La dottrina sociale e la politica
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Dipinto Il Quarto stato [il proletariato], di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901) |
Sono stato uno studente distratto e
discontinuo, di letture appassionate ma caotiche. Ora me ne dispiace. Ho avuto
buoni maestri, ma non ho approfondito. In genere li ho delusi. Ora, vorrei
comunicare qualcosa, ma sento che mi mancano le basi. Non mi resta che
riconoscerlo francamente e andare avanti con quello che so. Perché andare
avanti si deve. Altrimenti ci si limita ad essere trascinati dalla corrente.
Può soddisfare veramente un essere umano? La politica inizia da qui. E’
impegno, volontà di fare nella società. E se poi si sbaglia? La possibilità
c’è. Si pensa di fare il bene e si produce il male. La soluzione non è però astenersi, ma agire ed essere disposti
ad essere corretti dagli altri. Sono lì proprio per questo. La politica è un
fatto collettivo. “Se sbaglio, mi
correggerete”, furono tra le prime parole che udii da Karol Wojtyla in
piazza San Pietro quando lo presentarono come vescovo di Roma (anzi “corigerete”,
disse, iniziando subito a sbagliare): è un bellissimo programma politico, che
ho sempre cercato di fare mio.
“Ciò
che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli
uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta
potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento
potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non
sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la
massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a
travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme
fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti,
chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato
attivo e chi indifferente.”
Queste parole furono scritte a
ventisei anni, nel 1917, dal politico comunista italiano Antonio Gramsci
(1891-1937), il quale ebbe un’influenza grandissima nella politica italiana, ma
non nel suo tempo bensì in quello della nostra Repubblica, nata dopo la
sconfitta del fascismo nel 1946, che egli non poté vedere: si ammalò in
carcere, dove, tra il 1926 e il 1933,
scrisse alcune delle sue opere più importanti, raccolte nei Quaderni dal carcere.
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Antonio Gramsci |
Era
stato condannato a vent’anni di reclusione per antifascismo. L’esempio politico
di Gramsci è importante anche perché dimostra come sia importante in politica
saper correggere le proprie idee alla luce dell’osservazione realistica dei
fatti storici. Senza questa evoluzione del pensiero di Gramsci molto probabilmente
la nostra Costituzione, fortemente improntata dal dialogo tra socialisti,
comunisti e cattolici democratici sarebbe stata molto diversa, perché quel
dialogo non sarebbe stato possibile. Gramsci capì che la rivoluzione sovietica
che aveva rovesciato l’impero russo non andava bene per l’Italia, perché in
Italia c’era una società civile molto ricca, con una fitta e appagante rete di
relazioni che sosteneva e motivava le persone. Non si poteva farle violenza, ma
occorreva convincerla. Era necessario un lavoro culturale perché sostenesse il
cambiamento, l’azione politica, elevando alla piena cittadinanza le masse di
coloro che stavano peggio ed erano esclusi dal governo e sfavoriti nella
distribuzione delle risorse.
A conclusioni simili era giunto anche Giuseppe
Toniolo (1845-1918), economista e sociologo, uno dei protagonisti
dell’edificazione dell’Azione Cattolica italiana dopo il 1905, su mandato del
papa Giuseppe Sarto.
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Il beato Giuseppe Toniolo, con la moglie |
Nel 1978 mio zio Achille pubblicò un libro su
Toniolo: “Toniolo: il primato della riforma
sociale, per ripartire dalla società civile”, edito da Cappelli. Questo
testo non è più in commercio, lo si può leggere solo nelle biblioteche.
Parlando di Toniolo, mio zio fece molte interessanti considerazioni sulla
politica degli anni settanta e, in particolare, sul ruolo che in essa avevano i
cattolici. Allegò poi un’antologia di brani di scritti del Toniolo. Quello che
so di Toniolo l’ho appreso in massima parte da quel libro.
