Questione femminile,
eguaglianza tra i sessi, emancipazione, liberazione e promozione della donna. I
movimenti femminili cattolici negli anni
Sessanta e Settanta in un contributo di
Elisabetta Salvini. Prospettive del futuro
1. Nel libro L’Azione
cattolica del Vaticano II - Laicità e scelta religiosa nell’Italia degli anni
Sessanta e Sessanta, AVE, 2014, €20, è stato pubblicato il contributo di
Elisabetta Salvini dal titolo La
promozione della donna. Alcune riflessioni sulla “questione femminile” prima e
dopo il Concilio Vaticano II, del quale di seguito fornisco una sintesi.
Lo scritto si apre con una citazione da una
relazione di Emma Cavallaro, del 2013:
Se crediamo e professiamo che tutti siamo a immagine di Dio, dobbiamo
anche sapere che ogni volta che un essere umano e, quindi, ogni volta che una
donna non è trattata come tale, ma è considerata inferiore, usata come un
oggetto, anche se ipocritamente esaltata, ogni volta che non le sono offerte
tutte le possibilità di raggiungere il suo sviluppo integrale o di esercitare
il suo diritto di scelta, in lei è offesa l’immagine del Creatore stesso.
La Salvini dirige la sua analisi sul periodo 1963-1978.
«Perché questo lasso di
tempo?» scrive. «Perché nel 1963 Giovanni XXIII divulgò la
sua enciclica Pacem in terris, mentre nel 1978 venne approvata la legge
194 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Nell’arco di questo
quindicennio, inoltre, vanno collocati eventi dirompenti e fondamentali per una
rilettura della condizione femminile. Il Concilio Vaticano II [1962-1965], l’approvazione della legge Fortuna-Baslini
sul divorzio [1970], l’esplosione dei
femminismi, il sussulto referendario per l’abrogazione del divorzio [1974] ], il nuovo diritto di famiglia [1975], il pronunciamento dell’ONU che riconobbe
il 1975 come anno internazionale della donna, la nascita dei consultori e la legalizzazione della pillola
anticoncezionale [1975].
2. L’autrice ricorda che il femminismo cattolico si presentò, alle origini, come un tentativo
di ritorno all’ordine dopo il nascere
dei movimenti femministi laici. Questa fu la ragione della costituzione, da
parte del papa Pio X dell’Unione Donne
Cattoliche d’Italia [1908], nell’Azione Cattolica], fondamentalmente per utilizzare le donne in chiave antimoderna
e intransigente. E tuttavia quell’associazionismo indusse nelle donne
cattoliche un modi di vivere laico, moderno e attivo, curando l’educazione
delle aderenti con convegni, seminari e vere e proprie scuole di formazione.
Dopo la Prima guerra mondiale, scrive la
Salvini, le donne italiane ottennero due conquiste fondamentali: l’abolizione
dell’autorizzazione maritale per le donne sposate che intendessero compiere
certi atti di disposizione del proprio patrimonio e l’apertura all’avvocatura. Nel
1919, dall’unificazione dell’Unione Donne e della Gioventù femminile nacque
l’Unione femminile cattolica italiana (Ufci), che permise a schiere di donne
cattoliche italiane di uscire dalla dimensione privata, casalinga. Diede loro
il diritto di esistere anche come donne, oltre che come mogli e madri.
Alle giovani cattoliche, scrive la Salvini,
non venne più indicata la sola strada del matrimonio e della maternità, ma
anche quella dell’apostolato e della maternità come missione da compiere.
Armida Barelli ne divenne la più conosciuta esponente.
«Nella Gioventù
femminile cominciarono a circolare libri specifici che dispensavano preziosi
consigli a tutte le ragazze … La donna moderna doveva trovare un proprio
destino che non necessariamente coincideva con la nascita di una famiglia e con la procreazione».
L’Ufci curò particolarmente la
formazione. Le propagandiste del movimento dovevano avere una solida base di
studio e di conoscenza. Questo promosse la dignità, la responsabilità e la
gioiosa partecipazione delle donne alla vita della Chiesa e della società. Per molte ciò produsse un impegno nella
Resistenza e poi nella vita pubblica nazionale. Nel 1945 furono creati il CIF -
Centro italianano femminile e il Movimento femminile della Democrazia
Cristiana, mentre l’Azione cattolica, scrive la Salvini, «continuò a incarnare, per tutte le donne cattoliche, il modello più
tradizionale di formazione e crescita comune».
