’intento di fare del Governo
il cardine dell’intero sistema costituzionale.
Nel 2011 l’impotenza di fatto dimostrata
dalla maggioranza parlamentare di governo produsse anche la crisi del governo
da essa espresso. Bisogna ricordare che nelle dinamiche della crisi incise
anche un pronunciamento nel settembre 2011, invocato anche da diversi organi di
stampa, del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, che richiamava
l’attenzione della politica sulla questione morale [testo
in http://www.focl.it/index2.php?option=com_docman&task=doc_view&gid=198&Itemid=9
]. Al vertice della Repubblica rimaneva integra, in definitiva, un’unica
istituzione fondamentale ancora capace di indirizzo politico ed era la
Presidenza della Repubblica. Quest’ultima scelse ed accreditò, con la nomina a
senatore a vita, quindi al di fuori di elezioni politiche, un nuovo Presidente
del Consiglio dei ministri, a capo di un governo tecnico, con il
limitato compito di fronteggiare l’emergenza economica, sostenuto da entrambi i
maggiori schieramenti politici, ma non sulla base di un accordo organico di
lungo periodo tra di essi. È in questo periodo che iniziarono i processi di
riforma costituzionale che hanno portato nell’aprile di quest’anno
all’approvazione della più estesa revisione costituzionale dal 1948, con la
modifica di 50 articoli su 139.. Prima fu nominata, dal Presidente della
Repubblica, una commissione di esperti composta da Valerio Onida, Mario Mauro,
Gaetano Quagliarello e Luciano Violante, con il compito di dare indicazioni su
una riforma costituzionale. Sotto il successivo Presidente del Consiglio, nel
giugno 2013, il Governo, che ancora fondava la sua autorità essenzialmente
sull’autorità del Presidente della Repubblica in quanto dalle elezioni
politiche del 2013 era scaturita una maggioranza politica parlamentare
instabile, nominò poi una Commissione per le riforme costituzionali di 35
esperti non parlamentari, con un comitato di redazione di sette
professori di diritto. Da questo momento la riforma costituzionale entrò nel
programma di governo e ebbe nel Governo il suo primo motore. L’attuale
Presidente del Consiglio, in carica dal febbraio 2014 sulla base di un accordo
politico con il leader del centro-destra
denominato Patto del Nazareno che prevedeva nel programma di
governo la riforma costituzionale, ha mantenuto questa impostazione, vale a
dire di considerare la revisione costituzionale come un affare essenzialmente
del Governo, dando un forte impulso ai processi parlamentari di deliberazione,
conclusisi nell’aprile di quest’anno, con l’approvazione della legge di riforma
da parte del Parlamento in seconda votazione, secondo la procedura prevista
dall’art.138 della Costituzione. La legge di riforma costituzionale approvata
quest’anno risente del clima emergenziale, di patto per la salvezza nazionale,
in cui è maturata, con le due maggiori coalizioni politiche che, sotto il
magistero del Presidente della Repubblica, si accordavano per riforme indifferibili
richieste per superare la grave crisi che da economica si era fatta sociale, a
causa della crescente perdita di posti di lavoro, in particolare nelle fasce
dei più giovani, e per la necessità di ridurre, per esigenze di finanza
pubblica, le prestazioni di stato sociale. Essa presenta infatti significative
assonanze, per quanto riguarda la struttura del Parlamento, con quella varata
dalla coalizione di centro-destra nel 2005 e respinta nel referendum
costituzionale tenutosi l’anno successivo, proprio dieci anni fa. Va invece in
direzione contraria alla riforma del 2005 quanto all’autonomia regionale.
In politica stiamo vivendo in
conclusione, in una specie di nicchia della storia, in una fase di
transizione. Infatti, tutti i maggiori protagonisti dell’attuale fase politica,
sia nel centro destra che nel centro sinistra, come anche nel nuovo movimento
che è venuto a costituirsi come terzo polo, in una classifica che
nei sondaggi lo vede a volte al primo posto o comunque al secondo sul
podio della politica nazionale, sono convinti che a breve inizierà un’altra
fase storica, sciogliendo il patto emergenziale che fu
all’origine di quella attuale. La convinzione di essere alle soglie di quello
che gli storici chiamano passaggio di fase è quindi
abbastanza condivisa.
Quali sono state le caratteristiche dall’attuale fase
della politica?
Al centro delle preoccupazioni di tutti è
stata la dinamica della depressione economica globale che non sembra ancora
dare segni di risolversi, caratterizzata in particolare dalla rilevante perdita
di posti di lavoro. Tutte le manifestazioni, finora effimere, di miglioramento
indicano che se, ad un certo punto, ci sarà una ripresa, essa sarà, come dicono
gli economisti, job-less, senza aumento di posti di lavoro. A
fronte di questa situazione gli stati dell’Unione Europea hanno adottato misure
emergenziali, tra le quali un accordo molto impegnativo per la stabilità
della finanza pubblica, nel 2012, che richiede, oltre al mantenimento di una
proporzione definita e obbligatoria tra debito pubblico e la produzione annuale
di ricchezza nazionale, anche la riduzione della pressione tributaria
sull’economia e una corrispondente riduzione delle prestazioni di benessere
sociale al fine di contenere la spesa pubblica nel limite delle
entrate di finanza pubblica, ad esempio di quelle per sanità e pensioni.
Inoltre le politiche dell’Unione spingono verso un recupero della competitività
del fattore di produzione costituito dal costo del lavoro, riducendo i
meccanismi legali di protezione della stabilità del posto di lavoro e di
fissazione di limiti salariali. Si pensa che queste ultime misure potranno
rendere più conveniente produrre in Europa e che quindi portino ad un aumento
dell’occupazione: previsione questa finora non avveratasi, in quanto il costo
del lavoro europeo, gravato di oneri sociali, per garantire ai
lavoratori dignità e protezione nelle malattie, gravidanze e vecchiaia, non
potrà mai competere con quello di altri stati del mondo in cui quegli
oneri o non ci sono o sono molto più bassi. La crisi globale dell’economia può
essere affrontata dall’Europa solo in unità di intenti tra tutti gli stati
membri dell’Unione, perché la crisi è globale e non può
essere affrontata se non con risposte e soluzioni globali. Ma le
soluzioni finora escogitate sono fortemente impopolari perché comportano la
forte diminuzione di servizi e altre prestazioni sociali. In un
sistema politico come quello italiano che, dagli anni ’80, si era sempre più
basato sullo scambio tra consenso elettorale e vantaggi corporativi ottenuti
presso i politici favoriti da quel consenso, questa situazione ha
comportato la necessità dei governi nazionali di affrancarsi da quel tipo di
consenso. Questo ha portato alla crisi politica, nell’autunno
del 2011, dell’ultima formazione politica di governo di quella che viene
chiamata Seconda Repubblica(per distinguerla da quella di De
Gasperi, Fanfani, Moro, Andreotti, Togliatti, Berlinguer, Nenni e Craxi, La
Malfa, Malagodi e Almirante per intenderci), quella caratterizzata dal sistema
dell’alternanza bipolare. I governi, dal 2011,
non potevano più promettere alla maggioranza degli elettori se
non, e parafraso un celebre detto di Winston Churchill in una fase drammatica
del Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale, lacrime e sangue.
In un certo senso i governi della fase di nicchia apertasi alla fine del 2011
sono stati spinti dall’emergenza nazionale a rendersi autonomi dal Parlamento e
dal corpo elettorale che l’esprimeva. Tanto che, al prodursi della crisi
politica del 2011, non si andò a nuove elezioni politiche. L’autorità dei
governi, che possiamo definire di salvezza nazionale, si basò
sull’autorità morale del Presidente della Repubblica e sull’apprezzamento delle
autorità dell’Unione Europea. La gestazione della riforma costituzionale, dalla
fine del 2011 all’aprile 2016, riflette il tentativo di rendere stabile
questa nuova situazione e, infatti, la riforma costituzionale modifica il
sistema delle istituzioni fondamentali della Repubblica centrandolo sul governo
(mentre prima era centrato sul Parlamento), intorno al quale ruotano gli altri
vari centri di decisione: le Camere del Parlamento, le Regioni, le Città
Metropolitane e i Comuni, tutto il sistema economico, insomma, secondo
un’espressione che si trova nella legge di riforma, “l'unità giuridica ed economica
della Repubblica”. E’
questo il senso effettivo della riforma costituzionale ed è pertanto su questo,
essenzialmente, che dovrebbe basarsi, a mio parere, la valutazione dei votanti
nel prossimo referendum.
Come è stato osservato da molti esperti di diritto pubblico, il
disegno della riforma è stato anticipato dalla nuova legge elettorale per la
Camera dei deputati, approvata nel 2015. Il disegno politico che sta alla base
della riforma costituzionale, in effetti, non può veramente funzionare se non
insieme a quella precedente riforma elettorale. La nuova legge elettorale per
la Camera dei deputati assegna una solida maggioranza di controllo, in quella
che con la riforma costituzionale diventerà la Camera prevalente, quella da cui
dipenderà in particolare la legittimazione dei governi mediante i voti di fiducia,
al partito, non più alla coalizione, di maggioranza
relativa, quindi, come è stato osservato al maggiore dei partiti di
minoranza. E il premio di maggioranza è in effetti un premio di
minoranza (così l'ha definito Gustavo Zagrebelski). Il governo
quindi sarà espresso da quel partito, non più da una coalizione di
partiti. L’impostazione di quella legge elettorale per la Camera dei deputati
dipende dall'ideologia politica cosiddetta "del partito a vocazione
maggioritaria" promossa da alcuni settori del centro-sinistra nel
corso ed a fronte delle difficoltà politiche, paralizzanti, emerse
durante la legislatura 2006-2008 nella maggioranza di centrosinistra. In
base a quell'ideologia ci si propone di realizzare un governo
espressione di un solo partito, maggioritario nella Camera dei deputati in
base ai voti ricevuti o per effetto del premio di maggioranza, non di
una coalizione, superando in tal modo i problemi creati al governo
dalle divergenze insanabili ciclicamente manifestatisi all'interno delle coalizioni
e anche il potere di ricatto di partiti minori facenti parte di esse e decisivi
per il mantenimento della maggioranza parlamentare.