Toniolo operò agli inizi del Novecento, in
un’epoca molto difficile per i credenti italiani che volessero praticare la
democrazia parlamentare. Quest’ultima era loro vietata e lo rimase fino alle
elezioni politiche del 1913. La vietarono loro i Papi, prima Giovanni Maria
Mastai Ferretti, che era stato privato
del suo piccolo regno nell’Italia centrale, poi Vincenzo Gioacchino Pecci e
infine Giuseppe Sarto, che, ad un certo punto, tra il 1904 e il 1913, attenuò
il divieto, che poi di fatto dopo di allora non venne più riproposto divenendo
desueto. Si trattava di ciò che va sotto il
nome di “non expedit”, espressione latina che significa “non conviene”,
ed era la risposta data nel 1864 alla domanda se ai cattolici fosse lecita la
partecipazione alla politica democratica del Parlamento del Regno d’Italia,
proclamato il 17 marzo 1861. Il Pecci, nel 1901, con l’enciclica Le gravi discussioni [sulle questioni economiche] addirittura sconfessò anche l’idea di una democrazia cristiana, di un progetto
democratico di società che si volesse ispirato dalla fede religiosa. I Papi
vietarono la partecipazione democratica nel nuovo stato unitario come reazione
alla conquista militare e abolizione dello Stato pontificio, nel 1870, da parte
del Regno d’Italia. Lo stesso sovrano e il Cavour, protagonisti del processo di
unificazione nazionale vennero scomunicati nel 1855. L’idea di una democrazia cristiana fu invece sconfessata perché i Papi
ritenevano di poter essere i soli a insegnare come modellare la società secondo
i principi di fede: la loro dottrina
sociale fu fortemente autoritaria e autocratica (cioè potevano crearla solo loro, con la loro teologia) fino al 1944.
Si trattava di una questione di coscienza
molto seria, per la quale appunto si rischiava la scomunica, che fu comminata
al prete Romolo Murri, uno dei principali esponenti del movimento dei
democratici cristiani. Era il tempo della persecuzione dei modernisti, esponenti di un movimento di persone di fede che si
proponevano un rinnovamento del pensiero e del linguaggio religiosi, aggiornandoli ai tempi nuovi.
Toniolo si trovò all’inizio a dover ragionare
di politica senza poter fare politica. C’era però in Italia quella società
civile su cui poi ragionò anche Gramsci, e appunto con riguardo ad essa,
secondo le indicazioni dei Papi, della loro dottrina
sociale, si articolò la sua proposta.
Dovette però muoversi nei limiti molto
ristretti lasciati dall’autocrazia dei suoi capi religiosi.
Come i marxisti, ricercò nella storia e nell’economia
le ragioni delle sofferenze sociali del suo tempo. Individuò anch’egli nella
struttura delle produzione e degli scambi le ragioni dell’emergere di una classe
derelitta, il proletariato: “…il popolo, sotto l’azione congiurata e
diuturna dei prìncipi, delle leggi, di vecchie e nuove classi soprastanti,
rimase grado grado depresso, sacrificato e come classe organica annichilito” [da
La genesi dell’odierno proletariato e i
movimento democratico cattolico, in Rivista
internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, 1898].
Secondo gli insegnamenti di papa Gioacchino
Pecci nell’enciclica Le novità, del
1891, il Toniolo individuò nell’ordinamento etico sociale dei Comuni medievali
italiani (primi quattro secoli del secondo millennio della nostra era), “una democrazia salda e vigorosa sotto la
duplice forma sociale e politica; la quale, mentre consacrava tutte le classi,
insinuava nelle moltitudini popolari, fortemente organizzate, una virtù di
espansione e d’influenza progressiva” [in La genesi dell’odierno proletariato, citato]. Definì quel periodo storico “l’età del popolo per eccellenza”, la democrazia cristiana già tradotta in un
fatto storico”. Dalla sua demolizione, secondo il Toniolo, si era prodotto il proletariato, per trasformazione dell’antico
ceto lavoratore contadino in salariati precari, i quali “vendevano dì per dì, dall’una all’altra contrada, il proprio
lavoratore a uno speculatore, completando in tal guisa la mobilitazione del
proletariato rurale”, e per lo
sviluppo di un processo analogo nello sviluppo delle industrie manufatturiere,
per cui “l’industria moderna sul
piedistallo del salariato […] in
virtù di colossali società anonime [=le società di capitali, ad esempio
quelle per azioni] scuote sempre più
nella concorrenza dei forti contro i deboli i mezzani industriali e atterra gli
artigiani indipendenti del mestiere; e così sempre nuove correnti di operai,
disarmate di ogni autonomia e di ogni capitale, di continuo ingrossano quel
torrente di salariati” [corsivi da La
genesi dell’odierno proletariato, citato].