Tuttavia il magistero dell’epoca
riteneva ancora il lavoro extradomestico e la partecipazione alla vita pubblica
come fonti di distrazione e di distruzione della famiglia tradizionale. Era
ammesso un interesse nel mondo esterno, ma principalmente per difendere
l’incolumità del focolare. In merito, l’autrice ricorda l’insegnamento del papa
Pio 12°. E tuttavia quest’ultimo, in un discorso del 1951, dichiarò che la regolazione delle nascite, con il ricorso
ai tempi della sterilità naturale, era
compatibile con la legge di Dio, aprendo all’idea che la donna potesse
trovare un significato di vita anche al
di fuori della “missione naturale” della maternità.
Gli anni ’50 si caratterizzarono
per un marcato mutamento dei comportamenti delle italiane, che iniziarono a
chiedere di più di un marito, dei figli e di una bella casa.
Il magistero del papa Giovanni
23° fu una grande apertura.
L’autrice cita un brano
dell’enciclica Pacem in terris - Pace in
Terra, del 1963:
[n.22] In secondo luogo viene un
fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più
accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma
sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna,
infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria
dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come
strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della
vita domestica che in quello della vita pubblica.
Non c’era in quel documento,
scrive la Salvini, la consueta denigrazione dell’emancipazione femminile, né
alcun nostalgico rimpianto per il passato. Si faceva riferimento ai “segni dei
tempi”: il mutamento storico non era più visto come diabolico, ma divenne il
punto di partenza per un’analisi razionale, laica e profetica. Non più centrata sul rapporto immobilista
Chiesa-legge di natura, ma dinamico Chiesa-storia, con la donna posta al centro
del mutamento.
L’impegno per rendere l’Azione
Cattolica espressione della mutata società fu alc centro del progetto Rinnovarsi per rinnovare [1963] dell’Unione donne di azione cattolica.
La Salvini evidenzia che all’inizio degli anni ’60 l’Unione donne aveva 5.147
associazioni urbane con 250.900 socie e 12.806 associazioni rurali con 406.307
tesserate.
Le donne cattoliche riposero
un’altissima aspettativa nel Concilio Vaticano 2°, si legge nel contributo
della Salvini, ma le loro attese vennero sostanzialmente disattese:
E’ opinione condivisa da molte
storiche che il Concilio, con tutta la sua portata di innovazione e di
apertura, rimase apparentemente lontano dalle donne.
Vi vennero però pero ammesse
ventitré uditrici, e non era mai accaduto. Esse tuttavia «con il velo in testa e il capo chino potevano stare solo ascoltare le
parole degli uomini, ma non potevano intervenire a loro volta. Un’apertura, sì,
ma solo a metà». Solo in un ampio intervento scritto del vescovo di
Atlanta, Paul Hallinan, si auspicò per
le donne l’ordinazione al diaconato per annunciare al popolo la parola di Dio e
impartire i sacramenti già riconosciuti ai diaconi. Si ritornò in argomento,
con segnali di apertura, durante il sinodo dei vescovi del 1971, sul sacerdozio
ministeriale e la giustizia, e durante il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana del
1976. L’Azione Cattolica, nel 1976-77, all’esito di un approfondimento su La nuova condizione femminile, si pronunciò per «la più sollecita attuazione di “ministeri” laicali, in cui
troverebbero posto la donna, i coniugi, ecc.». Tuttavia nel 1994, con la lettera apostolica L’ordinazione sacerdotale, Giovanni
Paolo II volle dare una sentenza definitiva sulla questione in senso negativo.
Il Concilio Vaticano 2° non aprì
la via del sacerdozio femminile, ma aprì loro l’accesso agli studi teologici,
prima con la possibilità di iscriversi alle facoltà teologiche, poi con quella
di insegnarvi. Le nuove teologhe diedero vita a una cultura teologiche in grado
di rispecchiare il punto di vista e una sensibilità femminili, del tutto
inedite in quel campo. Ma anche il vissuto femminile iniziò a mutare.
Fu riconosciuta come contraria al
disegno di Dio qualsiasi discriminazione nei diritti fondamentali della
persona, comprese quelle basate sul sesso (costituzione Gioia e speranza, 29).