Il partito di maggioranza relativa
e il suo governo, con elezioni condotte con i nuovi criteri, saranno posti così
al centro del sistema politico italiano, quindi di una specie di sistema solare
nel quale essi saranno al posto del sole, con intorno, ad orbitare come pianeti
satelliti, gli altri centri di decisione politica. Per l’effetto della legge
elettorale, che darà a quel partito una solida maggioranza parlamentare, non
sarà più necessario contrattare ulteriormente con le parti
sociali il consenso politico. Ma nella nostra epoca i partiti non sono più
quelli, solidi, che ci sono stati fino alla fine
degli anni ’80: sono invece definiti liquidi, basati più su un
consenso instabile ottenuto mediante strategie analoghe a quelle utilizzate per
la vendita dei prodotti commerciali che su un forte radicamento sociale sul
territorio nazionale. E, infatti, come i prodotti commerciali, i partiti
nazionali contemporanei cambiano spesso, con molta disinvoltura, le
denominazioni e i profili proposti al corpo elettorale. In una situazione
così, sarà il governo espresso dalla maggioranza politica al
centro di tutto il sistema politico, perché, in definitiva, il partito sarà
tenuto coeso dapprima dal gruppo politico candidato al governo e poi, vinte le
elezioni, dal governo in carica. Quindi invece che ruotare intorno ai 730 (più
gli ex Presidenti della Repubblica) parlamentari del Parlamento riformato, il
sistema politico nazionale ruoterà intorno alle circa venti persone, o meno,
che, presidente del Consiglio dei ministri compreso, comporranno, il governo,
ma, in definitiva, intorno al presidente del Consiglio, che verosimilmente
continuerà ad essere anche il leader del partito di
maggioranza, l’unico in grado di dare coesione sia al sistema di governo che a
quello di partito.
Le prime elezioni politiche della Camera
dei deputati condotte con la nuova legge elettorale e dopo l’entrata in vigore
della riforma costituzionale determineranno la fine della fase di
nicchia della politica nazionale apertasi a fine 2011. In quel
momento, infatti, l’autorità del governo in carica non dipenderà più da una
informale legittimazione aggiuntiva, potenziante, concessa
dal Presidente della Repubblica e dall’Unione Europea, per gestire un fase
emergenziale.
Difficile prevedere chi vincerà quelle
elezioni, che potrebbero riservare notevoli soprese, secondo gli attuali
sondaggi. E’ però verosimile che il leader del partito
vincente avrà in mano la Repubblica, per la posizione rafforzata che il Governo
avrà nella Costituzione rafforzata. Ma per fare che? E’ un bel problema
capirlo.
Finita la fase emergenziale gestita
in accordo con le autorità dell’Unione Europea, che in qualche modo tracciavano
quella via di lacrime e sangue di cui ho parlato, e
quindi un preciso programma di governo, quali saranno le nuove politiche
nazionali?
I maggiori partiti nazionali, e i
loro leader, parlano di riforme, genericamente, quindi
si propongono di essere attivi, ma i loro programmi politici non sono per ora
intelligibili in dettaglio, perché in genere ci si limita alla propaganda,
mediante la quale, sostanzialmente si propone agli elettori di accettare, in
cambio del consenso politico, una cambiale in bianco a
lunga scadenza. Si chiede il consenso politico, ma anche mani libere. Il nostro
futuro nazionale sarà, in definitiva, affidato alla buona volontà e alle
capacità di quella ventina di persone che, sulla base di quel consenso, avranno
raggiunto il potere. Di lì, per effetto anche della riforma costituzionale,
potranno cambiare veramente l’Italia, come mai a un governo del passato è stato
concesso. E i cambiamenti potrebbero essere difficilmente reversibili. Le
remore poste dal Parlamento non saranno più sufficienti a impedirli, perché la
Camera dei deputati sarà controllata dalla maggioranza di partito che
sostiene il Governo e il Senato sarà Camera minore, destinata a soccombere in
molti affari di stato. Il Governo, infine, attraverso la Camera da esso
controllata potrà invadere piuttosto liberamente il campo che in Costituzione è
assegnato alla Regioni e nel nuovo Senato, espressione tendenzialmente di
particolarismi territoriali locali, potrebbe non essere facile coalizzare, tra
gli esponenti eletti da tante Regioni, la
maggioranza assoluta dei suoi componenti necessaria per tentare di bloccare
l’invasione da parte di una legge dello stato delle competenze
legislative di una Regione (le leggi statali che
invadono il campo legislativo regionale sono soggette a una procedura di
approvazione rafforzata che potenzia il ruolo del
Senato, restando comunque l'ultima parola alla maggioranza assoluta della
Camera dei deputati).
30
La
Terza Repubblica del partito
maggioritario
La Terza Repubblica, quella che verrà dopo l’attuale
fase di transizione dal sistema bipolare dell’alternanza
tra coalizioni di opposti orientamenti, sarà caratterizzata
dal dominio di un partito maggioritario. Questo però non è scritto
nella riforma costituzionale sulla quale decideremo nel referendum del
prossimo 4 dicembre. E’ un effetto combinato di quella
riforma e della nuova legge elettorale per la
Camera dei Deputati. E’ un peccato che i teorici della riforma costituzionale
non abbiano inserito nella revisione costituzionale qualcosa su questo effetto
istituzionale, in modo che i cittadini potessero pronunciarsi in merito.
Il nuovo Parlamento rimane bicamerale, ma
con una delle sue Camere predominante: la Camera dei deputati. In questa
Camera, per effetto della sua nuova legge elettorale, un solo
partito avrà, comunque, per effetto di un premio di
maggioranza, la maggioranza assoluta, vale a dire più
della metà dei deputati, 340 deputati su 630. Questo non era mai avvenuto
nella storia della Repubblica democratica.
La Camera dei deputati eserciterà poi la
supremazia statale sulle Regioni. Con quella maggioranza assoluta potrà
superare l’opposizione del Senato in quella materia.
Per l’elezione del Presidente della Repubblica
da parte del Parlamento in seduta comune (che sarà composto solo dai deputati e
dai senatori) la riforma prevede che dal settimo scrutinio sia sufficiente la
maggioranza dei tre quinti dei votanti. E’ stato osservato che
questo potrebbe abbassare molto il numero di voti necessario per l’elezione,
fino a 220, se si tiene conto che le delibere saranno valide se sarà presente
la maggioranza, la metà più uno, dei componenti (per quanto è difficilmente
pensabile che in un’occasione politica così importante ci sia una rilevante
diserzione dei parlamentari). In queste votazioni il Senato conterà molto meno
che nel passato, perché avrà meno di un terzo dei membri attuali. Non sono più
previsti delegati regionali, perché sarà il nuovo Senato ad esprimere le autonomie
locali. Il partito maggioritario in questa elezione
disporrà di 340 voti alla Camera dei Deputati e probabilmente di una
cinquantina al Senato, a seconda delle Regioni che controllerà: in totale circa
390 voti. Gli mancheranno solo una cinquantina di voti per eleggere un proprio presidente
alla quarta votazione, quando saranno necessari i tre quinti dei componenti
dell’assemblea, e ancora meno dalla settima. Un obiettivo non difficile da
raggiungere se si considera l’elevato trasformismo che
ha caratterizzato le ultime legislature, con parlamentari che cambiavano di
schieramento con una certa disinvoltura. Con un proprio Presidente
della Repubblica il partito maggioritario, che controllerà
sostanzialmente il Parlamento, potrà affrancarsi dall’autorità morale
dell’istituzione che, nella fase di transizione che stiamo vivendo, iniziata
nell’autunno 2011, gli aveva dato un sovrappiù di legittimazione, ma ne aveva
anche condizionato le strategie politiche.
Ma vi è di più: l’intera Costituzione, molto
più di ora, sarà nelle mani del partito maggioritario. Già ora la
riforma costituzionale in decisione nel referendum è stata approvata a colpi di
maggioranza parlamentare, da una coalizione parlamentare ben
determinata a farlo. Ma in futuro, rimosso l’ostacolo che in passato aveva
costituito il Senato con la sua maggioranza asimmetrica rispetto a quella della
Camera dei deputati, l’iniziativa di revisione costituzionale di quel partito maggioritario avrà
ancora meno ostacoli, tenendo presente che esso, a causa dei sistemi elettorali
regionali che prevedono premi di maggioranza, potrebbe controllare molte
Regioni e quindi esprimere anche la maggioranza dei senatori. Infatti,
nonostante diversi specialisti di diritto pubblico lo richiedessero, non è stato
modificato il primo comma dell’art.138 della Costituzione, che prevede che le
leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali siano
approvate a maggioranza assoluta dei
componenti di ciascuna camera, per mettere al sicuro la Costituzione dagli
effetti dei premi di maggioranza parlamentare richiedendo invece maggioranze
più elevate per modificare la Costituzione.
Quale sarà il partito
maggioritario che inaugurerà la Terza Repubblica?
Difficile prevederlo, stando agli attuali sondaggi. Ognuno, in cuor suo, pensa,
spera, che sia il proprio, ma non è detto. Prudenzialmente sarebbe meglio
ragionare come se fosse quello che gli si oppone.