Toniolo in quell’articolo aggiunse, con
considerazioni ancora attuali:
“Duplice sviluppo del proletariato
agricolo e industriale che le classi stesse mercantili e bancarie
contribuirono, fra l’ampliarsi degli
scambi e delle comunicazioni, ad accrescere, perpetuare e diffondere
universalmente. Ciò coll’assorbire fin dal secolo 16° [il Cinquecento] e 17° [il Seicento], incentrare e monopolizzare nelle ingenti ditte
mercantili, nelle banche e nelle borse, ed in operazioni eccessive, fittizie e
spesso inoneste, quei capitali che erano meglio destinati a sostentare l’agricoltura
e l’industria e a sorreggere il ceto operaio; il quale appunto immiseriva quando il capitalismo speculatore celebrava i
suoi primi trionfi in Olanda […] [e] nella
Gran Bretagna. Ciò coll’insinuare l’abitudine di una sfrenata concorrenza, che fra le periodiche crisi
commerciali e i «cracks» [=crolli del valore dei titoli] di
borsa moltiplica gli arresti improvvisi del lavoro e rende così più incerta e
depressa la sorte delle moltitudini operaie. Infine col sospingere i
produttori, sotto il miraggio di sconfinate prospettive commerciali, ad una
colossale moltiplicazione e ampliazioni d’industrie, cui poi vien meno il
normale consumo; donde la necessità di escludere gradualmente dalle fabbriche
una porzione di lavoratori i quali rigettati sl lastrico, compongono quel
residuo permanente di disoccupati o, come fu detto, quella riserva dell’esercito
operaio che, premendo sulla massa impiegata, le contende il salario della fame,
triste caratteristica dell’economia europea ed americana degli ultimi trent’anni
[scriveva nel 1898]”.
Secondo Toniolo l’idea di una democrazia cristiana risponde all’esortazione della Chiesa che
ripete il grido: “andate al popolo!”.
Continua, nell’articolo sopra citato:
“Essa [la Chiesa] convoca e converge tute le forze delle nazioni e degli stati al popolo,
perché di là proviene il pericolo massimo sociale; le dirige al popolo, perché,
facendo opera di sapienza civile al proletariato informe, feroce e inselvatichito,
intende restituire coscienza e dignità di classe cristiana; la concentra sul
popolo perché, per fare atto di giustizia riparatrice, esige che tutte le
classi e i governi si adoperino a restituire ad esso quel rispetto e valore che
da secoli gli fu tolto iniquamente”.
L’articolo si
conclude con questa convinzione del Toniolo:
“La ricomposizione insomma dell’ordine social cristiano in mezzo
al popolo non sembra in questo stesso momento
difficile. Ma a due condizioni però: in prima, che i cattolici
predichino alto ai proletari, che accanto alla democrazia socialistica,
illusoria, iniqua, impossibile, vi ha una democrazia cristiano-cattolica,
possibile, ragionevole, storica, adatta a tutte le loro legittime aspirazioni;
e che ulteriormente i cattolici stessi prendano in mano la causa del popolo, di
tale democrazia affrettando l’avvento. E terza condizione dalle altre due
presupposta, che i cattolici operosi sieno convinti esser giunta l’ora di
contrapporre con sano ardimento al grido di Carlo Marx l’intimazione: proletari
di tutto il mondo, unitevi in Cristo sotto il vessillo della Chiesa”.
Nella
visione del Toniolo la riforma politica dello stato in senso più democratico
doveva tener conto dell’esigenza di risollevare il proletariato dalle sue
misere condizioni, restaurando un
ordinamento che prendesse come riferimento ideale la struttura
economico-sociale dei Comuni medievali italiani, sviluppatisi in un’era in cui
l’etica sociale era improntata a quella religiosa. I Papi detenevano, nella
loro dottrina sociali, il giusto progetto per risolvere i mali sociali: si
trattava solo di applicare i loro insegnamenti. Questo programma politica di
una democrazia cristiana a forte
impronta sociale venne sconfessato, come ho sopra ricordato, nel 1901 dal papa
Pecci, con l’enciclica Le gravi discussioni. Ma Toniolo non si
perse d’animo e continuò la sua opera di formazione, mantenendo la fiducia del
Papa, tenendosi nei limiti del suo volere. Il magistero pontificio poi mutò
sensibilmente, giungendo, con il Concilio Vaticano 2° (1962-1965), a richiedere
ai laici di fede una collaborazione molto più importante di un semplice lavoro
di esecuzione dei dettami sociali pontifici. Ma il Toniolo
non poté vedere questi sviluppi.
