Solo nel 1975 (anno di entrata in vigore della legge di riforma del diritto di famiglia), per le norme civili, e nel 1983 (anno di promulgazione del codice di diritto canonico che sostituì quello del 1917), per quelle del diritto religioso, quella disciplina cambiò.
Per certi versi, uno dei fattori decisivi che in Italia produssero l’attuazione delle idee conciliari fu l’aspro scontro culturale, ideologico e politico che, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, si svolse tra cattolici in linea con gli orientamenti prevalenti nella nostra confessione religiosa, laici (intesi come persone che non ispiravano la loro vita a principi religiosi) e cattolici dissenzienti dalla linea prevalente in religione (i quali benché impegnati nell’indissolubilità del matrimonio religioso non ritenevano che essa potesse essere imposta per legge dello stato a tutti i cittadini della Repubblica), sull’introduzione, nel diritto della Repubblica italiana, dell’istituto del divorzio. Con il referendum abrogativo del ’74 fu molto chiaro che la grande maggioranza della popolazione italiana, che allora come oggi si dichiarava in prevalenza cattolica, era favorevole all’istituto del divorzio nel diritto civile.
Non era più ritenuta sufficiente, insomma, a garantire la continuità dell’unione coniugale la forza, per così dire sacrale, dell’atto costitutivo del vincolo. E ciò per lo meno per quanto riguardava gli aspetti civili dell’unione coniugale, quelli che rientravano nella competenza degli organi politici della Repubblica italiana. Questo richiese di riconfigurare, anche in religione, sulla scorta dell’evoluzione sociale che si era chiaramente manifestata, la disciplina giuridica del matrimonio come alleanza e come alleanza basata sul principio della pari dignità dei coniugi.
Fino alla metà degli anni ’70 il matrimonio, per il diritto civile italiano (e tale rimase fino al 1983 nel diritto religioso), era stato un rapporto asimmetrico, che vedeva il prevalere del maschio, al quale veniva riconosciuta una speciale potestà maritale sulla donna e sui figli. E la stabilità dell’unione veniva vista essenzialmente come un problema di rispettare un obbligo giuridico che discendeva da un contratto dal quale originavano dei vincoli per le persone coinvolte, i coniugi. Una volta stipulato quel contratto gli effetti che ne conseguivano erano in gran parte al di fuori della sfera di disponibilità dei contraenti, salvo che per alcuni aspetti patrimoniali.
Nel diritto della nostra collettività religiosa, costruito al modo di quello di uno stato, e comprendente anche un vero e proprio apparato giurisdizionale, si produsse una evoluzione simile, con la differenza che, riconosciuto il carattere di alleanza al matrimonio, si continuò a ritenere indissolubile l’unione coniugale perché all’alleanza si riconobbe un significato soprannaturale, in quanto in essa l’amore coniugale era “assunto dall’amore divino”, in modo tale che i coniugi in maniera efficace fossero condotti a Dio e fossero aiutati e rafforzati nella loro missione di padri e di madri (così nella Costituzione Gaudium et spes, al n.48). La differenza rispetto alla situazione precedente fu che la stabilità dell’unione coniugale iniziò a non essere più concepita come adempimento di un dovere sacro discendente dal matrimonio inteso come stipula del suo atto costitutivo, in cui l’amore tra i coniugi c’entrava ma fino ad un certo punto, la cosa era vista infatti prevalentemente da un punto di vista giuridico come validità o invalidità del consenso individualmente prestato nell’atto sacro di costituzione del vincolo, ma propriamente come alleanza duratura d’amore dei coniugi, in cui la fedeltà e la durata dell’unione erano quindi basati su un impegno d’amore fedele al modo di quello che lega la divinità, secondo le nostre concezioni religiose, all’umanità.
In quest’ottica cambiò, secondo i principi conciliari, anche la concezione del rapporto tra procreazione e matrimonio: in precedenza quest’ultimo veniva concepito essenzialmente in funzione procreativa; nello sviluppo dei principi conciliari il matrimonio fu invece finalizzato anche alla realizzazione del mutuo amore tra i coniugi, visto come un bene di per sé e dunque conseguibile e tale da giustificare il persistere dell’unione coniugale anche nei casi in cui mancasse la prole.
Ma anche gli atti propriamente sessuali compiuti tra i coniugi nel matrimonio furono diversamente concepiti: da rimedio per la concupiscenza, in sostanza cedimento inevitabile agli impulsi bestiali degli esseri umani a giuste manifestazioni di amore reciproco. Ecco quindi che, mentre nel passato le vite degli sposati erano viste come viziate da quell’imperfezione dovuta al cedimento alla concupiscenza, da una certa epoca in poi cominciarono ad essere riconosciute sante persone legate da unioni coniugali e anche e addirittura principalmente per l’esemplarità della loro vita coniugale, comprendente anche atti propriamente sessuali. E’ il caso di Giuseppe Toniolo, che ebbe molti figli (sette) e dunque praticò l’amore coniugale in tutti i sensi senza assolutamente vergognarsene.