E poi: ci sarà ancora l’alternanza tra partiti
maggioritari, come quella che si è prodotta tra coalizioni di
partiti tra il 1994 e il 2011? Anche questo è difficile prevederlo. Non è
scontato. Perché un partito maggioritario tenderà a
rimanerlo, quindi a produrre strategie di governo che consolidino il suo potere
politico. In una coalizione questo, in passato, si è rivelato
più difficile. Ma in un solo partito…
Ma, si può osservare, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti
d’America non è così che si governa, con partiti maggioritari? E’
vero, ma è tutta questione di pesi e di contrappesi,
ciò che appunti distingue una democrazia, il governo di tutti, da una
oligarchia, il governo di pochi. Il Presidente degli Stati Uniti
d’America, il quale, per ora, è considerato la persona più potente del mondo,
ha subito molte limitazioni al suo grande potere, ad esempio ad opera del
Senato federale, della Corte Suprema, delle stesse autonomie degli stati
federati. E’ stato osservato che, nel quadro della riforma, questi contrappesi al
potere dell’esecutivo sono troppo deboli, ad esempio con una Corte
Costituzionale in cui la componente di origine parlamentare potrebbe diventare
di orientamento esclusivamente filogovernativo, come anche quella di
origine presidenziale, se riuscisse al partito maggioritario di
nominare un proprio Presidente della Repubblica.
Mi pare di poter concludere così: nel
prossimo referendum costituzionale non è questione solo di modifiche di
dettaglio, per rimuovere inefficienze e lungaggini del sistema e per ridurre i
costi della politica, ma si tratta di decidere se inaugurare una Terza
Repubblica, un sistema istituzionale veramente nuovo, come non c’è mai stato
finora nell’Italia della Repubblica democratica.
Naturalmente le nuove regole delle
istituzioni fornirebbero solo delle opportunità ai
volenterosi, non è detto che vengano colte. Per il passaggio di fase alla Terza
Repubblica occorre un altro ingrediente: un gruppo di persone, una squadra di
governo, che sfruttino certe opportunità. Di fatto, però, aperta una
strada, è possibile che ci sia chi abbia cuore di percorrerla.
3i
Un
esempio di antico bicameralismo: il Senato degli Stati Uniti d’America, un
importante contrappeso contro il rischio di cambiamenti in peggio
Gli Stati
Uniti d’America sono la più antica democrazia moderna. Sorse alla fine del
Settecento. La sua Costituzione da allora ha subito poche modifiche, chiamate emendamenti, tra il 1791 e il 1992. In
tutto gli emendamenti sono ventisette.
La democrazia statunitense è uno degli esempi
più rilevanti di repubblica con un parlamento composto da due camere: la Camera
dei Rappresentanti e il Senato. Entrambe queste camere, che insieme compongono
il Congresso, il parlamento statunitense, concorrono a legiferare. Ma il Senato
ha altri poteri esclusivi, in particolare deve approvare le nomine dei più alti
funzionari federali fatte dal Presidente degli Stati Uniti. Potete trovare notizie più dettagliate sul
Senato statunitense all’indirizzo WEB: https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/752013/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione11-h1_h110
Il Senato
degli Stati Uniti d’America si compone di cento membri, due per ogni stato
federato nell’Unione e i senatori sono eletti dai cittadini. I senatori non
vengono eletti tutti in una volta: il Senato statunitense si rinnova
parzialmente ogni due anni. Questo può comportare maggioranze parlamentari
diverse alla Camera dei Rappresentanti e al Senato. E’ possibile pensare che i
riformatori costituzionali italiani si siano ispirati anche a tale sistema.
Certo, però, che il Senato statunitense non è sicuramente una camera minore,
una cameretta. E’ previsto che
costituisca un effettivo contrappeso sia ai poteri della Camera dei
Rappresentanti che a quelli del Presidente degli Stati Uniti. Gli statunitensi
non ci vedono nulla di male e, anzi, è un effetto voluto. Questo non ha
impedito agli Stati Uniti d’America di divenire progressivamente, dopo la prima
Guerra Mondiale, lo stato più potente del mondo, sia dal punto di vista
economico che da quello militare. E anche di rinnovarsi periodicamente. Benché
infatti il sistema politico statunitense sia bipolare, animato da due partiti,
il Partito Democratico e il Partito Repubblicano, ciò non ha impedito clamorose
novità, come abbiamo potuto sperimentare in questi giorni.
Fino agli
anni ’80 la partecipazione dei cittadini statunitensi alla politica era
diversa, in genere meno intensa, di quella degli europei, e in particolare di
quella degli italiani. In particolare, le campagne per le elezioni
presidenziali statunitense sono molto costose e può impegnarvisi chi è molto facoltoso
di suo e comunque ha un appoggio finanziario di gruppi economici. Questo anche
se, in concomitanza con le campagne elettorali presidenziali, vengo avviate
raccolte di fondi tra i cittadini elettori. La partecipazione al voto è
storicamente più bassa che in Europa. Un elemento di novità delle ultime
elezioni presidenziali è stato un aumento della partecipazione al voto: questa
è stata una delle ragioni del fatto che i sondaggi demoscopici per i pronostici
elettorali hanno fallito. Dagli anni ’90 in Italia la partecipazione al voto
elettorale è diminuita, anche se non è mai scesa al livello di quella degli
statunitensi. I dati si stanno comunque avvicinando. E’ stata notato anche che
il voto di protesta per candidati di rottura con una precedente tradizione
politica si è sviluppato sia negli Stati Uniti che in Italia.
L’esito
delle ultime elezioni presidenziali statunitense è stato inatteso. E questo
benché le elezioni si siano svolte in un sistema istituzionale molto solido, di
sperimentata funzionalità, senza cambiamenti recenti. Il sistema dei contrappesi parlamentari, in particolare senatoriali, ai
poteri presidenziali sarà messo sotto sforzo, se il nuovo Presidente vorrà
tener fede a tutte le prospettive politiche proposte ai suoi sostenitori.
Esiti
analoghi possono prevedersi dopo la conferma della riforma costituzionale al
prossimo referendum. Molte cose cambieranno e questo interagirà con il voto di
protesta che negli ultimi anni si è fatto fortissimo. Effettivamente è
possibile, anzi probabile, che in quel caso molte cose cambieranno in Italia.
Che cambino in meglio dipenderà dalla qualità del personale politico che le
nuove regole costituzionali manderà al potere. La sua azione sarà però meno
condizionata da un sistema di contrappesi.
Questo è un effetto voluto della riforma. Ma come oggi negli Stati Uniti
d’America si comincia a temere il cambiamento, pur vigente un sistema molto
valido di contrappesi parlamentari all’arbitrio presidenziale, è
possibile che ciò possa avvenire in Italia, per effetto della Costituzione
riformata e del nuovo vento della politica che tira da noi, ma con un sistema
di contrappesi molto meno pervasivo.
Insomma, da
noi come negli Stati Uniti d’America il cambiamento potrebbe non significare
automaticamente cambiamento in meglio,
ciò che appunto si intende quando si auspica un cambiamento. Infatti nessuno vorrebbe cambiare in peggio. Però questa è una delle possibilità della
politica. E’ uno dei suoi rischi. Un
sistema costituzionale dovrebbe essere congegnato per ridurli. Negli Stati
Uniti d’America, con il loro parlamento bicamerale con camere con poteri tali
da farsi reciprocamente da contrappeso e da fare da contrappeso ai poteri
presidenziali questo congegno di sicurezza ha funzionato. Anche in Italia. Né
in Italia né negli Stati Uniti d’America sono sorti, in democrazia, dei
despoti. In Italia ne è potuto sorgere uno, tra gli anni Venti e gli anni
Quaranta del secolo scorso, quando si è indebolito il Parlamento, in
particolare la Camera dei Deputati, che ad un certo punto venne addirittura
abolita dal regime fascista. E il Senato? Che fece il Senato in epoca fascista?
I senatori all’epoca erano nominati a vita dal Re su proposta del Governo. Se
ne nominarono tantissimi nuovi in modo da modificare in senso favorevole al
regime la maggioranza parlamentare del Senato. L’eclisse del Parlamento del
Regno d’Italia aprì la strada al fascismo storico.
La riforma
costituzionale sulla quale decideremo al referendum del prossimo 4 dicembre non
fa piccoli ritocchi alla nostra Costituzione, ma ne attua una revisione molto
incisiva, tale da configurare un nuovo sistema istituzionale. E’ quindi un cambiamento molto importante. Tutto l’asse politico
nazionale ruoterà intorno a un Governo che avrà meno contrappesi, sia in Parlamento, sia negli altri centri decisionali,
in particolare nelle autonomie locali. La riforma che riguarda le elezioni
della Camera dei deputati potenzierà molto questo effetto, tendendo a formare,
in un tempo più o meno breve, una maggioranza parlamentare controllata dal
Governo. E’ un po’ la situazione in cui si trovano oggi gli Stati Uniti
d’America, con maggioranze parlamentari coerenti con l’impostazione politica
del nuovo Presidente dell’Unione. Questa è la ragione per la quale negli Stati
Uniti si teme il nuovo corso politico e si fanno manifestazioni di piazza:
perché in questa situazione il sistema dei contrappesi
parlamentari sarà verosimilmente
meno efficiente, anche se formalmente rimane. La riforma costituzionale
italiana lo indebolisce anche dal punto di vista formale.
Si dice che
in Italia servono riforme, anche se chi ne parla non dice,
di solito, più di questo. E si sostiene che il motore delle riforme deve essere un Governo con le mani libere,
perché in passato i processi riformatori si sono arenati in Parlamento. Bisogna
però chiedersi se si sono arenati perché, in realtà, ha funzionato il sistema
dei contrappesi di cui il Parlamento, e anche la Corte
Costituzionale, e le stesse norme di procedura costituzionale, sono espressione.
Se quindi ci sono stati risparmiati cambiamenti
in peggio. Di fatto, in particolare
dagli anni ’90, in Italia si sono fatte moltissime riforme. Le regole per
evitare l’umiliazione dei lavoratori e il sistema sanitario nazionale (cure
gratuite o quasi per tutti) ne sono esempi. La stessa riforma costituzionale è
stata varata piuttosto rapidamente, tra il 2013 e il 2016, tre anni,
nell’attuale sistema costituzionale. E il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre è l’ultimo dei contrappesi che la Costituzione prevede al potere di
revisione delle norme fondamentali della Repubblica. Noi cittadini che voteremo
al referendum siamo, collettivamente, questo contrappeso. Rendiamoci conto che se sbagliamo le cose potrebbero
mettersi rapidamente molto male, perché il nuovo sistema lascerà al Governo
mani molto più libere. E questo è
l’intento dichiarato dei riformatori.