Si riconobbe anche che il mutuo
amore dei coniugi avesse le sue giuste manifestazioni, con rivalutazione della
sessualità, che venne riconosciuta degna e onestai,
contro l’antico scetticismo (stesso documento, n. 50).
Il matrimonio fu letto attraverso
la categoria dell’alleanza, non più del contratto. Vi si volle vedere affermata la uguale
dignità personale dei coniugi (stesso documento, n.49): il legame fra di loro «divenne così paritario e non più gerarchico,
senza indicazioni pregiudiziali di ruolo e senza richiami alla sottomissione
della donna», scrive la Salvini.
Nonostante la moltiplicazione di
studi e di inchieste sulla condizione femminile negli anni immediatamente
successivi al Vaticano 2°, il mondo
cattolico si trovò in difficoltà ad elaborare un nuovo progetto in
materia. Si dovette attendere la seconda
metà degli anni Settanta, si legge nel contributo della Salvini, per ritrovare
un nuovo interesse sulle questioni femminili: «Il cambiamento che si stava verificando nelle donne e nelle ragazze
degli anni Sessanta, destinato ad esplodere nei neo femminismi di matrice
marxista, radicali e laici, non venne avvertito in tutta la sua portata
dirompente e destabilizzante… [In questo] …clima denso di conflittualità degli anni Sessanta/Settanta si consumò
l’allontanamento tra le donne e una Chiesa arroccata nelle sue posizioni
maschiliste e rea di difendere tradizioni ormai superate e in netto contrasto
con quanto stava accadendo nel mondo contemporaneo. Proprio le donne che erano
state le più fedeli e costanti animatrici della vita religiosa, divennero ora
le più lontane e critiche».
3. A
seguito della contestazione antiautoritaria del ’68, non si parlò più tanto di questione femminile, quindi di uno stato
di svantaggio e di marginalità storica delle donne, come se si trattasse di una
minoranza, quanto, scrive la Salvini, del rapporto uomo-donna, del dominio di
un sesso sull’altro: «I neo-femminismi
denunciarono con forza l’ingiustizia
millenaria subita dalle donne. Essa poteva riassumersi nel fatto che, da
sempre, il sesso maschile venisse identificato con la storia e quello femminile
con la natura, e perciò nel fatto che la donna, sulla base di questa divisione,
fosse relegata “per sua natura” ad essere la custode della sessualità, della
conservazione della specie e della famiglia […] E fu proprio la riflessione sui rapporti uomo-donna e sulla divisione
dei ruoli che portò a un definitivo crollo del mito della famiglia come […]
fonte di riparo, amore e protezione.
L’idea della famiglia come rifugio si rivelò essere una concezione
unicamente maschile. In questa nuova consapevolezza stava la presa di coscienza
delle donne».
Le donne sono state esaltate immaginativamente e rese
storicamente insignificati, sostenne Virginia Woolf.
Le ragioni dello squilibrio di
potere tra i sessi vennero ricercate
dunque, scrie la Salvini, nel privato «e
nello specifico nel corpo, nella sessualità e nelle maternità. Non a caso i
primi gruppi di autocoscienza si ritrovarono proprio nelle case. […]era
nella cancellazione della sessualità femminile, da sempre identificata con la
procreazione, che si andava a rintracciare l’espropriazione più profonda di esistenza che le donne che le donne
avevano subito nel loro essere ridotte unicamente a corpo. Partire dal corpo,
voleva dire andare alla radice di un dominio particolare: quello dell’uomo
sulla donna. La prima libertà femminile dunque non era quella di acquisire
diritti, ma quella di vedere riconosciuta la propria individualità e
soprattutto quella di riappropriarsi
del proprio corpo […] Ecco il
significato del separatismo: sottrarsi alla presenza fisica dell’uomo per
riuscire a capire, paradossalmente, quanto lo sguardo maschile fosse presente
dentro ogni donna. Tale processo, intimo e collettivo al tempo stesso, era
possibile solo tra donne […] Non era
pensabile innescare un processo di liberazione femminile senza prima
“staccarsi” completamente dalla sfera di influenza maschile».
Si deve attendere la metà degli
anni Settanta, in particolare il ’75, proclamato dall’ONU come anno
internazionale delle donne, per rilevare una traccia concreta di riflessione da
parte cattolica sulla nuova condizione femminile e sui movimenti
neo-femministi.