Nel pensiero del Toniolo si trova la
considerazione realistica dell’esistenza di un conflitto sociale tra classi
privilegiate e un vasto proletariato di derelitti le cui ragioni occorreva
sostenere anche politicamente. La politica è, appunto, anche questo, è anche
lotta, termine che troviamo ora nei documenti del papa Francesco, ma che a
lungo è stato considerato sconveniente in religione.
Pensatori come Piero Gobetti, liberale, (1902-1926)
e Antonio Gramsci, comunista, (1891-1937), molto più giovani, criticarono
aspramente, e non senza ragione, le posizioni del Toniolo, proprio in quegli
aspetti che oggi appaiono meno convincenti anche ad una persona religiosa che agisca secondo i principi proclamati dai saggi dell’ultimo Concilio.
Scrisse Piero Gobetti nel saggio La
rivoluzione liberale - Saggio sulla lotta politica in Italia (1924):
“Sfugge al suo [del Toniolo] cattolicismo di quiete la religiosità dell’uomo moderno, la religiosità
della democrazia come forza autonoma, liberamente operante dal basso senza
limiti che la predeterminino fuori della volontaria disciplina che essa si
pone, - sforzo morale di liberazione,
sacrificio dell’individuo nella
continuità di una lotta sociale che lo trascende e che pure non esiste senza la
sua azione singolare. La visione politica del nostro buon scienziato si
restringe al mondo antico, nel sogno di una gerarchia sociale in cui alle
classi superiori spetti una funzione di assistenza e di patronato e alle classi inferiori l’umiltà e l’obbedienza.
Guarda con idillica simpatia i vecchi istituti della beneficienza, il sabato,
il settennato, il giubileo; crede che i due diritti tradizionali del «petere» [latino=invocare dal potente] e dell’«acclamare» possano nel mondo moderno bastare alla difesa
del popolo. Le parole di approvazione e di rimpianto con cui il Toniolo ricorda
la monarchia di Luigi 9°
[re di Francia dal 1226 al 1270], che egli crede di poter chiamare senza ironia «democratica», mentre ci rivelano
tutta la singolarità della sua psicologia, chiariscono la sua dottrina nei
limiti di una democrazia patriarcale che esclude l’iniziativa popolare e i
principi di autoeducazione, e vuol dare alle masse soltanto i palliativi di
riforme e di miglioramenti economici.” [edizione Einaudi, continuamente
ristampato, €20,00; si tratta di un testo impegnativo, che richiede una cultura
universitaria].
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Piero Gobetti |
Scrisse Antonio Gramsci in I cattolici italiani, articolo
pubblicato il 22-12-18 sul quotidiano Avanti!
[in A. Gramsci, Nel mondo grande e
terribile - Antologia degli scritti 1914-1935 - a cura di Giuseppe Vacca,
Einaudi, 2007, €15,00. E’ un testo impegnativo, che richiede una cultura
universitaria]:
“Allo sviluppo dello Stato nuovo
italiano mancò la collaborazione dello spirito religioso, della gerarchia
ecclesiastica, la sola che potesse accostarsi alle innumeri coscienze
individuali del popolo arretrato ed opaco, percorso da stimoli irrazionali e
capricciosi, assente da ogni lotta ideale ed economica avente caratteri
organici di necessità permanente. Gli uomini di Stato furono assillati dalla
preoccupazione di escogitare un compromesso con il cattolicismo, di subordinare
allo stato liberale le energie cattoliche appartate e ottenerne la
collaborazione al rinnovamento della mentalità italiana e alla sua
unificazione, di suscitare o rinsaldare la disciplina nazionale attraverso il
mito religioso.
[…]
Il liberalismo finì per subordinarsi al
cattolicismo, le cui energie sociali sono invece fortemente organizzate e
accentrate e posseggono, nella gerarchia ecclesiastica, una ossatura
millenaria, salda e preparata a ogni forma di lotta politica e di conquista
delle coscienze e delle forze sociali: lo stato italiano divenne l’esecutore
del programma clericale, e nel patto Gentiloni [in nota: “Cioè il complesso degli accordi presi tra il conte Vincenzo Ottorino
Gentiloni (1865-1916) a nome dei cattolici
e i liberali, in vista delle elezioni
politiche a suffragio universale [solo maschile] del 1913. I
cattolici si impegnarono a sostenere quei candidati costituzionali che avessero
promesso di non promuovere una politica anticlericale e di non votare leggi
ostili ai postulati cattolici. Il «patto» rappresentò l’ingresso ufficiale delle
forze cattoliche nella vita politica italiana”] culmina un’azione
subdola per ridurre lo Stato a una vera e propria teocrazia per sottoporre l’amministrazione
pubblica a controllo diretto della gerarchia ecclesiastica.