32
Informarsi per decidere
consapevolmente e responsabilmente: un impegno ogni giorno più urgente. Il
referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo è l’ultimo “freno di
emergenza” costituzionale
Si studia la riforma
costituzionale e si giunge ad una decisione di voto. Questo è il percorso
giusto da seguire.
In questi giorni parlo alla gente della riforma e noto
invece che in genere si vuole sapere come votare prima di conoscere la legge di
revisione. Sembra che addirittura nove su dieci siano in questa situazione.
Mancano diciannove giorni al referendum. Il tempo è poco per informarsi e
chiedere chiarimenti (la maggior parte delle persone ne ha necessità). Ma è
ancora possibile farlo. In coscienza ritenete di saperne abbastanza?
Vorrei segnalare alcuni temi.
La riforma costituzionale incide profondamente sul nostro
sistema istituzionale, tanto da configurare una vera e propria Terza
Repubblica. E' effettivamente una riforma epocale. Essa non è stata ideata
dall'attuale Presidente del Consiglio, che si è limitato a seguirne gli
ideologi e a imprimere forza politica al processo legislativo che l'ha
prodotta.
L'esposizione chiara, lucida, inequivocabile, delle
finalità della revisione costituzionale si trova nel libro di Stefano Ceccanti,
"La transizione è (quasi) finita". Ceccanti chiarisce che la riforma
della legge elettorale della Camera dei deputati è una parte fondamentale della
riforma. Su di essa però non potremo decidere al referendum del 4
dicembre.
La posizione del Governo viene molto rafforzata, ma non del
tutto esplicitamente, mediante diverse disposizioni il cui effetto combinato
non è facile capire. Non sono d'accordo con chi dice che non vengono toccati i
poteri del Governo: in effetti vengono ampliati. Ma è vero che ad uno sguardo
distratto può sembrare che tutto rimarrà come prima. Non è così. L'esposizione
più chiara degli aspetti critici della riforma l'ho trovata nel libro di
Gustavo Zagrebelsky "Loro diranno, noi diciamo", disponibile anche in
e-book. Leggendo i libri di Ceccanti e di Zagrebelsky si può avere un panorama
sufficientemente completo della riforma.
La transizione ad una Terza Repubblica si basa su tre
principi. Il primo: una Camera dei deputati come Camera maggiore, la sola a
votare la fiducia al Governo, controllata da un partito
"maggioritario" per effetto della riforma della legge elettorale di
quell'organo. Il partito maggioritario è un partito che ha una solida
maggioranza assoluta nella Camera che deve votargli la fiducia. Una situazione
così non si è mai verificata nell'Italia della Repubblica democratica. Il
secondo, appunto: la fiducia al Governo votata solo dalla Camera dei Deputati.
Il terzo: il Governo arbitro assoluto dell'interesse nazionale nei confronti
delle autonomie locali attraverso una modifica di dettaglio ad una disposizione
costituzionale. Una volta accettati questi principi, la configurazione del
Senato era un problema secondario e il risultato della riforma in questa
parte è dipeso dalla volontà dei riformatori di arrivare ad un accordo politico
con il centrodestra sulla legge di revisione, che c'è stata all'inizio
dell'iter legislativo della revisione costituzionale e che poi non c'è stata
più. L'attuale Senato assomiglia un po', quindi, al Senato previsto dalla
riforma costituzionale del 2005, non confermata da un referendum costituzionale
del 2006. Ma è solo una superficiale assonanza, perché i sistemi istituzionali
delle riforme del 2005 e del 2006 sono di orientamento opposto: federale il
primo, accentratore il secondo.
Va aggiunto che il partito che ha promosso la riforma
controlla attualmente la maggior parte delle Regioni e quindi i riformatori
prevedevano un Senato, eletto nella massima parte dai consiglieri regionali,
coerente con una Camera dei deputati controllata dal loro Governo.
Quindi: un partito maggioritario organizzato intorno a un
Governo forte che non trova ostacoli nell'approvare un progetto di "riforme",
che allo stato però non è ben esposto, senza più la necessità di cercare
l'alleanza con partiti minori e transfughi di altri partiti. Va aggiunto che,
con il vento favorevole, il partito maggioritario potrebbe riuscire a eleggere
un proprio Presidente della Repubblica e ad ottenere una maggioranza favorevole
alla Corte Costituzionale, per effetto di altre modifiche di dettaglio della
legge di revisione. Questo effetto di rafforzamento dell'azione di governo è
proprio quello che i riformatori e lo stesso Presidente del Consiglio
dichiarano di voler ottenere. Non l'hanno nascosto: è un punto fondamentale
della loro propaganda elettorale.
Il problema è che attualmente non esiste un chiaro disegno
riformatore e una base sociale disposta a sostenerlo. Prevale infatti
l'antipolitica, il voto di protesta analogo a quello che ha determinato
l'inaspettato esito delle presidenziali statunitensi. Il rafforzamento
dell'azione di governo è quindi artificiale. Questa è l'obiezione principale
che fin dagli anni '80 venne posta ai precursori degli attuali riformatori.
Questi ultimi pensano di riuscire a coalizzare un consenso politico
"dopo" la riforma, intorno al giovane attuale Presidente del
Consiglio, che ambisce a percorrere una storia politica analoga a quella del
britannico Tony Blair. Di fatto, quando si parla di "riforme" in
dettaglio, e lo si fa di rado, si capisce bene che saranno "dolorose"
per molti, perché andranno ad incidere sui diritti sociali. Un Governo che
andasse deciso per quella strada, andando d'accordo solo con "chi ci
sta" e forte della sua maggioranza parlamentare di controllo,
probabilmente si troverebbe a fronteggiare, ma anche a produrre, un rilevante
scontro sociale.
Un'ultima questione: la riforma, ideata per un preciso
partito, potrebbe mandarne al potere, stando agli attuali sondaggi, un altro.
Quando si valutano riforme di questa portata bisognerebbe ipotizzare che
accadrebbe se favorissero gli avversari. Penso che ora i riformatori siano
terrorizzati da certe prospettive. Ma ormai non c'è più tempo per correzioni e
il Presidente del Consiglio ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, secondo
il suo costume, che finora gli ha aperto la strada in un mondo politico
storicamente piuttosto bloccato. Il destino dell'Italia è affidato, in
definitiva, solo al prossimo referendum costituzionale, l'ultimo dei
"freni costituzionali d'emergenza" disponibili. Ecco la necessità di
una scelta consapevole, informata. Sarebbe sbagliato il voto di protesta o
decidersi seguendo la personalità verso la quale si sente maggiore afflato
emotivo. Si tenga conto che, varata la riforma, le eventuali correzioni
dovrebbero farsi con le nuove regole ed esse saranno più difficili di oggi.
Infatti, nell'intenzione dei riformatori la revisione costituzionale di
quest’anno dovrebbe essere piuttosto stabile. E' per questo che hanno previsto
che le future riforme costituzionali debbano farsi con procedimento bicamerale,
con il concorso, come ora, di Camera dei Deputati e Senato. Attesa la struttura
molto diversa dei due organi costituzionali dopo la revisione costituzionale,
nel nuovo sistema istituzionale sarà difficile coalizzare un sufficiente
consenso parlamentare per future revisioni.
33
Una
riforma epocale
Parlando
con le persone che incontro mi sono reso conto che molte di loro ancora non
hanno compreso su che cosa si deciderà nel referendum costituzionale del
prossimo 4 dicembre e i più decideranno sulla base dell’opinione che hanno
sull’attuale Presidente del Consiglio dei ministri e sulle istituzioni dell’Unione
Europea. In genere si rifiuta il dialogo sui contenuti della riforma
costituzionale e ci si limita a ripetere meccanicamente gli slogan della
propaganda elettorale in corso. In particolare vanno molto quelli centrati sul cambiamento: “Perché non vuoi cambiare?”, “Comunque
qualche cosa cambierà!”, “Sei
anziano, conosci il passato, perché allora non vuoi cambiare?”, “Sei giovane, perché non vuoi cambiare?”.
Effettivamente, se la riforma costituzionale verrà confermata, molte
cose cambieranno. Si tratta infatti di una revisione costituzionale epocale.
Nulla di simile c’era stato prima.
Trascrivo su
tema alcuni brani del libro di Stefano Ceccanti, La revisione è (quasi finita), di quest’anno (Ceccanti è
considerato uno dei padri della revisione costituzionale):
“[pag.30-35] Le
leggi di revisione dal 1 gennaio 1948
sono state 15. Sono stati modificati
34 dei 139 articoli (ma dopo il 2001 ne restano 134), alcuni dei quali più di
una volta. Dei primi 54 articoli (Principio fondamentali, Diritti e doveri dei
cittadini) ne sono stati modificati solo tre: il 27, per proibire la pena di
morte; il 48, per consentire il diritto di voto all’estero; il 51, per
promuovere l’eguaglianza di genere e permettere le quote rosa nelle leggi
elettorali.
[…]
Tre modifiche minori sono state varate negli anni
’60:
a)due nel 1963 che hanno previsto un numero fisso
di deputati e senatori anziché un numero variabile rispetto agli abitanti, la
parificazione della durata di cinque anni tra Camera e Senato […] infine l’istituzione della Regione
Molise;
b) una nel 1967, con la modifica dell’art.135 per
parificare a 9 anni la durata in carica di tutti i giudici costituzionali.
Tutte le
altre sono state introdotte dal 1989 in avanti, e sono state di carattere
puntuale, su una singola questione, con le sole eccezioni dei due interventi
sul Titolo V della parte seconda nel 1999 (elezione diretta dei Presidenti
delle Giunte regionali e autonomia statutaria delle Regioni) e nel 2001
(riscrittura pressoché integrale del rapporto tra centro e periferia).