Per il femminismo cattolico si
doveva seguire la strada della collaborazione tra i sessi, che il femminismo
laico riteneva impercorribile. Secondo le cattoliche il cambiamento femminile
doveva avvenire attraverso logiche e dinamiche includenti gli uomini. Al centro
c’era l’idea di responsabilità. Escludere
l’uomo da questo processo significava, in questa prospettiva, deresponsabilizzarlo. L’aspetto critico di questa impostazione,
supportata anche da pronunce pontificie, era però che si finiva per non poter
pensare a una trasformazione sociale della donna da sola, ma sempre e solo in
funzione dell’uomo. E, durante il Convegno Evangelizzazione
e promozione umana del 1976, nei
lavori dell’ottava commissione La partecipazione della donna alla evangelizzazione e alla promozione
umana, alle nuove culture del neo femminismo
venne riconosciuta, scrive la Salvini «la
capacità di aver creato nelle donne una coscienza che le ha portate a
considerarsi come persone, rifiutando di essere valutate “in funzione” di
qualcosa o di qualcuno».
4. Il 2 dicembre 1972, nella sede dell’Azione
Cattolica milanese fu fondato il Gruppo
per la promozione della donna, ideato da Maria Dutto, il primo ad
affrontare temi come la parità, la differenza, la sessualità e la famiglia, che
il mondo cattolico femminile continuava a rifiutare. Il gruppo poteva contare
sull’appoggio dell’arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Colombo. Dal
’75 la data dell’8 marzo, considerata
laicissima, venne utilizzata come occasione di incontro e approfondimento anche
in quel gruppo di donne cattoliche. La posizione del gruppo, scrive la Salvini,
fu assolutamente femministe, «sebbene
assai lontana dal ricorrere a quei termini più radicali e provocatori
utilizzati dalle donne del movimento nei loro documenti. […] A fianco del recupero del senso autentico
della sessualità, vi era poi una ricerca costante di giustizia: nei confronti
di leggi e diritti disattesi e come impegno della società di trasformare le sue
strutture più segreganti […] L’impegno
delle donne ambrosiane si distingue per la capacità di saper tenere insieme le
esigenze dettate dalla fede e dalla cristianità con quelle strettamente legate
alla specificità femminile».
Il metodo del gruppo era quello
dei gruppi femministi di autocoscienza, partendo dal vissuto personale da rendere argomento vivo di discussione
pubblica. Si affrontavano le tematiche del lavoro, della fede, della famiglia,
della politica, della violenza. Si avviò anche un confronto con le donne
laiche, svolgendo un compito di mediazione tra due mondi apparentemente
inconciliabili. A differenza degli altri gruppi femministi, caratterizzati da
assenza di gerarchia e di struttura al loro interno, il GPD, scrive la Salvini,
si diede un regolamento e individuò subito la Dutto come propria presidente. Il
GPD scelse di non rompere con le istituzioni esistenti, ma di collaborare con
esse. Il GPD, mentre i neo femminismi scoprivano il termine liberazione, e lo sostituivano all’ormai
superato emancipazione, diedero un
significato rivoluzionario al termine promozione.
La Salvini in merito cita un documento
del GDP del 1975:
La promozione della donna non
è un fatto che riguarda solo la donna, ma l’uomo e la donna insieme: e
questo è un punto ormai assodato.
L’essere uomo e donna insieme presuppone
un continuo scambio, un dialogo, una continua attenzione dell’uno verso
l’altro, ma indifferenze, né antagonismi, questo soprattutto se pensiamo che
insieme si concorre alla realizzazione del piano di salvezza che Dio vuole per
le sue creature.
Fu, conclude la Salvini,
un’impresa audace e rivoluzionaria, anche perché tutta e solo femminile, di
donne preparate culturalmente, dotate di fede solida e profonda e impegnate nel
campo sociale e politico, di cercare un protagonismo fino a quel momento negato
alle donne, anche nel mondo cattolico. Esso non significava rivendicare ruoli
di potere, ma ricercare un’identità personale e collettiva e affermare la
propria esistenza e differenza.
5. Tra noi e i tempi dei quali ha scritto la Salvini c’è il trentennio dei
regni Wojtyla-Ratzinger in cui tutti i processi evolutivi innescati dal
Concilio Vaticano 2° vennero sospesi, alla ricerca di una sintesi definitiva,
di un interpretazione autentica dei documenti usciti da quel grande convegno
mondiale di capi religiosi che ne costituisse anche degli argini, per mettere
in sicurezza un corpo sociale che sembrava progressivamente dividersi e
differenziarsi nel mentre cambiava. Questo spirito riguardò anche il femminismo
espresso dalle nostre persone di fede, in particolare nel punto in cui le sue
attese erano state recepite, vale a dire nell’affermazione di una uguale
dignità religiosa e sociale dei sessi.