[…]
Nel seno del cattolicismo sorgono tendenze
modernistiche e democratiche come tentativo di comporre, nell’ambito religioso,
i conflitti emergenti nella società moderna. La gerarchia ecclesiastica resiste
e dissolve d’autorità la democrazia cristiana,
ma il suo prestigio e la sua forza si piegano dinanzi alle incoercibili
necessità locali degli interessi intrecciatisi al mito religioso […] la
sostanza del fenomeno, anche se attenuata e irrigidita nella sua spontaneità,
permane tuttavia e opera fatalmente. I cattolici esplicano un’azione sociale
sempre più vasta e profonda: organizzano masse proletarie, fondano cooperative,
mutue, banche, giornali, si tuffano nella vita pratica, intrecciano
necessariamente le loro attività all’attività dello stato laico e finiscono col
far dipendere dalla fortuna di esso le fortune dei loro interessi particolari.
Gli interessi e gli uomini trascinano con sé le ideologie: lo Stato assorbe il
mito religioso, tende a farsene strumento di governo, atto a respingere gli
assalti delle forze nuove, assolutamente laiche, organizzate dal socialismo.
La guerra [la Prima guerra
mondiale, 1915-1918] ha accelerato questo
processo d’intima dissoluzione del mito religioso e delle dottrine legittimiste
proprie della gerarchia ecclesiastica romana [….] Il
mito religioso […] diventa partito
politico definito […] si propone,
conquistando il governo dello Stato, oltre la conservazione dei privilegi
generali della classe, la conservazione dei privilegi particolari dei suoi
aderenti.
Il costituirsi dei cattolici in partito
politico è il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento. I
quadri della classe borghese si scompaginano: il dominio dello Stato verrà
aspramente conteso, e non è da escludere che il partito cattolico, per la sua
potente organizzazione nazionale accentrata in poche mani abili, riesca
vittorioso nella concorrenza dei ceti liberali e conservatori laici della
borghesia, corrotti, senza vincoli di disciplina ideale, senza unità nazionale,
rumoroso vesapaio di basse congreghe e consorterie”.
Qui sopra sono sintetizzati un modo di
concepire l’azione politica dei cattolici come semplice esecuzione delle
disposizioni della dottrina sociale formulata dal Papi e dagli altri capi
religiosi del clero e le obiezioni ad essa proposte da parte liberale e
socialista. Obiezioni che,
sostanzialmente, sono state, successivamente, a partire dal 1944, riconosciute
come fondate anche in religione.
Una persona di fede oggi non solo non è più tenuta
ad agire politicamente pensando di trovare ogni puntuale soluzione nella
dottrina sociale della Chiesa, ma nemmeno deve. Ogni linea politica va
elaborata con autonoma responsabilità, ricercando
e dialogando, i laici, in
particolare, accrescendo la loro competenza e intelligenza dei problemi da
risolvere. Il tutto alla luce di quella particolare teologia che è contenuta
nella dottrina sociale della Chiesa. Né si è più tenuti a prendere come
riferimento ideale la politica medievale. Questi gli sviluppi prodottisi a
partire dagli anni Trenta del secolo scorso, prima nella cultura di impronta
religiosa e poi nella dottrina sociale, in un processo di revisione e aggiornamento che possiamo vedere compreso
tra il radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Eugenio Pacelli, la costituzione
Gaudium et spes - La gioia e la speranza e il decreto Apostolicam actuositatem - L’apostolato [dei laici] del Concilio
Vaticano 2°, l’enciclica Il centenario,
del papa Karol Wojtyla, fino all’enciclica Laudato
si’ del Papa ora regnante.
A innescare questi sviluppi, negli anni
30, del secolo scorso fu, tra gli altri, il pensiero del filosofo francese Jacques
Maritain (1882-1973), che ebbe particolare importanza in Italia nella
costruzione ideologica di un partito cristiano, che egemonizzò la politica italiana dal 1948
al 1994, l’era di quella che si usa oggi definire Prima repubblica.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.