[…]
Non può sfuggire che il 1989 [l’anno in cui
iniziarono le riforme costituzionali dei regimi dell’Europa orientale di
impronta sovietica - nota mia] sia stato il vero anno di svolta verso un uso
più intensivo della revisione.
[…]
Con la legislatura 1994-1996 nasce così non una
“seconda repubblica” […] ma un secondo sistema dei partiti, che pure non è poca
cosa, giacché supporta le norme costituzionali, ne condiziona l’applicazione e
ne orienta anche le ulteriori riforme.
Tutte [le riforme costituzionali approvate dal 1999
al 2012] sono state sostanzialmente consensuali, con l’eccezione della legge
n.3 del 2001 sul titolo V [sulle autonomie locali] approvata in Parlamento dal
solo centrosinistra a fine legislatura, anche se i contenuti rispecchiavano in
sostanza i lavori condivisi dalla Commissione D’Alema [Commissione bicamerale
sulle riforme costituzionali istituita nel 1997 e presieduta da Massimo
D’Alema].
Una doppia
rottura vera e propria venne invece da parte del centrodestra:
A)la nuova riforma elettorale (legge n.270 del
2005, tuttora in parte vigente [dopo dichiarazione parziale di
incostituzionalità del 2014 - nota mia] che aveva soppresso i collegi
uninominali nel quadro di una legge proporzionale, caratterizzata da lunghe liste
bloccate, combinate con un premio di maggioranza nazionale ala Camera e una
sommatoria di premi regionali al Senato;
B)la connessa riforma costituzionale [del 2005, con
impostazione federalista - nota mia]
che sarebbe stata poi bocciata dal referendum 2006.”
L’attuale
riforma costituzionale, approvata quest’anno, modifica ben 50 articoli della
Costituzione e tre leggi costituzionali, compreso l’art.48, nella prima parte
della Costituzione, quella dedicata ai Diritti e doveri dei cittadini,
disponendo che i cittadini all’estero non voteranno per il nuovo Senato e
incidendo in tal modo sul principio di eguaglianza dei cittadini. E’ quindi una riforma senza precedenti, veramente epocale. Essa segue il metodo delle riforme
istituzionali approvate a colpi di maggioranza nel 2005 dai partiti di
centrodestra: legge elettorale e riforma costituzionale. Le riforme del 2005 ne
costituiscono antecedenti di ispirazione, anche se nella riforma di quest’anno
è sparita l’impostazione federalista e, anzi, si è andati verso un nuovo accentramento di
poteri non tanto genericamente verso lo Stato, quanto specificamente verso il
Governo nazionale. Questo spiega perché fino al 2015 la riforma
costituzionale approvata quest’anno sia stata condivisa con parte delle
formazioni di centrodestra. L’elemento comune è un sistema di ingegneria costituzionale
che rafforza significativamente la posizione del Governo nazionale nei
confronti degli altri centri di decisione e garanzia dello Stato, in
particolare del Parlamento. La riforma di quest’anno la rafforza anche nei
confronti delle autonomie locali.
Le cose, nel
caso di conferma della revisione costituzionale, cambieranno sicuramente,
soprattutto se al Governo andranno persone intenzionate a sfruttare le
opportunità offerte dal nuovo sistema costituzionale. Ma cambieranno in meglio? Un indicatore in merito è quello
costituito dalla qualità della classe politica nazionale. Essa infatti
esprimerà i nuovi Governi potenziati. Consideriamo, in particolare, come si sta
svolgendo la propaganda per il referendum costituzionale. Diversi politici
sembrano cercare di accattivarsi il consenso dei cittadini votanti con
argomenti non basati sui contenuti della riforma costituzionale, ad esempio
come quelli personalistici basati sull’antipatia o simpatia verso quello o
quell’altro, come quello basato sulla necessità di cambiare comunque, come
quelli basati su prospettive di interventi economici verso questa o quell’altra
categoria o regione. La propaganda referendaria è fatta sostanzialmente di questo
ed è quindi una cattiva propaganda. Le emittenti radiotelevisive pubbliche, per
quanto ho potuto constatare, non hanno
programmato trasmissioni in cui la riforma fosse spiegata in dettaglio da
persone competenti ma neutrali, ed anche con riferimenti storici: sono venute
quindi meno ad un loro compito specifico, in ciò non corrette dall’organo
parlamentare di vigilanza. Ci si è limitati a mandare in onda scontri
personalistici tra persone favorevoli o contrarie alla riforma, in cui, salvo
poche eccezioni, i contenuti della riforma non sono emersi. A questa classe
politica, con la riforma costituzionale di quest’anno, si stanno per affidare poteri di governo
incomparabili con quelli attribuiti a quelle che storicamente l’hanno
preceduta.
34
“Perché SÌ” -
Ceccanti -, “Perché No”- Scarpinato: due argomentazioni a confronto sul voto al
referendum sulla riforma costituzionale
Vi propongo di
seguito le argomentazioni di Stefano Ceccanti (tratte dal suo libro La transizione è (quasi) finita, Giappichelli),
professore universitario favorevole alla riforma costituzionale, e di Roberto Scarpinato (da un intervento
del 22-11-16 ad un seminario),
magistrato, contrario alla riforma, in merito al voto al referendum del 4
dicembre prossimo.
PERCHE’ SÌ - IL
PENSIERO DEL PROFESSORE UNIVERSITARIO STEFANO CECCANTI
Una breve
conclusione: la chiusura della transizione opportunità del 2016, sulle spalle
dei giganti del 1946
Ciascuno di noi avrà
quindi tempo fino al referendum costituzionale di ragionare nel merito sul
grado di adeguatezza complessiva del testo [della legge di revisione
costituzionale del 2016], descritto in modo dettagliato nel capito 4 [del libro
sopra menzionato].
In quella sede si
chiarisce anche l’altra dimensione della transizione, quella relativa alla
stabilizzazione nel senso di un regionalismo forte, dato che la riforma del
bicameralismo si pone all’incrocio tra questo spetto e quello della forma di
governo. Anche per esso, come si precisa in quella sede valgono le stesse
osservazioni sul cambiamento di clima tra 1946 e 1947 [l’accordo per la
scrittura della Costituzione, di ampia intesa tra i partiti che erano stati
protagonisti del Comitato di Liberazione Nazionale, viene a divergere da quello
per il Governo, che si cristallizza nella formula centrista, e ciò si
ripercuote sui lavori dell’Assemblea Costituente, che si svolsero tra il 1946 e
il 1947]: non a caso nel Progetto di Costituzione giunto in Aula
[dell’Assemblea Costituente], predisposto dalla Commissione dei 75, come
ricorda Mortati nella citazione di apertura (*)
[(*) Ricordo che alla
Costituente io, quale relatore della parte del progetto di costituzione
riguardante il Parlamento, fui tenace sostenitore di un’integrazioen della
rappresentanza stessa che avrebbe dovuto affermarsi ponendo accanto alla Camera
dei deputati un Senato formato su base regionale (…) Una Camera che fosse rappresentativa dei nuclei regionali offrirebbe il
grande vantaggio di fornire quello strumento di coordinamento fra essi e lo
Stato che attualmente fa difetto, e che invece si palesa essenziale per
conciliare le esigenze autonomistiche con quelle unitarie. (da una intervista al costituzionalista
Costantino Mortati pubblicata sul n.10 del gennaio 1973 della rivista Gli Stati)]
un terzo del Senato doveva essere eletto dai consiglieri
regionali.
Il cuore del
progetto di riforma sta quindi anzitutto nella rimozione dell’irrazionalità di
due Camere che danno entrambe la fiducia al Governo; irrazionalità tanto più
grande dopo il 1993 quando ci si è prefissi l’obiettivo di quello che Duverger
[Maurice Duverge, costituzionalista francese, 1917-2014] chiamava la
“democrazia immediata”, ossia di una legittimazione diretta del Governo da
parte degli elettori attraverso l’elezione dei parlamentari. Sta però anche
nella regionalizzazione del Senato che è la vera chiave di volta del
completamento della riforma del Titolo Quinti [della Costituzione]. Per quanto
infatti si posano cambiare la struttura e la stesura degli elenchi di
competenza legislativa (scompare l’elenco della competenza concorrente
tradizionale a favore di un ampliamento di quella esclusiva statale e di un
nuovo elenco di materie a vocazione regionale) un certo grado di
sovrapposizione è comunque ineliminabile. La riforma del Titolo Quinti è quindi
in ultima analisi assicurata dai rappresentati dei legislatori regionali in
Senato, a cui si affiancano quelli dei sindaci della regione, percepiti come
particolarmente vicini ai cittadini.
Pertanto, sulla
scorta dei criteri di giudizio precedentemente esposti in relazione all’analoga
transizione francese e ai limiti
politici della seconda fase del lavoro dell’Assemblea Costituente, appaiono
pienamente motivate le ragioni di fondo di una riforma significativa sulle regole istituzionali per approdare coerentemente
alla duvergeriana “Europa della decisione”. Essa, peraltro, non è altro che
l’insieme degli standard decisionali in grado di ottenere esiti comparabili a quelli delle altre grandi
democrazie del continente in presenza di un sistema dei partiti mediamente più
fragile.
Per questa ragione,
ferma la perfettibilità delle singole soluzioni e la possibilità di interventi
incrementali ulteriori, col referendum costituzionale la chiusura della
transizione si presenta in questo 2016,
per la prima volta, un’opportunità reale. Una scelta che, del tutto a
prescindere dal Governo in carica e dal giudizio sulle forze politiche che lo
sostengono e lo avversano, poggia sulle spalle dei giganti del 1946, in linea
di continuità con le intenzioni originarie, poi in larga parte tradite per le
contingenti ragioni di cui ho parlato, dei costituenti. Un indirizzo di riforma
di cui l’Italicum [la legge elettorale per la Camera dei deputati],
già vigente ed utilizzabile dal 1 luglio 2016, ha rappresentato un’importante e coerente premessa col doppio turno
nazionale (per l’unica Camera destinata ad avere l’esclusiva del rapporto
fiduciario [=che voterà la fiducia ai Governi] che consente la legittimazione
diretta dei Governo. La Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha già
avuto modo di ritenerlo finalizzato a “un miglior compromesso tra efficienza di
governo e rappresentanza dopo un lungo periodo di instabilità”.