Si ricordano in particolare il
pensiero del Wojtyla articolato in una serie di udienze generali tenute agli
inizi del suo regno, dal ’79 all’84, la lettera apostolica La dignità della donna, del
1988, e la Lettera alle donne, del
1995.
Il senso di questo magistero, per
ciò che ne ho capito, mi pare sia stato quello che Virginia Woof definì, come
ricordato dalla Salvini, un immaginifico
esaltare e un rendere storicamente insignificante.
Di fatto, attraverso la teologia
del corpo, del Wojtyla si rispose negativamente all’istanza del femminismo
di riappropriazione del corpo delle donne
da parte delle donne. Nel corpo della
donna si vide espressa quella natura che per millenni si costruì teologicamente
come la prigione della donna.
Fu proposto come modello
religioso di femminilità la madre del Fondatore, tanto diverso, perché
sovraccaricato di problemi teologici, da quello vissuto dalle donne nella loro
vita quotidiana, ma anche nel loro difficile storia di sottomissione
antropologica. Si costruì la categoria
del genio femminile come espressione di una natura creata della donna che la
porterebbe verso un servizio di amore,
inteso essenzialmente come servizio di
cura. In quest’ottica la donna si
realizzerebbe solo nell’essere vergine
consacrata o sposa e madre.
Certamente il Wojtyla cercò di
staccare teologicamente l’immagine
divina da quella maschile, affermando che la “«paternità» in Dio è del tutto divina, libera
dalla caratteristica corporale «maschile», che è propria della paternità umana”
[in La dignità della donna]. E motivò teologicamente l’insegnamento
per cui “la donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso»
maschile” [nello stesso
documento], condannando anche la discriminazione sociale delle donne, come conseguenza
del peccato e turbamento di una “originaria relazione tra l'uomo e la donna che
corrisponde alla dignità personale di ciascuno di essi”. Evidenziò come il Maestro
non recepì la discriminazione delle donne del suo tempo.
“In tutto
l'insegnamento di Gesù, come anche nel suo comportamento, nulla si incontra che
rifletta la discriminazione, propria del suo tempo, della donna. Al contrario, le sue parole e le
sue opere esprimono sempre il rispetto e l'onore dovuto alla donna. La donna
ricurva viene chiamata «figlia di Abramo» (Lc 13, 16):
mentre in tutta la Bibbia il titolo di «figlio di Abramo» è riferito solo agli
uomini. Percorrendo la via dolorosa verso il Golgota, Gesù dirà alle donne:
«Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me» (Lc23, 28). Questo modo di parlare delle donne e alle donne,
nonché il modo di trattarle, costituisce una chiara «novità» rispetto al
costume allora dominante.” [In La
dignità della donna, n. 13].
E tuttavia Wojtyla non riuscì e non volle
superare lo schema antico per il quale la donna era vista sempre in
funzione di qualcos'altro o di qualcun altro, sebbene situasse quest’ordine
di idee in un’ottica religiosa della
carità e personalista. Così il modello concreto di ruolo delle donne nella
comunità di fede rimase sostanzialmente quello di sempre delle “…sante martiri, di vergini, di madri di famiglia, che coraggiosamente
hanno testimoniato la loro fede ed educando i propri figli nello spirito del
Vangelo hanno trasmesso la fede e la tradizione della Chiesa”. Il
magistero del Wojtyla fu molto duro nel respingere ogni ulteriore apertura, ad
esempio verso le istanza delle religiose nord-americane.
Da qui, sostanzialmente, si deve ripartire. Ma
è un lavoro che spetta alle donne fare. La storia dimostra che è vano attendersi una rivoluzione da parte di
coloro che dovrebbero farne le spese.
Le donne di fede devono chiedersi se le
soddisfa la teologia del genio femminile
e il posto che, in base ad essa, tra molte magniloquenti affermazioni di dignità ma al dunque con le scarse conseguenze
pratiche, è loro, come dire, riservato
nelle nostre collettività di fede. Un ruolo che è sempre e in quasi tutto subordinato
a quello dei maschi.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte
Sacro, Valli