Del resto Costantino
Mortati, nell’intervista citata in apertura, dopo aver invitato a riprendere le
fila della riforma costituzionale del Senato congelata nel 1946 si diffondeva
poi sull’esigenza di giungere a governi di legislatura a partire da una
revisione del rigido proporzionalismo allora adottato nel contesto delle grandi
divisioni della Guerra Fredda. Divisioni che si stavano progressivamente e
irreversibilmente scongelando, omogeneizzando tutto il Paese sui principi della
forma di Stato democratico-sociale.
Sulle spalle dei
giganti ciascuno è quindi indotto ad esercitare la propria responsabilità di
cittadino prima formandosi un giudizio meditato di merito e poi scegliendo
l’opzione più fondata nel referendum costituzionale.
Ad una lettura
positiva delle trasformazioni elettorali e costituzionali in corso dovrebbe
condurre anche lo scenario europeo in profonda trasformazione, con le sue
opportunità e i suoi pericoli. Esso
richiede indubbiamente un salto di qualità, distinguendo meglio l’integrazione
politica più forte della zona Euro dalle cooperazioni ulteriori, giacché i
principali problemi che ci troviamo ad affrontare non possono essere affrontati
in modo efficace rinazionalizzando le politiche.
Proprio per questo,
sia nella fase attuale centrata sulle dinamiche intergovernative sia anche
nelle successive, farà differenza il rendimento istituzionale dei vari Stati
nazionali. La scissione tra politics [=le
decisioni politiche] che si svolge a livello nazionale e policies [=il coordinamento dei vari centri decisionali]
europeizzate ha portato al rigonfiamento dei partiti di protesta che sono
sintomi della crisi più che le loro soluzioni; anzi, queste forze, portando a
maggiore frammentazione, rischiano di rendere i sistemi meno efficienti, con
esecutivi più deboli e di breve periodo e con crisi di governo molto lunghe in Paesi come, in ultimo, la Spagna che Duverger
collocava nell’Europa della decisione. Per fortuna tra i grandi Paesi il Regno
Unito appare difeso stabilmente dalla forza selettiva del collegio uninominale
maggioritario che ha reso un parentesi il Governo di coalizione tra il 2010 e
il 2015 e la Francia dal doppio meccanismo maggioritario rafforzato dal 2000
(elezione diretta del Presidente seguita un mese dopo dalle elezioni
all’Assemblea), che regge anche l’urto del partito anti-sistema, mentre la Germania trova comunque nella sua cultura
politica consensuale risorse altrove sconosciute per stabilizzare il sistema,
pure al prezzo di comprimere gli spazi di opposizione parlamentare.
Il fatto che il
nostro Paese, proprio in questo contesto europeo, vari nel frattempo riforme
ragionevoli (senza seguire chimere di impossibile perfezione assoluta o
pretendere la coincidenza con teorie di singoli studiosi o di singoli esponenti
politici) che lo possano collocare stabilmente nella duvergeriana “Europa della
decisione”, dovrebbe rappresentare un obiettivo largamente condiviso.
In questo senso il
referendum costituzionale del 2016, coronamento di quelli elettorali del 1991 e
del 1993 sul superamento della proporzionale, in caso di esito positivo, senza
escludere interventi ulteriori, specie sulla forma di governo, potrebbe avere
un significato comparabile a quelli francesi del 1958 e del 1962 con cui fu
istituita e stabilizzata la Quinta Repubblica facendo transitare stabilmente la Francia dall’Europa
dell’impotenza a quella della decisione. Lo ha del resto chiarito il Presidente
Mattarella nel suo discorso del 21 dicembre 2015 alle alte cariche dello Stato
quando ha affermato: “Non posso che augurarmi … che questo processo giunga a
compimento in questa legislatura. Non entro nel merito di scelte che
appartengono alla sovranità del Parlamento e che, stando agli auspici formulati
da ogni parte politica, saranno poi sottoposte a referendum. Osservo soltanto
che il senso di incompiutezza rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti,
oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno
verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere.”
Parole su cui tutti
dovremmo riflettere meditare.
[dall’Introduzione del libro La
transizione è (quasi finita) - Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70
anni prima, Giappichelli, 2016 - paragrafo 5, Una breve conclusione: la chiusura della transizione opportunità del
2016, sulle spalle dei giganti del 1946]
*******************************************************************************
PERCHE’ NO - IL PENSIERO DEL MAGISTRATO ROBERTO
SCARPINATO
Una riforma che
rischia di riportare indietro l'orologio della storia
di Roberto Scarpinato
Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo
I Riformatori affermano di essere proiettati
nel futuro, ma il rischio è quello di tornare a prima dell’ avvento della
Costituzione del 1948, quando il potere politico era concentrato nelle mani di
ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.
Il mio dissenso nei confronti della riforma costituzionale è dovuto a
vari motivi che, per ragioni di tempo, potrò esplicare solo in piccola parte.
In primo luogo perché questa riforma non è affatto una revisione della
Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina
statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce
una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella
vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i
poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini.
Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è
organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali
dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione.
Basti considerare che, ad esempio, la
riforma abroga l’articolo 58 della Costituzione vigente che sancisce il diritto
dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto
l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che
stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione.
Nella diversa organizzazione del potere prevista dalla riforma, questo
potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e
attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali.
Poiché, come diceva Hegel, il demonio si cela nel dettaglio, questo dettaglio
- se così vogliamo impropriamente definirlo - racchiude in se e disvela l’animus
oligarchico e antipopolare che - a mio parere - attraversa
sottotraccia tutta la riforma costituzionale, celandosi nei meandri di articoli
la cui comprensione sfugge al cittadino medio, cioè a dire alla generalità dei
cittadini che il 4 dicembre saranno chiamati a votare.
I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico
sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo
paritario, questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma
glissano su un punto essenziale: Perché pur riformando il Senato avete ritenuto
indispensabile espropriare i cittadini del diritto - potere di eleggere i
senatori?
Il bicameralismo così come lo volete riformare non poteva funzionare
altrettanto bene lasciando intatto il diritto costituzionale dei cittadini di
eleggere i senatori?
Perché questo specifico punto della riforma è stato ritenuto tanto
essenziale da determinare addirittura l’epurazione dalla Commissione affari
costituzionali dei senatori del Pd - Corradino Mineo e Vannino Chiti - che si
battevano per mantenere in vita il diritto dei cittadini di eleggere i
senatori?
Forse uno degli obiettivi che si volevano perseguire, ma che non possono
essere esplicitati alla pubblica opinione, era proprio quello di restringere
gli spazi di partecipazione democratica e di estromettere il popolo dalla
macchina dello Stato?
Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della
democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli
spazi di democrazia e di rappresentanza?
Questo travaso di potere dai cittadini alle oligarchie di partito non
riguarda solo il Senato, ma anche la Camera dei Deputati e viene realizzato
mediante sofisticati meccanismi che sfuggono alla comprensione del cittadino
medio.
La nuova legge elettorale [per l’elezione della Camera dei deputati]
nota come Italicum, che costituisce una delle chiavi di volta della
riforma, attribuisce infatti ai capi partito e ai loro entourage il
potere di nominare ben cento deputati della Camera, imponendoli dall’alto senza
il voto popolare.
Questo risultato viene conseguito mediante il sistema dei capilista
bloccati inseriti di autorità nelle liste elettorali presentate nei 100 collegi
nei quali cui si suddivide il paese, e che vengono eletti automaticamente con i
voti riportati dalla lista, senza che nessun elettore li abbia indicati.
Gli elettori potranno esprimere un voto di preferenza per un altro
candidato oltre il capolista, ma i voti di preferenza così espressi saranno
presi in considerazione solo se lista da loro votata avrà ottenuto più di cento
deputati in campo nazionale, perché i primi cento posti sono bloccati per le
persone “nominate” dai gruppi dirigenti del partito in base a particolari
vincoli di fedeltà.
Così per formulare un esempio, se una lista ottiene un totale nazionale
di voti pari a 100 deputati, nessuno dei candidati scelti dagli elettori dal
101 in poi con il voto di preferenza potrà essere eletto alla Camera, perché
tutti i posti disponibili sono stati esauriti.
Ora poiché il premio di maggioranza previsto dall’Italicum attribuisce
al partito vincitore delle elezioni 340 deputati su 630, tutti i partiti della minoranza
potranno portare alla Camera nel loro insieme complessivamente 290 deputati, e,
quindi, ciascuno solo una quota di deputati intorno a 100 o ad un sottomultiplo
di cento.
Il che significa che entreranno alla Camera per le minoranze solo i
capilista bloccati, nominati dai capi partiti. Nessuno o quasi dei candidati
scelti dagli elettori oltre i cento con i voti di preferenza, farà ingresso in
Parlamento.
Ne consegue che ben due terzi dei cittadini italiani votanti, tanti
quanti sono rappresentati dalla somma dei partiti della minoranza nell’attuale
panorama tripolare nazionale, saranno di fatto privati del diritto di scegliere
i propri rappresentanti alla Camera.
Se questa è la sorte riservata ai cittadini elettori delle minoranze, è
interessante notare come il congegno dei cento capilista bloccati, unito ad
altri, consegua poi l’ulteriore risultato antidemocratico di determinare una
distorsione della rappresentanza parlamentare anche nel partito di maggioranza,
e di realizzare una sostanziale abolizione della separazione dei poteri tra
legislativo ed esecutivo.
Per spiegare come ciò verifichi, occorre comprendere come opera il
combinato disposto della riforma e dell’Italicum.
L’articolo 2 comma 8 dell’Italicum
stabilisce: “I partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a
governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il
cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In
questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è
anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il
capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto
inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base
delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Come è stato osservato, sarà ben
difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia,
destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
Ciò posto, tenuto conto che, come accennato, l’Italicum attribuisce alla medesima oligarchia di partito che
esprime il leader della forza politica candidato a capo del governo, la
possibilità di nominare cento deputati della Camera, è evidente che tale gruppo
oligarchico nominerà capilista, e quindi deputati ipso facto, tutti i
componenti del gruppo ed i fedelissimi del leader.
Si tratta di un numero di deputati che già di per se attribuisce al
futuro capo del governo la Golden share per il controllo della maggioranza alla
Camera dei deputati, perché equivale a circa un terzo dei deputati eleggibili
dal partito.
Qualunque studioso di diritto societario sa bene che l’amministratore
delegato di una azienda che detiene un terzo della quota azionaria, è in grado
di controllare l’intera azienda. Ma non finisce qui. Il leader futuro capo del
governo ed il suo entourage dopo avere nominato 100 deputati,
tanti quanti sono i collegi elettorali del paese, sono gli stessi che formano
la lista degli altri candidati non bloccati, per i quali gli elettori hanno la
possibilità di esprimere una preferenza o due a condizione che si votino
candidati di sesso diverso.
La riforma costituzionale non prevede alcuna norma che imponga (così
come, ad esempio, l’art. 21 della Costituzione tedesca) che l’ ordinamento
interno dei partiti debba essere conforme ai princìpi fondamentali della
democrazia e che garantisca, di conseguenza, una selezione democratica dei
candidati da inserire nelle liste elettorali. Dunque la stessa oligarchia
partitica che elegge se stessa con il sistema dei 100 capilista bloccati, ha la
possibilità di cooptare, inserendoli nella lista dei candidati votabili, solo
personaggi ritenuti affidabili e obbedienti, escludendo dalla lista gli
indipendenti e gli esponenti delle opposizioni interne, oppure relegandoli in
posizioni marginali.
Ma non finisce qui. L’Italicum ha in serbo un altro congegno a disposizione delle
oligarchie di partito per selezionare persone da cooptare nella maggioranza
parlamentare del futuro capo del governo. Si tratta della possibilità di
candidare la stessa persona in ben dieci diversi collegi contemporaneamente. Il
candidato eletto in più collegi deve scegliere il collegio che preferisce. In
quello in cui rinuncia, al suo posto viene eletto il candidato che ha ottenuto
più voti di preferenza dopo di lui. Il gruppo oligarchico che esprime il leader
futuro capo del governo ha in questo modo la possibilità di neutralizzare
eventuali candidati espressi dai territori e ritenuti non affidabili,
stabilendo che il candidato eletto in più circoscrizioni e fedele alla
leadership, scelga la circoscrizione nella quale altrimenti al suo posto
verrebbe eletto il candidato non gradito, che viene così escluso dalla Camera.
Grazie a questi congegni elettorali, lo stesso gruppo oligarchico che
designa come capo del Governo il capo della partito di maggioranza, acquisisce
la possibilità di controllare contemporaneamente sia il Governo che la Camera
dei deputati.
Si realizza così un continuum tra Camera dei deputati e Governo
espressione entrambi dello stesso gruppo oligarchico che abolisce di fatto la
separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo, e la Camera si trasforma
da organo espressione della sovranità popolare che controlla il governo dando e
revocando la fiducia, in Camera di ratifica delle iniziative legislative
promosse dal Capo del Governo, il quale è allo stesso tempo capo del partito di
maggioranza.
Il capo del Governo/capopartito oltre ad avere una supremazia di fatto
sulla Camera nei modi accennati, ha anche una supremazia istituzionale in
quanto la riforma gli attribuisce il potere di dettare l’agenda dei lavori
parlamentari con il meccanismo delle leggi dichiarate dal Governo di urgenza
che devono essere approvate entro 70 giorni.
Interessante notare che la stessa corsia preferenziale non è prevista
per le leggi di iniziativa parlamentare, così che il governo è in grado di
colonizzare ancor di più l’attività legislativa del parlamento.
Alla sostanziale desovranizzazione
del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere
legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si
somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la
legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290
deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.
E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le
minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel paese, assommando i voti di
due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito
del capo del governo.
Grazie alla lampada di Aladino del
combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico autoreferenziale in grado
di auto cooptarsi prescindendo in buona misura nei modi accennati dai voti di
preferenza espressi da una minoranza del paese, pari a circa un terzo dei
votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il gestore
oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e del
Governo.
Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni
valido contro bilanciamento è in grado di esercitare un potere
politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si
articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici
economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi
segreti, e via elencando. Si pongono così le premesse per realizzare uno spoil
system generalizzato, finalizzato a garantire l’autoriproduzione del
gruppo oligarchico mediante la nomina ai vertici degli apparati che contano
solo persone di provata consonanza politica e fedeltà.
Tramite questi e molti altri sofisticati meccanismi che per ragioni di
tempo non posso spiegare, si pongono così a mio parere le premesse per una
transizione occulta da un repubblica parlamentare imperniata sulla sovranità
popolare, sulla centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri, ad un
regime oligarchico nel quale il potere reale si concentra nelle mani di una
oligarchia che occupa il cuore nevralgico dello stato.
Per giustificare la sostituzione della Costituzione vigente con una
nuova Costituzione, i promotori della riforma si sono appellati ad argomenti
che si rivelano non ancorati alla realtà e che, proprio per questo motivo,
suscitano, a mio parere, serie perplessità, giacché se le ragioni della riforma
dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre
ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare.
Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i
costi della politica e sarebbe necessaria ed urgente per risolvere i problemi
del paese. Quanto all’inconsistenza del primo argomento – cioè lo scopo di
tagliare i costi della politica – non ritengo di dovermi soffermare. La
Ragioneria dello Stato in una relazione trasmessa al Ministro per le riforme in
data 28 ottobre 2014 ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma
del Senato pari a 57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio
statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi
ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio
tagliando i costi della corruzione, i costi della evasione fiscale, invece di
tagliare la democrazia.
Il secondo argomento dei sostenitori del Sì è - come accennavo - che la
riforma è necessaria ed urgente per risolvere i problemi del Paese, in quanto
il bicameralismo paritario determina una patologico rallentamento del processo
legislativo, e in quanto l’attuale assetto costituzionale impedisce una
governabilità del paese agile, flessibile, necessaria per reggere le sfide
della globalizzazione.
Se questo è lo scopo dichiarato, non risulta che siano stati indicati
dai fautori del Si i problemi del paese che sarebbero stati causati in passato
dalla farraginosità dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione
vigente e che, invece, troverebbero immediata soluzione con la riforma della
Costituzione.
Forse la completa assenza di una politica industriale che perdura da
oltre un quarto di secolo e a causa della quale dal 2008 ad oggi sono passati
al capitale straniero più di 500 marchi storici di tutti i settori strategici
dell’industria nazionale?
Dall’elettronica, alle automobili, alle comunicazioni, agli
elettrodomestici, alle ferrovie, all’aerospaziale, all’agroalimentare, alla
moda, l’elenco dei marchi passati al capitale straniero da la sensazione di una
silenziosa Caporetto nazionale: Pirelli, Pininfarina, Indesit, Ansaldo Breda,
Italcementi; Edison, Buitoni, Parmalat, Fendi, Bulgari, Gucci, Valentino, etc
Forse la disoccupazione giovanile che raggiunge livelli record in ambito
europeo e l’emigrazione all’estero di centinaia di migliaia di giovani laureati
che nel nostro paese non hanno alcun futuro?
Forse la gigantesca evasione fiscale (la terza del mondo dopo Messico e
Turchia) con un mancato introito per le casse dello stato che mette in
ginocchio l’erogazione dei servizi sociali?
Ciascuno può allungare a piacimento la lista dei gravi problemi nei
quali versa il paese e che lo stanno avvitando in una spirale di declino che
sembra senza fine, e stilare dal suo punto di vista una diversa gerarchia della
gravità di tali problemi.
Ma pur nella diversità delle opzioni, un fatto è certo: nessuno di
questi problemi è addebitabile al bicameralismo paritario e alla Costituzione
del 1948. Una classe dirigente che si è rivelata inadeguata a reggere le sfide
della complessità e che si è resa responsabile del declassamento economico e
sociale del paese, ora tenta di scaricare le proprie responsabilità sul capro
espiatorio di una Costituzione del 1948 che nulla ha da spartire con le cause
della crisi economica.
Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia
priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Si secondo
cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di
approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera dei Deputati ed il
Senato, quando una delle due camere apporta modifiche ai progetti di legge
approvati dall’altra.
In questa legislatura sono state sino
ad oggi approvare 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta
parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a
seguito di modifiche. I tempi medi approvazione delle leggi sono i seguenti:
ogni legge ordinaria viene approvata in media fra Camera e Senato in 53 giorni;
ogni decreto viene convertito in legge dalle due Camere in 46 giorni; e ogni
legge finanziaria passa, con la "doppia conforme", in 88 giorni.
Se una legge si incaglia in parlamento non è per colpa del pur
discutibile bicameralismo paritario: ma dei dissensi politici dentro le
coalizioni di maggioranza. E’ pur vero che vi sono leggi che invece sono state
approvate in tempi molto lunghi. Ma se si approfondisce l’analisi si comprende
bene che le ragioni di questi tempi lunghi non sono attribuibili al
bicameralismo paritario, ma a ben altre ragioni di ordine politico non sempre
commendevoli. La legge sulla corruzione, per esempio, ha ottenuto il via libera
dal Parlamento dopo ben 1546 giorni.
Dunque ricapitolando le ragioni addotte dai sostenitori del Si per
sostenere la necessità di questa riforma non trovano riscontro nella realtà.
Possiamo concludere che non è affatto vero che esiste una crisi di
governabilità del paese che è una concausa importante della grave crisi
economica nella quale ristagniamo?
Non possiamo affatto sostenerlo.
Anzi dobbiamo ammettere che esiste certamente una reale grave crisi di
governabilità che ha causato ed aggrava la crisi. Quel che merita riflessione,
dal mio punto di vista, è che si addebita la crisi di governabilità alla
Costituzione vigente e si tacciono invece alla pubblica opinione le vere cause
strutturali di tale crisi di governabilità, che possono essere ignote al
cittadino comune, che possono essere sconosciute ai tanti giuristi in buona
fede che non conoscono quale sia il reale funzionamento della macchina del
potere oggi, ma che, invece, non possono essere ignote a coloro che hanno
ideato questa riforma.
Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel
nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda
repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda
metà degli anni Novanta del secolo scorso?
La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali
siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un
paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di
emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere
di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di
competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di
bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa
pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed
uscite. In assenza di questa fondamentale cassetta degli attrezzi, non è
possibile governare la politica economica di un paese.
L’esempio più evidente si trae
dall’esperienza degli strumenti messi in campo dall’amministrazione americana
per gestire e superare la crisi sistemica verificatasi dopo l’esplosione della
bolla dei mutui subprime.
L’amministrazione statunitense ha contemporaneamente azionato la leva
della potestà monetaria autorizzando la Fed ad iniettare ogni mese 80 miliardi
di liquidità nell’economia reale, la leva della sovranità valutaria svalutando
il dollaro rispetto ad altre monete, la leva infine del potestà di bilancio,
finanziando con il deficit di bilancio statale politiche di spesa per il
rilancio dell’economia. Solo grazie a telai manovre, l’economia statunitense è
uscita dal guado. Veniamo ora al nostro Paese. Perché il governo italiano nello
stesso periodo non ha azionato le stesse leve felicemente azionate
dall’amministrazione statunitense? Forse perché ha commesso un errore di
diagnosi? Perché ha ritenuto di dovere seguire un’altra strategia? No, semplicemente
perché non ha potuto.
Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo
dell’economia del sistema Italia - potestà monetaria, potestà valutaria,
potestà di bilancio - non sono più azionabili dal governo italiano essendo
state cedute ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce,
componenti insieme al Fondo monetario internazionale della c.d. Troika,
santuario del pensiero unico neoliberista.
In altri termini il governo non ha potuto azionare quelle leve per un
deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948,
come sostengono i fautori del Si, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in
poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il
frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per
governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento
europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state
cedute agli organi prima menzionati - la Commissione europea, la Bce (e per
certi versi il Fondo monetario internazionale) - privi di legittimazione e
rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente
connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario.
Connessione questa dimostrata in modo inequivocabile dalla biografia di
tanti soggetti che in tali organi hanno rivestito e rivestono ruoli decisionali
strategici e che provengono dalle strutture apicali delle più grandi banche di
affari internazionali, o che a fine del loro mandato vengono assunti da tali
banche e da potenti multinazionali come consulenti o top manager.
Non risponde a realtà dunque, come affermano i sostenitori del Si, che
la politica ha perduto il controllo sull’economia a causa dell’ inefficienza
delle procedure decisionali previste dall’attuale Costituzione che, dunque,
sarebbe bene riformare votando Si al prossimo referendum del 4 dicembre.
La politica, o meglio la democrazia, ha abdicato al suo ruolo, quando ha
consegnato gli strumenti della sovranità a ristrette oligarchie arroccate in
centri decisionali impermeabili alla volontà popolare, ma fortemente permeabili
ai diktat dei mercati, o meglio alle potenze economiche che governano i
mercati.
Una esemplificazione concreta e recente dei risultati di questa
abdicazione della politica al potere economico e dei modi nei quali oggi viene
gestito il potere reale si ricava dall’esame della lettera strettamente
riservata che in data 5 agosto 2011, il Presidente della Bce inviò al Presidente
del Consiglio dei Ministri italiano, dettandogli una analitica agenda politica
delle riforme che il governo ed il Parlamento italiano dovevano approvare,
specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare.
Dalla riforma della legislazione sul lavoro, alla riforma della
contrattazione collettiva, alla riforma delle pensioni sino alle
privatizzazioni e alla riforma della Costituzione, è una summa del pensiero e
delle strategie neoliberiste.
E’ impressionante verificare a posteriori come quell’agenda politica sia
stata puntualmente realizzata - dalla riforma Fornero sino al Jobs Act - dai
tre governi che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi, e da maggioranze
parlamentari composte in larga misura da persone nominate da ristretti vertici
di partito.
Quel che appare ancor più
significativo è che in quella stessa lettera del 5 agosto 2011, il Presidente
della Bce sollecitava anche una riforma della seconda parte della Costituzione
che è stata realizzata nel 2012 nella indifferenza e nella inconsapevolezza
della sua reale portata, della opinione pubblica e del mondo dei giuristi.
Mi riferisco a quell’art. 81 della Costituzione che ha introdotto
l’obbligo del pareggio di bilancio, norma di matrice culturale neoliberista.
Una norma che ha introdotto un vero e proprio cavallo di Troia
all’interno della cittadella costituzionale, perché impedisce di finanziare in
deficit politiche economiche espansive di tipo keinesiano per superare le fasi
di crisi aumentando la spesa pubblica, ed impone quindi come unica soluzione
alternativa obbligata il taglio della spesa pubblica ai servizi dello Stato
sociale, determinando così l’impoverimento delle masse popolari, la riduzione
della loro capacità di spesa, la caduta della domanda aggregata interna e l’avvitamento
della spirale recessiva.
La vicenda in parola dimostra quanto
siano infondate tutte le argomentazioni dei sostenitori del Si secondo cui la
Costituzione va riformata perché quella attuale rallenta l’iter legislativo e
impedisce la governabilità.
Tutte le leggi indicate dalla BCE sono state approvate in tempi
rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare. La Salva-Italia di Monti e
Fornero fu approvata in appena 16 giorni.
La legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata
addirittura in cinque mesi (con quattro votazioni Camera-Senato-Camera-Senato).
La vicenda esposta costituisce una
concreta esemplificazione del reale modo di essere del potere oggi e di come
oligarchie partitiche insediate al governo e in grado di controllare il
Parlamento, possano divenire la cinghia di trasmissione della volontà politica
di centri decisionali esterni ai luoghi della rappresentanza popolare,
attraverso itinerari informali che si sottraggono alla visibilità democratica
Quella che ho appena esposto non è solo una vicenda del passato ma è una
simulazione di come sarà esercitato il potere in futuro se questa riforma
costituzionale dovesse essere definitivamente approvata.
Non si tratta di un processo alle intenzioni, non si tratta di
dietrologia.
Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma
costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i
problemi del paese, rimediando:
“l’esigenza di adeguare l’ordinamento
interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle
relative stringenti regole di bilancio”
“le sfide derivanti
dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della
competizione globale l’elevata conflittualità”
In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i
senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal
Parlamento al Governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma,
vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della
Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati.
In nome della esigenza di una totale subordinazione della politica
all’economia. Il migliore inequivocabile riscontro che questo sia il reale
obiettivo della riforma costituzionale, viene dalla sua sponsorizzazione
entusiastica da parte delle più potenti banche di affari internazionali e delle
altre cattedrali della finanza internazionale che in questi ultimi mesi sono
scese in campo con tutta la loro forza di pressione per sostenere il fronte del
si, e per intimidire gli indecisi minacciando sfracelli economici se la riforma
dovesse essere bocciata dai cittadini il 4 dicembre. E mi pare meritevole di
riflessione che queste finalità della riforma benché siano state dichiarate
nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale,
non siano mai state utilizzate per sostenere le ragioni del Si nel corso di
tutta questa campagna referendaria. Evidentemente i promotori politici della
riforma ritengono controproducente proclamare a reti unificate che la riforma
costituzionale risolverà tutti i problemi del paese, grazie al fedele
esecuzione delle indicazioni provenienti dalla governance europea.
I Riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra
che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia
all’epoca del primo Novecento quando prima dell’ avvento della Costituzione del
1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le
stesse che detenevano il potere economico.
Era il tempo in cui lo Stato non godeva di alcuna considerazione perché
era considerato un instrumentum regni nelle mani dei potenti e
la legge, come insegnava Gaetano Salvemini, non godeva di alcun rispetto perché
era percepita come la voce del padrone.
Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla
Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la
difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha
regalato, che è costata lacrime e sangue, come ci ricorda Piero Calamandrei,
uno dei padri della Costituzione del 1948, le cui parole pronunciate durante i
lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947, sono da tenere bene a
mente in questo delicato frangente della storia nel quale dovremo decidere sul
futuro del paese, e mi sembrano le migliori per concludere il mio intervento: “Io
mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni
giudicheranno questa nostra Assemblea costituente…..credo che i nostri posteri
sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata
veramente una nuova storia: e si immagineranno….che in questa nostra Assemblea,
mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi
scranni non siamo stati noi, uomini effimeri i cui i nomi saranno cancellati e
dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi
conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui
patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie
africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a
Gramsci, fino ai giovinetti partigiani [….] Essi sono morti senza retorica,
senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano
da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e
dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile:
quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella
giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di
tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più
giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare
il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo
tradirli”.
*Intervento di Roberto Scarpinato al
Seminario di studi sulla Riforma della Costituzione svoltosi al Palazzo di
Giustizia di Palermo il 22.11.2016 - [dalla pagina Web
http://www.magistraturademocratica.it/mdem/speciale/preferisco-di-no/una-riforma-che-rischia-di-riportare-indietro-lorologio-della-storia.php ]
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli